V
Era già un mese che Ginevra
trovavasi presso Rodolfo e, quantunque egli non fosse punto disposto
all'indulgenza, non aveva mai avuto occasione di muoverle il menomo
rimprovero.
Ella studiavasi di prevedere e
prevenire tutt'i desideri di lui, e ciò senza quell'affannarsi
proprio delle persone che intendono far valere ad ogni costo l'opera
loro e che invece ne sminuiscono il pregio.
Rodolfo era contentissimo di lei, ma
non glielo diceva e non glielo dimostrava. Era soddisfatto di
trovarla così seria, attenta, premurosa e soprattutto gli
piaceva quando, ritta innanzi a lui, colle mani intrecciate, la testa
leggermente inclinata sulla spalla destra e gli occhi spalancati,
ascoltava attenta i suoi ordini, annuendo ad ogni poco con un leggero
cenno del capo. Anzi parecchie volte si divertiva a darle, con aria
di serietà, ordini inutili o già ripetuti per vederla
in quella posa umile e buona che tanto bene armonizzava colla
fisonomia dolce e la personcina gentile della fanciulla.
Una mattina Rodolfo si rammentò
ad un tratto che nel gilet indossato il giorno innanzi aveva lasciato
venti franchi in oro.
Tolse il gilet dall'attaccapanni, ne
frugò accuratamente tutte le tasche e non vi trovò
nulla. Gli balenò il sospetto che Ginevra avesse potuto
appropriarsene, suonò violentemente il campanello, ed al servo
che si presentò, ingiunse di chiamare la cameriera.
La fanciulla, quando ebbe inteso di
che si trattava, disse, calma e cortese come di consueto:
«Forse il signore le avrà
perdute!».
«No, sono certissimo di averle
lasciate qui nella tasca!».
«In tal caso si troveranno senza
dubbio» rispose Ginevra, non supponendo nemmeno che Rodolfo
osasse sospettare di lei.
Rovistò per tutto, frugò
nei cassetti, guardò in terra, sotto i mobili e sempre
inutilmente.
Rodolfo, che credeva notare un certo
turbamento, sotto l'apparente calma della fanciulla, e che veniva
perdendo la pazienza mano a mano che le ricerche riuscivano
infruttuose, disse:
«E inutile che ti affatichi
tanto a cercare. Forse tu sai già dove sono le venti lire».
«Io?» rispose Ginevra,
senza comprendere ancora.
«Il ragionamento è
semplicissimo. In casa siete solo tu e Giovanni, e siccome non posso
assolutamente dubitare di lui, così dubito di te».
Ginevra arrossì ed impallidì
successivamente. Avrebbe tutto preferito a quell'insulto che Rodolfo
le gittava in faccia.
«Dunque il signore crede ch'io
sia una ladra?» domandò con voce tremante di dolore e di
collera.
«Ho sempre chiamato con questa
nome le persone che si approfittano della roba altrui. Credi tu ch'io
lasci impormi dalle tue arie di duchessa? Breve. O quando torno hai
trovato le venti lire o ti caccio oggi, su due piedi».
Ginevra, colle mani appoggiate alla
spalliera di una seggiola, aggrottò le sopracciglia e non
rispose, mentre Rodolfo se ne andava, chiudendo con forza la porta
dietro di sé.
Aveva già discese tutte le
scale, quando incontrò il commesso di un libraio che gli
portava alcuni libri comperati il giorno precedente. Si sovvenne
allora come aveva impiegate le venti lire e provò un acuto
rimorso all'idea di avere offesa quella povera giovanetta tanto buona
e dignitosa. Prese i libri e salì di nuovo per ispiegare a
Ginevra come stavan le cose.
La trovò nella sua stanzetta
che piangeva amaramente e rimase commosso nel vederla tutta in
lagrime.
«Non piangere, Ginevra, io sono
uno smemorato e non rammentavo di avere spese le venti lire».
Per quanto cercasse di farsi violenza
Ginevra non giungeva a trattenere il pianto mentre egli avrebbe
pagato qualsiasi cosa, pur di vederla serena e consolata.
