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Nello Rosselli
Carlo Pisacane nel Risorgimento Italiano

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  • CARLO PISACANE NEL RISORGIMENTO ITALIANO
    • Capitolo primo Giovinezza
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Capitolo primo
Giovinezza

 

Al tempo dei Borboni, sulla facciata di un vasto edificio nel centro di Napoli si leggeva la seguente iscrizione: «Questa Accademia — perché nell'arte della guerra — e negli ornati costumi — la militare gioventúottimamente ammaestratacrescesse a gloria e sicurezza dello StatoFerdinando IV — con regal munificenza fondò — l'anno del suo regno XXIX». Era l'aristocratico collegio della Nunziatella, celebre in Europa, nel quale venivano educati alle armi i rampolli della nobiltà e dell'alta ufficialità napoletana.

Nell'anno 1831 un giovinetto di tredici anni, non destinato precisamente ad aumentare la «gloria e sicurezza dello Stato» — Carlo Pisacane, figlio cadetto dei duchi di S. Giovanni1entrava quale allievo nella Nunziatella. Suoi compagni di studio, se non proprio del medesimo corso, furono Cosenz, i due Mezzacapo, Boldoni, Pianell, Orsini, Girolamo Ulloa, Carrano, Longo, De Sauget: tutti finiti, dopo tempestose carriere, generali dell'esercito italiano, e molti senatori del Regno, e tre nientedimeno che Collari dell'Annunziata.

Orfano di padre a sei anni, della madre poco tenero, Pisacane non aveva avuto di certo l'infanzia felice. Dei fratelli, il maggiore, Filippo, lo aveva preceduto nella carriera militare, e fu poi sempre un borbonico arrabbiato; Luisa ci sarebbe del tutto ignota se una lettera superstite non ce la mostrasse, dopo il '50, sposa e madre e in qualche intimità con Carlo.

La vera famiglia di Pisacane fu dunque la Nunziatella. Otto anni vi duravan gli studi, principalissimi quelli delle scienze esatte e della dottrina e pratica militare; ma bene vi s'insegnavano anche le lettere, italiane latine e francesi, e con grandissimo zelo vi si curavano gli esercizi fisici, ballo, nuoto, scherma, equitazione. Il tutto coronato, s'intende, dalle quotidiane pratiche religiose, minute, meschine, inderogabili.

Di prim'ordine era il corpo insegnante, accuratamente e intelligentemente scelto, quasi sempre dal Sovrano in persona; tanto che, pur di assicurare alla Nunziatella docenti di riconosciuto valore, in qualche caso si giunse perfino a indulgere sulla poca ortodossia delle loro idee politiche e religiose: prova un Mariano D'Ayala, professor di balistica, che allargava i limiti di codesta materia fino a comprendervi la libertà politica, un Francesco De Sanctis di lettere (ma di De Sanctis, e lo attestano fin troppo i suoi scritti, Pisacane non giunse ad essere allievo). Nel '48 il corpo insegnante si contenne in tal modo che bisognò, l'anno di poi, radicalmente epurarlo!

Un convitto severo e di etichetta borbonica, dunque; ma non eccessivamente pedante, non di quegli istituti che usavano un tempo, dei quali diresti che l'intento precipuo fosse quello di soffocare la vivacità dei ragazzi e scoraggiarne le inclinazioni individuali. I rapporti tra professori e discepoli correvan cordiali, i ragazzi restavan ragazzi: al punto che Pisacane, pur notato per il suo talento nelle matematiche, poté lasciare ricordo di sé nella Nunziatella per il suo «ardire e fierezza» e per la strabiliante abilità negli sports, non ultimo quello di farsi ragione da sé, quando occorresse, menando magistralmente le mani. Si tolleravano perfino le discussioni politiche. S'intende, non di politica interna: ma se anche si parlava di Carlisti e Cristini e della eterna guerriglia tra loro, l'infiammarsi per questi ultimi, campioni di liberalismo, quando si sapeva che il re di Napoli proteggeva ufficialmente l'assolutista don Carlos non era indizio di un certo frondismo? Di Pisacane si narra che, appassionato Cristino, a un certo punto, stanco di difendere il suo partito soltanto a parole, volesse addirittura piantar la Nunziatella per «correre ai campi della maggior libertà». Ma poi, volente o nolente, mutò pensiero.

