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Nello Rosselli
Carlo Pisacane nel Risorgimento Italiano

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Introduzione

Perché è vivo Pisacane

 

La personalità di Pisacane nella nostra storia politica è di quelle che disorientano per la loro molteplicità. C'è da un verso il soldato colto e studioso che considera il risorgimento d'Italia quale un problema spiccatamente militare; c'è dall'altro lo scrittore che ne sottolinea le premesse e le inderogabili finalità di rivoluzione integrale. C'è il mazziniano puro di Sapri; il socialista e il nazionalista; l'aristocratico e il transfuga della sua classe sociale; l'uomo romantico e l'ammirator di Cattaneo.

Io lo vedo in certo modo come uno specchio d'Italia nel suo tempo. In lui, per quanto non uomo di primissima linea nel Risorgimento, anzi proprio perché non lo fu né mai pretese d'esserlo, si riflettono infatti le varie esigenze, aspirazioni, impostazioni ideali del popolo italiano a mezzo il secolo XIX. La sua vita inquieta le comprende e le esprime un po' tutte; egli ha l'istinto immediato e sicuro della necessità di volta in volta prevalente, sa la falla che preme di chiudere, il silenzio che preme di rompere, il gesto che preme di fare. Il lettore troverà in questo libro la chiave di molte sue contradizioni apparenti, e soprattutto la giustificazione di quel gesto disperato e paradossale che fu, da parte sua, la spedizione di Sapri.

Guerriero e cospiratore, Pisacane ci ammonisce che il riscatto di un popolo dalla tirannia, dalla servitú, dalla cronica fiacchezza politica, è anzitutto problema morale. Cospirazioni, sètte, rivolte, guerra, sta bene; ma hanno ad essere l'ultimo atto. Primo elemento della soluzione: indagare e chiarire perché mai questo popolo si lasciò rapire o rinnegò indipendenza e libertà. Secondo: crearsi e diffondere la coscienza della possibilità, e quindi della doverosità della risurrezione. Terzo: crearsi e diffondere una visione chiara degli ostacoli da superare, delle resistenze da vincere, degli errori da evitare, dei mezzi piú atti a sollecitare la risurrezione, e poi del senso da darle, e del come fondarla graniticamente.

Intorno a questi problemi appunto Pisacane studiò con ostinata passione, e chi legga i suoi libri ha la sensazione d'un incessante frenetico inquieto perché? volto alla storia remota e recente d'Italia, ai suoi geni, alle sue miserie, alle sue condizioni geografiche, economiche, ai suoi ordinamenti passati, ai costumi del suo popolo, all'Europa circostante. Perché cosí grande e libera l'Italia, e poi non piú che una inerte colonia di sfruttamento per le nazioni finitime? Perché cosí belligera e poi cosí imbelle e vigliacca? Perché tanta decadenza nei mezzi, nelle volontà, negli ingegni? Perché?

La risposta suona un inno di fede: l'Italia sta per rinascere a un alto destino; ma il problema del come è gravissimo. Dar vita a una grande nazione è assunto da giganti; bisogna suscitare nei futuri cittadini l'animo, il costume, la consapevolezza adatti ai compartecipi di tanta impresa. Studiare come viva lo Stato moderno, su quali forze si regga, quale ne sia l'ordinamento migliore, quali rapporti debbano correre tra la cittadinanza e il potere esecutivo, quali obiettivi concreti si debbano proporre alla nuova entità statale che si disegna. Tutto fuor che l'improvvisazione, insomma, in quest'Italia in gestazione, nella quale secondo i benpensanti sarebbe meglio non impostare il problema instituzionale per non rischiare di disgustar Torino, né quello di unità o federazione per non ispaventare Napoli o Roma o anche l'Europa, né quello sociale per non buttar la borghesia in braccio alla reazione, né quello militare per la ragione X, né quello della futura politica estera per la ragione Y. «Parole chiare all'Italia di domani»: questo sottotitolo vien voglia di dare alle pagine migliori di Pisacane, non perché le soluzioni da lui proposte meritino d'esser levate a cielo, ma per aver egli, pur non nato agli studi, se non a quelli specializzati tecnico-militari, inteso appunto la necessità di anticipare i problemi del futuro Stato, di impostarli e dibatterli come se fossero attuali, di appassionare gli italiani al mondo del suo nascimento: ciascuno doveva sentirsene insieme e figlio e padre, e come padre ambire, prima che la creatura avesse vita, di rappresentarsi la forma, l'espressione e il peso e il posto che un giorno essa occuperebbe nel mondo.

