Sfinge
La gaia scienza

UNA DONNA FELICE

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UNA DONNA FELICE

 

 

Aveva tutto per essere felice. Era una donnina graziosa e pallida, con grandi occhi languidi, ora pieni d'ombra, ora luccicanti di guizzi.

Era intelligente, abbastanza colta, ricca, elegante, di una eleganza personale e squisita. Portava uno dei più bei nomi della grande città di provincia in cui viveva: vi occupava uno dei più eminenti posti, vi aveva il salotto più scelto: era simpatica a tutti e da tutti stimata.

Suo marito era un bell'uomo, di poco maggiore di lei, non molto intelligente ma nemmeno stupido, buon agricoltore, attivo, bonario, a lei devoto. Non avevano figli; ma ella non se ne crucciava eccessivamente, perchè era un po' delicata di salute ed aveva la vita piena di occupazioni e di distrazioni.

Si crucciava invece di qualche altra cosa che le mancava, che non sapeva esattamente definire: una nostalgia senza nome, che stendeva un velario grigio nella sua esistenza fortunata. Cosa mancava dunque a donna Isnarda, che possedeva press'a poco tutti i beni della vita?

Ella stessa non lo sapeva esattamente. Ma aveva presa la posa, il vezzo, l'uzzolo, chi sa? di dire che era infelicissima. E a forza di dirlo, di prenderne l'atteggiamento esteriore, di pensarsi, di credersi una donna scontenta... a poco a poco si sentì infelice veramente. E scoperse perchè. Si accorse che le mancava una storia sentimentale, un romanzo suo (a lei che ne leggeva tanti!) un'avventura interessante, qualche cosa che insaporasse la sua monotona vita di creatura troppo ricca di tutte le grazie di Dio.

Un poeta le aveva detto che i suoi occhi somigliavano a un mare in burrasca. Un prosatore, che aveva l'aspetto di una donna fatale. Per lei quelle parole, dette a fior di labbra, per fare delle belle frasi, furono un pronostico ed un programma. Divenne sempre più tenebrosa. Si vestì a preferenza di nero, si ornò di gioielli strani, si avvolse di sciarpe dalle pieghe tragiche, di tuniche ieratiche trapunte o dipinte d'oro. In certe violacce o rossastre tuniche di Fortuny, che le coprivano anche i piedi (per riposarsi dagli altri vestiti che le coprivano appena i ginocchi) pareva il fantasma d'un fiore, stilizzato da qualche bizzarro poeta del pennello.

Non sapeva più cosa desiderare, cosa chiedere di nuovo, d'inedito alla sua propria ricca borsa, o a quella ancor più pingue di suo marito. Spendeva, spandeva... Ma, a poco a poco, era quasi morto in lei il desiderio, ch'è il motore possente della nostra felicità. Chi più non desidera è bell'è morto!

Gira e rigira, gira e rigira... donna Isnarda racchiuse in precisi contorni l'enigma della sua infelicità: aveva voglia di avere una grande passione. Ma non amava suo marito? , cioè, no. Cosa vuol dire amare? Amare, per quasi tutte le donne, è amare il frutto proibito. Non ricordate Eva? Se il serpente fosse stato suo marito, ella avrebbe di certo preferito Adamo. È l'eterna ribellione alle Istituzioni. La rivolta è nell'essere umano uno stato d'animo permanente. Gli uomini si ribellano, dacchè mondo è mondo, ai tiranni, e, spariti questi, all'ordine sociale, al governo, ai partiti avversi, alle classi... di cui vorrebbero far parte. Le donne si ribellano all'antica e savia legge del matrimonio. E il peggio si è che non si ribellano apertamente, come fanno gli uomini, ma cospirano, tramano in segreto. La violenza non è ancora entrata nelle consuetudini femminili, le quali non sono ancora al bolscevismo reo-confesso, ma ai tempi, forse più feroci, delle sette segrete...

