Ma
le nuvole si addensano di fronte al sole.
La
città era in preda ai partiti più fieri di religione.
Ad
Alessandria viveva una grossa colonia di più di centomila
israeliti, e v'erano pagani, e idolatri d'ogni culto, e cristiani
ortodossi di tutti gli scismi ed eresie. Nel 414 gli israeliti si
vendicano contro i cristiani dei loro cattivi trattamenti, e san
Cirillo li caccia brutalmente fuori dalla città e ne
saccheggia le chiese.
Oreste
scrive allora all'imperatore contro la condotta di questo facinoroso,
ed egli, a sua volta, accusa Oreste. Gli animi si accendono
maggiormente. Il prefetto fa arrestare un tal Jerace, partigiano di
san Cirillo, e lo fa battere; ma il popolino cristiano, per
rappresaglia, circonda la lettiga del prefetto, e lo ferisce.
Un
monaco, colpevole di questo delitto, viene giustiziato: allora
Cirillo, non già angelo d'amore e di carità, come
gl'impone il ministero di pastore cristiano, giunge a tanta audacia
da pronunciarne pubblico elogio.
Una
turba di fanatici, che sospetta una nemica in Ipazia, nella gran
donna la quale parla di misteri incomprensibili e s'oppone alla loro
rozza brutalità idolatra, la circuisce a poco a poco di
calunnie e di oscure minacce. Cirillo tenta di conciliarsi l'animo di
Oreste e gli si reca innanzi con gli Evangeli, per il giuramento
della pace; ma questo tentativo fallisce.
Parve
allora ai cristiani che unico ostacolo fosse la venerata cattedra
pagana di Ipazia, della quale Oreste era discepolo. Gli odi
s'accrebbero. La sorte della filosofa venne decisa. Vivevano, nei
dintorni di Alessandria, molti monaci, d'infima plebe, schiavi del
volere del vescovo, pronti qua ad ardere templi e là a trar
fuori dalle tuniche grigie i veleni o il pugnale: erano i parabolani
e gli eremiti della Tebaide. A capo di essi si era posto un
energumeno detto Pietro il Lettore.
Un
giorno Ipazia ritornava a casa in lettiga. Usciti d'ogni parte, i
parabolani circondarono questa e ne strapparono la filosofa
trascinandola fino alla chiesa detta di Cesare, nel sobborgo Bruckio,
vicino al mare.
I
monaci sono presi allora da un impeto furibondo, belluino, di
sadismo.
Le
vesti di Ipazia sono strappate da costoro e le sue membra ignude
profanano, nude e contuse dalla mazza ferrata di Pietro, l'austera
santità del tempio.
Ma
i parabolani sono accecati: con pugnali fatti di conchiglie, con tali
armi barbaresche e crudeli, si fanno tutti addosso al bel corpo della
vergine gentile e lo sbranano.
Il
sangue arrossa le pareti, il pavimento del luogo, le vesti degli
assassini. Poi i suoi lacerti sanguinosi, sono portati al Kinaron e
gettati sul fuoco.
«Avvenne
questo — racconta Socrate — nel IV anno dell'episcopato
di Cirillo, X consolato di Onorio, IV di Teodosio, nel mese di marzo,
al tempo dei Fasti».
«Morì
— così dice il Chateaubriand — la creatura
celeste, che viveva in compagnia degli astri ch'ella uguagliava per
la beltà, e dai quali aveva ricevuto le più sublimi
influenze».
Si
estinse come Eco, e nel modo di Orfeo il quale fu dilaniato dalle
Menadi, offerto in olocausto al dio delle orge.
Cantavano
le ebbre baccanti, secondo il Poliziano:
Per
tutto il bosco l'abbiamo stracciato,
Talché
ogni sterpo del suo sangue è sazio:
Abbiamlo
a membro a membro lacerato
Per
la foresta con crudele strazio,
Sicché
'l terren del suo sangue è bagnato.
E
nessuno v'era a difenderla, non Oreste, e nemmeno Sinesio,
l'appassionato vescovo-poeta che le aveva scritto: «Se l'oblio
avvolge i mortali di là dall'Erebo, là pure io mi
ricorderò ancora d'Ipazia!...».
E
se non fosse storia, confermataci da tante fonti, noi, assomigliando
la morte di Ipazia a quella di Orfeo, a quella di Cristo (et
diviserunt vestimenta mea), a quella della mitologica, soave
vergine Eco, o, infine, di Osiride, Dio redentore, degli Egiziani,
diremmo che la fine d'Ipazia è leggendaria, è
simbolica; perché, diremmo, piacque sempre figurar così
la fine della vita terrena degli eletti che si sacrificarono per
l'Umanità.
Longo
Sofista scrive che le membra del bel corpo vibrante di canti della
ninfa Eco, furono raccolte dalle compagne, pietosi spiriti delle
acque, e che la sua arte e potenza musicale ripete ancora altrui le
voci e i suoni, per volontà delle Musa, quando il vento passa
attraverso i fitti canneti.
Ebbene
diciamo noi: anche quando a un grande ideale sobbalza il nostro
cuore, un prodigio simile accade: vibra un atomo di cenere del bel
corpo soave d'Ipazia; si desta e si avviva la forza spirituale di
quella «stella purissima dell'arte della sapienza», in
vita certo e in morte, eco avventurata di ogni sublime armonia
dell'Anima.
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