Jolanda
Pagine mistiche

XVI. Il Dolore.

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XVI.
Il Dolore.

 

Vi è al mondo un sovrano possente più dei maggiori sovrani, austero e inesorabile, a cui tutti devono pagare un tributo crudele, al quale nessuno sfugge, per ricco e forte dominatore che sia, perchè, l'ho detto, egli è più possente dei più potenti: il Dolore.

Il dolore!

C'è chi lo conobbe poco e v'ha chi lo conobbe assai, ma non esiste creatura umana che non l'abbia avuto, sia pure fuggevolmente, ospite non gradito desiderato sotto il suo tetto. Alcuni si ribellano e tentano scacciarlo coi fantasmi d'una triste gioia fatta di stordimento, d'ebrietà, di follìa, non di rado di abbrutimento. Ma allora il Pallido Ospite fa sentire più grave e feroce il suo impero nelle inevitabili ore di solitudine e di stanchezza. C'è chi lo accoglie con le alte strida di sgomento e tramortisce e si come schiavo in sua balìa: e verso questi deboli il despota esercita tutta la sua malefica influenza, e grado grado li incanta di malinconia, li sfibra, li avvelena.

Vi sono altri, invece, che si fanno incontrò al visitatore temuto, gli aprono la porta e gli dicono: «Fratello Dolore, entra. Io non ti posso evitare scacciare perchè tu sei mandato da Colui che sa, verso noi che non sappiamo.... Cristo, ch'era Dio, t'ebbe compagno nel suo pellegrinaggio terrestre e c'insegnò ad accoglierti come Messo del Cielo, e ci disse che porti teco la luce e la purezza, e puoi dare un balsamo per ogni ferita che infliggi: il balsamo della fede».

Balsamo prodigioso, che, pur nelle ore della più terribile angoscia e delle lagrime più sconsolate, può far deviare il corso dei nostri pensieri come un'assunzione lenta verso una sfera tranquilla. E quel senso d'ingiustizia che ci fece insorgere in una rivolta involontaria si dirada, e ci lascia scorgere, al di della nostra umanità dolorante e dolorosa, qualche cosa che non è ancora la consolazione, che non è ancora, forse, la rassegnazione, ma che somiglia ad una rivelazione mistica superiore.... e sentiamo che solo il dolore ce la poteva dare.

«Bisogna persuadersileggevo in un libro consolatore – che la vita presente è la grande officina ove Dio purifica e santifica l'umanità. Pretendere che essa debba trascorrere scevra di mali, sarebbe pretendere che il guerriero riporti la palma del trionfo senza aver sostenuto il combattimento. Dunque, il dolore non è una vendetta di Dio, ma un mezzo di prova e di purificazione».

E poichè noi non esitiamo ad affrontare il dolore fisico quando sappiamo che è necessario per renderci la salute, non esitiamo ad inghiottire medicine amare, a sottoporci a privazioni ed a rinunzia quando il nostro bene lo richiede, così dobbiamo accogliere il dolore morale, nella fiducia che non soffriremo inutilmente. Il dolore non ci viene direttamente da Dio – esso è inerente alla umana natura – ma Dio creatore se ne valse come delle materie informi del caos, per fornire alle anime un elemento di luce, di riabilitazione, di ascesa verso la perfezione.

Esclamava S. Agostino: «Quale tremenda croce l'essere senza croce!», volendo con ciò significare che l'anima che ignora il dolore e la sofferenza non potrà mai sollevarsi dalle zone materiali, acquistare quella chiaroveggenza e quella superiorità che solo l'affinamento del dolore può dare. Se così non fosse, se le lagrime e le tribolazioni rimanessero tormento sterile o rappresentassero una punizione ingiusta di qualche colpa remota, Gesù, il grande Consolatore, non avrebbe detto: «Beati quelli che piangono, perché saranno consolati» non avrebbe ripetuto: «Il Signore riprende e affligge quelli che ama».

Questo fatale contrassegno di predilezione divina noi vedemmo sempre splendere sulla fronte dei grandi benefattori dell'umanità, siano essi pensatori che abbiano gettato con le loro opere vivi raggi di luce e feconde sementi di bene nei cuori: siano apostoli di fede, di civiltà, di carità pietosa, che, con una vita d'abnegazione alacre, soccorrono, salvano, redimono, sorreggono o difendono i miseri, i derelitti, gli oppressi. Tutti quelli che sanno efficacemente consolare, che operano il bene con sincero spirito di bontà e fervente amore, conobbero la sofferenza, furono affinati, purificati e qualchevolta trasformati dal dolore. Chi non ha pianto mai, non sa che cosa sia piangere: chi trascorre l'esistenza tra le frivole occupazioni d'una giornata d'egoistiche soddisfazioni materiali, e sopisce le contrarietà e i dispiaceri nelle ebbrezze, e allontana tutto ciò che potrebbe indurlo a tristi considerazioni, e scosta da il fratello che lagrima per non vederne il pallido viso che gli pare di cattivo augurio: tutta questa gente che il mondo volgare chiama saggia, non potrà mai conoscere un lato della vita, il lato più augusto, più alto, più importante: non proverà mai quel senso quasi d'orgoglio che ci fa avvertiti del possesso di qualchecosa che essi non possiedono e non possederanno mai è che cinge il petto come una forte armatura e la fronte come una corona d'alloro. Pare, dunque, che il dolore sia necessario all'anima per vivere completamente, idealmente: per dominare, per spaziare. Esso è come una molla segreta al cui scatto lo spirito s'accende di luce divina e molte volte imperitura.

