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Clarice Tartufari
Maestra

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I

 

Maddalena, che aveva per solito l'aria abbattuta di chi lavora troppo e di chi è costretto a lottare continuamente colle esigenze della vita, in quel giorno mostravasi animata e s'indovinava a prima giunta che la buona donna era felice.

Difatto Ginevra, la sua unica e adorata figliuola, era stata ammessa come alunna nella scuola normale, donde sarebbe uscita maestra dopo tre anni.

Maddalena non pensava punto alla lunghezza di quei tre anni, agl'incidenti che potevano sopraggiungere ad impedire o ritardare il compimento de' suoi voti; non si preoccupava dei sacrifizi che lei ed il marito avrebbero dovuto imporsi per sopperire alle spese di libri, di tasse e di vestiti.

Le pareva già di formare l'invidia e l'ammirazione di tutte le mamme del vicinato, le pareva che Ginevra esercitasse già la sua professione, guadagnando il necessario a mantener sé e la famiglia, senza essere costretta ad economizzare fino il centesimo.

Allora anche la povera Maddalena avrebbe potuto riposarsi finalmente! Ne sentiva il bisogno, ché in diciotto anni di matrimonio non aveva mai goduto un solo momento di pace, sempre coi ferri in mano a stirare dalla mattina alla sera per guadagnare pochi soldi col faticoso mestiere di stiratrice.

In principio avevano stabilito che Ginevra dovesse fare la sarta appena finite le quattro classi elementari; ma la direttrice della scuola disse una volta a Maddalena che la bambina aveva molto ingegno e che avrebbero dovuto farne una maestra. Tale proposta parve alla poveretta tanto splendida, tanto impossibile a realizzare che, lì per lì, crollò il capo, dicendo che era inutile pensarvi. Ci pensò invece quel giorno e gli altri ancora ed a poco a poco ciò che le era parso impossibile sulle prime, le parve effettuabile e quasi facile, tantoché ne parlò al marito, adducendogli una quantità di buone ragioni per indurlo ad acconsentire.

Giuseppe, che faceva il portalettere, e che in casa non istava quasi mai, cominciò col borbottare un pochino; ma si lasciò sedurre anche lui dall'idea che Ginevra sarebbe diventata maestra, e dette il suo consenso.

Quanto alla ragazza, accettò con entusiasmo l'idea dei genitori, si mise a studiare di lena per ben prepararsi agli esami di ammissione, e finalmente, dopo molte ansie, molte incertezze, molti timori, Ginevra venne inscritta come alunna nel primo corso normale.

Alle quattro Maddalena, che stava coll'orecchio teso, udì il passo leggero della figliuola che saliva le scale e corse ad aprirle tutta commossa e sorridente.

La fanciulla aveva la tinta un po' anemica, e l'andatura leggermente stanca, caratteristica di quasi tutte le ragazze che hanno la disgrazia di crescere negli angusti quartieri di una grande città, in quei tristi ed umidi quartieri dove il sole entra di rado, e dove l'aria è resa malsana dal numero eccessivo delle persone che la respirano. A prima giunta la giovinetta sembrava un tipo insignificante, ed anzi le comari del vicinato la chiamavano brutta addirittura, criticandone la pallidezza del viso e l'esilità della persona; ma un attento osservatore avrebbe scoperto in lei molte qualità che a prima vista sfuggivano. I capelli, tendenti al castagno, erano morbidi e copiosi; le sopracciglia fine e molto arcuate davano alla sua fisionomia un'espressione d'ingenuità infantile che seduceva; lo sguardo aveva dolce e buono ed allorché, sorridendo, mostrava i dentini bianchi e regolari, il viso le si illuminava tutto ed in quei momenti ella era veramente graziosa.

Maddalena, togliendo la cartella dalle mani della figliuola, l'andava tormentando con mille interrogazioni:

«Ebbene che cosa hai imparato oggi? Che ti hanno detto i professori? Le tue compagne sono tutte brave come te?...».

Ginevra rideva alle impazienze ed alle ingenue domande della mamma.

