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XVII. Preghiera.
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XVII.
Preghiera.
Il bisogno d'elevare l'anima a Dio è innato nello spirito umano. Fra le prime domande che i discepoli di Cristo rivolsero al loro nuovo Maestro vi fu quella d'illuminare le loro menti intorno alla preghiera. Quelli uomini ignoranti e rozzi, avvezzi alla retorica parolaia dei greci e alla solennità romana, immaginavano forse che il misterioso biondo Filosofo, subitamente apparso in mezzo a loro, li ammaestrasse in qualche rito strano e complicato per cui fossero necessarie parole d'arduo sapere, difficili a ritenere e a ripetere, quasi impossibili a essere comprese. E trepidavano attendendo la risposta del Profeta. Ma Gesù, rivolgendo su di essi le dolci luminose pupille azzurrine, disse loro familiarmente così:
«Allorchè pregate, non fate come gli ipocriti i quali amano di star a pregare nelle sinagoghe e agli angoli delle piazze, per essere osservati dagli uomini.... Tu, quando preghi, entra nella tua camera e, chiuso l'uscio, prega il tuo Padre ch'è in segreto, e il Padre tuo che vede, in segreto, te ne renderà la ricompensa. Pregando, poi, non usate tante parole come i Gentili, perchè si pensano d'essere esauditi mediante il molto parlare.
«E non fate come loro, perchè il vostro Padre sa, prima che glielo domandiate, di quali cose abbisognate. Voi, dunque, pregate così: Padre nostro, che sei nei cieli....»
La religione cristiana, se giustamente interpretata, è la più semplice essendo la più grande. È la religione dell'anima, della fiducia, dell'amore. Tutto quanto è pompa, esteriorità, dimostrazione, spiace, ripugna a Gesù. Egli preferisce il raccoglimento delle domestiche pareti alla preghiera in pubblico, perchè la prima è spontanea, nata da un desiderio spirituale, e la seconda può essere soltanto un'apparenza per trarre in inganno, una ipocrisia. Nè ama le preghiere lunghe, concettose, retoriche, in cui l'orgoglio umano – l'eterno nemico – trova modo d'insinuarsi. La preghiera, secondo Gesù, deve essere un puro atto d'abbandono e d'umiltà, compiuto con fervore.
«Padre nostro» invocazione soave! Al più eccelso di tutti i sovrani, al più possente, al più temibile: all'Ente la cui definizione esorbita dall'umana facoltà che rinunzia a comprendere, e tace e s'arresta sbigottita ai limiti del mistero: al Principio e all'Autore d'ogni cosa, che vive nell'Infinito, così diverso da noi come il mare da un granello d'arena, noi possiamo dire familiarmente, teneramente «Padre!» E la nostra confidenza chiede, implora la sua bontà clemente, la sua protezione, la sua misericordia. Padre! Con questa parola tutto è detto, tutto è sperato, tutto è chiesto. Ma non per un individuo solo, non per colui che prega. Gesù non volle che si invocasse egoisticamente Dio; non c'insegnò a dire Padre mio, ma Padre nostro, di tutti gli uomini, perchè tutti gli uomini devono, secondo la sua legge, considerarsi fratelli, soggetti agli stessi dolori, bisognosi della stessa consolazione. E questa consolazione è mistica e sublime, giacche viene a noi non da un potere terreno, condannato ad uguali miserie delle nostre, la cui potenza riparatrice e salvatrice ha dei limiti ma da un Padre che vive nei Cieli, nello spazio, fuor del tempo e della vita, a cui tutto è possibile, anche il prodigio. Sia, dunque, intero il nostro ardore nell'implorazione preliminare: «O padre nostro che sei nei cieli! Sia santificato il tuo nome».
