VI
Il tempo correva veloce pei due
innamorati, che passavano i giorni immemori di tutto e di tutti,
quasiché vivessero in un deserto.
La domenica, allegri e spensierati
come due scolari in vacanza, fuggivano in campagna, divertendosi a
rincorrersi, a tenersi il broncio, a suggellare le paci improvvise
con lunghi e caldi baci, a scambiarsi mille di quelle sciocchezze
deliziose e di quegli sconclusionati discorsi degli innamorati che
sembrano ridicoli a chi li ascolta, e valgono un poema per chi li fa.
Ginevra diceva sempre ridendo che da
due mesi il cielo era azzurro anche quando pioveva, e ch'ella vedeva
il sole anche se coperto dalle nubi; Rodolfo assicurava ch'era
un'adorabile pazzarella, e finiva sempre per fare e pensare tutto ciò
che ad essa piacesse.
Dell'avvenire non avevano mai più
parlato, poiché Rodolfo evitava ogni allusione alla promessa
fatta nei primi tempi del loro amore, e Ginevra non osava
rammentargliela per timore di rompere, con una parola, l'incanto
della sua felicità.
Da qualche tempo ella era peraltro
meno tranquilla, ed alla balda sicurezza dei primi giorni veniva a
poco a poco succedendo un dubbio tormentoso.
Rodolfo mostravisi sempre tenero ed
appassionato verso di lei, eppure ella sentiva pesarsi sul capo un
presentimento di sventura e le pareva che tra lei e Rodolfo fosse
passato un leggero soffio gelato che irrigidiva l'entusiasmo dei
primi giorni, rendendo le espansioni meno spontanee e cordiali.
Una domenica mattina Rodolfo trasse
Ginevra vicino a sé, e se la fece sedere sulle ginocchia.
«Devo parlarti di tante cose
serie» diss'egli con impaccio evidente, mentre Ginevra teneva
gli occhi socchiusi e lasciavasi accarezzare dal suono delle sue
parole senza preoccuparsi di comprenderne il senso.
«Mi ascolti, Ginevra?».
«Parla, Rodolfo, parla» e
divertivasi a strisciare lievemente la sua gota sulla gota di lui.
«È necessario che io
prenda moglie».
Ginevra, raggiante, sollevò gli
occhi sul volto di Rodolfo e sorrise.
«È necessario, fanciulla
mia» continuò egli, mostrando non avvedersi
dell'equivoco in cui Ginevra era caduta «è necessario, e
tu puoi comprendere se ciò mi dolga, ma, alla mia età,
è urgente ch'io metta giudizio, e d'altra parte, Ginevra,
debbo confessarti che i miei affari sono dissestati parecchio e che
solo una buona dote può rimettermi in carreggiata».
Ginevra si alzò e disse colla
massima freddezza:
«Va bene, me ne andrò
oggi stesso».
Egli rimase tutto sconcertato. Aveva
preveduto pianti, scene, furori, ed invece Ginevra non gli muoveva
nemmeno una parola di rimprovero, solo si avvide che era diventata
bianca come una carta e che aveva le labbra smorte e tremanti.
«Non mi dici nulla, Ginevra»
insistette Rodolfo, e la prese nelle braccia, la baciò,
l'accarezzò, mentre lei lasciava fare passiva ed insensibile
come una statua.
«Debbo andare alla messa»
disse infine con voce alterata, svincolandosi dalle braccia di
Rodolfo.
«Va bene, esco io pure, ed alle
due tornerò. Parleremo allora del tuo avvenire, a cui ho
pensato di provvedere per mostrarti che non sono un ingrato» ed
uscì, che gli tardava di sottrarsi al muto dolore della povera
tradita.
Appena rimasta sola, Ginevra mise in
fretta la sua roba nella valigia, depose sulla scrivania di Rodolfo
l'orologio ch'egli avevale donato, e scrisse:
«Parto senza salutarti per
evitare a te la noia, a me il dolore di una separazione. Mi hai
regalato due mesi di felicità, e te ne ringrazio, ora mi
spezzi il cuore, e ti perdono. Vivi felice!».
