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Nello Rosselli
Carlo Pisacane nel Risorgimento Italiano

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  • CARLO PISACANE NEL RISORGIMENTO ITALIANO
    • Capitolo secondo Fuga
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Capitolo secondo
Fuga

 

I due fuggiaschi discendono a Livorno, mentre il patrio governo, ed anzi il Re stesso, «con reale animo conturbato», li fa cercare, dal Console napoletano, a Marsiglia. Scoperta poi la residenza vera, gran confusione a Firenze: dove, tempestando l'Incaricato napoletano perché la polizia li stani e glieli consegni, il Ministro degli Esteri toscano in persona scrive d'urgenza a Livorno perché la coppia venga fermata, «e la donna posta in luogo di custodia»; il Console napoletano a Livorno s'impadronisce dei loro passaporti, da Napoli si spedisce nel porto toscano un ispettore di polizia, perché ne scovi le traccie. Tutto invano. Gli adulteri, procuratisi chi sa come due nuovi passaporti napoletani, intestati a Enrico e Carlotta coniugi Dumont, piantate le valigie (e un conto da pagare) alla locanda, scompaiono da Livorno. All'ispettore napoletano non resta che saldare il debito, sequestrare il bagaglio e far vela per Napoli; al Governatore di Livorno indagare, con calma toscana, sulla nuova destinazione dei fuggitivi, che alcuni suppongono siansi diretti a Malta: il 30 di marzo l'Auditore del governo assicura che son passati a Marsiglia, via Corsica; ed era esatto, ma con un buon mese di ritardo. Pisacane si era già trasferito, infatti, direttamente a Londra, giungendovi, da Boulogne-Folkestone, il 4 di marzo10.

Erano due sconosciuti, poveri per giunta11; speravano, viaggiando sotto mentito nome, di sottrarsi alla persecuzione borbonica. Il vasto mondo si apriva loro dinanzi. Pisacane era abbastanza ottimista: «Non sono un asino, non sono un vile, ed ho fortissimo il corpo»; possibile che non dovesse riuscire a guadagnarsi la vita? Lo attendevano invece, oltre ai primi morsi di una disastrosa miseria, nel sordido slum di Blackfriars Bridge, nuove prove della irritazione borbonica, ché quel Ministro degli Esteri, avvertito dalla Legazione di Londra, l'11 marzo, della sua presenza colà, fece fuoco e fiamme per ottenere l'estradizione e di lui e di lei; non vi riuscí, è vero, ma il governo inglese, che non scherzava coi frodatori della legge sugli aliens, saputo chi fosse Dumont, garbatamente lo invitò a ripassare la Manica. Gli toccò dunque, seguitando la dura via crucis, lasciar quella Londra dove, sotto il nome fittizio, qualche utile conoscenza avea già stretto nell'ambiente dei rifugiati italiani: l'unico ambiente di connazionali che a lui, considerato disertore dell'esercito, potesse aprirsi ormai. Preziosa tra l'altre la conoscenza con Gabriele Rossetti, padre di Dante Gabriele, poeta lui stesso, esule a Londra dal '24, pezzo grosso universitario e mondano.

