I due fuggiaschi discendono a Livorno,
mentre il patrio governo, ed anzi il Re stesso, «con reale
animo conturbato», li fa cercare, dal Console napoletano, a
Marsiglia. Scoperta poi la residenza vera, gran confusione a Firenze:
dove, tempestando l'Incaricato napoletano perché la polizia li
stani e glieli consegni, il Ministro degli Esteri toscano in persona
scrive d'urgenza a Livorno perché la coppia venga fermata, «e
la donna posta in luogo di custodia»; il Console napoletano a
Livorno s'impadronisce dei loro passaporti, da Napoli si spedisce nel
porto toscano un ispettore di polizia, perché ne scovi le
traccie. Tutto invano. Gli adulteri, procuratisi chi sa come due
nuovi passaporti napoletani, intestati a Enrico e Carlotta coniugi
Dumont, piantate le valigie (e un conto da pagare) alla locanda,
scompaiono da Livorno. All'ispettore napoletano non resta che saldare
il debito, sequestrare il bagaglio e far vela per Napoli; al
Governatore di Livorno indagare, con calma toscana, sulla nuova
destinazione dei fuggitivi, che alcuni suppongono siansi diretti a
Malta: il 30 di marzo l'Auditore del governo assicura che son passati
a Marsiglia, via Corsica; ed era esatto, ma con un buon mese di
ritardo. Pisacane si era già trasferito, infatti, direttamente
a Londra, giungendovi, da Boulogne-Folkestone, il 4 di
marzo10.
Erano due sconosciuti, poveri per
giunta11; speravano, viaggiando sotto mentito nome, di
sottrarsi alla persecuzione borbonica. Il vasto mondo si apriva loro
dinanzi. Pisacane era abbastanza ottimista: «Non sono un asino,
non sono un vile, ed ho fortissimo il corpo»; possibile che non
dovesse riuscire a guadagnarsi la vita? Lo attendevano invece, oltre
ai primi morsi di una disastrosa miseria, nel sordido slum di
Blackfriars Bridge, nuove prove della irritazione borbonica, ché
quel Ministro degli Esteri, avvertito dalla Legazione di Londra, l'11
marzo, della sua presenza colà, fece fuoco e fiamme per
ottenere l'estradizione e di lui e di lei; non vi riuscí, è
vero, ma il governo inglese, che non scherzava coi frodatori della
legge sugli aliens, saputo chi fosse Dumont, garbatamente lo
invitò a ripassare la Manica. Gli toccò dunque,
seguitando la dura via crucis, lasciar quella Londra dove,
sotto il nome fittizio, qualche utile conoscenza avea già
stretto nell'ambiente dei rifugiati italiani: l'unico ambiente di
connazionali che a lui, considerato disertore dell'esercito, potesse
aprirsi ormai. Preziosa tra l'altre la conoscenza con Gabriele
Rossetti, padre di Dante Gabriele, poeta lui stesso, esule a Londra
dal '24, pezzo grosso universitario e mondano.
Verso la
metà d'aprile giunsero a Parigi, a questa Mecca degli
intellettuali, dove sembrava e sembra tuttora impossibile che un
giovane d'ingegno, disoccupato, non riesca a trovare un impiego di
sua soddisfazione. Pisacane, nonostante ricerche affannose, non trovò
nulla. Né ora aveva piú al suo fianco una donna
robusta: Enrichetta, infatti, che già gli prometteva un
bambino, necessitava di riposo e di cure: indebolita fisicamente,
essa rivelava un fragilissimo sistema nervoso, preda di crisi
frequenti. E l'implacabile persecuzione del governo di Napoli anziché
rallentare s'accaniva sempre di piú! Il 28 d'aprile, celati in
un alberghetto di terz'ordine, i due subivano, provocata dalla
Legazione borbonica, una visita domiciliare che, per quanto
infruttuosa, li conduceva, per contravvenzione al regolamento sui
passaporti, a provvisoria carcerazione: la compiacente polizia
francese li tratteneva poi vari giorni in prigione in attesa che
giungessero da Napoli o la querela maritale o un regolare mandato
d'arresto pel «furto», imputabile a lei, di pochi oggetti
personali di proprietà del Lazzari! Pisacane, dal carcere,
subito scrisse, ingenuamente, al duca di Serra-Capriola, ambasciatore
napoletano a Parigi, per supplicarlo di «fare usare verso la
Signora Lazzari i riguardi che la sua nascita, educazione civile e
principalmente lo stato suo esigevano». Il piissimo duca, che
sperava con un po' di prigione di far di Enrichetta una Maddalena
pentita mandò, per tutta risposta, a tentar la conversione di
lei, due di quelle signore pietose, «le quali, come angeli
mandati dal cielo vanno a consolare i prigionieri, e cercare di
portare nei loro cuori il pentimento che tanto spesso hanno la
fortuna di destare nei piú induriti al delitto». Si
sbagliava di grosso: Enrichetta era, sí, debole e stanca e
depressa, ma ormai nessuna forza umana poteva distaccarla da
Pisacane. «Le povere signore — cosí il duca
scandalizzato e deluso al suo Ministro degli Esteri — tornarono
dal carcere dopo due ore di persuasione e combattimento, penetrate di
orrore, avendo trovato nella Signora Lazzari una riunione delle piú
esaltate e cieche passioni, con una sfrontatezza e la piú
orrida immoralità, e l'ateismo il piú positivo. Si
dovette abbandonare qualsiasi idea di pentimento e ravvedimento...»
Alla polizia francese Enrichetta
dichiarava semplicemente di non voler altro «che vivere col suo
Carlo, non temendo né la miseria, né la morte».