Dunque donna Isnarda non trovava giusto di doversi contentare, per la parte sentimentale della sua vita, in tutto e per tutto, fino alla morte, del suo legittimo consorte. E per questo si diceva e si sentiva molto infelice. Ma alla sua infelicità nessuno credeva. Quella sua vita beata di pulcino nel cotone, non destava compassione ma invidia.

«Isnarda, cosa vuoi per la tua festa? Isnarda dove vuoi andare quest'anno? Vai al teatro, stasera? Chi invitiamo a pranzo questa settimana?». Erano le cose che le diceva quotidianamente suo marito, con poche varianti. Era regina in casa sua. Aveva anche parecchi spasimanti. Ma non la commovevano eccessivamente. Erano uomini mediocri, provinciali e comuni. Sarebbe stato poco poetico, poco nuovo avere uno di quelli per amante. Allora, tant'era contentarsi di suo marito. E poi, Isnarda Simi era una donna di coscienza, una di quelle che possono fare una volta nella vita, una grande sciocchezza, una follia colpevole... ma che non sanno tradire. Aveva promesso a suo marito d'essergli fedele e finchè stava sotto il suo tetto non gli avrebbe mai e poi mai rotto fede.

Non era punto civetta. La sua vanità era soddisfatta in mille modi, e sapeva che solo con una della sue languide alzate d'occhi al cielo, poteva conquistarsi, incatenato ai suoi piccoli piedi, ognuno dei buoni amici di suo marito che le riempivano il salotto, una o due volte la settimana. Ma no, proprio no! Aspettava qualche cosa d'altro... che le cadesse dal cielo o le sorgesse dall'inferno.

Era diventata sentimentale, romantica, e amava da qualche tempo la solitudine. Aveva in quel senso strano e profetico di aspettazione e di speranza che precede qualche volta i grandi avvenimenti individuali. E invece del bell'appartamento pieno di gente (il fior fiore della città) e della sala da pranzo (splendida) dove suo marito amava tanto convitare gli amici a godere delle delizie preparate dal suo ottimo cuoco, Isnarda preferiva ora le soste nel vecchio giardino del bel palazzo antico, dove poteva sola passeggiare e meditare, tenendo in mano un libro che non leggeva, nell'odore amarognolo delle mortelle, incontrando ogni tanto, sotto gli annosi platani, il muto consenso di qualche statua in costume rococò.

Ritornava fra la gente, nella sua casa o per le vie della bella città provinciale – che conserva nelle linee e nei monumenti l'impronta della sua antica regalità – sempre più triste, con la faccia velata di malinconia; e alle amiche, agli intimi amici e specialmente ai lontani (perchè era nelle lettere ch'ella esalava di preferenza la sua segreta pena insistente) ella ripeteva, come il mesto ritornello di una grigia canzone. «Sono tanto infelice!».

... Ma alla sua infelicità, chi sa perchè, nessuno credeva...

 

***

 

Ora avvenne che vagando donna Isnarda Simi per le verdi profondità del vecchio giardino urbano, fosse veduta da occhi indiscreti che si sporgevano giù da un'alta finestra della casa confinante, quasi nascosta dal denso fogliame di un alto platano.

Gli occhi appartenevano ad un giovane studente di lettere che abitava il terzo piano di quella casa quasi povera. E gli occhi erano belli. Il possessore si chiamava Luciano: aveva ventidue anni, un certo ingegno, poca voglia di studiare, aspirazioni alla poesia e una grande sete d'amore. In città, nell'ambiente studentesco e della piccola borghesia, era conosciuto e ritenuto una speranza dell'arte. Scriveva su qualche giornale locale e si era deciso a spedire i suoi scritti a qualche rivista reputata... che, naturalmente, li aveva «cestinati». Egli non aveva ancora trovato quella data posa, quel dato giochetto di parole ardite e bizzarre o di pseudo-idee, che servono – a coloro che non hanno vero ingegno – per aprirsi la strada presso il pubblico e presso la critica maniaca di novità da lanciare. Ma non disperava di trovarli.