Verso la metà d'aprile giunsero a Parigi, a questa Mecca degli intellettuali, dove sembrava e sembra tuttora impossibile che un giovane d'ingegno, disoccupato, non riesca a trovare un impiego di sua soddisfazione. Pisacane, nonostante ricerche affannose, non trovò nulla. Né ora aveva piú al suo fianco una donna robusta: Enrichetta, infatti, che già gli prometteva un bambino, necessitava di riposo e di cure: indebolita fisicamente, essa rivelava un fragilissimo sistema nervoso, preda di crisi frequenti. E l'implacabile persecuzione del governo di Napoli anziché rallentare s'accaniva sempre di piú! Il 28 d'aprile, celati in un alberghetto di terz'ordine, i due subivano, provocata dalla Legazione borbonica, una visita domiciliare che, per quanto infruttuosa, li conduceva, per contravvenzione al regolamento sui passaporti, a provvisoria carcerazione: la compiacente polizia francese li tratteneva poi vari giorni in prigione in attesa che giungessero da Napoli o la querela maritale o un regolare mandato d'arresto pel «furto», imputabile a lei, di pochi oggetti personali di proprietà del Lazzari! Pisacane, dal carcere, subito scrisse, ingenuamente, al duca di Serra-Capriola, ambasciatore napoletano a Parigi, per supplicarlo di «fare usare verso la Signora Lazzari i riguardi che la sua nascita, educazione civile e principalmente lo stato suo esigevano». Il piissimo duca, che sperava con un po' di prigione di far di Enrichetta una Maddalena pentita mandò, per tutta risposta, a tentar la conversione di lei, due di quelle signore pietose, «le quali, come angeli mandati dal cielo vanno a consolare i prigionieri, e cercare di portare nei loro cuori il pentimento che tanto spesso hanno la fortuna di destare nei piú induriti al delitto». Si sbagliava di grosso: Enrichetta era, , debole e stanca e depressa, ma ormai nessuna forza umana poteva distaccarla da Pisacane. «Le povere signorecosí il duca scandalizzato e deluso al suo Ministro degli Esteritornarono dal carcere dopo due ore di persuasione e combattimento, penetrate di orrore, avendo trovato nella Signora Lazzari una riunione delle piú esaltate e cieche passioni, con una sfrontatezza e la piú orrida immoralità, e l'ateismo il piú positivo. Si dovette abbandonare qualsiasi idea di pentimento e ravvedimento...»

Alla polizia francese Enrichetta dichiarava semplicemente di non voler altro «che vivere col suo Carlo, non temendo né la miseria, né la morte».

L'8 di maggio, non essendo giunta da Napoli la querela del Lazzari, la coppia adultera, con grand'ira del duca, ricuperò la libertà perduta. Pisacane, anzi, si presentò al Serra-Capriola in persona, chiedendo gli rilasciasse passaporti per la Svizzera o per l'America. Il colloquio fu tempestoso: «Io gli risposiprecisa il duca — che mi meravigliava del suo ardire, mentre egli doveva ben sapere che avanti a me egli non era che un disertore; che, se le leggi francesi non mi davano il potere di farlo ritornare nel suo paese per subire la pena meritata, le leggi d'onore pei militari in questo stesso paese portavano al disprezzo sopra chi abbandonava la sua Bandiera. Che però se egli era pentito del doppio suo delitto, avendo portata la disgrazia e la vergogna di una onesta famiglia, e si separava dalla Signora Lazzari, io nel prender questa sotto la mia protezione, avrei implorato a di lui favore l'indulgenza delle leggi e la Clemenza Sovrana. Il sig. Pisacane sembrò non capisse le mie parole e mi disse che egli e la signora avevano agito con tutta riflessione. Non mi restò che farlo uscire dalla mia presenza»12.

 

Terminavano cosí per Pisacane, tre mesi dopo la sua partenza da Napoli, i piú grossi fastidi di natura giudiziaria. S'intensificavano invece le preoccupazioni economiche, e l'avvenire si faceva sempre piú buio per questo spostato provinciale trentenne, sbalzato all'improvviso, con poche conoscenze, in un mondo affatto nuovo. Fu un periodo dolorosissimo, nella sterminata metropoli, eppure, si può supporlo anche se i documenti tacciono, decisivo quanto al suo orientamento spirituale.

Gran bella cosa viaggiare all'estero, quando il rango sociale, le relazioni o il censo apron tutte le porte; gran conforto, per gli esuli politici, per miserabili che siano, vedersi cordialmente accolti nelle fervide comunità di fuorusciti italiani che pullulano per ogni dove. Ma che vuol mai questo nobile decaduto, digiuno di politica, fuggiasco per banali motivi di cuore, senz'altra esperienza al suo attivo che quella, trilustre, d'aver servito il Borbone? S'imaginano le diffidenze, i sospetti e le chiacchiere. Di gran giovamento riuscí comunque per Pisacane, che s'apprestava a un nuovo e questa volta definitivo e impegnativo tuffo nell'ambiente della emigrazione politica, un lusinghiero biglietto di presentazione fornitogli dal Rossetti pel generale Pepe, che era tra i maggiorenti della colonia italiana a Parigi13. In casa di Pepe capitava non solamente il fior fiore dell'elemento emigrato; ma tra le personalità francesi un Lamennais, un Arago, un Béranger, una Sand, un Constant, un Lamartine. Certo questi contatti, in un ambiente che presentiva, nel suo fervore, l'imminenza d'una tempesta europea, e seguiva con ansia, quando non contribuiva a provocarla, la crescente agitazione degli spiriti in Francia e in Italia, non furono senza esercitare una immensa influenza su Pisacane; il quale nel contempo impiegava le troppe ore d'ozio nella intensa lettura di libri e di giornali, come se gli tardasse, in quell'anno cosí tipico di vigilia, di farsi d'urgenza una coscienza politica.

