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IL BACIO DELLA GLORIA
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Ubaldo Torre amava due cose sopra tutte le altre al mondo: sua moglie e la sua arte. Un tempo, prima di sposarla, aveva creduto che Graziella fosse la prima delle sue passioni. Ora, era andato persuadendosi che l'arte aveva il primissimo posto nella sua vita. Sì, perchè era ancora nel periodo della lotta, alla tormentosa vigilia di quel trionfo che non si decideva ancora a venire.
Il pubblico riconoscimento del suo ingegno si faceva aspettare troppo, in verità. E si trattava di una vera ingiustizia, perchè Ubaldo Torre era un giovane di merito singolare. Bell'ingegno, profonda cultura, sensibilità squisita e fresca, ricchezza di vena, originalità di pensieri, imaginazione piena di colore. Un bel temperamento di scrittore, insomma, un romanziere assolutamente di razza, che aveva già nel suo bagaglio una cospicua messe di rispettabili opere. Ma la popolarità non veniva.
Faceva parte di un gruppo ristretto ed aristocratico di scrittori che lo aveva in grande stima e lo riconosceva per capo. Un pubblico esiguo di lettori lo aveva molto apprezzato, e qualche critico di occasione lo aveva anche esaltato profetizzandogli un luminoso avvenire. Ma la critica ufficiale non si era occupata di lui. Perchè? Ubaldo Torre non era un pitocco di quelli che vanno a mendicare recensioni. E non era un proletario, di quelli che fanno dell'arte un'industria e che hanno bisogno di una larga tiratura dei loro libri per sbarcare il lunario.
Era un signore di nascita, provvisto di mezzi di fortuna, che scriveva solo per il suo proprio piacere... e per la gloria. Ma se il piacere c'era, permanente e crescente, via via che la sua arte si perfezionava, la gloria si faceva eccessivamente sospirare! E, giunto ai trent'anni, Ubaldo Torre fu preso da una smania di successo che prima non aveva ancora conosciuta. Prima si nutriva di orgogliosi propositi, di superbi atti di fede. «Piacere alla folla è una inferiorità dello spirito. Bisogna contentare se stessi e i pochi lettori ai quali un artista che si rispetti deve rivolgersi. La folla non capisce niente e per la sua fame idiota bastano i volumi di tanti romanzieri dozzinali che ingombrano il mercato librario come le cianfrusaglie ingombrano i bazar. L'arte è una aristocrazia. La popolarità è il più evidente segno della mediocrità della merce. Dante e Shakespeare non saranno mai veramente popolari. I grandi esempi devono ammonire».
Pensava e diceva tutto questo, Ubaldo Torre, dai venti ai trent'anni. Poi continuò a dirlo... senza pensarlo più, o meglio, era convinto della eterna verità di quelle teorie, ma si sentiva crescere in petto e smisuratamente grandeggiare, a poco a poco, la voglia di conquistare la notorietà... e possibilmente anche la celebrità.
Non era un forte. Aveva un temperamento un po' volubile, un po' femmineo come spesso ne hanno gli artisti. E l'ingiustizia, le camorre, le congiure del silenzio, la miserabile invidia umana, invece di cozzare contro la sua impassibile, comprensiva serenità, destavano la sua ribellione. «Perchè mi boicottano, tutti costoro? I colleghi... transeat. Si rivelano invidi, rifiutandomi i loro consensi, e ciò non mi nuoce. Ma la critica togata, quella che siede a scranna nelle principali riviste, nei quotidiani più autorevoli, perchè si ostina ad ignorarmi? È un partito preso, una congiura vigliacca, che non ha scuse e che devo riuscire a debellare».
Ma come debellarla? Egli viveva nell'ambiente mondano, non conosceva personalmente i critici, s'era infischiato di essi per un gran tempo e l'addomesticarli, oramai, non era facile cosa.
Di uno specialmente gli sarebbe fortemente importata la conquista: il pontefice massimo, colui che apriva e serrava a sua posta il cuore della folla, i cui giudizi, i cui consigli, in materia letteraria, venivano accolti come versetti di Vangelo, banditi dalle colonne di un autorevole quotidiano della grande città in cui Ubaldo Torre viveva: Francesco Santoro. Era quel critico un uomo ancor giovane, di forte ingegno di grande cultura, di indiscutibile buon gusto... e di pessimo carattere.
