La personalità di Pisacane nella nostra storia politica è
di quelle che disorientano per la loro molteplicità. C'è
da un verso il soldato colto e studioso che considera il risorgimento
d'Italia quale un problema spiccatamente militare; c'è
dall'altro lo scrittore che ne sottolinea le premesse e le
inderogabili finalità di rivoluzione integrale. C'è il
mazziniano puro di Sapri; il socialista e il nazionalista;
l'aristocratico e il transfuga della sua classe sociale; l'uomo
romantico e l'ammirator di Cattaneo.
Io lo vedo
in certo modo come uno specchio d'Italia nel suo tempo. In lui, per
quanto non uomo di primissima linea nel Risorgimento, anzi proprio
perché non lo fu né mai pretese d'esserlo, si
riflettono infatti le varie esigenze, aspirazioni, impostazioni
ideali del popolo italiano a mezzo il secolo XIX. La sua vita
inquieta le comprende e le esprime un po' tutte; egli ha l'istinto
immediato e sicuro della necessità di volta in volta
prevalente, sa la falla che preme di chiudere, il silenzio che preme
di rompere, il gesto che preme di fare. Il lettore troverà in
questo libro la chiave di molte sue contradizioni apparenti, e
soprattutto la giustificazione di quel gesto disperato e paradossale
che fu, da parte sua, la spedizione di Sapri.
Guerriero e cospiratore, Pisacane ci
ammonisce che il riscatto di un popolo dalla tirannia, dalla servitú,
dalla cronica fiacchezza politica, è anzitutto problema
morale. Cospirazioni, sètte, rivolte, guerra, sta bene; ma
hanno ad essere l'ultimo atto. Primo elemento della soluzione:
indagare e chiarire perché mai questo popolo si lasciò
rapire o rinnegò indipendenza e libertà. Secondo:
crearsi e diffondere la coscienza della possibilità, e quindi
della doverosità della risurrezione. Terzo: crearsi e
diffondere una visione chiara degli ostacoli da superare, delle
resistenze da vincere, degli errori da evitare, dei mezzi piú
atti a sollecitare la risurrezione, e poi del senso da darle, e del
come fondarla graniticamente.
Intorno a questi problemi appunto
Pisacane studiò con ostinata passione, e chi legga i suoi
libri ha la sensazione d'un incessante frenetico inquieto perché?
volto alla storia remota e recente d'Italia, ai suoi geni, alle sue
miserie, alle sue condizioni geografiche, economiche, ai suoi
ordinamenti passati, ai costumi del suo popolo, all'Europa
circostante. Perché cosí grande e libera l'Italia, e
poi non piú che una inerte colonia di sfruttamento per le
nazioni finitime? Perché cosí belligera e poi cosí
imbelle e vigliacca? Perché tanta decadenza nei mezzi, nelle
volontà, negli ingegni? Perché?
La risposta
suona un inno di fede: l'Italia sta per rinascere a un alto destino;
ma il problema del come è gravissimo. Dar vita a una
grande nazione è assunto da giganti; bisogna suscitare nei
futuri cittadini l'animo, il costume, la consapevolezza adatti ai
compartecipi di tanta impresa. Studiare come viva lo Stato moderno,
su quali forze si regga, quale ne sia l'ordinamento migliore, quali
rapporti debbano correre tra la cittadinanza e il potere esecutivo,
quali obiettivi concreti si debbano proporre alla nuova entità
statale che si disegna. Tutto fuor che l'improvvisazione, insomma, in
quest'Italia in gestazione, nella quale secondo i benpensanti sarebbe
meglio non impostare il problema instituzionale per non rischiare di
disgustar Torino, né quello di unità o federazione per
non ispaventare Napoli o Roma o anche l'Europa, né quello
sociale per non buttar la borghesia in braccio alla reazione, né
quello militare per la ragione X, né quello della futura
politica estera per la ragione Y. «Parole chiare all'Italia di
domani»: questo sottotitolo vien voglia di dare alle pagine
migliori di Pisacane, non perché le soluzioni da lui proposte
meritino d'esser levate a cielo, ma per aver egli, pur non nato agli
studi, se non a quelli specializzati tecnico-militari, inteso appunto
la necessità di anticipare i problemi del futuro Stato, di
impostarli e dibatterli come se fossero attuali, di appassionare gli
italiani al mondo del suo nascimento: ciascuno doveva sentirsene
insieme e figlio e padre, e come padre ambire, prima che la creatura
avesse vita, di rappresentarsi la forma, l'espressione e il peso e il
posto che un giorno essa occuperebbe nel mondo.