Dopo l'implorazione, la esaltazione. All'Autore dell'universo coi suoi milioni di mondi, abitati da milioni di vite, all'arbitro dei destini intorno a cui gli Angeli stessi si prosternano adoranti, sia gloria! Prima d'esporre a Dio i nostri bisogni, affermiamo la nostra fede in un inno d'osanna che celebri la potenza e la bontà sua. Sia santificato il tuo nome! Possano, cioè, tutti gli uomini riconoscerti e lodarti in eterno, nelle opere tue, nei tuoi miracoli giornalieri, nella tua voce che parla alle coscienze, o Signore....
«Venga il tuo regno....»
Che cos'è la vita nostra se non un continuo e inquieto desiderare? Un'aspirazione verso una pace, verso una gioia, verso una sazietà che continuamente ci sfuggono? Dio è l'ideale, poichè è il riassunto di tutte le perfezioni, di tutta la bellezza, di tutta la bontà. Chiamando il suo regno, la sua sovranità nei nostri cuori, noi facciamo appello a quella pace che Dio solo può dare, e che concede talvolta anche fra i più duri travagli. La sovranità mistica di Dio sull'anima umana segna, talora, al suo inizio, un totale mutamento: è un debole che si trasforma in forte; è un derelitto che diviene privilegiato; è un cieco morale che riacquista ad un tratto la nozione del dovere e della nobiltà del proprio spirito immortale; è un crudele che diventa pietoso; è un dissoluto che diviene santo.
Oh non cessiamo mai dal chiedere, dal desiderare per noi il regno di Dio! Solo allora, quando un suo raggio, illuminando tutto il nostro mondo interiore, ci avvertirà ch'Egli ha preso possesso di noi, solo allora ci sentiremo paghi e sicuri, e nulla ci turberà più.
«Sia fatta la tua volontà....
Ecco la parte più difficile della dolce preghiera dettata da Gesù; quella che ci costa le lagrime più amare, che non si può, talvolta, formulare senza sentirsi affranti da una lotta formidabile sostenuta contro il nostro istinto, il nostro sentimento, la nostra vita che si ribella. Noi non sappiamo, non possiamo penetrare con la nostra mente mortale negli imperscrutabili decreti di Dio; e opponiamo la nostra volontà alla volontà superiore, come il bimbo si rifiuta alla sottomissione che gli costa e di cui ignora il motivo salutare. La madre che si vede morire il figliuolo sul fiore degli anni, la giovinetta, che resta priva del prezioso ausilio materno, la sposa tradita, la balda vita virile che si trova ad un tratto per malattia o per un caso tragico resa inerte e presso a spegnersi: tutta, infine, l'umanità che soffre mille dolori, che geme sotto il peso di raffinate torture materiali o morali, che aspira a un'ora di sole, spesso senza che le sia mai concessa: come potrà imporre silenzio ai propri nervi, al proprio sangue, prostrarsi e dire: Sia fatta la volontà tua?...
Eppure l'olocausto supremo, l'annientamento dell'anima nel suo creatore è forse l'unico possibile sollievo, la sola via di salvezza dalla disperazione. Oh, Signore, fa che, come bene scrisse un grande spirito credente, il Manzoni, il nostro capo sia sempre pronto a curvarsi sotto la tua mano: fa che, nelle contrarietà come nel dolore, possiamo dire, piangenti, ma non ribelli: Fiat voluntas tua. E come gli angeli t'obbediscono in cielo, t'obbediamo noi in terra.
«Dacci oggi il nostro pane quotidiano....»
Tutto ci viene da Dio e noi dobbiamo riconoscerlo ad ogni istante. Egli permette al seme di germogliare, alla spiga di maturare: anche quelle che a noi sembrano leggi naturali sono un miracolo continuo. Chiediamo, dunque, al Padre nostro alimento, ma chiediamolo per tutti i nostri fratelli come per noi. E se noi abbiamo assicurato il pane d'ogni giorno, pensiamo ai tanti, ai troppi, che lo ottengono a fatica, e, dopo averli aiutati, preghiamo anche per loro. Ma, insieme al pane materiale, chiediamo a Dio il pane spirituale, il mistico nutrimento pure tanto necessario all'anima nostra: una fede, una speranza, un ideale, una luce, una missione di bontà, di bellezza, di amore: qualche cosa che ci dia le ali per sollevarci dal fango terrestre, per risvegliare le migliori facoltà che Dio stesso mise nel nostro cuore.
