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Augusto Agabiti
Ipazia

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Ipazia non è la sola donna greca che rappresenta il pensiero occultista: v'era stata prima la bella e sdegnosa Teano, moglie di Pitagora; Diotima, ispiratrice di Platone; e infine, con altre, Asclepigenia, figlia di Plutarco d'Atene, che diresse ivi la scuola segreta di spiritualismo greco-orientale, chiosando il famoso volume degli Oracoli Caldei.

Ma scarsi, e d'indagine difficile, sono i documenti, le notizie che abbiamo su Ipazia: molto poco ella è conosciuta e ammirata nei nostri tempi.

L'importante Dictionnaire biographique dell'Heffer appena la menziona; e quasi insignificanti accenni troviamo nelle enciclopedie, sulla vita e sulle opere sue.

Qualche storico della matematica la ricorda per libri di geometria e di astronomia; qualche altro scrittore la glorifica quale martire della libertà di pensiero; ma ciò è tutto.

Come visse, che cosa pensò, che scrisse, chi amò, in qual maniera e perché morì, e soprattutto che cosa insegnò a tanti e illustri discepoli, non viene ricordato nei libri più letti e-consultati oggi dagli studiosi.

Il Cantù, nella Storia Universale, scrisse soltanto: «Teone, professore in Alessandria, commentò Euclide e Tolomeo; e fu più famoso per la bella Ipazia sua figlia. Da lui imparato le matematiche e perfezionatasi ad Atene, ella fu inviata in patria a insegnare filosofia; e seguiva gli eclettici, fondandosi però sopra le scienze esatte, e introducendone le dimostrazioni nelle speculative; col che le portò a metodo più rigoroso...».

Qualche monografia è stata scritta in Germania, in Francia e in Inghilterra, su Ipazia; ma anche questi sono studi incompleti e di data non recente.

In italiano abbiamo un Poema d'Ipazia ossia delle Filosofie, del quale uno scrittorello del Giornale Arcadico, dell'anno 1827, ci dice «essere stato mandato alla luce dalla marchesa Diodata Saluzzo Roero», e di superba fattura; ma a giudicare dai pochi luoghi riferiti, si tratta di una poesia di ben poco valore artistico e di niuno storico.

Basti osservare che l'autrice, per la quale il recensionista ha una vera e propria cornucopia di lodi entusiastiche, riteneva la nostra eroina una martire cristiana, mentre, come diremo, fu appunto vittima di fanatici monaci della Tebaide torrida e desolata, i quali distrussero il suo bel corpo come avevano abbattuto i marmi delle religioni antiche: il tempio meraviglioso detto Serapeo, e le rovine imponenti di Tebe e di Menfi.

Cito qualche verso:

 

Languida rosa sul reciso stelo

nel sangue immersa la vergin giacea

Avvolta a mezzo nel suo bianco velo,

Soavissimamente sorridea

Condonatrice de l'altrui delitto,

Mentre il gran segno redentor stringea.

 

In italiano abbiamo pure uno studio del Bigoni, un dotto articolo del Faggi, e un saggio elegante di Carlo Pascal.

Il miglior lavoro, per l'estensione e per la conoscenza delle fonti, è quello del Bigoni.

Questi pochi scritti, insieme a un articolo della Revue contemporaine e a una piccolissima biografia pubblicata nella rivista «Preussische Jahrbücher» (Berlin, 1907), formano la ristretta letteratura fiorita su questo argomento nel secolo XIX e nella prima decade del XX.

E anche gli studi del Bigoni e della Revue contemporaine hanno un errore d'origine, perché frutto di menti devote del cristianesimo e sue ammiratrici in maniera esagerata ristretta, e quindi pure involontariamente partigiana, perché non fanno menzione del lato più importante della figura e dell'insegnamento d'Ipazia: non conoscono o rifiutano di apprezzare le sue idee di spiritualismo classico pagano.

Seguace di un sistema eclettico di filosofia, restò refrattaria all'esclusivismo cristiano; forse anche perché conosceva molte parti allora ignote ai cristiani, se non coltissimi, del politeismo greco-orientale decrepito e non capiva la necessità di abbracciare la religione nuova più di forme che non d'idee: predicazione la quale rappresentava pei conoscitori dell'antica Gnosi, soltanto un adattamento nuovo, una volgarizzazione poco profonda e molto popolare dei Veri conosciuti da essi per eccellenza.

I cristiani cimentavano al paragone le credenze proprie e quelle del paganesimo ormai consunto, i Gentili dotti comparavano il cristianesimo alla religione dei loro padri, nei suoi secoli d'oro, e lo stimavano o pari o inferiore alla filosofia orfica ed eleusina.