Da questo collegio uscivano dunque i migliori ufficiali dell'esercito napoletano, quelli destinati a raggiungere i gradi piú alti della gerarchia militare. Nessuno di loro dimenticava mai piú quegli otto anni di piacevole clausura; dicevano con sussiego «vengo dalla Nunziatella» e le amicizie formatesi dentro duravano salde, per variar di vicende.

Fra gli allievi migliori si sceglievano i paggi di corte, ufficio puramente onorifico: anche Pisacane fu paggio per quattro anni di seguito2. Venne dunque a contatto con Ferdinando II. Certo non prevedeva che vent'anni piú tardi avrebbe levato al cielo il mancato regicida Agesilao Milano. Ma che pensava, allora, del suo re? Non ne sappiamo niente, a poco servendoci l'osservazione del suo primo biografo essere «questo non lieve indizio di sua nobile indole, che, in quell'età giovanissima cosí facile agli allettamenti ed agli inganni, si serbasse incorrotto e non bevesse il veleno dei consorzi cortigianeschi». Ma la strana parabola della popolarità ferdinandea nella classe colta napoletana di certo non poté non colpirlo.

Nel 1830, morendo, Francesco I aveva lasciato al figlio quel che poteva dirsi la «casa in ordine»: popolazione tranquilla (o apparentemente tale), regime assolutista e reazionario al cento per cento, finanza relativamente sana, tutela di Vienna, tradizione politica del piede di casa. Ma Ferdinando II era salito al trono in un momento difficile: proprio quattro mesi dopo quella rivoluzione di luglio che aveva destato immenso fremito di agitazione e di speranze nei popoli d'Europa e dato un colpo di maglio ai trattati del '15. Còmpito grave, dopo il '30, regnare: gravissimo a Napoli, ché l'equilibrio del regime borbonico poggiava tutto sugli strati piú bassi della popolazione (sempre vivo e istruttivo il ricordo del '99!), nemici per istinto d'ogni novità politica, e nella loro infinita miseria non d'altro sognanti che di possedere la terra; tradizionale per contro il distacco dalla borghesia, dai professionisti cioè e dai ceti nuovi possidenti e intraprendenti, dei quali nel resto d'Europa s'andava sempre piú delineando la prevalenza politica. Equilibrio anacronistico, insomma: non che da questi ceti, intorno al '30 — salvo eccezioni singole e controllate ed affrontate subito, di liberali convinti e risoluti e «italiani» — partisse un'opposizione sistematica al regime borbonico o l'aspirazione a un superamento del patriottismo regionale napoletano; ma c'erano vene spiccate di malcontento, c'era una irritazione generica, che s'attribuiva di solito all'amministrazione scorretta, alle meschinità della censura, all'austrofilismo umiliante in politica estera, a mille altri motivetti del genere. In realtà quello di cui i ceti medi soffrivano era l'indifferenza del regime borbonico per le loro iniziative, era il fatto che alla loro nuova potenza economica non corrispondesse alcuna influenza politica. La nobiltà, divisa, non aveva esistenza come classe politica; la burocrazia era, come sempre, affezionata alla greppia; l'artigianato urbano irrequieto e instabile, infido per tutti, massa di manovra. Fuori del regno, una grossa molestia, i fuorusciti politici: sparlavano del regime, complottavano, osservavano la vita d'Europa, scrivevano molto, sembravano concludere poco; pericolosa per altro questa sprovincializzazione di una élite di oppositori!

Vien su Ferdinando, si mette al lavoro: il bilancio dei primi mesi segna un grandioso successo. Eppure non ha fatto gran che: un'amnistia politica, qualche licenziamento di alti funzionari, qualche riassunzione in ufficio di personalità compromesse del periodo francese, un ritocco intelligente al sistema tributario; ha temperato la strapotenza della censura, ha dichiarato di voler dare fiato e sviluppo ai commerci, all'industria. Ma la tendenza colpisce: un ponte gettato tra monarchia e borghesia? Significative poi le prime mosse in politica estera: cordialità con Luigi Filippo, l'Austria trattata da potenza amica, non piú da tutrice; dichiarazioni d'indipendenza a tutti i gabinetti d'Europa; aumento di spese militari.

A Napoli, si sa, gli entusiasmi son facili, le fantasie si sbriglian con poco. Amnistia? Ma Ferdinando è un liberale in trono! Revisione di conti a certi satrapi onnipotenti? Ma il re vuol dunque la Costituzione! Esercito forte? La guerra d'Italia! Perfino Metternich s'allarma, e Carlo Alberto, incoronato appena, s'ingelosisce. I liberali di tutta Italia tentano approcci col re riformatore.

