S. Caterina da Siena
Dialogo della divina provvidenza

NOTA

I

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I

È noto che Gregorio decimoprimo, dopo aver restituita da Avignone a Roma la sede pontificale nel 1377, avvenimento al quale santa Caterina aveva molto contribuito, mandò a Firenze la vergine senese per indurre a sottomissione i fiorentini, da piú che due anni ribelli alla Santa Sede. Questa missione, adempiuta da lei in mezzo a gravi tumulti della cittá e col pericolo della sua vita, si protrasse lungamente invano; fin tanto che, morto Gregorio e succedutogli Urbano sesto, questi si pacificò coi fiorentini.

Proclamata dunque la pace, sappiamo dal beato Raimondo[1], confessore della santa, che ella «tornò ai propri lari, ed attese con grandissima diligenza alla composizione di un certo libro, che, ispirata dal superno Spirito, dettò nel suo volgare. Imperocché aveva ella pregato i suoi scrittori, i quali solevano scrivere le lettere ch’ella mandava in diverse parti, che stessero attenti ed osservassero ogni cosa, quando, secondo la sua consuetudine, era rapita dai sensi corporei, ed allora ciò ch’ella dettava, diligentemente scrivessero...

«E cosí in breve tempo fu composto un certo libro, che contiene un dialogo tra un’anima, che fa quattro petizioni a Dio, e Dio, che risponde a lei, informandola di molte e utilissime veritá»[2]. [412]

Ma, poiché la pace avvenne sul finire del luglio 1378, Caterina non poté trovarsi a Siena prima di quel tempo[3]; ed, essendo stato quel suo libro condotto a termine nell’ottobre del medesimo anno, come rilevasi da alcuni codici, se ne dovrebbe concludere che fosse stato scritto in tre mesi.

Altri particolari circa il modo di comporlo abbiamo nelle Memorie di un notaio senese, ser Cristofano di Gano Guidini, discepolo di Caterina ed uno dei suoi segretari[4]. Ecco il suo ingenuo racconto.

Anco la detta serva di Cristo fece una notabile cosa, cioè uno libro, el quale è di volume d’uno messale; e questo fece tutto essendo ella in astrazione, perduti tutti e’ sentimenti, salvo che la lengua. Dio Padre parlava in liei, ed ella rispondeva e dimandava, ed ella medesima recitava le parole di Dio Padre dette a liei, e anco le sue medesime, che ella diceva e dimandava a lui; e tutte queste parole erano per volgare... Questo libro fu poi intitolato cosí: «Libro de la divina dottrina, data per la persona di Dio Padre parlando allo intelletto de la gloriosa e santa vergine Caterina da Siena, dell’abito de la penitenzia, dell’ordine de’ predicatori, e scritto essa dettando in volgare, essendo essa in ratto, e udendo attualmente, dinanzi da piú e piú, quello che in liei Dio parlava», ecc. Ella diceva e uno scriveva: quando ser Barduccio[5], quando el detto donno Stefano[6], e quando Neri di Landoccio[7]. Questo a udire pare che sia cosa da non crédare; ma a coloro, che lo scrissero e udîro, nollo pare cosí; e io so’ uno di quegli. Poi, perché el dicto libro era ed è per volgare, e chi sa gramatica o ha scienzia non legge tanto volontieri le cose che sono per volgare quanto fa quelle per léttara; per me medesimo, e anco per utilitá del prossimo, mossimi, e fecilo per léttara puramente secondo el testo, non agiognendovi cavelle; e ine m’ingegnai di farlo el meglio ch’io seppi, e pugnai parecchie anni a mio diletto, quando uno pezzo quando uno altro. Poiché co’ la grazia di Dio l’ebbi fatto, el mandai a Pontignano a donno Stefano di Currado, ché el correggesse, perciocché[413] la maggior parte n’aveva scritto egli, quando Caterina el fece. Poiché fu corretto, e io el feci riscrivare a uno buono scrittore; e, legato e compíto che fu, uno venerabile vescovo de le parti di Francia..., el quale ne le parti di d’Avignone aveva veduta la decta serva di Cristo Caterina e parlato con liei..., come l’ebbe veduto e tenuto alcuno , tanto li piaque che mai non gliel potei trarre di mano: pregommi e fecemi pregare che io gliel donasse, e cosí feci. Diceva che trovava cose in quello libro che n’era meglio dichiarato che da niuno dottore, e che noi nol conosciavamo; ma ch’el predicarebbe la dottrina del decto libro in suo paese, e che molto piú frutto n’arebbe el prossimo di , se ’l portava, che se rimanesse qua; e nientemeno noi n’avavamo lo exemplo. Udendo questo, anco piú volontieri gliel lassai... E pure, volendo averne uno dei detti libri per utilitá del prossimo, ne fo scrivare uno altro a colui medesimo che scrisse quello di prima, cioè a uno prete che ha nome ser Stefano di Giovanni d’Asciano, sta a Siena presso a San Vilio.

