Jolanda
Pagine mistiche

XX. Pentimento e Perdono.

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XX.
Pentimento e Perdono.

 

Vi è un atto nella religione cristiana, o, per meglio dire, un Sacramento, che alla maggioranza appare duro e malagevole a compiersi, che non si compie, anzi, senza piccolo o grande sforzo: scoglio per taluni insormontabile a segno che preferiscono mancare a un dovere piuttosto che affrontarlo: motivo a moltissimi di derisione e di disgusto. Intendo parlare dell'atto e del sacramento della penitenza.

Moltissimi sono i grossolani errori, i pregiudizi, le calunnie e le esagerazioni che i profani e gli incompetenti adunano intorno a quest'obbligo della fede e che le persone leggere e superficiali raccolgono senza discutere, senza darsi la briga, almeno, prima d'acconsentire, di riflettere sulle origini, il significato e gli effetti di questo atto dell'umiltà massima, del fecondo dolore.

L'accusa più comune e più sinteticamente formulata è la seguente: «La confessione fu inventata dai preti per sapere i fatti nostri: Dio non c'entra....»

Vediamo un po' se è vero. Apriamo il Vangelo.

«Giunta poi la sera di quel giorno, primo del sabato, ed essendo chiuse le porte, dove stavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù e stette in mezzo a loro dicendo:

«Pace a voi.»

E ciò dicendo, mostrò ad essi le mani ed il costato. E gioirono i discepoli, vedendo il Signore. Disse loro di nuovo Gesù:

«Pace a voi. Come il Padre mandò me, così io mando voi.» E, detto questo, alitò verso di loro e disse:

«Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi: a chi li riterrete, saranno ritenuti

In queste semplici parole di Cristo è il germe divino del Sacramento della penitenza. E una luce mistica avvolse la sua istituzione. Prima, il Redentore trasumanò quelle rozze menti col miracolo, col sacro privilegio della sua apparizione in mezzo ad essi: poscia le accese col raggio emanato direttamente da Dio; indi trasfuse in esse il suo soffio di purezza ineguagliabile, d'indulgenza senza confine, di pietà senza pari. Fatto questo, pronunziò le fatidiche parole, le parole della consacrazione altissima con cui investiva i suoi discepoli di quello stesso potere che il Padre a Lui aveva dato. Gesù li creava ministri di giustizia e di perdono, apportatori di pace e di conforti e sovrumani, come per breve tempo Egli lo era stato fra gli uomini. E con questo ultimo atto postumo del suo apostolato sublime, il Maestro elargì la suprema prova di misericordia e d'amore verso l'anima umana, additandole ancora una via di riabilitazione e di salvezza, interpretando uno dei suoi bisogni più spontanei e profondi, quello del pentimento e del perdono. Nel suo rapido passaggio terrestre, Gesù aveva incontrato molte volte la malvagità, la colpa, l'errore: ed ogni volta la sua mano immacolata si stendeva pacificando, assolvendo, gli atti d'umiltà e di pentimento sincero. Egli aveva raccolto la vergogna salutare della sposa spergiura, le lagrime di rammarico cocente della cortigiana ai suoi piedi, la supplica del malfattore dal patibolo d'infamia, a lui vicino: Egli sapeva, dunque, qual materia preziosa e indispensabile fosse per l'anima il mistico lavacro delle lagrime di pentimento nell'atto d'umiliazione e di riparazione: e qual valida ala per risalire alle sue divine origini era la parola misericordiosa che ammonisce e perdona. «Va, non peccar più» Cristo aveva detto semplicemente all'adultera. «Poichè molto hai amato, molto ti sarà perdonato» assicurava alla Maddalena plorante: e al ladrone crocifisso che si redimeva in un ardente atto di fede, Egli, pur fra gli spasimi del martirio, in un'estrema opera d'amore, diede la sublime promessa: «Oggi sarai meco in Paradiso....»

Gesù conosceva, quindi, e per innata sapienza e per esperienza, quanto bene, quanto compenso e qual premio fosse nella remissione delle colpe in un atto d'autorità e di pietà insieme: ma sapeva anche che l'anima dell'uomo è cosiffatta nel suo dualismo di bene e di male, di fango e di luce, da provare la necessità spontanea dell'atto d'umiliazione e di pentimento quando una luce improvvisa viene a illuminare nella coscienza l'abbiezione e la miseria in cui era caduta. Nessun sincero e durevole pentimento si è dato senza umiltà profonda; senza questo desiderio fervente d'accusarsi, di vilipendersi, di soffocare ogni resto di orgoglio, di trionfare d'ogni ambizione, d'ogni rispetto umano. Se ricordiamo taluni dei grandi convertiti come Sant'Agostino, S. Francesco d'Assisi, Santa Margherita da Cortona, e molti e molte che troppo lungo sarebbe enumerare, vedremo che le più ampie, le più clamorose, le più visibili dimostrazioni di pentimento accompagnarono la conversione che in taluni anzi pareva non potersi scompagnare dall'ebbrezza dell'umiliazione palese.