«Via smetti, bambina, mi fai
dispiacere ad appassionarti così» disse Rodolfo quasi in
tono supplichevole e le stese con espansione ambo le mani.
Ginevra, sorridendo fra le lagrime,
gli stese la manina piccola e magra ch'egli strinse forte ed a lungo.
Era la prima volta che Rodolfo entrava
nella cameretta di Ginevra.
L'ordine, la nettezza, quella specie
di eleganza che una donna gentile può avere sempre intorno a
sé e che si ottiene colla disposizione degli oggetti, colla
maggiore o la minore intensità della luce, con que' piccoli
nonnulla da cui le donne sanno trarre partito, produssero su di lui
una vivissima impressione.
Stava per dirgliene qualche cosa,
allorché lo sguardo gli cadde su di un vecchio ritratto ad
olio, fatto molti anni indietro e relegato in quella stanza, perché
riuscito male e poco somigliante. Il ritratto era appeso alla parete
e coperto dallo scialletto bigio di Ginevra.
«Perché hai coperto quel
ritratto?».
Ginevra sorrise e chinò il
capo.
«Ti faccio paura anche in
effige? È ben vero, che sono cattivo con te, ma il mio
ritratto non ci ha che vedere».
«Oh! non è questo»
rispose Ginevra imbarazzata.
«Perché allora?».
«Perché mi dava
soggezione. Pareva che stesse sempre lì a guardarmi ed io l'ho
coperto».
Vi era tanta ingenuità nelle
parole della fanciulla ed in quel momento ella era così
graziosa colla fisionomia animata da tante diverse emozioni, che
Rodolfo provò una viva tentazione di abbracciarla, ma si
rattenne e si limitò a stringerle nuovamente la mano prima di
andarsene.
«Eppure è buono tanto! »
disse Ginevra facendosi alla finestra per vederlo ancora nella
strada.
«Eppure è tanto carina!»
disse Rodolfo, ed alzò il capo, quasi indovinando che lei
stesse lì ad aspettarlo.
Sorrisero entrambi. Egli la salutò,
togliendosi il cappello, ella si ritirò grata e commossa per
quell'atto cortese di deferenza.
A poco a poco Rodolfo cominciò
a provare un'attrazione irresistibile verso la giovane cameriera. Si
meravigliava di averla giudicata brutta, scopriva in lei sempre nuove
qualità che non avrebbe mai supposto di trovare in una ragazza
di quella condizione. Un giorno, per esempio, la sorprese che stava
scrivendo su di un pezzo di carta alcune frasi senza scopo; le
strappò il foglio di mano e restò sorpreso, vedendo che
le idee erano giuste, lo stile corretto, la calligrafia elegante.
Un'altra volta volle regalarle un anellino, ed ella rifiutò
con tanto garbo ch'egli rimase lì, rigirando l'astuccio fra le
dita, peritoso e confuso, come si trovasse alla presenza di una
regina.
Erasi proposto di studiare il
carattere di Ginevra, ma accadde a lui ciò che accade sovente
al critico, il quale stabilisca di analizzare qualche bel libro. Dopo
poche pagine l'artista s'impadronisce del lettore e questi dimentica
lo scopo per abbandonarsi con voluttà alle impressioni che la
lettura gli suscita.
Rodolfo subiva, senza saperlo, lo
stesso fascino per parte di Ginevra.
Ringiovaniva e diventava allegro,
quando la sentiva saltellare per la casa come una gazzella, diventava
pensoso allorché vedevala passare dall'una all'altra stanza,
tutta occupata nelle sue faccenduole, ed ebbe gli occhi bagnati di
lacrime una sera che Ginevra gli lesse con accento vibrato una poesia
abbastanza mediocre, stampata in un giornale e da lui letta la
mattina stessa senza prestarvi la menoma attenzione.