Intanto, guardando giù nel signorile giardino che nei suoi sogni e nei suoi pezzi lirici soleva chiamare «suo», egli lo vide un giorno abitato da una fata... e la sua animula poetica si diede a gittare grida di gioia. Egli era di gusti aristocratici, non amava le popolane fiorenti e illetterate, le signorine della classe alla quale apparteneva la sua famiglia: le signorinelle che strimpellano il pianoforte e cantano: Cara piccina, no, che usano cipria ordinaria, che si vestono con pretenzioso cattivo gusto e che hanno un solo pensiero: quello di trovare marito. No, il giovane poeta era nella fase dei grandi sogni, delle alate illusioni d'arte e di vita. Sognava la celebrità... e la grande passione. La passione per una donna degna d'essere cantata ed amata da un uomo eccezionale. Un'attrice, una cantatrice... un'etèra... una gran dama? Non sapeva ancora. Certo una donna che appartenesse ad una di queste categorie di amanti, secondo lui, ideali.

Egli sapeva, , che il palazzo e il giardino appartenevano a una delle più cospicue famiglie della città e che la signora di casa era una bella signora. L'aveva anche incontrata per le vie e veduta al teatro, lontana da lui moralmente e sdegnosa... Ma non ci aveva fermato lo sguardo, e non era stato attratto verso di lei da circostanze speciali. Vederla ora, non visto, in elegante ed intimo abbigliamento, sola e pensosa, in quel poetico luogo, in atteggiamenti aggraziati e abbandonati, pallida sotto la chioma bruna... vederla e sentirla prender posto nel suo cuore... o almeno nella sua mente, come fantasma di poesia, fu un punto solo!

La rivide, la spiò, l'attese dal suo alto osservatorio attraverso il fogliame del platano annoso:... e prese a cantarla in versi, molto lontani dalla perfezione, ma animati da un certo soffio lirico e da imagini stravaganti, di quelle che, a chi non s'intende molto di poesia, possono fare impressione. Ella fu: «Lei», «la musa bianca e nera», «la Dea del chiuso giardino», «l'Unica», «il mistero», «il brivido divino», «L'amore rivelato», e così via.

Ma l'a-solo non bastò al giovane poeta, il quale non era sicuro che la dama de' suoi pensieri leggesse la rivistuccia locale nella quale egli veniva pubblicando i suoi squarci d'amore.

Allora, un mattino, donna Isnarda, mentre posava languidamente il fianco sul vecchio sedile di pietra, che aveva accanto un plinto recante una Venere senza testa, sentì cadersi ai piedi, piovuta non seppe d'onde, una rosa rossa avvolta in un candido foglio.

Ella si guardò intorno... non vide nessuno... raccolse e lesse. Versi d'amore, per lei. Non poteva dubitarne...

Se le stesse cose le fossero state dette in prosa, nel suo salotto, l'avrebbero fatta sorridere... Ma cose... piovute dal cielo, in versi che le parvero belli... portate dal profumo di una rosa, fresco palpito di un trattino di maggio, quelle parole d'amore le fecero una profonda impressione.

Era molto infelice... oramai ne era sicura, benchè nessuno volesse credere alla sua infelicità... Nel suo cuore era un vuoto infinito. Aveva passati i trent'anni... la bella giovinezza correva, correva via, ed ella vi si afferrava, l'acciuffava per la criniera effusa... come se la folle annitrente puledra stesse per isfuggire dalla stretta disperata delle sue mani...

«Non mi accadrà mai nulla di nuovo? Nulla di veramente bello? La vita non mi porterà qualche realtà che sembri un sogno, qualche sogno che diventi per me realtà? Mai? Mai?». Si chiedeva sempre cosí...

Da quel mattino di maggio non se lo chiese più... perchè le parve che fosse finalmente giunta la risposta del destino. Attese. Sperò...