«Rimettici i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori....»
Il compatimento, l'indulgenza, il perdono delle offese, è uno dei fondamenti della religione di Cristo; e questa virtù di mansuetudine e di carità fraterna fu tanto cara a Gesù, e la stimò così necessaria, che la pose quasi come patto per ricevere alla nostra volta il perdono di Dio. «Perdona e sarai perdonato; cancella i motivi di risentimento, di rancore, d'odio che nutri verso il tuo simile, cancella, dimentica, e Dio sarà teco indulgente e benigno e ti userà misericordia.»
È duro, è malagevole il perdono delle offese. È penoso, è arduo tendere la mano, aprire le braccia, alla creatura che ci danneggiò in quanto avevamo di più prezioso e sacro, che ci tradì, che fu la causa d'una catena di dolori e di tristezze le cui conseguenze pesarono o peseranno su tutta la nostra vita. Ma Gesù morente sul patibolo d'infamia perdonava angelicamente ai suoi carnefici e implorava da Dio misericordia per essi. Come, dunque, se vogliamo essere veri seguaci di Cristo, non seguire l'esempio di lui? La religione cristiana fu la prima a proibire la vendetta, a comandare la pace e la dimenticanza dei danni ricevuti, a consigliare di rendere bene per male.
E, poichè noi vogliamo essere cristiani non solo per tradizione, ma per sentimento, a imitazione della nostra Guida divina perdoneremo.
«Non c'indurre in tentazione, ma liberaci dal male....»
Gesù sollevava la fragile natura umana sino a farla trascendere dai limiti e renderla tutta subordinata allo spirito. Ma non ignorava quanto quelle battaglie fossero crudeli e quante volte la parte bruta sopraffaceva la parte nobile e la soffocava. Perciò suggerì all'uomo debole, all'uomo che è nulla senza l'aiuto superiore, di chiedere che gli venga risparmiata per quanto è possibile la prova crudele. Pietà – Egli intese dire – pietà, o Signore, della fragilità umana. Non permettere alle illusioni della vita di spiegare tutti i loro veli rilucenti dinanzi agli occhi nostri, così facili ad essere abbagliati; non permettere alle sirene di cantare troppo dolci canti intorno al nostro cuore. La via aspra non ci sgomenta, purchè la vediamo nella sua verità nuda, bensì ci sgomentano gli agguati che ci nascondono l'abisso. Non c'indurre in tentazione: non turbare la pace che forse acquistammo a prezzo di tutta la nostra parte di gioia: e liberaci, liberaci dal male....
Il Male! L'antico, l'eterno nemico. L'oscuratore delle coscienze: il pensiero folle che fa violenti contro noi stessi; il pensiero egoistico che suggerisce di carpire per noi il bene altrui; il pensiero di viltà che ci rende così insofferenti del sacrificio, del dolore, da scendere alle più basse transazioni con gli impulsi peggiori. Il male, cioè ogni dolcezza malsana, ogni battaglia perduta, ogni grado sceso nella scala della perfezione; dal primo, che è solamente una debolezza, all'ultimo che è un delitto.... Oh liberaci, Signore; liberaci dalle tenebre dell'anima, liberaci dal male!
Con questa domanda supplice si chiude la più bella preghiera della più alta fra le religioni: la preghiera che ancora dopo secoli racchiude nella sua inalterata freschezza tutte le necessità del corpo e dello spirito: la preghiera composta da un Uomo-Dio e lasciata all'umanità come un'eredità celeste, come il raggio d'una luce ultra terrena.
