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Augusto Agabiti Ipazia IntraText CT - Lettura del testo |
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Ipazia ebbe un grande numero di scolari, e molti furono illustri. Sinesio ricorda Esichio, Ercoliano e Olimpio che trova a Costantinopoli. Essi ebbero per Ipazia ammirazione e devoto amore. Assiduo alle sue lezioni e innamorato sì da offrirlese sposo, fu Oreste, prefetto dell'Egitto. Filostorgio afferma ch'ella fu superiore al padre, specialmente nel'astronomia; e Damascio la contrappone, per la geometria, al dotto scrittore Isidoro. Pallada, poeta, le dedicò un famoso epigramma che fu trascritto nell'Antologia. Sinesio, vescovo di Cirene, amato e venerato poeta e pastore, è il discepolo più affezionato d'Ipazia. Da Cirene imprendeva spesso il viaggio per Alessandria, al fine di riabbracciare lei e gli amici. Infatti presso uno di questi, di nome Ercoliano, si fa merito di avergli fatto conoscere in quella città «un miracolo ch'egli conosceva solo di fama — così scrive Sinesio — rendendolo spettatore e auditore di quella donna straordinaria che altrui apriva i misteri della vera filosofia». E altra volta (Epist. 10, confr. patrol. gr., vol. 66, col. 1347): «Sono rimasto solo, senza i figli miei e senza tutti gli amici maggiormente cari, e quel ch'è più, dimenticato dalla divina anima tua, che io speravo a me rimanesse più forte e degli assalti della fortuna e dei flutti del destino». Sinesio, fra l'altro, fu autore di un Trattato dei Sogni, composto in una notte e inviato a Ipazia perché lo leggesse e giudicasse. Il fatto è da notare, per l'importanza data in ogni tempo dai filosofi ai fenomeni misteriosi del sonno. In un'altra epistola di Sinesio a Ipazia, quando già i tempi erano foschi e calamitosi, leggiamo: «Infermo, dal letto ti scrivo questa lettera; possa riceverla stando bene, tu mia madre, sorella, maestra, benefattrice e degna di quanti titoli sono maggiormente onorevoli e pur sempre inferiori al tuo merito...». Ed ecco qualche frase toccante e famosa: «Se l'oblio avvolge i mortali, di là dall'Erebo — così scriveva altra volta, da Tolemaide assediata dai barbari — là pure io mi ricorderò ancora d'Ipazia; poiché io me ne ricordo qui, in mezzo alle miserie della mia patria, schiacciato dalla vista dei disgraziati che soccombono, e respirando il fetore dei cadaveri ammonticchiati, nell'attesa di partecipare alla loro sorte. (Poiché chi v'è ancora che possa sperare, se l'aria stessa ci è nemica e oscurata dagli uccelli rapaci che agognano alle carogne?). Pure a questa mia terra sono inchiodato. E come nol sarei, se son Libio e di qui sono i miei maggiori, onde veggo le inclite tombe? — Per te sola, credo, oblierei anche la patria e, appena potessi, la lascerei» (Ep. 124). L'insegnamento filosofico di Ipazia è andato perduto. «In quel tempo i filosofi che avevano grandi successi oratorii scrivevano poco. Edesio non volle che si raccogliessero le sue lezioni, Plutarco pure, e permise soltanto a Proclo di scrivere qualche frammento negli ultimi anni». Eppure ci rimangono i titoli di tre scritti di Ipazia, ossia: il Commentario a Diofanto, il Commentario al Canone astronomico e il Commentario alle sezioni coniche d'Apollonio Pergeo. Per formarci un chiaro concetto del sistema filosofico di Ipazia, non essendoci rimasto nessuno scritto suo, dobbiamo ricorrere allo studio dei ruderi delle opere di Senesio, suo prediletto allievo; appunto come si studiano gli Evangelisti per intendere Cristo, e si leggono Platone e Senofonte, per comprendere Socrate. Si giova talvolta lo storico del metodo usato spesso dal pittore greco di terrecotte. Con brevi e fitti tratti di color nero questi copriva la superficie del vaso tutt'attorno escludendo l'esiguo spazio che l'immagine, se dipinta, avrebbe occupato; sicché il rosso naturale della creta, rimasto senza segno né macchia finiva per segnarlo con vivacità inattesa. Lo scultore sempre suole impiegare questa tecnica che afferma negando. Perizia somma è in lui: vedere intera di contorno e d'espressione la più bella e vivente fra tutte le statue che il macigno, perfettamente l'una nell'altra compenetrata e inclusa, serbasi senza tradirle; e d'isolarla a colpi di scalpello, togliendole d'attorno le membra delle altre che, quasi per invidia, la stringono e la celano, di lei meno belle o deformi. Dionisio Petavio fu il traduttore italiano delle lettere del vescovo cristiano e filosofo neoplatonico Sinesio. Era questi deista, naturalmente; e la sua fede confessò con squisite espressioni, in un memorabile discorso detto in presenza dell'imperatore Arcadio, nell'intento di ottenere aiuti a Cirene minacciata di morte. Egli dice che gli uomini non hanno ancora potuto trovare un nome che esprima di Dio tutta l'essenza, ma che tentarono di significare per mezzo delle opere sue: Padre, Creatore, Principio, Causa, tutte maniere indirette e manchevoli di cercarlo nelle cose da lui provenienti. Quanto all'esistenza d'insegnamenti segreti, è facile averne testimonianza dallo stesso Sinesio: «Nelle ordinarie conversazioni non parlo mai se non di cose comuni e anche quando scrivo ai filosofi nulla di chiaro dico nelle lettere, per timore che cadano in altre mani». Nell'Epistola 142 è scritto: «Crisanto non aveva svelato a Esculapio i segreti filosofici, se non vent'anni dopo che aveva cominciato a istruirlo nelle lettere». Una volta però Sinesio aprì lo scrigno d'antiche gemme dinanzi a un compagno di ricerche chiamato Ercoliano, facendosi promettere che nessun altro avrebbe saputo qualcosa; e fu imprudenza, perché l'amico parlò alla sua volta, e Sinesio dovette rimproverarlo con una lettera nella quale insistette con molto calore nella necessità di saper tacere: scritto per noi molto importante. Da ciò risulta che Ipazia mantenne la massima fissata da Plotino. Il Matter, nella Storia dello Gnosticismo, sostiene che il legame fra Ipazia e Sinesio è il solo esempio di rapporti fra i neoplatonici e i gnostici (t. II, sect. III, c. 6) e che negli inni di Sinesio il neoplatonismo è associato alle credenze ortodosse insieme coi principi gnostici: nonostante le opposte asserzioni e confutazioni di altri scrittori. Tempi d'intransigenza, il segreto era diventato strettamente necessario. Già si faceva sentire lo spirito settario dei Bizantini i quali avevano mostrato di volere parteggiare per il Cristo dimenticandolo; sostenendolo cioè con la sofistica e col tumultuare: come solevano i causidici la mala causa, o gli azzurri e i rossi, al circo, per un destriero di Mauritania.
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