Alcuni magni ingegni non avevano la fede e occorse quello scatto perchè avvivasse la loro anima come un risveglio. Chateaubriand scriveva: «J' ai pleuré, j' ai cru». Ho pianto, ho creduto. Altri che sperperavano deplorevolmente le loro migliori energie seguendo i più bassi istinti della loro natura, ebbero bisogno di quella scossa per accorgersi dell'errore e mutar vita. Così il dolore della morte della madre fece di Agostino da un dissoluto un santo. Altri ancora che sentivano fervere in come in un chiuso carcere muto le scintille infeconde della creazione intellettuale, rassegnati ormai ad una triste impotenza, alla percossa dolorosa della sventura, videro quelle scintille divampare in un grande incendio che fu liberazione, che fece d'un dolore mortale opera d'arte immortale. Il giovine Dante vede il mondo oscurarsi per la dipartita della sua donna, ma oltre il sogno, oltre il mondo, oltre la vita, gli tremola la visione sovrumana che coronerà entrambi, uniti per sempre nell'ideale, d'un lauro secolare. Alcuni nella prospera fortuna erano pigri, sonnolenti, unicamente solleciti del proprio bene, e nell'avversità si trasformarono come da bruco in farfalla. Rude scuola è quella del dolore; eppure vediamo tutti coloro che vi furono educati dai primi anni, crescere ritemprati, adorni di maschie e severe virtù; averne affinato il sentimento, acuito l'intelletto, mostrarsi pronti, efficaci di ogni contingenza difficile, apparire di gran lunga superiori ai loro simili, essere di profondo e sicuro conforto ai loro cari. Ripetiamo con lo Smiles: «Il dolore, senza dubbio, ci è assegnato per divina disposizione, al pari della gioia, ed è un educatore molto più efficace. Esso purifica e rende più mite l'indole umana: insegna ad aver pazienza; e suscita così i più profondi come i più alti pensieri. Esso fa scorgere delle verità che l'abbagliante splendore della prosperità aveva dissipato nella nostra mente».

Accanto al dolore, in tutte le sue forme, da quella più acuta dello strazio desolato alla più mite della malinconia inalterata, la Preghiera, mistica sorella, guida sulle sue orme d'argento attraverso agli spazi stellanti l'anima per le vie dell'infinito. Per ogni dolore la preghiera ha un rifugio, una voce di conforto, una promessa di pace: da quello acerbo, che stordisce e pare attirare anche i superstiti al limite dell'eternità, della morte, per cui ha pie voci di speranza, di suffragio, di luce, al dolore acre, iroso, del tradimento che blandisce additando l'esempio di Colui che seppe il tradimento più abietto e perdonò sulla Croce ai suoi offensori: dal dolore desolato dell'abbandono, della solitudine, dell'ingiustizia umana, che la preghiera conforta con parole di amore divino e di protezione Celeste, al dolore amaro e profondo della colpa che ha orrore di stessa e che la preghiera lenisce, con la promessa della redenzione salvatrice: dal dolore segreto e cocente delle aspirazioni vane, dei sogni brutalmente lacerati, delle più preziose idealità infrante, che la preghiera acquieta insegnando a porre più alto il segno ai nostri desideri e ad attenderne l'adempimento oltre la vita, ai dolori esaurienti delle afflizioni giornaliere, delle piccole amarezze ripetute, delle ansie, delle lotte, delle dure necessità, dei sacrifizi quotidiani che la preghiera conforta e alimenta d'arcane energie, richiamandoci al pensiero la caducità della vita, l'esempio d'abnegazione del Martire Divino e afforzando la fede nei destini dell'anima immortale.

Gesù c'insegnò come si deve pregare quando lo spirito è angosciato sino alla morte, quando la nostra natura tenta sottrarsi e ribellarsi all'impero del dolore. Nell'orto degli ulivi tutto il peso della sua missione d'espiazione grava su di lui: «Padre – egli prega – fa che si allontani da me questo calice amaro, ma se Tu non vuoi, sia fatta la Tua, non la mia volontà».

La parola dell'obbedienza assoluta che Gesù, insegnò agli uomini nella più sublime preghiera, la parola più difficile a proferirsi dal labbro umano, Egli c'insegnò come e quando si dica, e la nostra fede di cristiani ci obbliga a ripeterla dopo di lui: «Sia fatta, o Signore, la Tua, non la mia volontà». Ecco il grado più alto a cui la fede e la preghiera trasportano l'anima, ecco l'olocausto più prezioso.

Ed è in questo atto d'annientamento assoluto che l'anima acquista pupille più veggenti, capaci di vedere e comprendere oltre la vita. Ed è in questo abbandono incondizionato della creatura al suo Creatore che l'anima rigermoglia di nuove forze vittoriose.

Scenda il pianto e purifichi e ci faccia ancora più degni. E come gli angeli a guardia del sacro monte cancellavano dalla fronte dimessa del Poeta, mano mano ch'egli saliva, i segni della colpa, così l'Angelo del Dolore cancelli, ad ogni nuova prova, dalla nostra fronte umiliata, con le sue ali invisibili, le traccie d'una impurità, d'una debolezza, d'un errore, proclamando beati quelli che piangono...

«Quì lugent affermando esser beati.

Dante Purg. XIX.


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