Effervescenza effimera: passan due anni, tre anni, e il quadro è radicalmente mutato. La borghesia alta, piccola e media, delusa, è piú assente che mai dal regime, molti ripetono «si stava meglio quando si stava peggio». Tranquillità di Metternich, impopolarità del Borbone anche fuori del Regno. Che mai è accaduto? Una cosa assai logica: si è dissipato un equivoco. Ferdinando è infatti antiliberale, assolutista, paternalistico come tutti della sua Casa; nessuna seria intenzione in lui di mutare registro. Egli ha inteso la necessità di restaurare l'edificio statale semplicemente perché vuol conservarlo in sostanza immutato. Di qui quei tali provvedimenti che hanno destato un cosí fervoroso consenso; ma nessuna concessione, Dio guardi, allo spirito del tempo. Un tentativo di assolutismo illuminato, insomma, eseguito da un monarca foderato delle migliori intenzioni, ma di ben povere qualità personali, e che non può neanche appoggiarsi, come il suo concorrente Carlo Alberto in Piemonte, su una classe politica colta e modernamente educata: tutt'al piú su poche singole individualità. Al suo tentativo ha piú di tutto nociuto, d'altronde, proprio quello sproporzionato entusiasmo che ne ha salutati gl'inizi: e infatti, mentre il monarca si è indotto a una maggiore prudenza, l'inutile attesa degli ulteriori sviluppi della sua politica ha diffuso tra i sudditi il piú largo scontento.

Quando poi si vide Ferdinando assai fermo e rigoroso contro i liberali ringalluzziti, gli uomini migliori del napoletano, immaginandosi d'essere stati ingannati (e lo erano stati infatti, ma dalla loro stessa immaginazione, dai loro stessi desideri), principiarono a vituperare il re anche al di dell'equo e a diffamarlo sistematicamente in Europa. Nel risucchio di quell'ondata di favore che aveva accolto nel '30 questo sperato Luigi Filippo napoletano, passò cosí inapprezzato e restò sterile anche quel po' di buono che, fra tanti malanni, egli si era proposto di fare e che fece.

Partecipasse o no Pisacane alla infatuazione, prima, alla denigrazione, poi, di re Ferdinando, una benemerenza gli riconobbe di certo: quella d'aver notevolmente migliorato l'esercito e nell'addestramento e nell'ordinamento, e accresciuto gli effettivi, d'averlo salvato cioè da quella tremenda crisi che lo aveva còlto all'indomani del '20, prolungandosifino al '28! — l'umiliantissima occupazione austriaca. Non era cosa da mandare in visibilio Pisacane ragazzo sportivo3 quel che si diceva del re che, durante una rivista, avendo ordinato all'improvviso a tutti gli ufficiali di montare a cavallo e i piú, disavvezzi, essendosi mostrati ridicolmente incapaci, il giorno appresso ne avesse invitati parecchi a lasciar le spalline?

Ben presto, però, Pisacaneterminati i due anni del corso d'artiglieria e genio, che si svolgeva a Capua, e assegnato come soldato semplice a un reggimento di fanteria di guarnigione a Noceradoveva sperimentare quanto, nonostante gli sforzi di Ferdinando, l'esercito napoletano restasse ancora lontano in tutto e per tutto da quel modello di perfezione che gli si era insegnato a venerare in collegio. Spirito militare inesistente affatto, la disciplina di una severità massacrante, il bigottismo fatto obbligatorio: soldati e ufficiali costretti alla rigida osservanza dei precetti, a incolonnarsi nelle processioni, a regger ceri. E spesso, troppo spesso le milizie usate a reprimer disordini, in servizio di pubblica sicurezza. Deficienze, queste e altre molte (non lieve quella degli stipendi di fame agli ufficiali), proprie dell'esercito napoletano; ma poi quelle caratteristiche di tutti gli eserciti stanziali, e a Pisacane fin d'allora insopportabili: avanzamenti per anzianità, raramente per merito, soldati che adempiono al servizio con l'animo dei detenuti che scontan la pena, distacco insanabile tra esercito e popolo, e via e via.

L'esperienza, ciò nonostante, fu per Pisacane quanto mai formativa sotto altri aspetti. Era questa, infatti, la prima volta che entrava nella vita vera, che si mescolava, lui nobile ed ex paggio di Corte, al popolo; al popolo che lavora e che soffre, a quel popolo di cui negli androni della Nunziatella si doveva sapere ben poco!