Trascinò ella stessa la valigia
in fondo alle scale, salì su di una vettura e si fece portare
dal commissionario che l'aveva collocata presso Rodolfo.
Allorché questi rincasò
e si avvide della fuga di Ginevra provò un dolore
intensissimo. La casa gli sembrò fredda e vuota come se una
bara stesse lì a rattristarla e sentì corrersi per le
guance alcuni grossi lacrimoni, leggendo la semplice e commovente
letterina della fanciulla. Stette lunga pezza pensando a Ginevra,
chiedendosi ove poteva essere andata, proponendosi di cercarla ed
uscì a tale scopo; ma s'incontrò con alcuni amici
buontemponi che lo distrassero e lo fecero indugiare fino a notte
avanzata.
Quando tornò in casa era già
più calmo e nello spogliarsi pensava:
«Forse è meglio così!
Se quella biricchina avesse insistito avrei finito col mandare
all'aria il matrimonio e sarebbe stata una pazzia! Ma prevedo che
stenterò a dimenticarla, era tanto carina!».
Dopo questo elogio funebre si
addormentò ed in capo a due settimane Ginevra era quasi
completamente dimenticata, o se Rodolfo se ne rammentava talvolta,
ciò avveniva come di una avventura sbiadita e resa polverosa
dal tempo.
Ginevra era andata tutta smarrita dal
commissionario, dicendo che Rodolfo si ammogliava e che a lei non
conveniva di restare più a lungo in quella casa.
Il commissionario comprese a volo come
stavan le cose e fu mosso a compassione nel vedere il volto
costernato della fanciulla, molto più ch'egli aveva in certo
qual modo contribuito a porla in quel ginepraio. La confortò,
dicendole che non gli sarebbe riuscito difficile collocarla
vantaggiosamente in altra maniera, e le propose intanto di ospitarla
nella modesta casuccia ch'egli abitava con una sorella, rimasta
vedova da poco tempo.
Ginevra accettò con
riconoscenza, ond'egli l'accompagnò in casa e la presentò
alla sorella, una buona e santa donna, resa anche più mite
dalla morte recente del marito ch'ella adorava.
Appena si trovò sola colla sua
ospite Ginevra, incapace di frenarsi più a lungo, dette in un
pianto dirotto.
«Perché disperarsi così,
figliuola mia, che vi è dunque accaduto!» chiedeva
premurosamente la donna e Ginevra, parte lusingata dalle maniere
affettuose di Maria, parte trascinata dall'irresistibile bisogno di
sfogare in qualche modo il dolore che la martoriava, narrò con
parole concitate e le dolci illusioni fino allora vagheggiate e
l'amaro disinganno dinnanzi sofferto.
Maria l'ascoltava commossa e non
sapendo con quale mezzo consolarla, la veniva accarezzando come una
bambina.
Si avvide allora che la poveretta
aveva la fronte ardente, le labbra aride, gli occhi luccicanti, e
indovinò che la fibra delicata della fanciulla non aveva
potuto resistere ad una scossa tanto impreveduta e brutale.
La consigliò di coricarsi, le
accomodò le coltri con materna sollecitudine e, dopo averla
teneramente baciata in fronte, la lasciò sola, sperando che un
buon sonno valesse a ridonarle un pochino di calma.
Ginevra si addormentò infatti
di un sonno pesante e si destò dopo molte ore tormentata da
una sete ardentissima.
Fece uno sforzo per rammentare ciò
che le era avvenuto e vi riuscì penosamente poiché
aveva nella testa una grande confusione d'idee, sentiva negli orecchi
un ronzio sordo ed incessante e le tempie le martellavano come se
qualcuno la picchiasse forte sul capo. Chiamò Rodolfo due o
tre volte, poscia cadde in una specie di letargo e quando Maria entrò
nella stanzetta la trovò in preda ad una febbre violenta.
Fu chiamato un medico, il quale ordinò
parecchi calmanti, prevedendo peraltro che la febbre sarebbe
aumentata nel corso della giornata. Così avvenne, e la sera
Ginevra fu presa dal delirio, nel quale evocava tutte le vicende
della sua vita travagliosa.