«Che cosa vuoi che abbia imparato in poche ore, e che vuoi che i professori mi abbiano detto? Siamo tante che avrebbero un bel da fare se dovessero parlare con tutte! Quanto alle mie compagne poi posso dirti ch'erano tutte più ben vestite di me, ed anzi ho sentito che una del terzo corso mi ha detto stracciona quando sono venuta via!».

La buona Maddalena rimase umiliata per l'impertinenza detta alla figliuola, e da quel giorno l'obbligò a portare abitualmente un abito di lanetta bigia che fino allora era stato gelosamente conservato per le grandi occasioni.

I tre anni passarono regolari e monotoni senza che nessun avvenimento straordinario venisse a turbare l'andamento della famiglia Gabrielli.

Maddalena vedeva approssimarsi con gioia il giorno beato in cui la figliuola sarebbe stata maestra ed avrebbe portato l'agiatezza nella casa dei genitori; Ginevra, senza nutrire le iperboliche speranze della mamma, poetizzava tutto colla sua giovine fantasia, e le pareva che sarebbe vissuta felice in una scuola pulita pulita, in mezzo ad una nidiata di bambini rosei e sorridenti.

Mancavano pochi mesi all'epoca dell'esame definitivo, quando un nepote di Maddalena, che faceva l'ebanista in una piccola città di provincia, stabilì di recarsi a Roma per trovare lavoro e raggranellare qualche denaro.

Fu deciso che il giovane abiterebbe una piccola stanzetta in casa della zia, e che sarebbe ammesso a far parte della famiglia pagando una tenue somma mensile.

Carlo era un buono e bravo giovanotto che non si ubriacava quasi mai, che bestemmiava solo quando era molto in collera e che faceva il suo mestiere con una certa passione.

Spensierato ed allegro, come si è a 25 anni, si fece subito benvolere dagli zii e dalla cugina, la quale si divertiva la sera a correggergli qualche problemuccio o spiegargli qualche poesia per farlo diventare un uomo istruito, come diceva lei, o per farlo sempre più istupidire, come sosteneva lui; ma diceva così per celia, ché anzi quelle lezioni serali erano tutta la sua ricreazione, parte pel desiderio d'imparare e sollevarsi un po' a livello della cugina, parte pel piacere di sentirsi lodare o rimproverare dalla graziosa maestra. Ginevra prendeva la cosa sul serio e trattava Carlo come fosse veramente un bambino sedendogli accanto per sorvegliarne il dettato, chinandosi su di lui per seguire collo sguardo gli sgorbi che andava facendo sul quaderno, accomodandogli le braccia sulla tavola e minacciandolo con una grand'aria di severità, quando egli sedeva scomposto o lasciavasi sfuggire qualche sproposito più madornale del solito; né si avvedeva che la calligrafia di Carlo diventava anche più illeggibile quando ella gli si metteva vicino, e che il malizioso scolare teneva la penna come si tiene uno scalpello per obbligare la giovane maestra ad aggiustargliela nelle dita.

Ginevra si era abituata a considerare il cugino come un gran bambinone innocuo con cui poteva trastullarsi impunemente e non supponeva neppure da lontano che il povero giovanotto potesse sentire per lei qualcosa più di quella simpatia cordiale e di quell'affezione fraterna ch'ella nutriva verso di lui. Altronde non era Carlo il suo ideale. Conosceva ed apprezzava le eccellenti qualità del cugino, ma nulla più.

Il giorno in cui Ginevra ottenne finalmente il diploma di maestra, Maddalena preparò un lauto pranzetto, Giuseppe invitò due amici colle rispettive mogli e si celebrò cordialmente l'avvenimento da sì lungo tempo desiderato. A vederli tutti lieti e raggianti intorno alla tavola imbandita, a sentire i magnifici progetti che andavano formando e le splendide innovazioni che volevano introdurre nella loro casa, ci sarebbe stato da credere che qualche fortuna inaspettata ed immensa fosse toccata in sorte alla famigliuola.

Per molti e molti giorni Maddalena ripeteva a diritto ed a rovescio:

«Lo ha detto Ginevra che è maestra! Ora che la mia figliuola è diventata maestra! Lo domanderò a Ginevra che è maestra!» tantoché le vicine un po' seccate ed un po' invidiose, non si stancavano mai di canzonarla.