Aveva creduto da giovane essere un poeta, ma si era accorto che, a tu per tu con la natura, nessuna scintilla sprizzava dal suo sterile ingegno. Per produrre... egli aveva bisogno delle opere altrui. Per questo, il suo carattere era acre, ironico, avaro di lodi, parco di atti di bontà e di generosità. Anche come uomo, nella vita privata, era riuscito il contrario di quanto avrebbe voluto. Amava molto le donne... ma essendo brutto e timido, doveva contentarsi di facili avventure, mentre avrebbe aspirato a relazioni sentimentali con signore belle e raffinate.
Era grasso, aveva un po' di pancia, era miope e portava gli occhiali. Aveva il fisico di un farmacista o di un burocratico, e il cuore di un Don Giovanni... Faceva della critica... e avrebbe voluto essere un poeta. Come poteva essere di carattere dolce, simpatizzante con l'umanità, un simile sconfitto? Eppure questo sconfitto era una potenza.
E questa potenza voleva Ubaldo Torre ad ogni costo conquistare. Perchè sapeva che il verdetto favorevole di costui gli avrebbe aperto sicuramente le porte della fama. Scrivere un altro bel libro, un libro più bello e più forte degli altri, a che cosa gli avrebbe giovato? La soddisfazione propria non gli bastava più. L'ammirazione ardente della sua cara piccola moglie, e quella del nucleo eletto dei suoi amici, non gli dava più gioia alcuna. L'abitudine aveva tolto ad essa ogni sapore. Ora voleva il largo consenso della folla, della grande massa oscura e idiota dei lettori che dà agli uomini la celebrità e la regalità. Il numero, non più la qualità degli omaggi egli desiderava! Essere letto ed amato da un migliaio di persone di buon gusto gli pareva insipido. Aveva bisogno dei larghi plebisciti, magari del suffragio universale! Vedere i propri libri nelle mani delle serve, dei portinai, dei fiaccherai, delle donne del marciapiede, dei commessi di negozio, delle sartine, delle piccole borghesi stupide come oche! Espandersi non già nel cervello del mondo, ma nel sangue di esso; correre a rivoli nelle pance, nelle vene, nella vasta, incosciente umana bestialità, nello stolto gregge di rozzi montoni che seguono docilmente (pur credendo dirigersi da sè) i furbi ed esperti pastori ed i cani pazienti. Quel pastore bisognava decisamente guadagnare.
Ne parlò con sua moglie. Graziella gli era così devota, lo amava ancora così teneramente a malgrado ch'egli l'andasse sempre più trascurando, ch'ella trovò giusta la sua idea e si mise a cospirare con lui per la conquista del nemico (lo chiamavano così) mettendo nel gioco tutte le donnesche risorse della sua abilità longanime ed acuta. Scoprì che Santoro frequentava una casa di loro conoscenti modesti dove essi non andavano che di rado, quasi per degnazione. Con un pretesto Graziella si accostò a quella famiglia, l'invitò in casa sua, accettò da essa un invito, poi un altro.
E fu in quella casa borghese che aspirava a tenere un salotto letterario, che Ubaldo Torre, lo scrittore gran signore e la sua aristocratica moglie fecero la conoscenza personale del celebre critico Francesco Santoro, che era il gran personaggio di quel poco interessante salotto.