Ma furono in pochi a pensarla cosí:
terribilmente pochi. Né qui si voglion ripetere sul
Risorgimento italiano certe considerazioni che a furia di essere
originali son doventate stantíe sulla sua intrinseca
insufficienza, lo scarso suo fondamento di cultura, la magra
partecipazione delle masse, e via discorrendo. Il Risorgimento fu il
resultato di una doppia serie di sforzi: negativi gli uni (per
liberarsi dalla dominazione straniera e dall'oppressione politica),
positivi gli altri (per costruire un'entità politica nuova).
Alla fase negativa può dirsi che prendesse parte in un modo o
nell'altro, o per ragioni ideali o per ragioni d'interesse o per una
combinazione di queste e di quelle, una frazione notevolissima degli
italiani pensanti; alla fase positiva, effettivamente, una minoranza
sparuta. Ancora alla vigilia del '59 quegli italiani pensanti, salvo
eccezioni ch'io direi numerabili, sapevano bene quel che non volevano
piú, ignoravano cosa volessero di nuovo. Gli sforzi negativi
avevan scalzato, comunque, le fondamenta dei regimi esistenti: ond'è
che in un'Italia instabile sulle sue basi, seppur poco matura a
un'autotrasformazione cosciente e vitale, bastò una scossa
relativamente assai debole per travolgere il tutto e per imporre
quella soluzione che, per quanto niente affatto conforme ai desideri
della maggioranza, aveva sull'altre il vantaggio di presentarsi
appoggiata a un organismo robusto qual era il Piemonte. La
costituzione del regno unito fu un dono dall'alto, stupefacente e
inatteso.
Da secoli era stato sempre cosí:
la fragilità e la passività italiane giungevano a tale
che essa era caduta docilmente preda, un dopo l'altro, di dominatori
nostrali o stranieri dotati di un minimum di decisione e di
forza.
Pisacane appartenne alla minoranza
sparuta dei «positivi». E il suo massimo intento fu
precisamente quello, riuscito vano, d'impedire che una volta di piú
l'Italia rinunciasse all'autodeterminazione e si afflosciasse sotto
una nuova disciplina imposta. La quale, per essere italiana e a tutto
beneficio degli italiani, non era per questo meno estranea ai piú
di loro e non implicava, da parte loro, minor rinunciatarismo morale.
Non che Pisacane lo dicesse mai cosí chiaro; ma s'intende
benissimo ch'egli avrebbe le mille volte preferito a una rapida
realizzazione integrale dell'unità d'Italia per opera e sotto
il controllo d'uno dei suoi Principi, il conseguimento d'un resultato
provvisoriamente parziale per via di schietta rivoluzione.
Povero dottrinario! Andava
interrogando la storia d'Italia per rendersi conto se sarebbe mai
stato possibile richiedere agli italiani sollevati di far la loro
guerra, la guerra di popolo, allo straniero e al dispotismo, e
bastarono Plombières e una brillante, corta campagna di
eserciti stanziali, calcolata per dilatare il Piemonte nella valle
del Po e la influenza francese nella Penisola, a determinare la
formazione fulminea d'un regno unito dell'Italia centrale e
settentrionale. Andava farneticando della imprescindibile necessità
preventiva di guadagnare alla causa del rinnovamento italiano il
consenso attivo delle maggioranze, e il Mezzogiorno cadde di botto in
mano di Garibaldi, tra la suprema indifferenza di novanta su cento
dei siciliani, dei calabresi, dei napoletani!
Improvvisazione?
Fortuna? Eppure l'Italia sotto il segno sabaudo è viva, è
cresciuta, e s'afforza. D'accordo: ma quante volte e da quanti, dal
'60 in poi, non s'è avuto ragione di deplorare che la gran
massa degli italiani, anziché contribuire a formarla, l'abbian
soltanto lasciata fare!