Che Stefano Maconi scrivesse parte di questo libro, dettante Caterina, lo dice egli stesso nel processo della canonizzazione, parlando delle estasi di lei:

Qualiter ita fieri possit, scribitur in libro, quem ipsa virgo sacra composuit; quem ego pro parte scripsi, dum ore virgineo dictabat illum mirabili modo[8].

E il Maconi lo tradusse anche in latino, come rilevasi da alcune parole scritte di sua mano dietro ad un codice, che appartenne giá alla certosa di Pavia[9] e che era stato dato a lui da fra Tommaso Caffarini[10], in cambio del quale il Maconi gli donò la sua versione latina:

Iste liber pertinet ad domum Sancte Marie de Gratia prope Papiam, ordinis carthusiensis, quem ego frater Stephanus monachus habui a venerabili patre frate Thoma Antonii de Senis, qui nunc est prior Sancti Dominici de Venetiis; loco cuius exhibui prefato fratri Thomae dialogum quem sancta mater Catharina composuit, licet in vulgari, sed ego latinizavi[11].

[414]

Lo voltò in latino anche il beato Raimondo, e vi accenna egli stesso nel prologo primo della sua Leggenda[12]:

Altissimo è certamente lo stile di questo libro, che a mala pena trovasi una maniera di parlar latino che possa corrispondere all’altezza di quello stile, com’io stesso ne faccio esperimento, ora che m’affatico a trasportarlo in quell’idioma.

Si ha conferma di questa sua versione nel codice latino CCLXXII del monastero di Subiaco, e nella stampa latina fatta in Brescia nel 1496 dal De Misintis, che dicesi essere appunto la versione del beato Raimondo.

Il titolo di questo libro non rimase sempre lo stesso; ma, come abbiam veduto dalle parole del Maconi, fin da quel tempo cominciava, a cagione della sua forma, ad esser chiamato Dialogo. In séguito poi il titolo variò in piú modi: Libro o Dialogo o Trattato della divina providenza; Libro della divina rivelazione; Rivelazioni; Libro o Dialogo della divina dottrina, ecc., ma piú spesso: Dialogo della divina providenza.

E crebbe tanto la fama di Caterina, e cosí grande era la reverenza alla sua alta mente e alle sue sublimi virtú, che del Libro furon fatte molte copie manoscritte.

Con l’introduzione della stampa in Italia cominciarono le edizioni del Libro prima ancora che cessasse l’uso di farne copie manoscritte, delle quali si trovano alcune di data posteriore a quella che è ritenuta edizione principe, 1472. Da quest’anno fino al 1496 il Libro fu ristampato altre sette volte; undici nel secolo XVI, e nove nei tre secoli successivi. Ma, pur avendo certezza che non vi sono altri incunaboli oltre quelli appresso notati, non si può essere egualmente sicuri che non sia sfuggita qualcuna delle edizioni posteriori, per quanta diligenza siasi posta nelle ricerche.

Veramente, e le copie manoscritte e anche piú le antiche stampe non riprodussero fedelmente il Libro; ma nelle une e nelle altre si riscontrano alterazioni di vocaboli e di modi di dire, anche a seconda degli usi dialettali del luogo e del tempo in cui furono scritte o stampate. Furon di quelli i quali, oltre alla continua intromissione di «onde», «adunque», «sicché», ecc. sostituirono[415] costantemente il verbo «congiungere» al verbo «unire» usato dalla santa; e dove ella chiama Dio «Veritá eterna», essi hanno qualche volta «Virtude eterna»: altri giunse perfino a fare del «glorioso Paolo mio banditore» il «glorioso Paolo mio trombetta»!

La piú nota edizione del Libro è quella pubblicata a cura di Girolamo Gigli; il quale dal 1707 in poi pubblicò in quattro volumi le opere della vergine senese. Nel primo è la Leggenda di santa Caterina del beato Raimondo da Capua nel volgarizzamento del canonico Bernardino Pecci; nel secondo e terzo le Lettere; nel quarto, oltre al Libro sono: il Trattato della consumata perfezione[13], ventisette orazioni della santa, la relazione di una dottrina spirituale di santa Caterina (scritta[14] da un frate inglese, Guglielmo Flete, degli eremitani di Sant’Agostino in Lecceto, discepolo di lei), e alcuni brani del discorso che la santa fece ai suoi discepoli pochi momenti prima di morire.