Graziella non era solo una perfetta signora e una moglie ideale: era anche una graziosissima giovane donna, con un fisico da eroina di ballata romantica. Le ballate non sono più di moda, è vero, ma le belle donnine bionde e sospirose sono sempre di incontestabile «attualità». Essa fu perfidamente squisita nella volontà di ammaliare Santoro, orso mal pettinato, avvezzo alle donne di un'altra classe, che aveva sognato a vent'anni d'essere poeta... e che ne portava chiusa in cuore la inguaribile dolce-amara nostalgia... Essa cominciò col solleticare l'amor proprio di lui con la sua piccola mano vellutata, e vi riuscì a meraviglia. Si disse entusiasta dei suoi articoli, desiderosa da tanto tempo di conoscerlo, timida davanti al suo ingegno. Lo invitò ai suoi ricevimenti eleganti e ricercati: gli fece provare le delizie del suo ambiente squisito, lo fece conoscere ad altre donne del suo aristocratico mondo. Santoro abboccò all'amo come un pesciolino ingenuo... e si gettò a capofitto nella elegante società, abbandonando i salotti borghesi che fino ad allora aveva sempre frequentati. L'essere un uomo di grande ingegno non gl'impediva d'essere snob. E se Ubaldo Torre fremeva per la voluttà che aspettava dal consenso della folla, egli realizzava il suo antico desiderio di entrare nella ristretta categoria della gente titolata e chic... che era per lui un paradiso ignoto. Senonchè, nell'animo di Santoro, burbero di fuori e tenero di dentro, insieme alle amichevoli disposizioni verso il marito, andava sviluppandosi un sentimento profondo verso la moglie... di cui a tutta prima non s'era esattamente reso conto egli stesso. Graziella gli aveva fatto un'impressione grande. E la squisita cortesia di lei, di cui nemmeno lontanamente aveva sospettato il movente interessato, gli era stata di tale dolcezza, che i suoi quarant'anni ne erano illuminati e profumati come per la rinascita di una miracolosa primavera. La dolcezza di quegli occhi verdolini, che lo guardavano dietro l'ombra delle lunghissime ciglia, gli penetrò dentro al cuore e glielo sommerse. Quasi non se ne accorse. Non gli restò il tempo di difendersi. Il terribile amore della maturità gli era piombato addosso come una valanga. Era in ceppi. E liberarsi, ormai, non poteva più. Graziella, naturalmente, se n'era accorta e ne giubilava. Se n'era accorto (beato lui, tra i mariti!) anche Ubaldo Torre, e ne giubilava anch'esso. Sì, perchè era quello il coronamento dell'edificio pazientemente innalzato dalla loro concorde volontà. La intensità di quel sentimento, s'intende, non poteva misurarla il marito e, da principio, nemmeno la moglie. Non avrebbero forse, nessuno dei due, aspirato a tanto! Ma si accorgevano che la conquista di Santoro, ideata pochi mesi innanzi, era compiuta. E per il loro scopo, se ne applaudivano caldamente.
Di Santoro come uomo, Ubaldo Torre non era punto geloso. Ah no! proprio no. Tutt'altro che bello, grasso, miope, poco elegante, poco signore, di dieci anni più vecchio di lui. Nemmeno pensarci. Non era un uomo pericoloso. E poichè s'era dichiarato più volte sincero estimatore dell'ingegno di Ubaldo Torre, poichè aveva dimostrato il desiderio di conoscerne tutte le opere (non conosceva che un suo volume, diceva), era probabile, era sperabile, era necessario anzi, che del prossimo romanzo che stava per vedere la luce, il celebre critico si decidesse a dare pubblicamente il suo verdetto.
E la domanda esplicita (non volendola fare lui direttamente, l'autore) era deciso che l'avrebbe fatta, tra un sorriso e l'altro, tra una sigaretta e una tazza di tè, col suo sguardo più liquido e più soave, la moglie di lui. E se il pontefice massimo della critica era sensibile come pareva indubbiamente, al fascino biondo della bella signora, non c'era dunque da rallegrarsene? A tale ambasciatrice, nulla avrebbe egli negato.
Graziella si prestava con maliziosa delizia. Il giovane romanziere sorrideva come un combattente che ha colto l'avversario in una trappola... ed era convinto di agire per legittima difesa, per buon diritto di guerra, per debellare finalmente, con un mezzo senza pericoli, la congiura micidiale se pure pacifica ordita dalla nequizia umana contro di lui.