In parecchie occasioni Rodolfo aveva
sollecitato Ginevra di narrargli la sua storia, ma ella se ne era
sempre schermita, limitandosi ad accennare la misera condizione della
famiglia, la morte della mamma, la freddezza del babbo e tacendogli
la professione di maestra da lei esercitata, perché temeva che
Rodolfo chiedesse informazioni, le quali potessero recarle danno e
sminuire la simpatia ch'egli le dimostrava.
Rodolfo stava scrivendo allora una
commedia in due atti che dovevasi in breve rappresentare, e passava
la maggior parte delle serate a lavorare nel proprio gabinetto,
tranquillo e felice, sapendo che Ginevra era lì nella stanza
attigua.
Quando la frase gli mancava, quando la
situazione sembravagli falsa o stiracchiata chiamava la fanciulla con
un pretesto qualsiasi e credeva, soggiogato dalla dolce superstizione
degl'innamorati, che la presenza di lei bastasse a ritemprargli
l'ingegno ed avvivargli lo spirito.
Trovandosi talora fuori di casa veniva
assalito da un pazzo desiderio di rivedere Ginevra, da un timore
puerile ed ingiustificato di non trovarla più, da un'ansia, un
tormento che difficilmente giungeva a dominare. Diventava distratto,
non intendeva più nulla e finiva quasi sempre coll'avviarsi
affrettatamente verso casa, troncando qualunque discussione,
lasciando a mezzo qualsiasi lavoro.
Ciò che pel passato lo
distraeva lo annoiava adesso! Le cene allietate dallo champagne e
dalla presenza di qualche beltà compiacente, le riunioni
clamorose, i balli eleganti, nulla più lo attraeva.
Sempre, dovunque, tra lui ed il
restante del mondo veniva a frapporsi la figurina modesta e gentile
di Ginevra che lo fissava co' suoi occhi dolci e gli sorrideva,
mostrando la candidezza dei dentini regolari. Tale visione lo
perseguitava ed egli tentava di ribellarvisi, ma, se giungeva a
liberarsene per qualche istante, ne soffriva, quasiché gli
mancasse qualche cosa di necessario alla sua esistenza.
Ginevra dal canto suo provava emozioni
improvvise e ingiustificate; passava con rapida volubilità dal
riso alle lacrime, sentivasi vinta da una tristezza ch'ella stessa
non sapeva spiegare e che non avrebbe voluto cangiare colla gioia più
viva e colla più schietta allegria.
Leggeva avidamente sui giornali tutto
ciò che concerneva Rodolfo, il quale, grazie alla prossima
rappresentazione della sua commedia, era pervenuto ad acquistarsi una
momentanea popolarità.
Un giornale aveva falsamente insinuato
che Rodolfo corteggiava la bellissima prima attrice che doveva
sostenere la parte di protagonista nel suo lavoro.
Ginevra ne sentì una fitta al
cuore ed ella, così buona e mite, che non aveva mai odiato
nessuno, nemmeno i suoi nemici, provò un acuto sentimento di
odio per quella donna che, secondo lei, rubavale ogni felicità.
Nei giorni che precedettero la
rappresentazione della commedia si vedevano poco, e sembrava
apparentemente che si fossero a vicenda raffreddati. Rodolfo occupato
e preoccupato dei preparativi e dell'esito, Ginevra torturata dalla
gelosia che diventava ogni giorno più tormentosa.
La commedia fu rappresentata un sabato
sera ed il giovane autore ottenne un trionfo completo ed
incontrastato.
Egli, tornando fra le scene dopo la
decima ed ultima chiamata del pubblico plaudente, invitò tutta
la compagnia a cena per la sera successiva, e si sottrasse dalle
felicitazioni degli amici, poiché gli tardava di partecipare a
Ginevra il riportato trionfo.
La trovò ancora alzata, più
pallida e più agitata di quanto fosse stato egli stesso
durante la rappresentazione, e le descrisse con parole commosse le
ovazioni ricevute. Ella ascoltavalo palpitante; ma quando Rodolfo
cominciò a lodare la prima attrice, che aveva interpretato con
finezza squisita la difficile parte della protagonista, Ginevra sentì
darsi un tuffo nel sangue e si ritirò bentosto, dopo avere
cerimoniosamente domandato a Rodolfo se abbisognava di nulla.