E infatti, mentre sui primi del '47 Pisacane è ancora un napoletano qualunque, alieno dalle cose politiche e tutt'al piú, come ufficiale, voglioso di complicazioni europee per avere finalmente occasione di smettere la monotona vita di guarnigione, e di provare, coi rischi, l'ebbrezza di una guerra, sui primi del '48 egli è già un fervido patriota «italiano», con idee sue, fisime sue, programmi suoi. La sua esperienza nel '47 dové dunque essere piena e ricca e rettilinea: molti i discorsi uditi, , e le cose vedute e lette sui libri; ma molta, e seria, e profonda, altresí, la riflessione sua, diretta e originale, seppure i suoi interessi e la sua coltura lo portassero, com'era naturale del resto, a considerar le cose europee segnatamente come un problema di equilibrio di forze, sotto l'aspetto militare cioè. Col che non s'esclude che spunti d'idee politiche, impulsi di opposizione, fremiti di simpatia per le vittime della tirannia non lo avessero agitato di quando in quando anche negli anni precedenti14; né che, militare di professione, non avesse potuto prospettarsi il problema tecnico della indipendenza d'Italia; ma certo non era mai salito, ancora, dall'episodio alla visione generale, né dalle singoli questioni militari o politiche alla grande questione che appassionava in quel tempo le élites delle classi colte italiane; adorava, , in tutti i suoi aspetti la libertà, ma queste avvertite, anzi impellenti esigenze di libertà non gli avevano dato per anco figura e impostazione di liberale: tutt'al piú, di ribelle.

Si va a tentoni. Ma è verosimile che anche a Pisacane l'idea dell'unità italiana — poi fermissima in lui, se pur la concepisse ravvivata da ampie autonomie regionali — sia balenata fuori, come a tanti altri, una volta messi in grado di considerarla nel suo assieme, questa Italia, da lontano, fuori dalle meschinità provinciali, e anche da quelle storicamente giustificate gelosie fra Stato e Stato; una volta cioè resi capaci di anticipare nella vivente realtà di un piccolo mondo di esuli la sognata possibilità di una fusione avvenire. Grandi virtú prospettiche, di televisione, diremmo, create, storicamente, dall'emigrazione politica, e per le quali soltanto, chi pensi agli ultimi secoli della storia italiana, varrebbe la pena di andar grati ai regimi tirannici! Che sarebbe stata l'Italia senza la periodica forzata emigrazione nel mondo di cospicue minoranze intellettuali che, in tempi d'oscuramento della libertà, quindi della coltura, in patria, assicurarono — fuori — la continuità ideale del nostro sviluppo civile?

Francia ed Inghilterra, poi, precedevan l'Italia di almeno cinquant'anni, allora, se non altro per quel che riguarda lo sviluppo effettivo e dottrinale della civiltà moderna. Un italiano che vivesse sia pure poche settimane in quei paesi, con occhio attento a quel che gli accadeva d'intorno, si trovava in condizione d'anticipare la visione di problemi ancora immaturi, o addirittura neppure impostati, per allora, in patria. Soprattutto poteva afferrarvi d'un subito, o sfogliando un giornale, o visitando un quartiere industriale, o frequentando le sedute delle Camere, l'idea della complessità d'ogni fenomeno sociale e della relatività d'ogni questione politica. Si pensi alla vita industriale inglese, ai paurosi problemi che i grandi concentramenti operai facevano affacciare: si pensi a Parigi, al rigoglio di studi sociali comparsi fra il '30 e il '48, come inevitabile effetto della precipitosa trasformazione subita in quegli anni dalla organizzazione del lavoro. Fourier e Saint Simon, Blanqui e Proudhon, Blanc e Cabet: critiche sempre piú aspre e scientifiche alla civiltà borghese, prime linee d'una sempre meno romantica ricostruzione futura, appassionate difese, e requisitorie, e polemiche. Né restavano, queste ultime, sepolte nei libri, ma — diffuse e semplificate da innumerevoli quotidiani e periodici — le assorbiva avidamente, bene o male comprese non importa, il mondo operaio, traverso il filtro di un piccolo esercito di organizzatori e politicanti, abili nel cavarne motivi e formole di propaganda e d'azione.