***
Il nuovo romanzo di Ubaldo Torre vide la luce in una bella mattina di primavera. Un esemplare, con dedica amichevole e adulatoria, fu dall'autore presentato al critico illustre. Il quale si recò la stessa sera nella casa ormai amica, a bere lo Champagne pel battesimo del neonato. Francesco Santoro disse all'amico che stava leggendo il suo volume e che gli piaceva. Lo disse in tono di sincerità, con degnazione sì, ma con l'aria un po' addomesticata, senza quel chiuso sussiego pontificale che soleva gelare le speranze di tanti malcapitati. Ubaldo Torre ne esultò... e lanciò un'occhiata di complicità a sua moglie, come a dirle: «Andiamo bene. Questo è il momento di agire». Essa sostenne lo sguardo, nelle sue mobili iridi cangianti tra il verde e il giallo, e parve rispondere «Ci penso io».
Infatti, poco dopo, in un angolo d'uno dei salotti, dove il critico la seguì, ella si accoccolò nell'ampio divano basso, tra una catasta di bizzarri cuscini, e battè la palma sul posto vuoto accanto a lei per invitare confidenzialmente l'ospite prediletto a sederle vicino. Egli tenne l'invito col cuore che gli batteva e si sprofondò tra quelle molli piume sulle quali l'esile grazia di lei lasciava appena un solco...
Ella disse: «Ebbene, Santoro, ormai siamo buoni amici, è vero? E mi sento il diritto di chiederle un piacere».
«Un piacere... Lei, a me? Ma lei è troppo intelligente, donna Graziella, per non comprendere che io le sono interamente devoto e che...». Si arrestò. Non voleva dir troppo, in quel momento e in quella posizione difficile... ed era turbato come forse non era mai stato nella sua vita, in cui solo il suo cerebro si era espanso... e così poco, forzatamente, il suo cuore. Non indovinava la richiesta. Vicino a lei gli accadeva di dimenticare tutto di sè che non fosse il suo vero, il suo grande, il suo tormentoso amore. Tormentoso perchè gli dava poche speranze. Graziella passava per una donna impeccabile... che non si accorgeva delle infedeltà (sempre meno rare) di suo marito...
Ella disse, volgendosi a lui, pieghevole e morbida come una gattina, col vivido anello della bocca sul piccolo volto bianco, sotto l'aureola dei capelli biondi «Fin dove arriva, Santoro, la sua devozione per me?».
«Provi.» Egli fece con un subito stringimento al cuore, che gli si vide sulla faccia. Improvvisamente, egli aveva indovinato.
Ella disse, carezzevole, insinuante, con una leggerezza voluta che non nascondeva un interessamento profondo: «Arriva fino a farle scrivere uno dei suoi capolavori critici sul romanzo di mio marito?».
In quel momento Santoro non era solo l'uomo di lettere, anzi non era più l'uomo di lettere. Era un uomo. Un uomo innamorato e geloso. La gelosia pel marito di quella donna lo mordeva dentro come una tenaglia. Un po' aspro, disse: «Perchè me lo chiede lei? La cosa mi pare strana...».
«Mio marito non chiede mai niente a nessuno! Per questo, con l'ingegno che ha, è quasi un ignoto. Sa che un suo articolo sarebbe il suo battesimo. Ma certo non glielo chiederà. Per questo glielo chiedo io. E lo facciò perchè ho fede in mio marito... e sento che gli è dovuto questo atto di giustizia. Non ha detto lei, poco fa, che il libro le piace?».
Santoro esitò un attimo: «L'ho detto ed è la verità».
«Allora...» ella incalzò.
«Allora, vedremo...».
«Vede?» ella disse, insistente, avvolgente, decisa a trionfare, scordando quasi l'interesse di suo marito per non sentire ormai altro che lo stimolo della sua femminile vanità che correva il rischio d'essere sconfitta. Ah no! Ella non cedeva. E covava l'uomo, l'avversario, con un atteggiamento di belvetta in agguato, con guizzi di fosforescenze glauche negli occhi... perfidi e attraenti come i lascivi assalti delle onde sull'arena. Ma l'uomo, pure stretto in se medesimo per l'urto del suo geloso furore, aveva assai più voglia di perdere che di vincere in quella scaramuccia... Perdere lì, poteva voler dire vincere altrove... in altro campo... in vertiginoso e veramente trionfale cimento. Chi sa?... Ma bisognava dar pace alla sua gelosia... bisognava far tacere quell'improvviso e doloroso morso... Disse: «Non vedo nulla. Cioè... vedo che lei ha per suo marito un così ardente interessamento... che davvero non lo avrei supposto.» E la sua faccia esprimeva assai più delle sue parole una reale sofferenza.