Il meno entusiasmato di tutti era Carlo, il quale da qualche tempo non mostravasi più né allegro, né loquace, poiché pareva al poveretto che una barriera insormontabile fosse sorta tra lui e la cugina, dopo che questa era diventata maestra. – Carlo vedendo Ginevra tutt'i giorni, standole sempre vicino, udendone continuamente parlare, se ne era a poco a poco vivissimamente innamorato; ma, riflettendo alla distanza che correva tra lui, povero operaio, e quella fanciulla sì colta e sì gentile, nascondeva gelosamente la sua passione che giudicava insensata.

Ginevra intanto aveva fatto istanza per venire immediatamente occupata, e nemmeno sospettava che la sua domanda potesse rimanere inesaudita, ma il disinganno giunse bentosto, giacché il novembre si avvicinava senza che ella avesse ottenuto ancora nessuna risposta. – La giovinetta decise allora di recarsi dall'ispettore, col quale, dopo tre gite inutili, potette alfine parlare.

Egli la ricevette in piedi e frettoloso, come uomo ristucco di certe visite e la licenziò dopo brevi parole, dicendole:

«Cercherò di tenerla presente, signorina, ma le domande sono tante che qualora si dovesse dare corso a tutte ci sarebbe da nominare una maestra per ogni bambino».

Ginevra tornò a casa triste e scoraggiata! Le ripugnava di mendicare ciò che credeva spettarle come diritto, mentre dall'altro lato struggevasi al pensiero di disingannare i genitori che avevano tanto fatto per lei e che su di lei avevano basato le più care speranze.

Una signora, per la quale Maddalena stirava da parecchi anni, la indirizzò ad un capo divisione al ministero dell'istruzione pubblica.

Ginevra vi si recò colla madre, ed appena entrata nel palazzo della Minerva sentì come un brivido di freddo correrle per le ossa. Quegli uscieri che la squadravano insolentemente e che si degnavano appena d'indicarle colla mano la direzione che doveva seguire, quell'affaccendarsi di tante persone tutte venute per sollecitare, il viso ansioso di chi saliva, l'aria quasi sempre scoraggiata di chi scendeva, contribuivano a far sì che Ginevra salisse quelle interminabili scale con un batticuore da non descriversi.

Giunte nella piccola anticamera che precedeva il gabinetto del capo divisione trovarono un usciere che, osservati gli abiti modesti delle due donne ed il loro contegno timidamente impacciato, le affollò di domande con grande sussiego, quasiché egli contasse davvero qualche cosa.

«Con chi desiderano di parlare?».

«Col signor commendator Galli...».

«Mi dispiace, ma adesso è occupato e non riceve nessuno».

«Abbiamo per lui questo biglietto» insistette bruscamente Maddalena, che non era abituata a tante formalità e che, essendo romana, non sapeva troppo pazientare».

«È di un deputato questo biglietto?».

«No, è di una signora!».

«Basta, procurerò di consegnarlo».

«Nemmeno si trattasse di baciare i piedi al santo padre» brontolava Maddalena, ma uno sguardo supplichevole della figliuola la fece tacere.

Trascorsi pochi minuti l'usciere tornò, dicendo loro che si accomodassero.

Trovarono il signore che stava firmando alcune carte e che proseguì il suo lavoro senza disturbarsi menomamente, finché non ebbe terminato, dopo di che suonò il campanello, consegnò le carte all'usciere e si decise finalmente di volgersi alle due donne che stavano impacciate e rese anche più timide dall'accoglienza punto gentile.

«Dunque la signorina ha studiato alla scuola di Roma» interrogò il commendatore, scorrendo collo sguardo il biglietto in cui si parlava di Ginevra.

«Sissignore» risposero in coro la madre e la figliuola. «Ed ora desidera di occuparsi non è vero?».

«Non è desiderio, è bisogno» mormorò Ginevra arrossendo.

«La cosa non è facile, perché qui è tutto il giorno una processione di babbi e di mamme, che desiderano occupare le figliuole! Dio santo, tutte vogliono fare le maestre adesso, è assolutamente una mania!».