Il sacramento della penitenza, le cui origini bisogna ricercare nella vita del Maestro divino e nella volontà Sua, non è, quindi, solo un duro castigo, una forzata contrizione: qualche cosa di materiale, di vergognoso, di difficile da compiere: una violazione di coscienza e di libertà personale che rimpicciolisce la grandiosità della religione e della fede; ma è, come ho tentato spiegare, un'espressione della volontà divina, un patto augusto di pace e di perdono conchiuso fra il visibile e l'invisibile, un atto richiesto dall'intima coscienza che sente il bisogno di purificarsi e di rinnovarsi nel pentimento e nel perdono per apparecchiarsi con rinate energie ad una vita nuova.

Sgombriamo, quindi, la mente da ogni preconcetto, da ogni pregiudizio che possa abbassare ed offendere la santità e l'importanza dell'obbligo che dobbiamo adempiere, se vogliamo obbedire in tutto alle leggi di Gesù, la cui divina figura è tanto più grande, quanto più umile. E, grave o lieve che sia il fardello delle nostre mancanze, facciamo di sentirne tutto il peso allorchè, nei giorni di penitenza e di lutto cristiano c'inginocchieremo in un angolo raccolto di chiesa per adempiere l'atto dell'umiltà e della pacificazione. Ma prima imploriamo da Dio la luce spirituale che ci permetta di vedere anche l'ombre della coscienza, anche ciò che nessuno vede e nessuno sa: e che c'impedisca pure di lasciarci fuorviare da scrupoli vani e puerili. E la confessione di ciò che ci rimorde sia semplice e sobria, senza mescolanza d'elemento profano. Alcune fanno delle vere conversazioni alla grata del confessionale, piene di particolari, di pettegolezzi, ed infiorate non di rado da giudizi poco benevoli addotti a propria difesa. Tutto questo è profanazione, è volgarità. Bisogna sentirsi comprese dell'austera solennità del momento, bisogna che il sacerdote sparisca e che ci sentiamo in presenza di un Trasmissore della volontà di Cristo e del potere di Dio. Allora la confessione delle nostre mancanze sarà umile, fervida, sincera, senza attenuanti e senza divagazioni. Allora ascolteremo i conforti e i consigli con cuore commosso, e ci allontaneremo di veramente migliori, veramente mondi nell'intimità del nostro cuore e del nostro pensiero; allora noi sapremo che la riparazione vera non è tutta nelle pratiche di pietà o nelle preghiere che il sacerdote ci ha assegnato per espiazione, ma nell'emendamento delle debolezze di cui più dobbiamo lagnarci, nell'osservanza severa di quei doveri ai quali contravveniamo più di frequente, nella cura assidua, sino a guarigione ottenuta, di quelle imperfezioni dell'anima che sono spesso più brutte e ributtanti o ridicole di certe imperfezioni fisiche. Ma per ottener questo, è necessario esercitarci spesso nell'esame della nostra vita interiore, del nostro carattere, degli obblighi imposti dalla nostra condizione sociale e familiare.

Chi oserebbe, dopo aver meditato un po' seriamente su quanto ho tentato di esporre, riguardare ancora la confessione come un'azione materiale, un obbligo importuno, non utile necessario, a cui i ribelli procurano di sottrarsi o di soddisfare il più sollecitamente e superficialmente possibile? Chi potrebbe con piena convinzione sostenere ch'è un espediente per violare le coscienze e penetrare i segreti delle anime e delle famiglie? Purtroppo, in ogni istituzione, non vi è altezza o santità d'origine che l'intervento dell'uomo indegno non abbia potuto abbassare e rimpiccolire od anche torcere a cattivo fine, ma dipende dalla nostra volontà, dalle disposizioni del nostro spirito il ricollocare nella lor luce mistica, nella loro elevatezza ideale e sacra ciò che non avrebbe dovuto degenerare giammai. Tutto quanto ci viene dalla dottrina di Cristo è pura bellezza, è bontà, è lume soave, è virtù redentrice: e, se tale non appare subito ai nostri occhi, se fummo disgustati o allontanati da qualche degenerazione, da qualche grossolana interpretazione di quella dottrina celeste, incolpiamone, o meglio, scusiamo l'insufficienza umana, ma non si vilipenda l'essenza della religione, e non illanguidisca la nostra fede, e non si rilasci il nostro attaccamento. Lo stesso atto compiuto da due persone di sentire e di pensare diverso può avere una diversità di significato profonda e dare risultati diversissimi. Questo può anche accadere in un medesimo individuo quando lo compia con disposizioni differenti. Vediamo, dunque, di portare nell'atto inclito e austero tutti quegli elementi di sentimento e di riflessione che possono concorrere e renderlo ancor più benefico e sacro. E inginocchiandoci all'altare, preghiamo così:

«Venga sopra di me, Signore, la Tua misericordia: venga, ma prima rischiara Tu la mia coscienza perchè veda sino in fondo, senza velo d'illusioni orgogliose, senza reticenze di sofismi vili, senza errori derivanti da comodi pregiudizi, da erronee o monche interpretazioni della Tua legge. Da' all'anima mia di penetrare oltre queste nebbie della terra, di salire alla luce della Tua Verità, «illumina gli occhi miei, affinchè io non dorma giammai sonno di morte».


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