I borghesi intellettuali che a Parigi nel '47 meditavano e preparavano una seconda e definitiva rivoluzione di luglio avevano programmi assai radicali in politica, ma esigevano intatto, nelle sue grandi linee, l'assetto sociale; riformatori sociali e operai piú evoluti scavalcavano invece a piè pari la questione politica, ché a loro importava rifare le basi, non la facciata dell'edificio. Non d'altro si parlava in certi quartieri e in certi circoli, non d'altro si ragionava su certi giornali15. Dunque unità e indipendenza e bilanci in pareggio non erano tutto per una nazione? Non in queste formole era l'ubi consistam del progresso civile?

che Pisacane, nell'atto stesso in cui poneva attenzione al problema politico e considerava sotto questo aspetto l'avvenire d'Italia, era portato a oltrepassarlo o meglio ad afferrarne, con la palese relatività, il processo dialettico di superamento.

Caratteristica tutta sua, questa, che gli derivò proprio dall'avere cosí tardi, e in cosí particolare ambiente e condizioni, inteso e affrontato la questione italiana.

Cervello solido, sistematico, ordinato, a Pisacane non ne derivò scetticismo, ma il disagio di una visione complessa e torbida, faticosamente elaborata e chiarita di poi: contradittorie impressioni, idee suggestive ma incomplete o imprecise insieme ad istantanee vivaci e indimenticabili di un mondo progredito in via di ulteriore sviluppo; soprattutto un'improrogabile esigenza: uscire definitivamente dalla piccola cerchia della vita individuale, affrontare i grandi problemi della convivenza sociale, studiarli particolarmente in riflesso all'Italia, alla quale urgeva dare il senso di quanto, in ogni campo, e non solamente nell'assetto politico, essa fosse in arretrato di fronte all'Europa. Difficile compito, per altro, risvegliar gli italiani, se un Pisacane avea potuto, fin quasi a trent'anni, compiacersi di un genere di vita, di problemi, di orizzonti non solo napoletani, ma propri in Napoli a un esiguo ceto sociale!

 

Interessantissima, dunque, questa vita a Parigi; piacevole il prolungarla, non fosse stato il bisogno, che urgeva, di sistemarsi in qualche modo e la sperimentata impossibilità di trovar lavoro nella capitale. Pisacane finí con l'aggrapparsi all'estrema risorsa che in Francia sorride — e sorrideva già allora, dal '31 in poi — a tutti i vinti della vita, gli spiantati, i senza patria che affollan le vie di Parigi: la Legione Straniera. Della Legione, istituita per la guerra algerina e piú ancora per purgare il paese dei troppi rifugiati che lo infestavano, aveva un tempo fatto parte — e parte cospicua — un battaglione italiano, disciolto il quale nel 1840, non era per questo diminuita l'affluenza degli italiani; ché anzi, in quegli anni di pace, molti malinconici sognatori di gloria v'erano affluiti dalle varie provincie della penisola. In un certo momento (forse nel '46) lo stesso Pisacane, deciso a tentare, per la sua passione amorosa poi rivelatasi inguaribile, la cura della lontananza, avea richiesto al suo re il permesso di andare a morire laggiú. Ma gli era stato negato16.

Libero adesso, riprese il progetto; e per accelerare le pratiche ottenne che il Ministro francese della Marina — il duca di Montebello, che Pisacane avea conosciuto a Napoli, quando v'era stato ambasciatore — lo presentasse e raccomandasse: finalmente, ecco per lui un brevetto di sottotenente. La partenza fu ritardata pel parto di lei? Oppure la creatura non giunse a termine? Chi sa; certo che Enrichetta, sola sola e doppiamente triste, si fermò a Marsiglia, presso persone amiche: di egli s'era imbarcato il 5 dicembre per l'Africa. Primo distacco, dopo cosí pochi mesi di tempestosa unione: a quando — se mai — il ritorno? Ché in Algeria la ormai disperata resistenza di Abd-el-Kader contro l'occupazione francese si manifestava in periodici ritorni offensivi, scaramucce cruente e imboscate. Sei ufficiali italiani eran caduti, dal '31 in poi, combattendo nella Legione Straniera!