Maddalena colla voce tremante ebbe il coraggio d'insistere:

«Dunque noi che si credeva tutto finito, siamo solo al principio dei nostri guai? Avevamo sperato che Ginevra potesse aiutarci, ed ecco che dopo tanti sacrifizi e tante fatiche la mia figliuola non potrà ottener nulla».

Trapelava tanto accoramento dalle parole della donna, che il commendatore ne rimase commosso. – «Veramente sarebbe stato meglio che la vostra figliuola avesse imparato qualche mestiere, almeno adesso non avrebbe bisogno di nessuno; ma a quest'ora il male à fatto, ed è inutile parlarne. Io sono amicissimo dell'ispettore; gli parlerò della signorina, e posso quasi accertarvi che qualche cosa otterrò».

Dopo aver vivamente ringraziato il commendatore, uscirono, Maddalena col cuore sollevato dalla certezza che la figliuola sarebbe stata davvero una maestra, Ginevra coll'animo trambasciato per la convinzione ch'erasi messa su di una falsa strada e che l'avvenire le avrebbe riserbati chissà quanti dolori e quanti disinganni.

Ella si avviò direttamente verso casa, mentre Maddalena andava da parecchie clienti a prendere la biancheria da stirare. Giunta in casa Ginevra trovò il cugino, con cui da qualche giorno aveva scambiate appena poche parole.

Carlo, vedendo il viso sconvolto della fanciulla, suppose che anche quel nuovo passo fosse riuscito infruttuoso e, senza spiegarsene la ragione, ne provò un piacere vivissimo.

«Ebbene, come è andata? Che ti ha detto questo signor commendatore? Sarà anche lui come gli altri, tutte ciarle e nessun fatto».

Ginevra aveva bisogno di sfogare su qualcheduno la stizza che la rodeva, voleva anche lei procurarsi il piacere di torturare e di umiliare, onde rispose brutalmente:

«Che t'importa dei fatti miei? Che ne capisci tu di certe cose? Quel signore è bravo, buono, gentile, ed io fra poco sarò maestra; se ciò ti spiace è peggio per te».

Così dicendo gettò il cappello sulla tavola e gl'impose con alterigia:

«Ho sete, portami un bicchier d'acqua!».

Carlo esitò un istante, poi andò in cucina, sciacquò egli stesso un bicchiere, lo pose in un piatto e lo portò alla fanciulla, che lo bevve d'un fiato. Rimasero qualche secondo così l'uno in faccia all'altra, lui col piatto in mano, lei diritta, accigliata, sdegnosa.

«Potresti almeno ringraziarmi» disse Carlo, tentando di scherzare, quantunque fosse turbato dai modi aggressivi di Ginevra e dal trovarsi solo con lei, il che non era mai accaduto prima d'allora.

«Tu potresti invece toglierti il cappello» rispose lei, alzando le spalle e fece per andarsene; ma Carlo le sbarrò il passo e le disse con voce supplichevole:

«Perché mi tratti così, Ginevra, che ti ho fatto?».

La fanciulla stropicciò il fazzoletto che teneva nelle mani, inghiottì due o tre volte la saliva per frenare il pianto che le faceva groppo alla gola, eppoi si gettò su di una seggiola e scoppiò in singhiozzi, nascondendo il volto fra le mani.

«Perché, ma perché?» domandava Carlo affannoso, non sapendo come calmarla. In questa si udì la voce di Maddalena che saliva le scale e Ginevra, asciugandosi in fretta le lacrime, disse al cugino:

«Non dir nulla alla mamma, ché ciò le farebbe dolore. Altronde oggi abbiamo avuto buone speranze, ed io sono una sciocca».

Maddalena confermò, appena entrata, le parole di Ginevra, esagerando anche un pochino le promesse avute, tantoché Carlo, non abbastanza fine per indovinare ciò che avveniva nell'animo della fanciulla, non sapeva come spiegarsi la scappata di lei.

La nomina giunse una domenica, mentre erano tutti e quattro a tavola tristi e silenziosi, in seguito ad una scena piuttosto burrascosa tra Giuseppe e Maddalena, che da qualche tempo si bisticciavano spesso, rimproverandosi scambievolmente di aver rovinata la figliuola.