Se dunque la storia — la storia
dei «fatti» — ha smentito Pisacane e quei pochi con
lui, potrebbe darsi che avesse reso loro giustizia in un senso piú
riposto, in un piano ideale nel quale quei fatti non valgono che come
meri accidenti esteriori, oltre ai quali, o dentro ai quali, si cela
alcunché di assai piú importante, e anzi che unicamente
importa: la loro intima ragione e giustificazione morale, la virtú
benefica o malefica che ne discende.
In verità l'improvviso e
improvvisato trionfo della minoranza dirigente, il miracoloso
adeguarsi della realtà ai piani da essa frettolosamente
disposti dovettero stupire e confondere, in un primo tempo, i
trionfatori medesimi. Ai quali però venne prestissimo fatto di
ritrovare l'equilibrio; e si convinsero con estrema facilità,
e in buona fede convinsero gli altri intorno a loro, e indussero
diplomatici giornalisti e scrittori a convincere il pubblico italiano
ed europeo, che il trionfo era pienamente meditato e previsto; che
ogni elemento della situazione era stato tempestivamente soppesato, e
il giuoco regolato a puntino, e che era da ascriversi all'abilità
della loro politica se certe soluzioni si eran verificate con
apparenza di fortunate combinazioni, e non piuttosto come logica
soluzione, nella realtà dei fatti, di programmi da lungo tempo
prestabiliti e maturi. Fecero anche di piú: persuasero le
élites delle varie regioni italiane esser le raggiunte
novità giusto premio del tenace volere e risolutezza e
patimenti da esse spiegati e sofferti. Fu cosí che, fatto
centro naturalmente sul '48-49, si diffuse e accreditò la
leggenda secondo la quale il popolo italiano, a dir poco dal '20 in
poi, non avrebbe fatto che anticipare col desiderio e affrettare con
le opere l'instaurazione di un regime nuovo, e per l'appunto di un
regime sul tipo di quello che si era pur mo inaugurato. E Pisacane
che era morto nel '57, scannato da quelli stessi che ora inalzavano a
gara archi di trionfo a Garibaldi!
Pure, questa giustificazione postuma
della cosí detta rivoluzione unitaria in un primo tempo giovò:
perché ciascuno che appartenesse a quelle élites,
tornandogli gradito di cogliere per sé una fogliolina del
lauro ufficiale dispensato a cosí buon mercato, naturalmente
accettò di buon grado tale versione e, figurandosi d'esser
davvero un patriarca della nuova patria, prese parte con amore alla
cosa pubblica, che sentí sua; perché quegli istituti
che, come ormai tutti ammonivano, erano stati conquistati dagli
italiani con lagrime e sangue, gli istituti della libertà,
parvero sacro e intangibile patrimonio comune, da difendersi con
l'unghie e coi denti, e la formazione di una prima coscienza unitaria
della borghesia n'ebbe incremento. E il mondo si volse con una tal
quale ammirativa tenerezza e benevolenza verso questo popolo che,
dopo secoli di servitú e divisione, avea voluta, imposta e
conquistata brano a brano la sua indipendenza, e verso i suoi uomini
rappresentativi che avevano saputo guidarlo con tanta oculatezza.
Ma un grave danno avvenire si celava
fra quel profluvio di beni. La grandissima maggioranza degli italiani
non si rese conto infatti della parte cospicua che nel miracolo del
'59-60 doveva attribuirsi a un insieme di circostanze fortuite
estremamente favorevoli. L'impacciata neutralità delle grandi
potenze di fronte alla crescente audacia del governo piemontese, ad
esempio, parve ai piú naturalissima cosa, che avrebbe anche
potuto ripetersi nel séguito; e poiché non si tenne il
debito conto della fragilità degli ostacoli che le forze
sarde, o comunque facenti capo a Torino, avean dovuto travolgere,
accadde che le intrinseche possibilità del Piemonte, nerbo dal
'61 in poi di quelle italiane, venissero pericolosamente
sopravalutate. Gli italiani avrebbero dovuto ringraziare il cielo (e
il Piemonte) dei resultati raggiunti e senza requie attendere a
consolidarli: si posero in capo invece che il '61 fosse soltanto una
prima tappa su una strada assai lunga che ormai si profilava dinanzi
a loro (e questo era vero); strada che andava percorsa da capo a
fondo con quel passo alla bersagliera che si era cosí bene
tenuto negli ultimi due anni (e questo era perniciosissimo errore).