Dal porto sicuro era lo sbocco nella infinita distesa del mare.

 

Pisacane si presentava allora come un giovanotto robusto, di non grande statura, rotto alle fatiche, curioso del mondo, vivacissimo, dinamico e attraente. Che fosse biondo e dagli occhi azzurri, si sa anche troppo, per testimonianza della sentimentale Spigolatrice di Sapri. Dolcissimi occhi, dice la Mario, e «un non so che di mesto e di rassegnato» errante sulla «spaziosa fronte». «Era ancora imberberacconta il Dall'Ongaro, riferendosi a otto anni piú tardi — di una bionda e delicata bellezza... Ma sotto quel molle involucro, batteva un cuore di ferro, e l'eleganza aristocratica dei modi faceva contrasto con l'audacia dell'intelletto...» E Mazzini, rievocandolo con appassionato rimpianto: «La fronte e gli occhi... parlavano a prima giunta per lui; la fronte rivelava l'ingegno, gli occhi scintillavano di energia, temperata di dolcezza e d'affetto. Traspariva dalla espressione del volto, dai moti rapidi, non risentiti, dal gestoavventatoincerto, dall'insieme della persona, l'indole franca, leale, secura. Il sorriso frequente, singolarmente sereno, tradiva una onesta coscienza di sé e l'animo consapevole di una fede da non violarsi né in vita né in morte». Non poteva, Mazzini, ridarcelo piú vivo di cosípiú somigliante, chi guardi ai pochi ritratti che ci son rimasti di lui, davvero parlanti e rivelatori dell'anima; con quello sguardo accigliato, quasi un cipiglio, e le mascelle serrate, imperiose, in evidente commovente contrasto con la delicatezza del volto e la ingenua luminosità degli occhi.

Passati i sei mesi a Nocera, ecco la nomina ad alfiere nel corpo del genio militare, l'assegnazione a Napoli. A Napoli lo adibiscono, sotto il comando d'un capitano Fonseca, alla costruzione della strada ferrata per Capua, tra le prime in Italia4. Nel '41, nuovo trasferimento, dai biografi attribuito a incompatibilità di carattere col suo superiore; nonostante l'ottima prova tecnica che Pisacane ha fornito, questo trasferimento ha infatti un certo carattere di punizione, e lo conduce in Abruzzo. Quindici mesi d'Abruzzo: anche , probabilmente, a far strade. Nel '43, primo tenente ormai, ritorna a Napoli, questa volta alle dipendenze d'un capitano Gonzales, insieme col quale progetta la strada nuova «su per la collina del Vomero e Antignano, oggi Corso Vittorio Emanuele». E per quattr'anni non si muove di ; riceverà poi la nomina a membro del Consiglio d'Amministrazione del Real Corpo del Genio.

Siamo nel 1846: al giovane intelligente ufficiale chi non avrebbe predetto, con la sua capacità, col suo nome, una brillante carriera? Eppure, nel giro di pochissimi mesi, tutto è perduto senza rimedio; l'esperienza militare appena iniziata si conclude bruscamente.

La notte dal 12 al 13 ottobre il tenente Pisacane vien raccolto dinanzi alla sua porta di casa, svenuto e sanguinante per gravi ferite di pugnale nel ventre ed al petto. Mentre i medici accorsi dànno ben poche speranze, la polizia inizia le indagini: nessun testimonio del fatto; ma Pisacane, che ha una stupefacente ripresa, dichiara, e fa dichiarare dai suoi, che un ladro di strada, sotto minaccia della vita, ha tentato di derubarlo: egli si è ribellato e nella mischia seguita ha riportato quelle ferite.

La convalescenza si prolunga, lentissima, fin verso la fine dell'anno. Poco dopo la polizia ha nuovamente occasione di occuparsi di Pisacane: l'8 febbraio '47, infatti, sotto mentito nome celato come un malandrino inseguito, egli s'imbarca sul postale francese diretto a Livorno5. Con lui, che ha cosí dato definitivamente l'addio alle spalline borboniche, è una signora: Enrichetta Di Lorenzo, moglie di Dionisio Lazzari, madre di tre bambini.