L’edizione del Gigli è importante specialmente per le copiose notizie ch’egli raccolse intorno a Caterina ed alle persone del suo tempo che ebbero relazione con lei; in guisa che tutti coloro i quali posteriormente ne scrissero, attinsero da lui. Inoltre questa edizione ha il pregio di essere stata fatta sopra uno dei migliori e piú antichi codici, che il Gigli suppone essere di mano di Stefano Maconi, perché in fine del Libro vi si leggono le parole: «Prega per lo tuo inutile fratello», le quali il Maconi soleva porre a piè delle lettere dettategli da Caterina.

E il Gigli non solo scelse con avvedutezza il testo della sua edizione, ma fece anche diligenti confronti con altri antichi mss., da non meritare la taccia, che gli è stata fatta recentemente[15], di non aver riprodotto quel codice. Egli adottò, è vero, alcune[416] varianti; ma, per la maggior parte, le tolse dal codice laurenziano gaddiano, e qualcuna di esse trova riscontro negli incunaboli. Ebbe soltanto il torto di non renderne conto, ma gli è di scusa l’usanza del suo tempo.

Un’omissione inesplicabile si riscontra però nella sua edizione. Il capitolo LXXXIII è mutilo piú che della metá, e l’LXXXIV manca, in principio, di un lungo brano, che non collegano tra di loro; e quindi fu messa al capitolo LXXXIV una rubrica diversa da quella che leggesi nei manoscritti.

Ma ciò che rende l’edizione del Gigli d’impossibile lettura, sono le troppe e mal disposte virgole, le quali fanno continuo intoppo, senza riuscire a distrigare i lunghi periodi; i quali appariscono anche piú interminabili a causa della soverchia distanza fra un capoverso e l’altro, per la quale a chi legge non si concede riposo.

Era dunque necessaria una nuova edizione, non solo perché quella del Gigli naturalmente non si trova se non nelle pubbliche biblioteche, ma anche per dare il Libro nella sua vera lezione e con punteggiatura che ne agevolasse la comprensione. A conseguire siffatto intento, esso non poteva venir meglio allogato che in questa collezione degli Scrittori d’Italia.

Questa nuova edizione, dunque, è stata fedelmente condotta sullo stesso codice di cui si serví Girolamo Gigli, e che trovasi nella Comunale di Siena con la segnatura T. II. 9. E con vera soddisfazione posso dire che l’autorevole parere del Gigli, che mi fu prima guida nella scelta, è stato confermato dalle osservazioni che ho fatte io stessa, confrontando questo ms. con altri. È vero che non ho potuto avere a mia disposizione tutti i codici del Libro; ma, avendone tenuti sott’occhio quattro laurenziani, tre riccardiani, due della Nazionale di Firenze e uno della biblioteca Landau, non che la versione latina del Maconi, ho potuto raccogliere elementi sufficienti per un retto giudizio. Ho notato, dunque, che questo codice T. II. 9, solo fra gli altri sopra nominati, serba intatte tutte le ingenuitá delle espressioni, certe incongruenze nei periodi, i pleonasmi e gli idiotismi delle voci e specialmente dei modi che sono propri del parlare dei popolani. Perché Caterina, com’è noto, era di nascita popolana, e, con tutto il suo straordinario ingegno, sapeva appena leggere e meno ancora scrivere; che le mirabili sue lettere, che il Tommaseo chiamò «monumento di sapienza» furono da lei dettate ai suoi[417] discepoli[16]. E questo libro, poi, fu dettato nelle sue estasi, da non poter dar luogo a pentimenti né a correzioni. Cosí, mentr’ella serba nei suoi lunghi periodi un nesso continuo di pensiero, nonostante le digressioni e gl’incisi che a volte s’incalzano e si succedono senza respiro; pure, finiti questi, quand’ella ritorna all’interrotto pensiero e lo vuol compire, la memoria, non aiutata dai «fedeli occhi» (perché ella dètta, non scrive) le fallisce, e allora per una parola o anche per una particella, raramente per una frase, che non colleghi con la sospesa proposizione, il costrutto rimane sconnesso. Ora, queste sconnessioni, queste piccole mende, che negli altri mss. si trovano per la maggior parte corrette, costituiscono per l’appunto il pregio del codice senese. Parrebbe quasi che la riverenza a Caterina abbia vietato all’amanuense di apportare al dettato di lei la menoma alterazione, anche quando per chiarezza e correttezza gli sarebbe potuto sembrar necessario. E questa può ritenersi una prova che il nostro codice sia stato scritto di mano dei suoi discepoli[17]. E dico «dei suoi discepoli», perché è evidente che la scrittura non è tutta di una sola mano, come risulta dalle osservazioni notate piú oltre nella descrizione del codice. Può darsi che la seconda parte, quella ove cápitano le parole scritte in fine del Libro: «Prega per lo tuo inutile fratello», sia appunto di mano del Maconi, anche perché, graficamente, è piú corretta.