II.
Quando l'uomo ebbe la rivelazione della Divinità, sentì nascere in sè il desiderio, il bisogno della preghiera. La preghiera è insieme l'atto d'omaggio all'Ente supremo e l'esposizione delle miserie, delle necessità, delle debolezze nostre a Chi è in possesso di tutti i rimedi, di tutti i conforti: a chi è arbitro di vita o di morte sulle esistenze e sui cuori.
Diversa, secondo i tempi, le religioni, la civiltà, fu la preghiera, ma dalla sua forma rudimentale e primitiva che fu quella dell'olocausto, alla sua forma più evoluta che è quella del canto sacro, espresse sempre la stessa cosa, l'omaggio e la supplica; fu sempre la mistica via di luce per cui l'anima può congiungersi, al suo creatore. Le prime frasi che la mamma insegna a balbettare al suo piccino uscito appena dalle fasce sono un'invocazione pia; il primo atto, esprimente la formazione d'una vita spirituale è il poetico segno della croce nel quale il Cristiano, commemorando il martirio dell'Uomo-Dio, si tocca la fronte e il cuore. E le ultime parole che escono dalle labbra di chi s'accinge all'estremo viaggio, sono pure un'invocazione alla misericordia divina; l'atto supremo è un pio bacio di rassegnazione e di adorazione. E fra la prima e l'ultima preghiera, fra il primo e l'ultimo atto della nostra vita religiosa, quante, e come diverso di gradazione, di disposizione, di fervore, sono queste elevazioni spirituali verso la divinità! Ma felice l'uomo e la donna che, sebbene con diverso cuore, con diversa fede anche, non cessarono mai di pregare, non interruppero mai la mistica consuetudine, non spensero mai la fiamma votiva sull'altare della loro anima segreta! Essi non caddero mai in preda alla disperazione per quanto fieri poterono essere i colpi che li percossero, non rimasero mai senza forze per crudeli che potessero succedersi i tormenti, non si sentirono mai soli per quanto gli uomini loro simili li avessero abbandonati. Come Dio riforniva miracolosamente di nuove energie di resistenza i primi cristiani, che sostenevano il martirio per non venir meno alla lor fede, così alimenta in modo arcano le fibre e l'anima di quelli che mai cessarono di ricorrere a Lui.
Del resto, come può avvenire il silenzio fra l'anima e Dio? In ogni fase della vita, in ogni circostanza, in ogni periodo di gioia o di dolore abbiamo bisogno di ricorrere al nostro Padre che sta nei cieli. Il bimbo e la bimba per chiedergli di rinsaldare le loro membra ancora fragili, di piegare alla scabrosa obbedienza la volontà già ribelle, di aprire senza difficoltà la mente allo studio e il cuore ai germogli del bene, perchè la protezione e la guida dei genitori non abbia a venir loro meno mentre più ne abbisognano. Il giovine e la fanciulla – sebbene si trovino nell'età in cui la vita appare più facile e lieta, in cui sembra che le esuberanti forze spirituali e materiali possano sopperire a tutto, e il fosco fratello Dolore e la silenziosa sorella Morte appaiono relegati a lontani confini, – dovranno anch'essi inclinare in qualche pio raccoglimento il sorridente volto e pregare. Non vi è età, purtroppo, nè ricchezza di speranze e di sogni che possano preservare dal dolore e dalla morte, i quali sembrano anzi molte volte preferire le floride mèssi intatte a quelle già solcate dagli uragani.
E tutti i giovani, tutte le fanciulle conoscono certi abbattimenti improvvisi, certe malinconie profonde, certe stanchezze penose, certe delusioni gelide che colpiscono l'anima in piena fioritura come una brina traditrice sui verzieri in fiore di aprile. Che cosa può dissipare queste brume spirituali che vengono da una imperfetta conoscenza della propria psiche, dalla molestia dei ceppi in cui è tuttora avvinta la propria individualità che anela di liberarsi, di affermarsi, di misurare la potenza che possiede in qualche nobile impresa d'utilità e di bellezza? Chi, se non Colui che foggia quest'anima con la luce e la fiamma delle eterne sorgenti?