Una guerra di conquista coloniale, non provocata, viola sempre i diritti dell'umanità: impossibile giustificarla se non ricorrendo al «sacro egoismo» di una nazione espansionistica. Ma quale idealità può mai infiammare alla guerra i soldati di una Legione Straniera? Nessuna, se non, per molti sciagurati, il bisogno di rifarsi un nome o, per uomini della tempra di Pisacane, l'aspirazione a provare in un campo qualunque le proprie attitudini militari.

Sfortuna, anche in questo: proprio il 13 dicembre di quell'anno Abd-el-Kader, ridotto all'estremo, si arrende al generale Lamoricière. L'Algeria è provincia francese, e alle truppe d'occupazione non competono ormai che servizi, duri fin che si voglia, ma poco brillanti e gloriosi, di sorveglianza, di penetrazione piú o meno pacifica, di rastrellamento delle superstiti tribú ribelli.

Inquadrato nella Legione, rassegnato al pacifico compito, distaccato, pare, in Orano (anche , quanti fuorusciti italiani, e quanto si dovea parlare d'Italia!) a Pisacane non mancò modo di distinguersi, e di porre in valore la sua solidissima preparazione tecnica. Piú tardi si lavorò di fantasia su questo suo soggiorno algerino, attribuendosi a Pisacane — per poco piú di tre mesi di permanenzanientemeno che un paio di duelli e un primo peccato letterario (una raccolta di lettere, si disse, sul tipo dello Iacopo Ortis)! Fole17, ché di questi pretesi scritti non s'è mai saputo piú niente: quanto ai duelli, par difficile pensare che a un ufficiale attaccabrighe e violento si siano da parte dei suoi superiori propinate tante dimostrazioni di simpatia e di stima quante ne ricevette Pisacane allorché, già nel marzo '48, presentò le dimissioni per ritornare in Europa.

Le strepitose novità italiane ed europee gli avevano messo la febbre in corpo. Si combatte in Italia, per la sua indipendenza, una guerra sul serio contro un nemico potente; come potrebbe un italiano, cui scorra sangue nelle vene, continuare a combattere la guerricciola d'Africa? che per quanto il suo colonnello qualifichi la sua partenza come una vera perdita pel reggimento e il generale gli suggerisca di sospendere le dimissioni, recandosi prima in Italia per giudicar sul posto come procedano le cose, Pisacane — che odia le mezze decisioniinsiste nel suo proposito, e parte precipitosamente seguito da altri legionari italiani. Non ha perduto i suoi tre mesi africani: perfino il Ministro della Guerra, Arago, che egli ha probabilmente conosciuto a Parigi da Pepe, scriverà piú tardi cose assai lusinghiere sul conto suo.

 

Questo scoppio liberale del '48 sorprese un po' tutti; ma dové sorprendere come una folgore Pisacane che la sua Italia conosceva poco: gennaio, rivoluzione in Sicilia, gran dimostrazione a Napoli, Ferdinando concede (di che cuore!) la Costituzione; marzo, Costituzione in Piemonte, Costituzione a Roma. Il tutto preceduto, accompagnato, seguíto dai grandi incendi di Parigi e di Vienna. Metternich che se ne va, Luigi Filippo che se ne va. Trionfo inconcepibile del liberalismo europeo. In Italia, poi, la folla delle capitali impazza perché, con quattro dimostrazioni, ha ottenuto una serie di riforme e di garanzie che non ha mai desiderato e non sa neanche cosa voglian dire, e i pochi iniziatori esultano (e dovrebbero stupire e diffidare) perché il popolo, con «divino» intuito, ha sposato d'un tratto la causa delle libertà politiche. Portar corona in capo, sui primi del '48, è diventata, in men che non si dica, la piú difficile e meno invidiabile delle posizioni sociali: in Italia, sentendosi mancare il terreno sotto i piedi, i Principi si buttano in gara di demagogia, fanno a chi piú concede, e a chi piú presto.