Ma furono in pochi a pensarla cosí: terribilmente pochi. Né qui si voglion ripetere sul Risorgimento italiano certe considerazioni che a furia di essere originali son doventate stantíe sulla sua intrinseca insufficienza, lo scarso suo fondamento di cultura, la magra partecipazione delle masse, e via discorrendo. Il Risorgimento fu il resultato di una doppia serie di sforzi: negativi gli uni (per liberarsi dalla dominazione straniera e dall'oppressione politica), positivi gli altri (per costruire un'entità politica nuova). Alla fase negativa può dirsi che prendesse parte in un modo o nell'altro, o per ragioni ideali o per ragioni d'interesse o per una combinazione di queste e di quelle, una frazione notevolissima degli italiani pensanti; alla fase positiva, effettivamente, una minoranza sparuta. Ancora alla vigilia del '59 quegli italiani pensanti, salvo eccezioni ch'io direi numerabili, sapevano bene quel che non volevano piú, ignoravano cosa volessero di nuovo. Gli sforzi negativi avevan scalzato, comunque, le fondamenta dei regimi esistenti: ond'è che in un'Italia instabile sulle sue basi, seppur poco matura a un'autotrasformazione cosciente e vitale, bastò una scossa relativamente assai debole per travolgere il tutto e per imporre quella soluzione che, per quanto niente affatto conforme ai desideri della maggioranza, aveva sull'altre il vantaggio di presentarsi appoggiata a un organismo robusto qual era il Piemonte. La costituzione del regno unito fu un dono dall'alto, stupefacente e inatteso.

Da secoli era stato sempre cosí: la fragilità e la passività italiane giungevano a tale che essa era caduta docilmente preda, un dopo l'altro, di dominatori nostrali o stranieri dotati di un minimum di decisione e di forza.

Pisacane appartenne alla minoranza sparuta dei «positivi». E il suo massimo intento fu precisamente quello, riuscito vano, d'impedire che una volta di piú l'Italia rinunciasse all'autodeterminazione e si afflosciasse sotto una nuova disciplina imposta. La quale, per essere italiana e a tutto beneficio degli italiani, non era per questo meno estranea ai piú di loro e non implicava, da parte loro, minor rinunciatarismo morale. Non che Pisacane lo dicesse mai cosí chiaro; ma s'intende benissimo ch'egli avrebbe le mille volte preferito a una rapida realizzazione integrale dell'unità d'Italia per opera e sotto il controllo d'uno dei suoi Principi, il conseguimento d'un resultato provvisoriamente parziale per via di schietta rivoluzione.

Povero dottrinario! Andava interrogando la storia d'Italia per rendersi conto se sarebbe mai stato possibile richiedere agli italiani sollevati di far la loro guerra, la guerra di popolo, allo straniero e al dispotismo, e bastarono Plombières e una brillante, corta campagna di eserciti stanziali, calcolata per dilatare il Piemonte nella valle del Po e la influenza francese nella Penisola, a determinare la formazione fulminea d'un regno unito dell'Italia centrale e settentrionale. Andava farneticando della imprescindibile necessità preventiva di guadagnare alla causa del rinnovamento italiano il consenso attivo delle maggioranze, e il Mezzogiorno cadde di botto in mano di Garibaldi, tra la suprema indifferenza di novanta su cento dei siciliani, dei calabresi, dei napoletani!