Fra i due fattacci, che suscitano a Napoli parecchio scalpore6, è, checché si dica in contrario, una connessione evidente. Volgare dramma d'amore? Pagina oscura nella vita di Pisacane? O prima dolorosa ma alta affermazione di una personalità d'eccezione? Il lettore vedrà.

Della vicenda sentimentale, della sola vicenda sentimentale nella vita di Pisacane, si sapevafin qualche mese addietro — ben poco: si sapeva cioè che un suo amore purissimo, d'infanzia e d'adolescenza, era stato irreparabilmente troncato dal matrimonio imposto alla ragazza, Enrichetta, non ancora ventenne, con un uomo danarosostimatoamato; che, dopo aver lealmente ma inutilmente lottato per soffocare una passione che il trascorrer degli anni rendeva sempre piú travolgente, Pisacane si era visto finalmente riamato, con pari intensità dolorosa, da lei. Nient'altro di sicuro, oltre all'epilogo tempestosissimo, ché gli amici e biografi di Pisacane pareva si fossero accordati per serbare intorno alla oscura vicenda una discrezione assoluta; esplicitamente lo ammetteva Mazzini quando, nei suoi bellissimi Ricordi su Pisacane, scriveva: «È storia d'amore questa che rivelerebbe, s'io la raccontassi, come all'indomita energia, di ch'ei fece prova, s'accoppiassero in Pisacane una potenza singolare d'affetto e un sentire delicato, raro a trovarsi, e che onorerebbe a un tempo l'anima sua. Ma non mi sento il diritto di sollevar quel velo che parmi debba quasi sempre lasciarsi sospeso tra i piú e il santuario della vita individuale».

È provvidenziale, è giusto che quel velodopo decenni e decenni — sia stato or ora sollevato dal protagonista medesimo mercè il ritrovamento della sua lettera d'addio ai familiari (Napoli, 28 gennaio '47) che appunto ne contiene la schietta esauriente immediata confessione. «Io amo Enrichetta — egli orgogliosamente scriveva — dal giorno 8 settembre 1830; da quel giorno che la vidi per la prima volta il mio cuore, tenero allora, ricevé una impressione... quella prima fattami nella mia fanciullezza crebbe col cuore insieme, e fu un'impronta sull'acciaio, incancellabile. Enrichetta incominciò a supporre che io l'amassi nel 1841... Feci palese il mio amore nel giorno del suo nome, 15 luglio 1844, ma, credete, non con la speranza di essere amato, anzi con la certezza di non doverlo essere giammai; questa certezza e l'idea della sua infelicità amandomi, attesa la sua posizione, mi fece fare i piú terribili sforzi per cancellare dal mio cuore quell'ardente passione: tentai le mille volte partire per l'estero... ma tutte le strade mi furono chiuse. Io continuai ad avvicinare Enrichetta: tra noi non vi era che una corrispondenza muta, io l'adoravo come l'adoro, con la devozione [con cui] si può adorare una divinità, io temeva di offenderla solamente con un guardo, al suo cospetto tutte le mie facoltà erano sopite, avrei solamente desiderato la grazia di potermi inginocchiare ai suoi piedi e contemplarla... Finalmente Enrichetta mi ha detto je t'aime il giugno 1845. Da quest'epoca abbiamo sostenuto la lotta la piú eroica che si possa immaginare... La mia nobile, la mia generosa Enrichetta fu da me rispettata come un nume. Non religione, non tema ci spingevano a questo eroismo, ma solamente (la considerazione essere)... infame la donna che appartiene a due uomini nell'epoca istessa... Ma questo stato era troppo violento, non poteva durare: le nostre forze erano all'estremo... I nostri caratteri sono tali da non potersi piegare ad una tresca comune: allora io decisi di allontanarmi... Ma al momento di separarci i nostri cuori vacillarono. Io sarei partito deciso di cercare tutti i mezzi onde incontrare la morte — se il dolore dell'allontanamento non mi avesse spinto al suicidioEnrichetta ne sarebbe morta al certo: allora decidemmo di partire insieme»7.

Questa, nei suoi particolari essenziali, la romantica storia, tutta animata, nel racconto, dal palese contrasto tra la ingenua fierezza verbale del rievocatore — quanti «io decisi» e «io penso» e «io voglio»! — e la riconosciuta inesorabilità del fato, che lo ha avvinto e travolto come una povera cosa senza forza e volere.