E piovvero altre rose e altre parole d'amore, attraverso la verde chioma dell'annoso platano, ai piedi della Venere senza testa che vigilava il sedile di macigno tutto vellutato di muschi... Sul sedile andava a sedersi ogni mattina donna Isnarda... la quale aveva indagato, saputo, veduto.., e risposto.

Anch'essa era stata presa nel dolce inganno.

Quel giovane povero, che aveva dei bellissimi occhi, cui ella attribuiva un grande ingegno, che l'amava, che la celebrava in versi... l'aveva commossa e conquisa. Se ne innamorò seriamente, profondamente, con felicità e con tristezza insieme, con la persuasione che il suo destino fosse segnato, ch'ella non potesse sottrarsi al fato che la stringeva nella sua stretta ineluttabile.

Ma la sua coscienza, relativamente onesta, non le avrebbe permesso di diventare l'amante del giovane poeta. No. Era troppo... ed era poco pel suo romantico cuore che aveva bisogno di bei gesti, di definitive risoluzioni e di qualche parvenza di virtù. Ingannare suo marito, no, mai. Confessargli lealmente il suo amore, . E dirgli addio, per seguire il suo destino. Ella credeva di avere diritto alla propria libertà, alla propria felicità... e di non avere doveri verso la felicità degli altri. E come attenuante al suo egoismo, si ammantava di quella che le sembrava la bellezza della sincerità e della verità... Il coraggio della rivelazione le mancava però ed esitava a compierla...

Allora, mal trattenendo la sua impazienza, frugò nella vita di suo marito, della quale da un pezzo non le importava più, e vi trovò alcune di quelle facili avventure alle quali forse egli era stato spinto dalla freddezza di lei.... forse dal suo fuggevole capriccio... Vi si afferrò a due mani... Dichiarò che con lui non poteva più vivere, tanto per la sua calpestata dignità di moglie quanto perchè ora amava un altro e voleva formarsi una nuova famiglia.

Il giovane amante, felice e sbalordito dell'andamento delle cose, ch'egli certo non aveva osato prevedere ne suoi sogni più folli, era andato frattanto a prendere la sua laurea in un'altra città, attendendo...

Ella abbandonò tutto, andò all'estero per assumere altra nazionalità ed ottenere il divorzio. Lottò, spese gran parte della sua personale fortuna, tenuta da un solo desiderio, tesa tutta in una volontà invincibile, ardendo tutta di un incendio ch'era divenuto lo stesso soffio della sua vita...

E finalmente ella potè unirsi in matrimonio col giovane addottorato in lettere, senza mezzi di fortuna, che portava a lei come doni nuziali il suo amore poetico ed i suoi ventitre anni...

Andarono a stabilirsi a Roma, dove un amico influente le aveva promesso un posto remunerativo per lui. Andarono ad abitare al terzo piano di una casa borghese, in un quartiere eccentrico della città, in un piccolo appartamento modestamente ammobigliato. Presero una sola persona di servizio. Per mezzo di trasporto, colei che era stata donna Isnarda Simi, contessa di Bargone, non ebbe più altro che il tram.

Un po' di teatro, ogni tanto, un po' di musica, di quando in quando. Non conoscevano nessuno. Le amicizie di prima ella non le coltivava più... prevenendo le scortesie che certo avrebbe ricevute. Le amicizie che avrebbe potuto fare ora, non erano di suo gusto... e le evitava. Egli lavorava e nelle ore libere, scriveva versi... sognando la gloria... Per lui quel matrimonio era stato una conquista... e pel momento ne era soddisfatto ed orgoglioso.

Ella amava molto quel bel ragazzo che le pareva pieno d'ingegno... ed era felice che le appartenesse... felice di quella vita nuova, insolita, legittima eppure insaporata di colpa... Le pareva d'essere un'altra, di avere vent'anni, di vedere le cose del mondo per la prima volta, da un punto di vista tutto diverso di quello di prima. Come un grande paese nuovo ed ignoto, era il mondo per lei! Non più donna Isnarda Simi, contessa di Bargone, ma la signora Isa (le era piaciuto semplificare persino il suo nome) Bussi, moglie di un impiegatuccio, che sarebbe un giorno un celebre poeta.