S'immaginarono inoltre esser la lunga laboriosa preparazione di un
qualunque avanzamento politico o sociale prerogativa non invidiabile
di altri popoli e climi: agli italiani convenire invece mosse
geniali, improvvisate, tempiste, i colpi di scena, il procedere a
sbalzi. E poiché dopo il '60 ma piú ancora dopo il '70
i tempi volsero alquanto difficili, e mamma Europa si fece arcigna
verso questa figlioletta cresciuta d'un tratto, pretendendo usasse
modi e atteggiamenti confacenti ormai alla sua nuova statura e
smettesse certe bizzarrie dell'infanzia, gli italiani che si erano
avvezzati da un poco a veder cogliere a loro pro e senza troppa
fatica tutte le buone occasioni che passassero a portata di mano, non
perdonarono ai loro nuovi governanti di non saper continuare una
tradizione sí comoda e, paragonandoli ai loro predecessori in
ufficio, li videro nani appetto a giganti, tortore in nido di aquile.
In questo modo s'insinuò fra di noi il germe del malcontento
cronico. Si formò l'abito di censurare sistematicamente il
governo (come se il «governo» nei paesi liberi non fosse
espressione dei governati), di agitare dinanzi ad esso modelli
fantastici, di vilipenderlo perché incapace di regalarci, un
anno sí e un anno no, una nuova provincia o, mettiamo, una
ricca colonia. Gli istituti liberali, che sapevano ancor di vernice,
parvero anch'essi ben presto decrepiti, scambiandosi gli scricchiolii
dell'assestamento per quelli del fracidume; sí che, scomparsa
la prima generazione che ricordava nel vivo i danni e le malefatte
dell'assolutismo e che pur blaterando contro il cattivo rendimento
del regime nuovo, lo avrebbe poi difeso contro ogni seria minaccia,
qual meraviglia che nelle generazioni successive, eredi
fortunatissime di beni tanto cospicui, crescesse a dismisura il
numero degli scontenti? E che questi rinforzassero giornalmente la
dose nell'aspro giudizio contro l'ignavia dei governi e il danno del
regime libero, e attendessero messianicamente il ritorno alla
brillante tradizione della magia politica, a quel beato tempo, cioè,
nel quale bastava scuotere appena appena le fronde per riempirsi le
tasche di ghiande cadute? Ma se in un caso, raro nella storia, quelle
ghiande eran cadute d'oro, nel séguito, ahimè, non
furon che ghiande.
Fecondo d'incommensurabili beni, il
nostro Risorgimento politico, svoltosi per modi e per vie e con un
ritmo che Pisacane deprecò sempre, ha dunque messo in
circolazione anche dei virulenti bacilli di lenta incubazione, ma
d'inesorabile effetto.
Giustizia vorrebbe dunque che
andassimo piú grati che non si soglia a quei pochi che, intesa
in tempo la serietà del problema italiano, avvertirono la
necessità che l'Italia s'avesse a fare col concorso se non
proprio della maggioranza numerica dei suoi cittadini, delle piú
vaste categorie d'interessi; che si operasse in modo cioè da
favorire la conversione — inevitabilmente lenta — di
codesti interessi verso la soluzione auspicata, e si attendesse, per
passare all'azione, la conversione compiuta.
Sotto il qual punto di vista è
lamentevole dunque che Pisacane chiudesse la sua vita dando un calcio
solenne — anche lui! — a tali principii e metodi: ché
di cittadini del suo stampo l'Italia, e nella crisi del '59-60 e
nell'arduo periodo seguito all'unificazione, aveva invero bisogno
grandissimo. Il profeta suicida inconsciamente oscurava agli italiani
il senso prezioso delle sue intuizioni e delle sue profezie.
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