L'indomani fu speso nei preparativi
della cena che doveva aver luogo dopo la recita. Ginevra era
febbrilmente agitata. Non le dava pace il pensiero di essere
obbligata a rimanere spettatrice delle premure che Rodolfo avrebbe
certamente prodigato alla fortunata rivale e dovette ricorrere a
tutta la sua fierezza di donna per non iscoppiare in singhiozzi
quando seppe che Rodolfo aveva ordinato uno splendido mazzo di fiori
da regalare alla prima attrice.
«Fatti bella» le diss'egli
mentre usciva per andare ad assistere alla rappresentazione della sua
commedia.
Ginevra, indispettita, propose di non
cambiare nemmeno il vestito, ma poi la civetteria innata in ogni
donna e più ancora il segreto desiderio di gareggiare colla
rivale, la persuasero a seguire il consiglio di Rodolfo e si occupò
del suo abbigliamento con cura minuziosa.
Indossò il solito abitino bleu,
ancora freschissimo, perché quasi mai adoperato, e, fatte due
grosse trecce co' suoi bellissimi capelli, le lasciò pendenti
sulle spalle, adornandosene come una regina si adorna colla sua
corona ed una milionaria co' suoi brillanti.
Rodolfo giunse prima degli altri e
rimase estatico nel vederla così seducente. «Civettuola,
guardati, come sei carina» le disse, conducendola innanzi ad
uno specchio e, sollevando con una mano le trecce pesanti, se le
passò lievemente sul viso, quasi per aspirare il delicato
profumo di eliotropio ch'ella aveva l'abitudine di portare nei
capelli.
Ginevra arrossì di piacere e
Rodolfo, trascinato dalla passione, stava per istringerla nelle
braccia, quando si udì una violenta scampanellata.
Erano gl'invitati che giungevano tutti
insieme, empiendo ad un tratto la casa di rumore e di brio.
Le signore, vestite di chiaro con una
profusione di nastri e di fiori, si tolsero in fretta i mantelli e si
posero in coro a cinguettare intorno a Rodolfo.
La cena era pronta e tutti si assisero
a tavola coll'appetito proverbiale degli artisti.
La prima attrice era una vedova di
circa trent'anni, molto bella ed eminentemente civetta, di quella
civetteria fine e pericolosa che quasi tutte le artiste posseggono;
ma Rodolfo erasi limitato a farle una corte generica, troppo generica
pei gusti e le speranze dell'attrice, la quale aspirava alla gloria
di rendersi schiavo l'autore, e farsi interprete esclusiva delle
commedie ch'egli avrebbe potuto comporre in avvenire.
L'Ercolani conoscendo quali doveri
gl'incombevano come ospite, colmava la signora di cento piccole
attenzioni, mentre Ginevra, chiusa nella sua stanza, piangeva di
rabbia e di gelosia, abbandonando, lei così zelante ed attiva,
il servizio al vecchio domestico e a due camerieri del caffè
dove la cena era stata ordinata.
Rodolfo la cercava ad ogni poco collo
sguardo, ma non osava allontanarsi per timore di farsi osservare e
rendersi ridicolo.
Finita la cena, alcuni commensali,
eccitati dallo champagne, proposero di fare quattro salti, e tale
proposta venne accolta da tutti con entusiasmo.
Andarono in salotto, accatastarono le
seggiole, obbligarono la prima amorosa di mettersi al pianoforte, e
cominciarono a ballare.
Il direttore della compagnia, che
aveva assai notata la preoccupazione di Rodolfo e che ne aveva in
parte indovinato la causa esclamò:
«Manca una ballerina! Perché
non chiami la tua cameriera, Rodolfo? E tanto graziosa quella
ragazza!».