Salvo in Sicilia, dove la rivolta antinapoletana ha cause profonde e locali e perciò sentite e sofferte dalla maggioranza della popolazione urbana, in tutto il resto d'Italia (ma , anche a Milano e a Venezia) il Quarantotto è movimento in gran parte riflesso, obbediente a una legge fisica secondo la quale un corpo arroventato e un corpo diaccio non possono aderire senza che il contatto modifichi la rispettiva temperatura. L'Europa è il corpo arroventato, l'Italia quello tiepido se non diaccio addirittura, e in Italia (checché si dica o speri in contrario) circola il sangue d'Europa. Senza le novità francesi ed austriache il '48 avrebbe rassodato fra noi la tendenza riformistica, ma nulla piú; una rivoluzione non era davvero matura né a Napoli né a Roma né a Firenze né a Milano né a Venezia.

Il 18 marzo scoppia la rivolta antiaustriaca a Milano: improvviso rigurgito di irritazione compressa, di ricordi non mai sepolti di gloriosa autonomia, un'aspirazione generica a una libertà che ciascuno intende a suo modo. Nessuna seria preparazione (chi avrebbe preveduto la possibilità delle Cinque Giornate, due mesi prima?), ma l'abbagliante subitanea scoperta che l'Austria è uno Stato che minaccia rovina, che sotto l'orpello della sua Corte e dietro la siepe delle sue baionette c'è un popolo che aspira anch'esso a libertà; la febbre improvvisa ed effimera, insomma, che pervade la maggioranza dei ceti cittadini, dell'«ora o mai». Ora o mai, che cosa? Ora o mai ci si libera dal giogo austriaco e torniamo padroni in casa nostra. Tanto pesante dunque quel giogo, tanto terribile il governo austriaco? No, non peggiore certo di tutti gli altri italiani; ma governo straniero, umiliante e irritante, anche se amministra alla perfezione, e fa strade ponti e bonifiche. Rovesciarlo, avevan detto e predetto per anni e anni, gridando al deserto, gruppi di patriotti: ma ora tutti d'un subito avvertono che si è presentata, per disfarsi dell'Austria, l'occasione unica, imprevedibile, superiore ai desideri piú arditi, che trova la sua base storica e sentimentale nel ricordo del periodo francese, quando Milano era orgogliosa capitale. E Milano s'avventa; il giorno prima, a Venezia, è stato liberato Manin. Il 23 marzo, non troppo decisa, s'accende la guerra sarda; tre giorni appresso sonante ingresso in Milano delle truppe Carlalbertine.

Tanto rapidamente marciavano le cose italiane in quella primavera del '48, che mentre Milano, orgoglio delle democrazie europee, subiva la doppia invasione di volontari provenienti da ogni parte del globo, e di dottrinari saccenti, gabellanti ciascuno la ricetta infallibile pel successo finale; nel resto d'Italia guizzavano nel cielo, e un dopo l'altro esplodevano, stupefacenti fuochi d'artificio. Erano il Papa, il Granduca, il Borbone che, gelosi di Carlo Alberto e premuti dall'irrequieta folla delle capitali, si rassegnavano, pur di salvare il trono, a dichiarar guerra all'Austria, salvo poi a intervenire sul Po con moto uniformemente ritardato. Fuochi d'artificio, ; ma chi se ne accorgeva allora? Quegli scoppi e quel persistente bagliore ingannarono tutti. Come sembrava mutata l'Italia, come mutati i suoi Principi, come inalzato il suo popolo, negli ultimi mesi!

Tanto mutato, tutto, che a Pisacane, sbarcato a Marsiglia il di aprile, parve legittimo attendersi che in un tal clima i suoi recenti trascorsi venissero considerati come appartenenti addirittura a una remota antichità, e perciò dimenticati e sanati: su ben altro che scandaletti donneschi avevan dovuto, a Napoli, passare a malincuore la spugna... L'ufficiale «disertore», l'adultero si presenta dunque al Console delle Due Sicilie, al quale chiede un salvacondotto per Napoli: gli sorride, è logico, di fare la guerra col grado suo, con i suoi concittadini, in un esercito comandato dal Pepe. Ma il buon funzionario (non c'è che la burocrazia che non muti, nel '48), pauroso di tanta responsabilità, gira la pratica al Ministero.