Improvvisazione? Fortuna? Eppure l'Italia sotto il segno sabaudo è viva, è cresciuta, e s'afforza. D'accordo: ma quante volte e da quanti, dal '60 in poi, non s'è avuto ragione di deplorare che la gran massa degli italiani, anziché contribuire a formarla, l'abbian soltanto lasciata fare!

Se dunque la storia — la storia dei «fatti» — ha smentito Pisacane e quei pochi con lui, potrebbe darsi che avesse reso loro giustizia in un senso piú riposto, in un piano ideale nel quale quei fatti non valgono che come meri accidenti esteriori, oltre ai quali, o dentro ai quali, si cela alcunché di assai piú importante, e anzi che unicamente importa: la loro intima ragione e giustificazione morale, la virtú benefica o malefica che ne discende.

In verità l'improvviso e improvvisato trionfo della minoranza dirigente, il miracoloso adeguarsi della realtà ai piani da essa frettolosamente disposti dovettero stupire e confondere, in un primo tempo, i trionfatori medesimi. Ai quali però venne prestissimo fatto di ritrovare l'equilibrio; e si convinsero con estrema facilità, e in buona fede convinsero gli altri intorno a loro, e indussero diplomatici giornalisti e scrittori a convincere il pubblico italiano ed europeo, che il trionfo era pienamente meditato e previsto; che ogni elemento della situazione era stato tempestivamente soppesato, e il giuoco regolato a puntino, e che era da ascriversi all'abilità della loro politica se certe soluzioni si eran verificate con apparenza di fortunate combinazioni, e non piuttosto come logica soluzione, nella realtà dei fatti, di programmi da lungo tempo prestabiliti e maturi. Fecero anche di piú: persuasero le élites delle varie regioni italiane esser le raggiunte novità giusto premio del tenace volere e risolutezza e patimenti da esse spiegati e sofferti. Fu cosí che, fatto centro naturalmente sul '48-49, si diffuse e accreditò la leggenda secondo la quale il popolo italiano, a dir poco dal '20 in poi, non avrebbe fatto che anticipare col desiderio e affrettare con le opere l'instaurazione di un regime nuovo, e per l'appunto di un regime sul tipo di quello che si era pur mo inaugurato. E Pisacane che era morto nel '57, scannato da quelli stessi che ora inalzavano a gara archi di trionfo a Garibaldi!

Pure, questa giustificazione postuma della cosí detta rivoluzione unitaria in un primo tempo giovò: perché ciascuno che appartenesse a quelle élites, tornandogli gradito di cogliere per sé una fogliolina del lauro ufficiale dispensato a cosí buon mercato, naturalmente accettò di buon grado tale versione e, figurandosi d'esser davvero un patriarca della nuova patria, prese parte con amore alla cosa pubblica, che sentí sua; perché quegli istituti che, come ormai tutti ammonivano, erano stati conquistati dagli italiani con lagrime e sangue, gli istituti della libertà, parvero sacro e intangibile patrimonio comune, da difendersi con l'unghie e coi denti, e la formazione di una prima coscienza unitaria della borghesia n'ebbe incremento. E il mondo si volse con una tal quale ammirativa tenerezza e benevolenza verso questo popolo che, dopo secoli di servitú e divisione, avea voluta, imposta e conquistata brano a brano la sua indipendenza, e verso i suoi uomini rappresentativi che avevano saputo guidarlo con tanta oculatezza.