Seguo perciò l'opinione dell'Aubé, il quale, parlando delle convinzioni religiose di Ipazia, esprime il parere ch'ella, probabilmente, avesse accettato il punto di vista di Temistio e dei pagani contemporanei più illuminati; i quali dicevano «che i culti, essendo soltanto forme esterne ed espressioni particolari del sentimento del divino, non sono differenti l'uno dall'altro, che vi sono molte vie per giungere a Dio, e che ognuno è libero di scegliere quella che più gli aggrada».

Non posso né voglio colmare il vuoto lasciato dai biografi di Ipazia, dovendomi tener pago d'esporre qualche notizia ma credo che se in avvenire taluno studierà la sua vita, profondamente, da questo punto di vista dimenticato, farà opera nova, e, quel che più importa, di gran pregio storico.

In tal modo potrà spiegare ai dotti un perché rimasto molto oscuro alla maggior parte dei biografi di Ipazia, la ragione, voglio dire, del meraviglioso fascino, esercitato da lei su tanti, per così lungo tempo, nella città del mondo allora più sapiente e cosmopolita.

Teone d'Alessandria, matematico famoso, ultimo della lista dei membri del Museo, ebbe per figlia Ipazia.

Fu scienziato, filosofo, occultista, geometra, astronomo, profondo esegeta dei classici. Il suo Commentario all'Almagesto di Tolomeo, è stimato ottimo su tutti i lavori di astronomia, della scuola alessandrina.

Il Bigoni, seguendo Suida e altri pochi scrittori del tempo, dice che fiorì, insieme con Pappo, sotto Teodosio Magno (sec. IV), e che probabilmente era già uomo maturo quando Teodosio salì al trono. Teone si occupò specialmente di meccanica e di astronomia, tanto che si ricorda avere osservato un'eclisse solare e una di luna.

Ipazia nacque poco prima dell'anno 370: nel 400, a trent'anni, sotto l'impero di Arcadio, aveva già acquistato fama mondiale.

È storicamente accertato che la sua città natale fu Alessandria. Il padre che le impose la gloria di tanto nomesublime», «eccelsa») fu quasi dotato di spirito profetico.

Sappiamo che la nobilissima ebbe un fratello chiamato Epifanio, pel quale Teone scrisse il libro intitolato Introduzione agli Elementi di Euclide.

Studiò col padre filosofia e scienze esatte. Come voleva Pitagora, la geometria le servì di primo avviamento all'esame dei problemi dell'anima.

Però l'imperatore Arcadio perseguitava, pur esso, i pagani e i liberi pensatori.

Infatti Bisanzio e non Roma diede il carattere di religione di Stato al cristianesimo, eresse a sistema, nella Chiesa, la persecuzione degli eresiarchi.

Lo studio dei fenomeni e dei problemi metafisici, concernenti l'ultrasensibile, era molto importante per Ipazia, la quale seguiva i dettami del padre, autore di scritti matematici e magici, come pure accenna il Faggi. Compì gli studi nel Museo; ma non si può affermare che vi sia stata aggregata, pel fatto che il padre fu membro di questa istituzione.

Certo deve avere ascoltato con grande larghezza di vedute, dottrine di ogni scuola, perché tanto Damascio quanto Socrate Scolastico la dicono dotta nella filosofia neoplatonica e nella sapienza aristotelica e dei maggiori.

Alcuni biografi asseriscono che si recò a fare gli studi ad Atene, e si fondano su di un passo di Damascio riferito da Suida. Questa dimora ad Atene avrebbe avuto grande importanza per lei, giacché Plutarco aveva aperto ivi una scuola di filosofia e di gnosticismo.

Sembra che Plutarco apprendesse occultismo neoplatonico dal padre Nestorio, il quale, al dire del Bigoni, fu discepolo di Giamblico; e fu molto dotto e stimato pontefice del corpo sacerdotale, sotto l'impero di Valentiniano.

«Tutti sono d'accordo nel riferire che Plutarco insegnasse con un certo successo», dice la scrittrice della Revue contemporaine, «allorché Ipazia andò ad Atene».

Il suo insegnamento aveva come punto di partenza Aristotele, di cui esponeva la dottrina parallelamente a quella di Platone, ma non si limitava più alle questioni aride della scuola greca. La scienza per eccellenza che Plutarco aspirava a propagare era quella degli Oracoli caldei; e, da questo punto di vista, il filosofo era divenuto piuttosto un teosofo che non un maestro di filosofia.

Sua figlia, l'ardente Asclepigenia, comunicava questo sapere divino a qualche adepto favorito.

Il suo insegnamento era quasi segreto, e, sebbene in tale epoca fosse già condiviso da un piccolo numero, più tardi doveva essere ristretto ancora di più, e divenire una semplice tradizione famigliare.

In questo ambiente Ipazia forse è vissuta.

Sugli Oracoli caldei ha scritto di recente G. R. S. Mead un'opera di piccola mole, che costituisce i volumi VIII e IX della sua interessantissima collezione di testi e di commenti sull'occultismo classico e orientale, intitolata Echoes from the Gnosis.