Ella afferrò d'un balzo la posizione, svelta e duttile come un angue. «No, Santoro, non esageri! Di ardente... tra me e mio marito, niente più! Ma un grande interessamento per l'opera sua, sì! Non porto io il suo nome? Non è il padre dei miei due bambini? La sua fama, la sua gloria ci appartengono. E l'ingiustizia della critica verso di lui che ha un ingegno vero, rivolta la mia anima di donna... la rivolterebbe anche se Ubaldo Torre non fosse mio marito e s'io fossi soltanto una lettrice dei suoi nobilissimi libri. Glielo giuro». E mise la sua bella manina candida, dalle unghie che parevano petali di rose, sulla mano che egli teneva appoggiata sul divano...
Egli arrossì, poi impallidì, sentendosi serpeggiare nelle vene un ruscello di delizia. Disse, guardandola coi suoi occhi miopi, dietro il cristallo delle lenti: «Mi piace la sua collera... Era bellissima, la sua faccia d'angelo, nell'ira... chi sa quale impeto può avere nella passione... e nella tenerezza». Si fermò. «È ben fortunato quell'uomo. Forse troppo... E anche la gloria, adesso... della quale io dovrei prestarmi ad aprirgli le porte...».
«Ma lo stima lei o non lo stima?» – chiese ella un po' nervosa.
«Certamente. Ma questa è un'altra cosa».
«Scusi, è la stessa. Lei fa il suo dovere di critico occupandosi dell'opera di un uomo d'ingegno che lei stima. E fa certo un piacere anche a se stesso. Sí, perchè non è un piacere quello di scoprire un autore e di donarlo all'ammirazione di chi non saprebbe scoprirlo da sè? Sono le soddisfazioni che solo i grandi critici come lei possono procurarsi!».
«È evidente questo.» egli fece, cominciando ad ammansarsi.
«Eppoi, prima di far piacere a se stesso, prima di far piacere alla giustizia... Lei farebbe piacere a me. E allora, poichè ha detto che mi è «interamente devoto...» trovo che mi ha fatto parlare anche troppo. Io sono avvezza ad ottenere quello che desidero con poca fatica... e comincio a dubitare forte della sua amicizia per me...».
Aveva preso un'aria sdegnosa di gran dama offesa che le andava a meraviglia. Egli la guardava con ebbrezza. Se gli avessero detto: «Vuoi tu possedere quella donna una volta, passare con lei un'ora divina senza conquistare l'anima sua?», egli avrebbe risposto di no. Perchè l'amava d'amore totale, l'amava con dolore, e avrebbe data tutta la vita e metà della gloria per entrare in quel cuore, per essere un poco, almeno un poco, amato da lei. Quando riuscì a parlare, disse: «Purtroppo la mia amicizia per Lei... è un fatto di cui non si può dubitare. Dico «purtroppo» perchè è un sentimento destinato forse a farmi solamente soffrire...».
«Oh!» ella fece, protestando, guardandolo di sottecchi, lusinghiera.
«Ebbene, Le prometto l'articolo per suo marito. Ma badi, non creda di dovermi della riconoscenza per questo! Se la mia coscienza non me lo permettesse, non lo farei. Perchè, sarà un panegirico, se ne rallegri! E se Lei mi chiedesse come mai non avevo scritto prima intorno all'opera di Ubaldo Torre... non saprei risponderle. Forse per pigrizia, per distrazione, per eccesso di lavoro... Forse perchè volevo vedere la continuità dell'opera di lui. Non so...». Avrebbe dovuto dire: Perchè c'è sempre un po' di riluttanza in un uomo, nel fare cosa gradita ad un altro. E perchè lo stato d'animo di un critico che addita un artista alla celebrità, somiglia forse un poco a quello di un lenone d'amore. Ma questo certo non lo disse. Invece, aggiunse: «Ora sento che il suo momento è venuto. Ma non creda che suo marito debba questo a Lei. Lo avrei fatto anche se me lo avesse chiesto lui stesso... Lo avrei fatto anche se non me lo avesse chiesto nessuno...».