Il suo poeta, il suo amore, il suo tutto! Lui. Ecco. Non aveva più altro al mondo. Tutto quello che sulla terra possedeva era lui. Il sogno avverato. La grande passione. Non solo nei romanzi si trovano dunque le grandi passioni, ma anche nella vita. «Ah! la vita è buona, la vita è bella! Come sono feliceSpesso ripeteva in queste parole.

Molto spesso. Qualche volta si sorprendeva mentre le pronunziava ad alta voce. Le pareva di sognare, o meglio, di avere sognato. Quale dei due era il sogno? Il passato o il presente? La vita di prima le pareva lontana... in una lontananza irreale di favola...

Era stata lei veramente, una volta, la regina di un racconto di fate? Aveva posseduto davvero un bel palazzo... il gran palazzo dalle linee severe, ammobigliato magnificamente, che aveva dietro il chiuso giardino tutto fresco d'alberi, tutto canoro di uccelli, sul quale piovevano rose e versi di amore? Era lei che poteva ordinare la carrozza o l'automobile quando voleva uscire? Lei che, se toccava un campanello, vedeva accorrere domestici in livrea e cameriere eleganti? Lei che vestiva la sua pallida bellezza di sontuosi abbigliamenti, che languiva di noia, sbadigliando sui divani di broccato, che passava il tempo tra viaggi, feste, riunioni di amichevoli signorili brigate?

«Come sono felicepensava o sillabava per mandar via gl'importuni ricordi della sua passata infelicità. «Adesso ho l'amore.» E sorrideva...

L'amore. Il suo amore aveva ventitre anni. Era malvestito. Non aveva l'abitudine delle abluzioni quotidiane. Non aveva i modi delle persone che ella era usa a trattare. Stava male a tavola. Si serviva, quando non scriveva versi, di un frasario un po' volgare. «Povero amore! Che colpa ne ha? È nato in un altro ambiente. A poco a poco si farà».

Ella, quando di qualche imperfezione di lui si accorgeva (ma non si accorgeva di tutte) lo scusava cosí. Lo trattava come un bambino. Il suo bambino. Quando non lo trattava da grand'uomo, come più spesso faceva. Allora era in estasi davanti a lui, come una schiava. L'amore l'aveva resa più bella. I grandi occhi parevano più scuri e più languidi, con più luce che ombra dentro le pupille... Le labbra più rosse, la personcina più fluida e più giovanile... Aveva trentatre anni... ma qualche volta ne dimostrava ventitre... parevano coetanei, due giovani sposi! «Una bella coppia», diceva la gente.

Nella casetta modesta, coi vestiti fatti da una sartina, ma sempre di buon gusto, con la sua linea squisitamente signorile... ella si occupava per la prima volta nella vita, di faccende domestiche, di economia... Spazzolava i vestiti di suo marito, perchè lo voleva sempre in ordine («È un po' trasandato il mio ragazzaccio!», diceva.) Era tutto il suo mondo, lui, tutto il suo tesoro! Lo guardava, lo ammirava, lo covava con gli occhi, come un avaro guarda il suo gruzzolo d'oro. Tutto . E niente di più. L'amore sogno e realtà. «Che malinconia esserne privi! E pensare che ci sono tante povere donne al mondo che ignorano questo bene! E che io non l'ho conosciuto fino ai trent'anni passati! Ah come sono felice adesso! come sono felice!».

Diceva cosí, scriveva cosí, sottolineando le parole, ai pochi amici lontani che le erano rimasti fedeli, (di lontano, in certi casi è più facile la fedeltà!) che chiedevano notizie di lei.

Ma erano, gli amici lontani, gli stessi scettici di un tempo: quelli che non le prestavano fede quando ella loro diceva, una volta, la sua infelicità... Gli stessi scettici che si rifiutavano di credere, adesso, alla sua felicità.


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