Che poi questo codice sia piú antico degli altri, come afferma anche il Gigli (senza però darne le ragioni), credo possa dedursi dall’essere il solo (certamente il solo tra gli undici codici da me esaminati) che non ha avuto originariamente la partizione in trattati e in capitoli, la quale è stata fatta, in tempo posteriore, al[418] margine, con le rubriche in rosso, di scrittura diversa da quella del testo; né vi è la tavola dei capitoli, che trovasi, invece, in tutti gli altri.

Venendo ai criteri seguíti nel riprodurre questo ms., essi, per quanto concerne l’ortografia, sono conformi alle norme comuni a tutti i volumi degli Scrittori d’Italia. E affinché la scrupolosa fedeltá al testo non venga scambiata per errore, debbo avvertire che, essendo stata rispettata la doppia forma grafica di una medesima parola, si legge «dixi» e «dissi», «proximo» e «prossimo», «decto» e «detto», «dannati» e «dapnati» e «danpnati», «correggere» e «corregere», «veggo» e «vego», ecc. secondo che nel codice trovasi l’uno o l’altro modo. È anche da notare che dalla pagina 160 al principio della pagina 162 si riscontra una certa differenza di ortografia, avendo io trascritto quel brano dal codice laurenziano gaddiano, perché nel codice senese la carta 49, che lo contiene, non è piú la originale[18].

Quanto ai periodi sospesi che generano oscuritá o anche a quelli troppo sconnessi e a qualche evidente lacuna, sono stata autorizzata ad integrarli con le varianti di altri codici[19]. Ma a queste io son ricorsa piú raramente che ho potuto, cercando, invece, con diligente studio, di analizzare i periodi e distrigarli con opportune parentesi, le quali, separando gl’incisi, rendono men difficile il ricollegare le proposizioni da essi interrotte o sospese. E per qualche passo piú intricato mi è stata utile la versione latina del Maconi, il quale, soltanto col dare ai periodi una costruzione piú regolare, agevola l’interpetrazione del pensiero della santa; e perciò mi ha fatto piú volte ricusar come superflue le varianti di altri codici. Restano, è vero, alcuni punti un po’ oscuri: dei pensieri non compiutamente resi, ma che si completano con altri brani sparsi qua e nel libro. A questo ho cercato di rimediare in parte, raggruppando quelle sparse membra nell’indice delle cose notevoli, il quale, perciò, potrá non inutilmente consultarsi, quando s’incontri qualche oscuritá.

Prima di chiudere questa Nota, compio il gradito dovere di rendere pubbliche e vivissime grazie al ch. prof. Fortunato Donati, bibliotecario della Comunale di Siena, che, non contento,[419] nella sua grande benevolenza, di aver consentito che il cod. T. II. 9 fosse tenuto per lungo tempo a mia disposizione prima nella Nazionale di Firenze e poi nella Laurenziana, volle anche darmi degli altri tre codici del Libro che si conservano nella biblioteca di Siena una particolareggiata descrizione, la quale, un po’ abbreviata, vien riprodotta qui appresso.

Sono pure molto obbligata agli illustri bibliotecari Guido Biagi e Salomone Morpurgo non solo per la gentile ospitalitá concedutami, ma altresí per i loro suggerimenti e per le agevolezze che mi hanno procurate.

Ringrazio poi il ch. prof. Enrico Rostagno, conservatore dei manoscritti nella Laurenziana, che, con cortesia pari alla sua dottrina, mi è stato largo di ammaestramenti e consigli. E sono riconoscente al ch. dott. Curzio Mazzi, della Laurenziana, al cui sapere ed alla cui instancabile cortesia non sono mai ricorsa invano.