Aspettare? Pisacane ha poca pazienza; sente che quei giorni contan per anni; gli ripugna vivacchiare a Marsiglia, sia pure con Enrichetta accanto, mentre in Italia tuona la «bella guerra». Al diavolo dunque le autorità borboniche: parte di furia per Milano, e il salvacondotto, concesso, resterà poi a dormire negli uffici del Console.

Sono in quattro nel viaggio: lui, la sua compagna, un altro ufficiale della Legione straniera18, e un Giovanni Cattaneo, emigrato, cugino dell'altro Cattaneo pezzo grosso dell'insurrezione.






p. -

10 Nel Record Office di Londra (H. O. 5 | 32; 3 | 43; 2 | 162) si conserva il certificato di sbarco a Folkestone, 4 marzo 1847, di Enrico Dumont e Signora, provenienti da Boulogne col vapore Queen Of The Belgians. Dumont è qualificato «gentleman», di nazionalità italiana, fornito di passaporto rilasciato da un governo italiano.



11 P. non recava con sé che poche economie; Enrichetta circa 2000 ducati, parte in contanti e parte in gioie. Non risulta che la famiglia, da principio almeno, aderisse al discreto invito contenuto nella lettera di addio di P.: «Accettiamo soccorsi, ma non ne domandiamo».



12 A. CONSIGLIO pubblica adesso (Italia letteraria, 26 giugno 1932) una lettera di P. a Giuseppe Ricciardi, da Parigi, 31 maggio 1847. Al R., che lo aveva scongiurato di lasciar ritornare la sua donna a Napoli, P. rispondeva presso a poco negli stessi termini usati nella lettera di addio ai familiari, aggiungendo per altro che Enrichetta sarebbe forse tornata ai suoi bambini solo nel caso, giudicato improbabile, che il Lazzari avesse consentito a una separazione legale. Da questa lettera si apprende che il Lazzari era cugino di P.; e che tra le conoscenze parigine di P. è da annoverarsi l'esule bolognese F. Canuti.



13 Il biglietto di Rossetti a Pepe (datato 13 aprile 1847) in CARRANO, Vita di Pepe, 317-318. Rossetti, a dir vero, presentava Dumont, non P.; ma P. stesso dava piú tardi la chiave dell'enigma in una lettera, sin qui inedita, al Cosenz, che in questo vol. si pubblica.

Altra conoscenza quasi sicura di P. a Parigi: C. A. Vecchi, di poi serbatosi sempre suo amico, che era allora una delle personalità piú cospicue dell'emigrazione italiana a Parigi.



14 VENOSTA, op. cit., 28, assicura che l'episodio Bandiera commosse profondamente P. Sembra inoltre probabile che, se non altro, P. nel 1845 si fosse interessato del VII Congresso degli Scienziati, tenutosi a Napoli, cui, in rappresentanza dell'esercito borbonico, aveva partecipato il suo amico e collega Mezzacapo (PESCI, 7). Ma non è forse significativo che, nelle denunzie e nei rapporti fioccati a carico di P., non si facesse mai il minimo cenno di lui come di un oppositore politico?



15 Anche tra gli emigrati italiani a Parigi molti inclinavano già a idee socialiste: valga per tutti il Vecchi, il quale collaborava alla Démocratie Pacifique del Considérant (VECCHI V. A., Al servizio del mare italiano, Torino, 1928).



16 Cattaneo, conscio della necessità per la gioventú militare italiana di impratichirsi sui campi di battaglia, deplorava nella sua Insurrezione, 133, che re Carlo Alberto, cedendo a «timori di polizia» si fosse rifiutato sempre di mandare in Algeria ufficiali del suo esercito.



17 Le notizie fantastiche sull'attività di P. in Algeria ne Il Diritto, Torino, 21 luglio 1857, ne L'Armonia, ivi, 17 luglio 1857 e nel cit. Rapporto del Questore di Torino.



18 L'altro compagno di viaggio di P. era il triestino Angelo Tedesco, che combatté poi tutta la guerra del '48 a fianco di P., suo pari grado.

 

Capitolo III.





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