Rodolfo sarebbe volentieri saltato al
collo del direttore, ma si contenne e disse, volgendosi alle signore:
«Non so se vorranno
permettere!».
«Sì, sì!»
risposero in coro, ad eccezione della prima attrice, ma Rodolfo,
fingendo non accorgersi del suo veto, andò in cerca di Ginevra
e la trascinò nella sala.
Tutti gareggiarono per fare un giro
colla graziosa cameriera, finché Rodolfo non reclamò
sorridendo i suoi diritti di padrone. Ginevra credette di svenire
quando sentì cingersi la vita dal braccio di Rodolfo, che la
trasportava come una piuma e, dopo alcuni giri, fu obbligata a
chiudere gli occhi e ad appoggiare la fronte sul petto del ballerino,
poiché le pareva che tutto girasse intorno a lei. Rodolfo, che
se ne avvide, la strinse forte e, girando lentamente, la condusse in
un angolo ov'era una seggiola vuota.
Alle tre dopo la mezzanotte
gl'invitati mostrarono il desiderio di ritirarsi, e la prima attrice
disse bruscamente a Rodolfo:
«Spero che mi accompagnerete a
casa, perché a quest'ora mi e impossibile di andar sola!».
Rodolfo s'inchinò, mentre
Ginevra impallidiva, quasiché l'attrice avesse avuto
intenzione d'insultarla dicendo quelle parole.
Quando tutti furono partiti, Ginevra
andò a coricarsi colla certezza di non dormire, poiché
la torturava il pensiero che Rodolfo avrebbe potuto trattenersi a
lungo in casa dell'attrice; ma il dubbio fu breve, ché lo
sentì tornare dopo mezz'ora appena. Ella spense il lume,
acciocché Rodolfo non si avvedesse che vegliava ancora, e
ringraziò Iddio con fervore, come se il ritorno di Rodolfo le
avesse ridata la vita.
La mattina Rodolfo uscì di casa
più presto del consueto, senza nemmeno vedere Ginevra. Egli
sosteneva un'ultima battaglia fra la passione che irrompeva balda e
sicura della vittoria e la ragione, che resisteva debole e
vacillante. I pochi giri di valtzer fatti con Ginevra gli
avevano messo la febbre addosso. Gli sembrava di stringere ancora
nelle braccia quel corpicino tremante come una colomba spaurita;
vedeva ancora la fanciulla, colla testa rovesciata all'indietro,
battere spesso le palpebre quasi abbagliata dallo sguardo di lui; gli
pareva che nei vestiti, nei guanti, nel fazzoletto gli fosse rimasto
un leggero profumo di eliotropio, il profumo ch'ella adoperava
costantemente. Aveva un bel ripetere a se stesso ch'era pazzo e
imbecille, aveva un bell'evocare immagini di altre donne, la figura
di Ginevra sorgeva trionfante, gli toglieva ogni velleità di
resistenza, cancellava ogni immagine profana ed estranea alla loro
passione.
Dopo aver girellato senza scopo due
buone ore, tornò a casa, spinto da una forza superiore alla
sua volontà.
Ginevra aveva finito allora di
assestare la camera del padrone e stava ritta innanzi allo specchio,
arruffandosi distratta i capelli sulla fronte.
Improvvisamente vide riflettersi nello
specchio l'immagine di Rodolfo, e si voltò, mettendo un lieve
grido non so se di gioia o di sgomento.
«Ginevra» disse Rodolfo,
con voce vibrante d'amore. «Ginevra, fanciulla mia!» e,
prendendole la testa con ambo le mani le posò le labbra sulle
labbra e la baciò lungamente.
«Rodolfo!» mormorò
lei con un sospiro che pareva un gemito e, vinta, affascinata, si
abbandonò senza resistere.
«Devi esser mia, sempre mia,
tutta mia!» le aveva ripetuto egli prima di lasciarla,
baciandola ancora una volta sui capelli, e Ginevra era rimasta calma,
sorridente, fiduciosa nella lealtà di Rodolfo, come nella
onnipotenza di Dio.
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