Ma un grave danno avvenire si celava fra quel profluvio di beni. La grandissima maggioranza degli italiani non si rese conto infatti della parte cospicua che nel miracolo del '59-60 doveva attribuirsi a un insieme di circostanze fortuite estremamente favorevoli. L'impacciata neutralità delle grandi potenze di fronte alla crescente audacia del governo piemontese, ad esempio, parve ai piú naturalissima cosa, che avrebbe anche potuto ripetersi nel séguito; e poiché non si tenne il debito conto della fragilità degli ostacoli che le forze sarde, o comunque facenti capo a Torino, avean dovuto travolgere, accadde che le intrinseche possibilità del Piemonte, nerbo dal '61 in poi di quelle italiane, venissero pericolosamente sopravalutate. Gli italiani avrebbero dovuto ringraziare il cielo (e il Piemonte) dei resultati raggiunti e senza requie attendere a consolidarli: si posero in capo invece che il '61 fosse soltanto una prima tappa su una strada assai lunga che ormai si profilava dinanzi a loro (e questo era vero); strada che andava percorsa da capo a fondo con quel passo alla bersagliera che si era cosí bene tenuto negli ultimi due anni (e questo era perniciosissimo errore). S'immaginarono inoltre esser la lunga laboriosa preparazione di un qualunque avanzamento politico o sociale prerogativa non invidiabile di altri popoli e climi: agli italiani convenire invece mosse geniali, improvvisate, tempiste, i colpi di scena, il procedere a sbalzi. E poiché dopo il '60 ma piú ancora dopo il '70 i tempi volsero alquanto difficili, e mamma Europa si fece arcigna verso questa figlioletta cresciuta d'un tratto, pretendendo usasse modi e atteggiamenti confacenti ormai alla sua nuova statura e smettesse certe bizzarrie dell'infanzia, gli italiani che si erano avvezzati da un poco a veder cogliere a loro pro e senza troppa fatica tutte le buone occasioni che passassero a portata di mano, non perdonarono ai loro nuovi governanti di non saper continuare una tradizione comoda e, paragonandoli ai loro predecessori in ufficio, li videro nani appetto a giganti, tortore in nido di aquile. In questo modo s'insinuò fra di noi il germe del malcontento cronico. Si formò l'abito di censurare sistematicamente il governo (come se il «governo» nei paesi liberi non fosse espressione dei governati), di agitare dinanzi ad esso modelli fantastici, di vilipenderlo perché incapace di regalarci, un anno e un anno no, una nuova provincia o, mettiamo, una ricca colonia. Gli istituti liberali, che sapevano ancor di vernice, parvero anch'essi ben presto decrepiti, scambiandosi gli scricchiolii dell'assestamento per quelli del fracidume; che, scomparsa la prima generazione che ricordava nel vivo i danni e le malefatte dell'assolutismo e che pur blaterando contro il cattivo rendimento del regime nuovo, lo avrebbe poi difeso contro ogni seria minaccia, qual meraviglia che nelle generazioni successive, eredi fortunatissime di beni tanto cospicui, crescesse a dismisura il numero degli scontenti? E che questi rinforzassero giornalmente la dose nell'aspro giudizio contro l'ignavia dei governi e il danno del regime libero, e attendessero messianicamente il ritorno alla brillante tradizione della magia politica, a quel beato tempo, cioè, nel quale bastava scuotere appena appena le fronde per riempirsi le tasche di ghiande cadute? Ma se in un caso, raro nella storia, quelle ghiande eran cadute d'oro, nel séguito, ahimè, non furon che ghiande.

Fecondo d'incommensurabili beni, il nostro Risorgimento politico, svoltosi per modi e per vie e con un ritmo che Pisacane deprecò sempre, ha dunque messo in circolazione anche dei virulenti bacilli di lenta incubazione, ma d'inesorabile effetto.

Giustizia vorrebbe dunque che andassimo piú grati che non si soglia a quei pochi che, intesa in tempo la serietà del problema italiano, avvertirono la necessità che l'Italia s'avesse a fare col concorso se non proprio della maggioranza numerica dei suoi cittadini, delle piú vaste categorie d'interessi; che si operasse in modo cioè da favorire la conversioneinevitabilmente lenta — di codesti interessi verso la soluzione auspicata, e si attendesse, per passare all'azione, la conversione compiuta.

Sotto il qual punto di vista è lamentevole dunque che Pisacane chiudesse la sua vita dando un calcio solenne — anche lui! — a tali principii e metodi: ché di cittadini del suo stampo l'Italia, e nella crisi del '59-60 e nell'arduo periodo seguito all'unificazione, aveva invero bisogno grandissimo. Il profeta suicida inconsciamente oscurava agli italiani il senso prezioso delle sue intuizioni e delle sue profezie.

 




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