Ora sembravale di essere ancora
maestra ed ammoniva dolcemente i suoi bambini; ora volgeva il
discorso alla mamma, quasiché la povera Maddalena fosse viva e
presente; ora chiamava Rodolfo coi nomi più teneri e dolci ed
apriva le braccia quasi volesse stringerlo al seno.
Il commissionario avrebbe voluto fare
avvisato l'Ercolani di quanto succedeva, ma la sorella glielo vietò,
osservando che il rimedio sarebbe stato peggiore del male.
La mattina del terzo giorno il delirio
cedette, e Ginevra, comprendendo la gravità del suo stato,
chiese che telegrafassero al cugino, pregandolo di partire subito per
Milano.
Ella aveva di gravi torti verso il
povero Carlo, ma in quel momento non se ne rammentò, come non
se ne rammentò lui quando ricevette il telegramma.
Chiese al principale qualche giorno di
permesso, tolse con sé una buona sommetta di danaro e partì
colla prima corsa senza nemmeno partecipare la notizia al padre di
Ginevra.
Quando egli arrivò la
giovinetta era già fuori di pericolo ed accolse il cugino
stendendogli le mani con abbandono e sorridendogli con quel sorriso
dolce e buono che tanto fascino esercitava sull'animo del povero
Carlo.
Ginevra aveva supplicato Maria di non
far parola a Carlo su quanto era successo e questa aveva serbato il
segreto, rispondendo evasivamente alle affettuose domande del
giovanotto.
Durante una settimana Carlo assistette
Ginevra instancabilmente, studiandone i desiderii, mostrandosi
allegro per vederla sorridere, curandola con quelle cure minuziose
che giovano all'ammalato più di ogni farmaco, tanto che in
capo a dieci giorni Ginevra fu in grado di lasciare il letto. Carlo,
dopo averle aggiustato lo scialletto sulle spalle e la coperta sulle
ginocchia, trascinò una seggiola vicino a quella della cugina,
deciso a parlarle finalmente del suo amore e de' suoi progetti.
«Senti Ginevra, tu non sai che
tre mesi fa vinsi un terno di quattromila lire! È stata una
combinazione, perché sai bene che non giuoco mai. Adesso poi
guadagno cinque lire al giorno e sono quasi ricco. Io non ti ho detto
mai che ti voglio bene, ma tu lo sai meglio di me ed io vorrei
sposarti. Non m'interrompere, lasciami finire! So che per te ci
vorrebbe un uomo più istruito di me che sono una bestia e tu
sei tanto brava, ma io ti voglio bene, Ginevra, ti preparerò
una bella casetta dove comanderai come una regina e saremo felici».
Un fiotto di sangue colorì il
volto pallido della fanciulla che crollò vivamente il capo
mormorando: «È impossibile!».
«Impossibile! Perché,
Ginevra? Ti sono dunque tanto odioso che tu preferisca vivere quasi
di elemosina anziché diventare mia moglie? Pensaci, Ginevra!
Che cosa farai sola sola in questo mondo, così giovane e senza
nessuno che ti protegga? E, se non vuoi pensare a te stessa, pensa a
me che non saprei più come campare se mi mancasse la speranza
di farti mia!».
Ginevra ascoltava commossa le parole
del cugino e non sapeva che risolvere. Comprendeva lei pure che
oramai non le restava altro partito ragionevole tranne quello di
aggrapparsi all'ancora di salvezza che la Provvidenza le mandava, ma
non avrebbe, neppure per acquistare un trono, voluto ingannare quel
bravo e leale giovanotto che le aveva dato tante prove d'affetto».
«Dio sa, Carlo, se apprezzo
l'offerta che tu mi fai e se te ne sono grata dal profondo
dell'anima; ma non posso accettare, Carlo non posso!».
«Ch'io sappia almeno perché»
insisteva lui ostinatamente, sperando vincerne la ritrosia e
parendogli di vederla esitante.
«Ebbene, Carlo, tu mi obblighi
ad una confessione molto penosa, ma preferisco arrossire dinanzi a te
piuttosto che lasciarmi credere ingrata».
E qui gli narrò la sua
avventura con Rodolfo, non tacendogli e non risparmiandogli nulla.