Appena videro la lettera ne indovinarono il contenuto e fu un unanime grido di gioia. Maddalena se ne impadronì con mano tremante e la passò a Ginevra che era diventata bianca come una carta.

Ginevra era nominata maestra in un paesello a poche miglia da Frascati collo stipendio di 600 lire annue e coll'ingiunzione di trovarsi al posto nel termine di pochi giorni.

Tutti rimasero delusi, ma tutti nascosero accuratamente il loro scontento, dimostrando un entusiasmo che in verità non era punto spontaneo.

I preparativi del viaggio non furono molti, né lunghi. Maddalena si fece prestare da una vicina una valigia vecchia e sgualcita, dove mise la biancheria di Ginevra, la quale aveva fissato di partire il giovedì.

Il mercoledì sera protrassero a lungo la veglia, quantunque Maddalena ripetesse ad ogni momento che Ginevra doveva alzarsi di buon mattino e ch'era giunta l'ora di coricarsi. Trovavano sempre qualche cosa da dire, avevano quasi il presentimento delle sventure che li attendevano e volevano prolungare più che loro fosse possibile quelle ore di dolce ed intima famigliarità. – A mezzanotte si decisero finalmente e, dopo aver ripetuto per la decima volta, che il paesello non era poi alla estremità del mondo e che Ginevra avrebbe potuto venire a Roma durante le vacanze, andarono tutti a coricarsi intimamente e profondamente commossi.

Ginevra, entrata nella misera stanzetta dove aveva dormito per tanti e tanti anni, dove aveva vegliato sui libri nelle lunghe sere d'inverno, sopportando il freddo e vincendo il sonno, animata sempre dalla speranza di un lieto avvenire, fu colta da una tenerezza più intensa per la sua casa ed i suoi, da uno scoramento amarissimo all'idea di dover lasciare la mamma, di dover viver sola in quell'angolo di mondo dove nessuno la conosceva, dove nessuno l'amava.

Ebbe per un istante la tentazione di correre nella stanza dei genitori e supplicarli di non lasciarla partire, di farla lavorare in casa a qualunque lavoro grossolano e faticoso, purché potesse sentirsi protetta dal loro affetto e consolata dalla loro presenza; ma pensò poi alla miseria della famiglia ed ebbe la forza di vincere quel momento di debolezza.

S'inginocchiò ed appoggiando la fronte sulla sponda del bianco letticciuolo, pregò ferventemente dal profondo dell'anima, pregò implorando la fiducia in sé stessa che ormai le veniva meno, la fede nei modesti ideali fino allora vagheggiati ed ora intieramente svaniti, implorando a sé ed ai suoi, non il fulgido avvenire che la madre aveva per sì lungo tempo sognato, ma una vita tranquilla, se non allietata mai da nessuna grande gioia, non amareggiata almeno da nessun acuto dolore.

La sua preghiera venne interrotta dal rumore leggero che fece aprendosi la porta della stanza; si voltò vivamente e vide il cugino che si avvicinava in punta di piedi, dicendole in fretta e colla voce strozzata:

«Prendi queste venti lire. Avevo destinato di mandarle alla mamma, ma so che per ora non ne ha molto bisogno. Prendile, Ginevra, ti potranno servire».

La fanciulla intuì quanto dolore avrebbe recato al cugino un suo rifiuto, onde accettò senza esitare le due carte da dieci ch'egli le porgeva con mano tremante e, vinta da uno slancio di gratitudine per quel povero giovanotto che l'amava tanto senza averglielo detto mai, gli gettò le braccia al collo, dicendogli commossa:

«Oh! quanto sei buono, Carlo, quanto sei buono!».

Carlo rimase come stordito. Gli pareva che la stanza girasse, che il pavimento gli mancasse sotto i piedi e respinse Ginevra quasi con violenza, temendo di non potersi più padroneggiare, se rimaneva lì qualche minuto ancora.

Entrato nell'angusta stanzuccia dove dormiva, Carlo spalancò la finestra, quantunque facesse un freddo intensissimo, si gettò bocconi sul letto, mordendo i guanciali per soffocare i singhiozzi e pianse, pianse a lungo come un bambino.




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