«Allora è per dirmi che non vuole essere ringraziato?».
«Da Lei, no!».
«Niente affatto strano. Voglio che il campo tra Lei e me rimanga pulito, libero... Mi piace di più...».
Ella gli rispose questa volta con una dolcezza non simulata. Era raggiante. Si alzò d'un balzo, elegante e serpentina. Egli si alzò con fatica, tarchiato e non avvezzo a quelle profondità d'abisso di mobili moderni. Ma sulla sua fronte ampia, già solcata di alcune linee orizzontali, aleggiava un sogno che l'abbelliva e la ringiovaniva prodigiosamente...
***
Il «saggio» critico di Santoro sul libro di Ubaldo Torre, anzi su tutta l'opera di lui, diede improvvisamente al romanziere il trionfo e la celebrità. Fu un successo grande, un successo volgare, popolare, industriale: un succedersi di edizioni, una pioggia di offerte di editori, una gara di interviste.
La fama di Ubaldo Torre valicò l'Alpe ed il mare. La canizza dei critici, imitando il dettato del più grosso mastino, si gettò ai piedi del trionfatore. Il quale era sempre quello di prima, non era cresciuto di un cubito, non aveva fatto un passo avanti, anzi secondo il giudizio suo proprio e dei pochi intenditori veri, aveva messo un po' di zavorra nella sua nave. Ma la folla gli aveva aperte le braccia, amoreggiava con lui, lo portava a fiore della sua torbida fiumana decretandogli finalmente l'agognata coronazione simbolica nel moderno Campidoglio: il marciapiedi!
Ubaldo Torre ne fu lieto ed ebbro. Ma non sorpreso. Aspettava tutto ciò, come un creditore attende il pagamento che gli è dovuto. Sapeva che ciò doveva venire, presto o tardi. E non provò eccessiva riconoscenza per Santoro, che era stato il suo profeta. Egli si sentiva un nume. L'apostolo doveva riconoscenza a lui, non già lui all'apostolo.
Una buona amicizia lo legava a Santoro, questo sì. Ma oramai le parti si erano mutate. Adesso il grand'uomo era lui, Ubaldo Torre, e l'essere il suo miglior amico, l'ospite prediletto della sua casa, era, doveva essere, un ambito onore anche pel principe dei critici. Se Santoro era un principe, ora Ubaldo Torre era un re.
E della regalità ebbe tutte le fortune, tutte le grazie, tutte le debolezze.
Seppe posare con eleganza, abusare del suo potere, destare l'amore delle donne, cogliere tutto il miele da tutti i fiori della vita...
Oramai era un vincitore. Non aveva più bisogno di nessuno. E il suo egoismo si gonfiava, facendo allegra vendetta della vigilia amara che lo aveva avvezzato a disprezzare i suoi simili. Ma troppe cose furono coinvolte a poco a poco, nel suo olimpico disprezzo. Quel grande corruttore che è il successo, gli s'infiltrò nelle più riposte pieghe dell'animo e glielo avvelenò, senza che se ne avvedesse.
La sua gloria, o quella che gli pareva tale, gettò nell'ombra e nell'oblìo tutto il resto delle cose. Tutto il bello ed il buono che aveva nell'anima diventava materia d'arte per le sue opere. Per la vita gli restava solo la zavorra! Gli parve di non appartenere più all'umanità ma ad una speciale categoria di privilegiati che stanno di fuori dal bene e dal male. Non era più un uomo. Era una celebrità!
Anche della sua famiglia si occupava pochissimo, oramai. Non ne aveva il tempo. A sua moglie aveva dato finalmente il sole della sua gloria e credeva che le bastasse.