Alla passione d'amore, infatti, è arduo comandare. Ma la essenziale attenuante da Pisacane implicitamente invocata — seppure possono dirsi attenuanti le secche motivazioni elencate in questo scritto orgoglioso, assai piú che a difesa arieggiante a requisitoria — è la inguaribile infelicità di Enrichetta, legata per la vita a un uomo tanto mite nell'apparenza quanto basso e brutale nell'intimità, a un uomo che iniziandola all'amore glien'ha insieme ispirato il disgusto e che, mediocre e incapace qual è, la tiene «come nulla».

Strano e significativo però, che in una lettera come questa tanto particolareggiata quanto a circostanze di tempo, vero diagramma degli alti e bassi del suo sentimento, Pisacane non accennasse neanche alla lontana al suo ferimento, che pure aveva preceduto di poco la risoluzione presa di fuggire da Napoli. In tanta spregiudicata franchezza, dunque, una reticenza, tutt'altro che casuale e involontaria, e ad ogni modo tale, mi sembra, da autorizzare le insinuazioni affacciate in postumi rapporti di polizia, secondo le quali o Enrichetta si sarebbe compromessa allora irrimediabilmente agli occhi del marito e del mondo, recandosi ogni giorno ad assister l'amico; o addirittura quel ferimento, da Pisacane cavallerescamente attribuito a un delinquente volgare, sarebbe stato in realtà perpetrato, se non dal Lazzari stesso, da un emissario di lui8. Insinuazioni, e specialmente quest'ultima, non provate, è vero: sintomatico però che il Lazzari non si risolvesse mai, dopo l'8 febbraio, pur sollecitato dal moralissimo governo napoletano, a presentar querela contro i due fuggitivi, che era pur l'unico modo per riavere Enrichetta: temeva forse, in risposta alla querela, una piú grave denunzia a suo carico?

Quale che sia la verità vera, certo è che la chiacchiera dell'aristocratico ufficiale aggredito sulla pubblica via dal mandatario di un borghesuccio geloso corse per Napoli: s'intende dunque quanto, in quei due mesi di martirio, Pisacane avesse dovuto soffrire, piú che nel corpo, nell'anima: era la carriera compromessa, l'urto violento con le convenienze sociali e, se non ancora lo scandalo, una umiliazione cocente; eran le imaginabili pressioni di colleghi e parenti perché lasciasse «l'amica», il sospetto ingiurioso, diviso dai suoi di casa, che tra lui ed Enrichetta non corressero soltanto gli ostentati rapporti di intimità fraterna: assai piú, insomma, di quanto bastasse per disgustarlo irrimediabilmente del suo ambiente, della vita fino allora condotta, di Napoli stessa, e per ispirargli un desiderio quasi folle di libertà, di evasione da quelle grette esigenze del vivere sociale.

A troncare il legame d'amore, ormai, Pisacane non poteva neanche pensare, tanto piena e trionfante vibrava la passione nel suo cuore: Enrichetta, l'unica donna della sua vita! A che valevano gli agi, il rango sociale, l'avvenire medesimo se dovevano separarsi per sempre?

Ma nel contempo egli prevedeva con assoluta calma le conseguenze probabili del suo agire. «Noi non abbiamo veduto il nostro avvenire colore di rosatranquillamente assicurava i parenti —, anzi lo abbiamo figurato con i colori i piú tristi»; ma la liberazione di Enrichetta dall'odiosa convivenza col Lazzari e, per entrambi, un mese, una settimana, e magari un giorno solo di unione felice non eran forse prospettive cosí luminose da valer la pena di ripagarle con una vita di stenti o, nel peggiore dei casi, con un buon colpo di pistola nel capo? «Chi può temere di piú la miseria, un milionario, o noi, con le nostre pistole, con i nostri cuori, con la nostra decisione

Il suo temperamento rivelava cosí tutto l'esuberante calore di un meridionale, e in piú la ferma inflessibile tenacia di un nordico: amava con impeto, con dedizione assoluta di sé, irremissibilmente; dieci anni piú tardi era allo stesso diapason, e adorava Enrichettapiú né meno del primo giorno.