In altre età, in altre circostanze, la preghiera può essere più tenera o più appassionata, ma non mai come nella giovinezza, che si schiude, può essere ricca di slancio, di fervore, di implorazione mistica e pia. La creatura, l'anima, è alle porte del misterioso avvenire che può racchiudere per lei tutto il bene o tutto il male; è alle soglie del più terribile ignoto, giacchè è quello che deciderà del suo intero destino. Qualunque risoluzione prenda, qualunque abitudine abbracci, a qualunque tendenza s'abbandoni, l'importanza del suo pensiero e de' suoi atti è eccezionale. A quell'età si chiedono cento consigli e poi si finisce a seguire semplicemente l'istinto, cioè il più pericoloso di tutti i consiglieri. Ebbene, la preghiera deve essere la naturale, l'alta ausiliatrice. Come gli antichi Cavalieri Crociati s'inginocchiavano nelle cattedrali prima di partire per le terre lontane incontro al pericolo e all'ignoto, così i giovani e le fanciulle, nella purezza del loro cuore ancora avido di bontà e di luce, dovranno chiedere a Dio nelle spontanee preghiere di dirigere i loro passi, di rivestire di fortezza i loro petti, di far loro accettare serenamente il loro destino, sia nell'ombra o nel sole, sia quello di divenire centro d'una nuova famiglia o quello di ardere nella solitudine come un faro benefico per quelli che sono smarriti fra la tempesta.
La maternità conosce forse le più intense preghiere, i più umili atti d'abbandono e di fede. Nessuna preghiera può uguagliare quella d'una madre che abbia il proprio figliuolo in pericolo, per disperato ardore; e nessuna preghiera più disinteressata, meno umana, di quella che la madre innalza a Dio per la felicità del suo diletto, offrendo senza esitare in olocausto la propria felicità e perfino, talvolta, il sentimento materno.
Se le preghiere evaporassero visibilmente dalla terra al cielo, l'azzurro dell'etere sarebbe velato sempre d'una leggera nebbia d'argento, proveniente dai palazzi come dalle capanne, dagli oratori dei sovrani come dalle chiese aperte al popolo, dalle cattedrali sontuose come dalle pievi dei villaggi, dalle dolorose corsie degli ospedali come dalle tristi celle del carcere; dai conventi nelle remote solitudini montane, come sui ponti della navi in pieno oceano; dalle plaghe inospiti dove i missionari esercitano il loro ministero eletto di civiltà e di morale, alle ariose aule dove le collegiali inghirlandano la statua di Maria. Più o meno viva, più o meno copiosa, più o meno degna, la preghiera si innalza, ma noi, che la giudichiamo, spesso con limitato criterio, quando si parte, ignoriamo in quale misura e secondo quali imperscrutabili decreti venga accolta.
Forse l'età che mette più dolcezza e pace nella preghiera è la maturità; e quella per cui le preci s'avvolgono di un misticismo assoluto è la vecchiaia dai capelli bianchi. Allontanata dal vortice delle passioni che travolge più o meno palesemente, nei verdi anni, la vita, l'anima si tranquillizza, si raccoglie nel porto d'una serena quiete, e, rivolgendosi verso il passato, guarda con compiacenza il bene che le fu possibile compiere, le vittorie che riuscì a conseguire, il progresso d'elevazione raggiunto. E la sua preghiera è un atto di grazie che vola con bianche ali di colomba fino alle plaghe dell'infinito: è una pia supplica per coloro che si trovano tuttavia nel pelago amaro; è domanda di luce e di fede per appianare ad altri il cammino.