Carlo sentì rimescolarglisi il sangue. Aveva tutto preveduto
all'infuori di questo. Anche lei! Anche lei ch'egli avrebbe adorata
come una santa! Tale rivelazione gli giungeva così nuova, così
inaspettata che fu invaso da un'ira violenta contro la cugina ed
avrebbe voluto stritolarla, gettarle in faccia i nomi più
bassi e spregevoli.
«Lo credo bene ch'è
impossibile» ripeteva, passeggiando concitatamente per la
stanza «lo credo bene! Io tornerò a Roma subito, domani!
Tu resterai qui e troverai qualche bellimbusto che ti prenda per
cameriera. Non contare su di me, che ne ho abbastanza dei sacrifizi
già fatti!...».
Ginevra singhiozzava sommessa senza
rispondere ed il suo pianto scendeva al cuore di Carlo ch'era debole
innanzi a quel dolore e che sentiva disarmata la propria collera dal
silenzio della cugina.
Uscì, poiché temeva di
cedere alla tentazione di perdonarle, ma prima di andarsene volle
guardarla in viso per vedere se la rivelazione udita avesse avuto
virtù di rendergli meno cara e simpatica la fisionomia di
Ginevra. Oh! no! era sempre la stessa e gli piaceva sempre tanto.
Scese le scale a precipizio e, tanto
per rifugiarsi in qualche luogo, entrò in una bettola vicina
dove, coi gomiti puntellati su di una tavola, col mento appoggiato
sui pugni chiusi, cominciò a riflettere tra il cozzare dei
bicchieri ed il vociare dei bevitori.
«La colpa è dei genitori
che l'hanno messa su di una falsa strada» pensava Carlo «la
colpa è del governo che tiene tante scuole e crea tante
maestre per farle poi morir di fame, la colpa è in parte anche
mia che avrei potuto sposarla subito! Poveretta! Senza la madre, con
un padre che sarebbe meglio non l'avesse, che cosa doveva fare?».
Il cuore di Carlo perorava così
in favore di Ginevra, esponendo queste ed altre molte ragioni che il
povero innamorato era anche troppo disposto ad accettare.
Propose di non veder Ginevra fino
all'indomani per essere in grado di parlarle colla calma necessaria
ed invece, dopo un'ora appena, era già in casa del
commissionario.
«Ci pensi ancora a quel
mascalzone?» le disse bruscamente appena entrato.
«No» rispose lei esitante
«procurerò di non pensarvi più!».
«Allora ho deciso di sposarti lo
stesso. Domani parto, preparo tutto, tu, appena guarita, vieni a Roma
e ci mariteremo subito. Acconsenti?...» e la rudezza delle
parole contrastava singolarmente col tono supplichevole della voce.
«Acconsento» rispose
Ginevra con un pallido sorriso e stese la mano al cugino, chiudendo
gli occhi per isfuggire alle luminose visioni del passato che la
perseguitavano ancora.
Carlo e Ginevra sono maritati da tre
anni ed hanno un amore di bambina che adorano entrambi. In apparenza
la loro vita scorre adesso serena e tranquilla, ma non credo che
siano completamente felici.
Carlo, quantunque non lo dica,
rammenta spesso, troppo spesso che Ginevra ha appartenuto ad altri
prima che a lui, e ciò lo rende talora sospettoso ed ingiusto.
Ginevra pensa con rimpianto a' suoi
dorati sogni di fanciulla, paragona i modi bruschi del marito
coll'eleganza di Rodolfo, e ciò la fa piangere furtivamente e
le fa dimenticare quanta generosità siavi stata nella condotta
del cugino.
La memoria del passato dura viva in
entrambi ed è solo grazie alla dolcezza di Ginevra ed
all'amore di Carlo che fra i due sposi non sorgono seri diverbi.
Evitano con cura ogni allusione al
passato e solo una volta che il padrino della piccola Maddalena disse
scherzando: «Ne faremo una brava maestrina!» Carlo dette
sul tavolo un pugno formidabile, esclamando: «No, perdio!»
e Ginevra giungendo le mani quasi con terrore, ripetette: «No,
mai, mai!...».
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