I Greci, raccogliendo in Alessandria il sapere dei più grandi popoli della Terra, furono in particolar maniera impressionati dalla grandezza e potenza delle tradizioni sacre dell'Egitto e di Babilonia. Adattando alla loro psiche, ai loro abiti mentali, tali tradizioni, spiegandole e rafforzandole, per beneficiare i posteri, con ragionamenti filosofici, produssero quelle grandi opere del pensiero, tanto ignorate: i libri ermetici e i canti caldaici.

Nei primi stavano riassunte le dottrine egiziane, e nei secondi, per aiuto dei soli iniziati all'occultismo orientale, quelle babilonesi e assire.

Si parlava in essi, con frasi molto laconiche, del Principio supremo, dell'Unione mistica, della Monade e della Dualità, della Gran madre, degli Eoni, dell'Emanazione delle idee, dell'Amor divino, dei Sette firmamenti, della natura del Cosmo, delle Leggi del mondo sensibile, degli Spiriti.

Altre sentenze davano insegnamenti sull'anima umana, sui veicoli e strumenti della forza spirituale dell'uomo, sulla schiavitù e liberazione delle anime, sul potere purificatore delle potenze angeliche, sulle virtù morali, sull'arte della Teurgia e della Pietà.

E v'è ragione di credere al viaggio in Atene, anche pel fatto che Ipazia portò in Alessandria, appena incominciò a insegnare, il fascino d'idee non comuni e ignote ivi nella forma com'essa le esponeva. La scrittrice della Revue allude all'ipotesi di un'influenza dell'insegnamento occultista di Plutarco e di Asclepigenia, su Ipazia e nota che «nell'attività intellettuale di Alessandria vi è una specie di infiacchimento quando d'un tratto Ipazia sorge e vi riaccende lo spirito di investigazione filosofica. Né si sa con quali mezzi abbia potuto operare tanta trasformazione; tutto fa credere che avesse portato dal suo viaggio in Grecia qualcosa di veramente originale».

Ampliò grandemente le sue cognizioni filosofiche e scientifiche, e non ebbe certo, di fronte alla causa che sosteneva, la responsabilità attribuita agli oratori brutti e spiacenti, della scrittrice leggiadra giapponese Sei Sônagon: «Un predicatoreparla Sei — dev'essere un uomo di bell'aspetto. Perché allora è più facile di tenergli gli occhi addosso, senza di che sarebbe impossibile profittare di ciò che dice. Se gli occhi si distraggono, infatti, e si voltano qua e , si dimentica di stare a sentire. I predicatori brutti hanno dunque una grande responsabilità» (v. Abbozzi del guanciale, versione di P. E. Pavolini).

La stessa società alessandrina, raffinatamente istruita e mondana, finemente esteta, trovò leggiadra e grata la compagnia dell'illustre filosofa.

In Alessandria, dicono le fonti, era divenuto di moda il filosofare frequentando la società di una donna attraente per tante virtù e bellezze. Sebbene superiore agli amici e discepoli suoi, essa li trattava con modi gentili e famigliari, franca e dignitosa in un tempo.

«Non si vergognavadice Socrate Scolastico — di comparire ad un'assemblea d'uomini, perché tutti la rispettavano e onoravano».

La sua virtù, per unanime attestazione, era superiore a qualunque sospetto...

Si racconta che una volta un suo giovane discepolo, bello e gentile: «Ipazia! — le dicesseIpazia io muoio d'amore per te!». Ella non si commosse né lo cacciò ma, chiamata una domestica, le comandò di portare panni e filacce che prima aveva tenute su di una piaga, e fattele vedere al giovane, gli disse: «Vedi, la mia bellezza è soltanto apparente, disingannati, poiché anche io sono di carne, di materia vile, cioè, e di putredine!». Pensate: era una donna che parlava così!

E altra volta, ricorda il Chateaubriand, un altro languiva d'amore per lei; la giovane platonica impiegò la musica per guarire il malato, e fece rientrare la pace, per mezzo dell'armonia, nell'animo che aveva turbato (Traditur Hypatiam oye musicae illum a morbo isto liberasse). E non è uno strano caso! In risposta al Brunetière, uno scrittore francese osserva che per i turbamenti del sentimento la musica è salutare. «La natura è l'impero della musica, ma lo è soprattutto la natura umana. San Tommaso d'Aquino parla della musica e della musica vera, pura, religiosa — con simpatia e tenerezza. Afferma (ed è vero) che la musica ci libera dal mondo esteriore, ci riconduce all'interno, centro immobile e libero dell'anima».

Infine Ipazia si maritò. Forse non scelse uno sposo, ma un fratello: era l'amore platonico dei neoplatonici!

 

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