La stessa esuberanza, la stessa non effimera foga portava nel detestare con tutte le forze dell'anima l'ipocrisia sociale. Già lo aveva provato nella lettera ai suoi, bollando a fuoco coloro, che dopo aver «venduto» una giovane ignara e inesperta a un marito qualunque, condannandola cosí a bandire dalla sua vita l'amore, eran poi i primi a dichiararla infame se un giorno le nascesse nel cuore gelido un sentimento nuovo9. A che altro, del resto, avea ridotto il matrimonio l'iniqua società moderna se non a una forma aggravata di prostituzione, in quanto non ammetteva per la vittima possibilità di riscatto? Né Pisacane era di quelli che la pretendono a riformatori sociali per giustificare in un modo o nell'altro la loro condotta socialmente scorretta. No; la sua ribellione sincera, permanente e disinteressata, cui la personale esperienza conferiva adesso un tono particolarmente vibrato e commosso.

Dichiarata la guerra alla società, si sentiva felice e leggero e in pace con se stesso: una liberazione. Contro tutti? Tanto meglio: «Il ne faut faire jamais comme les autres», già allora superbamente proclamava. Con gli anni, poi, vinta la prima prova, avrebbe portato quel suo spregiudicato sguardo indagatore sulle piú varie manifestazioni della vita collettiva, nulla accettando che non potesse, con la sua ragione, logicamente e sentimentalmente giustificare.

 

In che mai consistesse — se nella sua bellezza o piuttosto nelle sue qualità morali — il fascino di Enrichetta, non sappiamo. V'era nel suo temperamento, certo, l'essenza stessa della femminilità: ardori improvvisi, lucidità d'intuizione, crisi di prostrazione e indecisione, capacità insospettabile di intensi sforzi fisici e morali. Già altri ha supposto che Pisacane la tenesse un poco a modello scrivendo quel paragrafo dei Saggi che è dedicato alla donna: «La natura ha dato loro fibre piú delicate e piú sensibili delle nostre, e però le loro sensazioni vivissime, non possono essere che fugaci... Capaci di quelle azioni ove il decidersi e l'eseguire succedonsi rapidamente, sono poi incapaci di sopportare a lungo dolori e mirare al conseguimento di un fine con attenzione profonda e prolungata».

Gli avvenimenti successivi, comunque, ci mostreranno Enrichetta appassionata, attiva, coraggiosa, modesta e, ad eccezione di un doloroso smarrimento momentaneo, tenera sempre e orgogliosa del suo compagno; ben meritevole del commosso elogio che questi nel congedarsi dalla sua famiglia le avea dedicato: «... se nel corso di tanti anni non ho fatto azione di cui posso vergognarmi, lo debbo ad Enrichetta. Ad ogni mia azione, se vi era un lato poco nobile, io stesso mi diceva: come comparirò dinanzi ad Enrichetta? Arrossirò di vergogna dinanzi a lei, nobile, generosa, se la mia coscienza ha qualche cosa a rimproverarmi».

Unendosi a Pisacane, Enrichetta non aveva scelto di certo la via piú facile e piana: ché egli non era uomo cui l'amore soddisfatto, e fosse pure un intensissimo amore, bastasse a riempire la vita. E forse, per quanto vi fosse preparata, ella soffrí dapprima di quel suo inquieto dinamismo, che lo induceva a ricercare la lotta, a farsi volontario di tutte le battaglie d'armi e d'idee, a sdegnare le abitudini e gli agi per consacrarsi al raggiungimento di ideali sempre piú alti e vasti. Pisacane apparteneva infatti a quella élite di uomini che vengon biasimati dai piú perché «sacrificano la famiglia»; e cosí fanno invero, ma non perché non l'amino profondamente, ché anzi la loro attività è in qualche modo condizionata alla felicità domestica; piuttosto perché considerano questa come una base necessaria, come un porto sicuro, donde salpare quotidianamente per una vita piú ricca e piú utile, sempre meno ispirata alla considerazione del personale tornaconto: non mai come un fine.

Ma con l'andar degli anni, col maturarsi della sua personalità di tra le prove difficili, Enrichetta giunse faticosamente a comprendere e a rispettare in lui questa capacità di superamento di un affetto che essa sola sapeva quanto vivo fosse nel suo cuore, e anzi ad amarlo anche di piú, appunto perché, facendola soffrire, l'aiutava ad inalzarsi.

N'è testimone, ancora una volta, il Mazzini, cui la felicità dell'amico ispirava la dolente frase di sapore autobiografico «la maledizione del vae soli non si adempiva per lui»: «Dirò soltanto che quell'amore, mercè le nobili aspirazioni della donna, non infiacchí mai l'anima dell'amico, non si trovò mai a contrasto coll'adempimento dei suoi doveri, e gli accrebbe forza a lietamente compirli. Fu l'amore delle epoche di credenza, l'amore che ritempra l'animo a grandi cose...»






p. -

1 Lo stemma dei Pisacane (di Trani e di Napoli) viene cosí descritto dal MANNUCCI, Nobiliario e blasonario, fasc. XXII, 374: «D'azzurro alla sbarra d'oro accompagnata in capo da tre stelle di sei raggi dello stesso ordinate in banda, ed in punta da un cane d'argento con la testa rivoltata».