E nella vecchiaia, nel crepuscolo della vita, la preghiera grado grado diventa la preparazione spirituale alla misteriosa metamorfosi dalla vita materiale a un'esistenza ideale: la magica parola che schiude le mistiche porte dell'eternità: l'invocazione che scioglie uno per uno i ceppi e libera lo spirito nella luce donde venne e si compose per la breve carriera terrestre.
Generalmente si considera la preghiera come un atto materiale, nonostante l'elemento divino e superiore ch'è in essa, perchè siamo usi a servirci di date formule, e spesso per pigrizia o per insipienza affidiamo alle paginette piene di retorica e di luoghi comuni dei soliti libri di preghiere, l'interpretazione dei sentimenti più caldi e più intimi del nostro cuore che ne resta inappagato e freddo. E la diversità fra la preghiera quale si recita generalmente e quale dovrebbe essere, la riscontriamo nelle ore speciali, solenni, uniche della vita, quando una gioia immensa, uno straziante dolore, una trepidazione indicibile, una attesa logoratrice, ci fa salire alle labbra dal profondo del nostro essere la preghiera senza parole: la preghiera contesta di lagrime, d'invocazioni brevi, di suppliche contenute nell'augusto Nome di Dio; di palpiti folli, di pensieri muti e ardenti simili a fiamme. E come il profumato vapore dell'incenso, questa preghiera libera sale carica dell'aroma più intenso dell'anima. Memorie sante degli anni puri, pentimenti salutari, solenni promesse, rinunzie supreme, aspirazioni disperate, rendono più intensa e rapida e profonda la comunione dello spirito e del suo Creatore. Oh! se potessimo sempre pregare così, non riguarderemmo più il dovere della preghiera come un obbligo materiale: non subiremmo più distrazioni, più freddezze; non potremmo più cadere nello sconforto derivante dall'apparente inutilità delle preghiere: giacchè se anche non potessimo ottenere quello che chiediamo, la fede della supplica ci porterebbe sempre l'aiuto Divino.
Per pregar bene ed efficacemente conviene che ognuno foggi da sè la propria preghiera, secondo l'età, lo stato, le circostanze in cui si trova. E non importa che la forma sia elegante, sia ricercata e magniloquente. Anzi dovremo curare la semplicità assoluta, come Cristo volle che fosse, e ce ne lasciò un esempio con la sublime preghiera da Lui insegnata. Poi nel pregare, nel chiedere, si abbia sempre l'intenzione di sottoporre la nostra volontà umana e cieca alla volontà Divina veggente e sapiente. Molti credono che pregare equivalga ad ottenere, e non pregano se non per avere quello che desiderano, precisamente come si rivolgerebbe una supplica a un potente. Invece la preghiera deve essere soprattutto fusione dell'anima con la Divinità, abbandono fidente e completo alla Provvidenza, richiesta di forza e di luce per pensare e per agire come la somma Sapienza prestabiliva. E mentre le «grazie» non vengono sempre accordate perchè il più delle volte si riferiscono alla nostra vita materiale; la forza e la luce, che riguardano la nostra vita spirituale, si ottengono sempre, ed anche, talvolta, unite a misteriosi avvertimenti superiori.
Spiritualizziamo la preghiera! Rimettiamola nella sua degna sfera d'elevazione e d'idealità da cui l'abbassarono l'ignoranza e la presunzione umana.
Togliamo da essa i ristretti confini e ogni carattere troppo personale ed esclusivista. Sentiamoci, come i cristiani delle catacombe, tutti fratelli nel Signore e preghiamo non solo per i nostri parenti e per le persone a noi care, ma preghiamo per tutti, per quelli che ci fecero del male come per i benefattori; per i malvagi, per i corrotti, come per gli onesti.
Sia la nostra preghiera la mistica catena che ricerca le anime, e tutte le riunisce in un'invincibile speranza alle soglie dell'infinito, dove nella sua misericordia vigila Dio.