Anche debbo ringraziare don Leone Allodi, dotto abate del monastero di San Benedetto in Subiaco, per la descrizione dei tre codd. delle Revelationes ivi custoditi.

NOTE:

[1] Il beato Raimondo delle Vigne, da Capua, discendente da Pier delle Vigne, maestro generale dell’ordine dei predicatori, scrisse in latino la vita della santa. Essendo andata perduta quella che prima di lui aveva scritta fra Tommaso della Fonte, la Leggenda (cosí fu chiamata) del beato Raimondo è il piú autorevole documento antico intorno a Caterina da Siena.

[2] In Acta sanctorum, die XXX aprilis, pars III, capp. I e II.

[3] Nelle annotazioni ad alcune lettere inedite dei discepoli di Caterina, pubblicate, insieme con la Leggenda minore della santa, da Francesco Grottanelli, Bologna G. Romagnoli, 1868, si legge: «Solo nel 1378 pare che da Firenze (Caterina) si restituisse in patria nel mese di luglio, ma non è certo».

[4] Furon pubblicate nell’Arch. stor. ital., IV (1843), 29-48.

[5] Barduccio di Piero Canigiani, uno dei suoi discepoli.

[6] Stefano di Currado Maconi, uno dei piú insigni discepoli della santa, vestí, a consiglio di lei, l’abito di certosino, fu priore della certosa di Pavia e poi superiore generale dell’ordine.

[7] Ranieri, o Neri di Landoccio Pagliaresi, nobile senese, anch’egli segretario di Caterina, la quale gli affidò missioni per Gregorio XI, Urbano VI e per la regina Giovanna di Napoli.

[8] Citato dal Gigli nella prefazione al t. IV delle Opere di s. Caterina, p. II.

[9] Trovasi ora nella Braidense di Milano, AE. IX. 35.

[10] Fra Tommaso d’Antonio di Naccio, o Nacci, Caffarini da Siena, dell’ordine de’ predicatori, ebbe la parte maggiore nel processo della canonizzazione fatto a Venezia, e dopo il beato Raimondo da Capua è la fonte piú copiosa di notizie intorno a Caterina.

[11] C. Magenta, La certosa di Pavia (Torino, Bocca, 1897), p. 436. Il Magenta dice che il Libro fu tra i primi codici di quella biblioteca, la quale in séguito si arricchí di numerosi manoscritti.

[12] Prologus primus, 8.

[13] Si trova in un piccolo codice latino della Vaticana. Fu pubblicato in Venezia nel 1543 in un piccolo volume, che contiene altre pie operette, del quale la Casanatense possiede un esemplare. Fu stampato separatamente a Lovanio nel 1554, e ve n’è una copia nella biblioteca Barberina. Il Gigli l’ha dato nella versione italiana dell’ab. Piccolomini; ve ne sono però altre traduzioni italiane, ed anche una inglese stampata a Londra nel 1895.

[14] Fu scritta in latino l’anno 1376. Se ne conserva un antico ms. nella Comunale di Siena, con la segnatura T. II, 7 c. 29 v. e 30 v. Il Gigli la pubblicò in italiano.

[15] Ieanne Anziani, Pour le texte du Dialogue de sainte Cathérine de Sienne, nel Bulletin italien, luglio-settembre 1911.

[16] Come Caterina imparasse a leggere è raccontato dal beato Raimondo nella Leggenda (cap. XL, 7). Quanto allo scrivere lo accenna la santa da sé, scrivendo al beato Raimondo (lett. 272, ed. Tommaseo) che le fu insegnato in un’estasi. Ciò fu nell’ottobre del 1377, essendo alla ròcca di Tentennano presso la famiglia Salimbeni. Di suo pugno si dicono scritti: 1o) l’orazione «O spirito santo vieni nel mio cuore»; 2o) un biglietto (litterulam) a Stefano Maconi, che finiva cosí: «Sappi, o mio carissimo figliuolo, che questa è la prima lettera che io abbia scritta»; 3o) alcune carte del Libro; 4o) due lettere al beato Raimondo. Tutti questi autografi deploransi come smarriti.

[17] Forse non è superfluo avvertire che lo scritto originale, quello vergato dai discepoli mentre Caterina «ore virgineo dictabat», non esiste piú. Ciò però non togliediminuisce valore a questo codice, che anche il Grottanelli (op. cit., p. 198, nota 19) dice essere la «copia autentica».

[18] Si veda piú oltre, p. 422.

[19] Sono tutte notate in fine del vol.

[420]


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