2 Strano ravvicinamento: due altri famosi «ribelli» del sec. XIX, Kropotkine e Bakunin, servirono in giovinezza quali paggi a Corte!



3 D'AYALA, Vite degli italiani, 329, racconta che anche piú tardi, mentre si trovava a Napoli quale ufficiale, P. si era attrezzato in casa «una specie di ginnasio per le continue esercitazioni ginnastiche».



4 Nel Museo del Risorgimento di Genova trovasi uno stato nominativo dei pionieri addetti ai lavori di quella strada ferrata, datato settembre 1841 e recante la firma dell'Alfiere P. (Museo del Ris. di Genova. Catalogo, I, 364, n. 1194).

Di P. non ci resta che una sola fotografia, quella pubblicata in capo al presente volume. Fu stampata la prima volta, credo, nel volume postumo della WHITE MARIO, Birth of modern Italy, London, 1909, di contro alla p. 270. La stessa imagine, ridotta a mezzo busto, venne riprodotta nelle op. cit. di BILOTTI, CARPI ecc. ed è ancor oggi la piú nota. Tre disegni assai fedeli, dei quali il dal vero, ci trasmettono altre imagini di P.: I) lo sfumino eseguito da LO RUSSO, pubblicato a fronte del vol. LVIII degli S.E.I. di Mazzini; II) il disegno del RIVA che è riprodotto nel II vol. dei Saggi (e poi nella ed. Sandron di Come ordinare la nazione armata, in DE LUCA, I liberatori ecc.); III) un altro disegno di LO RUSSO, eseguito dopo la morte di P., che si vede riprodotto in COMANDINI, L'Italia nei Cento anni del sec. XIX, III, 719 (se ne parla nel vol. LVIII degli S.E.I. di Mazzini). Da questi 4 originali — ai quali si può forse aggiungere il ritratto di P., Capo di S. M. della repubblica romana, conservato nel Museo del Risorgimento di Milano, che io non ho veduto — son derivate tutte le riproduzioni o pseudoriproduzioni successive (cfr. ad esempio le cit. op. di VENOSTA e BESANA, l'Almanacco nazionale per il 1858 del MACCHI, la Vita di Mazzini della MARIO, ed. illustrata, il giornale La rivendicazione, Forlí, n. cit. ecc.).



5 Il passaporto utilizzato da P. per la sua fuga fu quello di un tal Francesco Guglielmi, cui P. avea promesso di assumere al suo servizio nell'occasione di un viaggio all'estero (ROMANO).



6 Sull'impressione destata a Napoli da questa «romanzesca fuga», v. MAZZIOTTI, La reazione borbonica, 114.

Il carteggio scambiato fra i due amanti (che si scrivevano quasi sempre in francese) passò poi in eredità a Silvia, figlia loro, e venne ultimamente distrutto da una troppo pia sorella di Nicotera, in casa del quale, è noto, Silvia visse e morí (ROMANO).



7 Sullo strazio di Enrichetta, che non sapeva rinunziare né al suo Carlo né ai suoi figli (uno dei quali in tenerissima età), cfr. altri passi della lettera di addio di P., in ROMANO.



8 Sul vero movente dell'aggressione subíta da P. si veda il cit. Rapporto del Questore di Torino (pubblicato da LUZIO, Carlo Alberto e Mazzini); ma anche D'AYALA, 329, lascia intravedere la scottante realtà.

La notizia della fuga dei due venne recata al disgraziato Lazzaro dal piú intimo amico di P., Enrico Cosenz: il quale gli consegnò, la sera stessa dell'8 febbraio, due lettere di Enrichetta e Carlo. La lettera di Carlo fu giudicata dalla polizia napoletana documento di profonda immoralità.



9 Cfr. nei Saggi, III, 177, un passo ugualmente sdegnoso sul matrimonio di convenienza.

«Bella ed avvenente» fu descritta Enrichetta, dal Lazzari, nella sua denunzia alla polizia napoletana (ROMANO).

 

Capitolo II.





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