Ma s'ingannava. Graziella era una di quelle donne che hanno bisogno dell'intima felicità, per poter vivere. Prima, aveva suo marito. Poi ebbe l'occupazione di aiutarlo a conquistare il suo posto nella vita. Poi... più nulla.
Cioè, tantissime cose esteriori, una fantasmagoria di cose abbaglianti che la circondavano senza soddisfare il suo cuore, il suo piccolo cuore di donna assetata di felicità.
Allora si accorse che aveva accanto, da molto tempo oramai, un uomo fedele e longanime che l'amava teneramente, appassionatamente, silenziosamente. Santoro. Non era bello, non era più giovane. Ma era un ingegno superiore, era colui che aveva, per lei, tenuto suo marito al battesimo della gloria.
Era stato molto cavalleresco con lei. Perchè, dalla sera della vigilia oscura in cui ella gli aveva parlato, egli non aveva mai più accennato al suo sentimento per lei.
Ma ella aveva veduto e sentito quel sentimento ingigantire nel silenzio e nell'ombra; lo trovava vicino a sè ad ogni passo, lo vedeva splendere e gemere, ad ora ad ora, e lo indovinava indistruttibile.
La gloria le aveva del tutto portato via suo marito... e le aveva dato, in cambio, un altro cuore, più sicuro ed immutabile. Gli fu, prima, riconoscente, provando rimorso di averlo adescato con fredda astuzia, perchè servisse al suo scopo... Poi a poco a poco si affezionò a lui, non ne vide più il poco seducente aspetto... finchè giunse a vederlo con occhi nuovi come dentro uno specchio abbellito dal velo dell'illusione.
Egli, paziente, innamorato, immutabile, aspettava la sua ora. La quale, finalmente, arrivò.
***
La gente, oramai, ne era consapevole. Dubbi, incertezza, stupore, commenti, abitudine, tolleranza, indulgenza. L'opinione pubblica passò per tutte queste fasi. E la relazione discreta, timida, quasi rispettabile, fra il grande critico e la moglie negletta del romanziere sovrano, divenne uno di quei fatti che non si discutono più, che la pubblica sanzione rende press'a poco legittimi. La vita dello scrittore prediletto della fortuna era oramai così byronianamente fuori della legge che tutte le attenuanti erano riconosciute alla gentile creatura così bionda e così bella che aveva tanto bisogno di un po' d'amore.
Il solo a non accorgersi di quello che accadeva in casa sua, era dunque Ubaldo Torre, il sottile psicologo, il divinatore delle anime umane, l'anatomico profondo, quasi feroce, delle coscienze?... E come mai? Era un marito, lui, nè più nè meno di quelli ch'egli metteva alla gogna nei suoi romanzi celebri? Santoro specialmente era turbato da questo problema. Graziella credeva nella cecità di lui, causata dalla sua olimpica indifferenza. Ma Santoro, senza confessarlo alla donna amata, era meno ottimista.
I due amanti, oltre che dalla loro passione, erano legati dall'interesse comune per la gloria di Ubaldo Torre, che apparteneva anche a loro. Era la gloria della famiglia. Scoperta da Santoro, per farne un'aureola alla donna diletta. Se ne interessavano sempre più e sempre più intensamente. Dopo il loro amore era la cosa che loro premeva di più. Era un sodalizio (forse rafforzato dal rimorso? forse dai singoli egoismi?) tutto dato, per la vita, alla esaltazione del giovane grande artista... cui veniva in pari tempo, nell'ombra, recata l'atroce offesa...
***
Un giorno venne in cui la gioia di vivere, la febbre del lavoro, il fascino del successo, ebbero attenuata la loro ebbrezza nello spirito e nel sangue di Ubaldo Torre. Ci si avvezza a tutto. Al bene come al male. Dopo il fuoco, la cenere, inesorabilmente. Solo allora, quando le faville del suo astro cessarono di abbacinarlo, il grande artista riprese a guardare lucidamente intorno a sè e dentro di sè. Vi trovò un dubbio che non aveva avuto nè tempo nè voglia di esaminare esaurientemente. Per pigrizia, per indifferenza, per viltà... Aveva avuto paura di dover scorgere un punto nero nel suo orizzonte d'oro... Ora, avvezzo alla luce, il punto nero era riapparso... e lo vedeva dinanzi a sè, senza incertezze, come riflesso da una lente di precisione.
Che fare? Il suo cuore non ne soffriva. Aveva una bellissima e fedele amante... ch'egli ingannava. La sua conoscenza dell'anima umana e delle sue miserie, lo rendeva incline alla pietà. Chi molto comprende, molto perdona. Il suo nome era oramai così grande... che i pregiudizi convenzionali non potevano offuscarlo.
Ribellarsi al fatto compiuto, farsi giustizia, schiacciare col suo scudo scintillante la misera donna, madre dei suoi figli, e il suo triste, brutto e oramai vecchio amatore?
Il suo stato d'animo in faccia al caso passava da una fase all'altra. Periodi di calma fredda e sdegnosa, di assoluta superiorità di spirito in cui poteva contemplare il fatto... come se avvenisse lontano da sè. Periodi di cattivo umore, di ribellione, in cui provava la voglia matta di piombare sulla coppia adultera e di stritolarla... Ma allora lo vinceva la pietà e un acre senso del ridicolo che scaturiva, secondo lui, dalla inferiorità del suo rivale. Un giorno, tra gli altri, era di cattivo umore. Troppe sigarette? Troppo champagne? Già stufo della sua amante? Un'altra donna c'era che gli piaceva di più... Pensava: «Che gaglioffo, quel Santoro, però! Come si è bene pagato del favore che mi fece... o che credette farmi! E quella ipocrita di Graziella! Una donna che era stata amata, sia pur brevemente, da me! Puah! Le donne... che canaglie e che idiote!».
Era nel suo studio, una meraviglia di lusso e di buon gusto. Si alzò nervoso. Fu assalito dall'uzzolo di fare una sorpresa a... coloro. A quell'ora certo Graziella aveva la visita serale quotidiana dell'amico di casa. Piombare su di loro come un falco su due piccole bestie dozzinali... e... non ammazzarli, no! e nemmeno cacciarli... Non ne metteva conto! E lo scandalo gli pareva antiestetico. Ma vilipenderli, ma far loro sentire che sapeva, che li teneva alla sua mercè, che concedeva loro la grazia del perdono... perchè non giungeva fino a lui l'offesa miserabile delle loro due inferiorità...
S'avviò verso il salotto di sua moglie. Sulla soglia si arrestò; l'uscio era aperto, ma la grande portiera di damasco antico era calata.
Non origliò, non sbirciò, ma, essendosi arrestato, udì e vide. Sua moglie ricamava, e ascoltava. Santoro leggeva l'articolo di una rivista straniera sull'ultimo volume di Ubaldo Torre. Leggeva, e s'interrompeva ogni tanto, per commentare, laddove la comprensione o l'ammirazione del critico illustre d'oltr'alpe non gli parevano abbastanza profonde. La voce di Graziella disse: «Ma insomma, possiamo esserne soddisfatti? Rende omaggio senza riserve, si o no?».
La voce di Santoro (che aveva finito di leggere e si era disteso sulla comoda poltrona accanto al fuoco) disse: «Sì. L'éminent confrère si degna rendere l'onore delle armi al nostro grande! Ma non lo fa di buon animo... Si sente che avrebbe dato chi sa cosa per trovargli dei difetti. Ma li ha cercati invano. Quel ragazzo è arrivato veramente ad un'altezza... vertiginosa! Dopo Balzac, non so davvero che nome pronunciare prima del suo!».
La sua larga faccia esprimeva una compiuta beatitudine.
Graziella alzò gli occhi dalla sua tappezzeria, sorrise con una gioia che le si dipinse per tutto il volto...
Ubaldo Torre entrò. Il suo stato d'animo era totalmente mutato. Provava una commozione strana... che non avrebbe saputo definire...
Chiese a sua moglie l'indirizzo di un comune conoscente (il primo che gli si presentò alla mente) poi disse col suo tono più mite: «Grazie, cara. Dormono i marmocchi? Ciao, Santoro!».
E se ne andò.