L'8 di maggio, non essendo giunta da
Napoli la querela del Lazzari, la coppia adultera, con grand'ira del
duca, ricuperò la libertà perduta. Pisacane, anzi, si
presentò al Serra-Capriola in persona, chiedendo gli
rilasciasse passaporti per la Svizzera o per l'America. Il colloquio
fu tempestoso: «Io gli risposi — precisa il duca —
che mi meravigliava del suo ardire, mentre egli doveva ben sapere che
avanti a me egli non era che un disertore; che, se le leggi francesi
non mi davano il potere di farlo ritornare nel suo paese per subire
la pena meritata, le leggi d'onore pei militari in questo stesso
paese portavano al disprezzo sopra chi abbandonava la sua Bandiera.
Che però se egli era pentito del doppio suo delitto, avendo
portata la disgrazia e la vergogna di una onesta famiglia, e si
separava dalla Signora Lazzari, io nel prender questa sotto la mia
protezione, avrei implorato a di lui favore l'indulgenza delle leggi
e la Clemenza Sovrana. Il sig. Pisacane sembrò non capisse le
mie parole e mi disse che egli e la signora avevano agito con tutta
riflessione. Non mi restò che farlo uscire dalla mia
presenza»12.
Terminavano cosí per Pisacane,
tre mesi dopo la sua partenza da Napoli, i piú grossi fastidi
di natura giudiziaria. S'intensificavano invece le preoccupazioni
economiche, e l'avvenire si faceva sempre piú buio per questo
spostato provinciale trentenne, sbalzato all'improvviso, con poche
conoscenze, in un mondo affatto nuovo. Fu un periodo dolorosissimo,
nella sterminata metropoli, eppure, si può supporlo anche se i
documenti tacciono, decisivo quanto al suo orientamento spirituale.
Gran bella cosa viaggiare all'estero,
quando il rango sociale, le relazioni o il censo apron tutte le
porte; gran conforto, per gli esuli politici, per miserabili che
siano, vedersi cordialmente accolti nelle fervide comunità di
fuorusciti italiani che pullulano per ogni dove. Ma che vuol mai
questo nobile decaduto, digiuno di politica, fuggiasco per banali
motivi di cuore, senz'altra esperienza al suo attivo che quella,
trilustre, d'aver servito il Borbone? S'imaginano le diffidenze, i
sospetti e le chiacchiere. Di gran giovamento riuscí comunque
per Pisacane, che s'apprestava a un nuovo e questa volta definitivo e
impegnativo tuffo nell'ambiente della emigrazione politica, un
lusinghiero biglietto di presentazione fornitogli dal Rossetti pel
generale Pepe, che era tra i maggiorenti della colonia italiana a
Parigi13. In casa di Pepe capitava non solamente il fior
fiore dell'elemento emigrato; ma tra le personalità francesi
un Lamennais, un Arago, un Béranger, una Sand, un Constant, un
Lamartine. Certo questi contatti, in un ambiente che presentiva, nel
suo fervore, l'imminenza d'una tempesta europea, e seguiva con ansia,
quando non contribuiva a provocarla, la crescente agitazione degli
spiriti in Francia e in Italia, non furono senza esercitare una
immensa influenza su Pisacane; il quale nel contempo impiegava le
troppe ore d'ozio nella intensa lettura di libri e di giornali, come
se gli tardasse, in quell'anno cosí tipico di vigilia, di
farsi d'urgenza una coscienza politica.
E infatti, mentre sui primi del '47
Pisacane è ancora un napoletano qualunque, alieno dalle cose
politiche e tutt'al piú, come ufficiale, voglioso di
complicazioni europee per avere finalmente occasione di smettere la
monotona vita di guarnigione, e di provare, coi rischi, l'ebbrezza di
una guerra, sui primi del '48 egli è già un fervido
patriota «italiano», con idee sue, fisime sue, programmi
suoi. La sua esperienza nel '47 dové dunque essere piena e
ricca e rettilinea: molti i discorsi uditi, sí, e le cose
vedute e lette sui libri; ma molta, e seria, e profonda, altresí,
la riflessione sua, diretta e originale, seppure i suoi interessi e
la sua coltura lo portassero, com'era naturale del resto, a
considerar le cose europee segnatamente come un problema di
equilibrio di forze, sotto l'aspetto militare cioè. Col che
non s'esclude che spunti d'idee politiche, impulsi di opposizione,
fremiti di simpatia per le vittime della tirannia non lo avessero
agitato di quando in quando anche negli anni precedenti14; né
che, militare di professione, non avesse potuto prospettarsi il
problema tecnico della indipendenza d'Italia; ma certo non era mai
salito, ancora, dall'episodio alla visione generale, né dalle
singoli questioni militari o politiche alla grande questione che
appassionava in quel tempo le élites delle classi colte
italiane; adorava, sí, in tutti i suoi aspetti la libertà,
ma queste avvertite, anzi impellenti esigenze di libertà non
gli avevano dato per anco figura e impostazione di liberale: tutt'al
piú, di ribelle.
Si va a
tentoni. Ma è verosimile che anche a Pisacane l'idea
dell'unità italiana — poi fermissima in lui, se pur la
concepisse ravvivata da ampie autonomie regionali — sia
balenata là fuori, come a tanti altri, una volta messi in
grado di considerarla nel suo assieme, questa Italia, da lontano,
fuori dalle meschinità provinciali, e anche da quelle
storicamente giustificate gelosie fra Stato e Stato; una volta cioè
resi capaci di anticipare nella vivente realtà di un piccolo
mondo di esuli la sognata possibilità di una fusione avvenire.
Grandi virtú prospettiche, di televisione, diremmo, create,
storicamente, dall'emigrazione politica, e per le quali soltanto, chi
pensi agli ultimi secoli della storia italiana, varrebbe la pena di
andar grati ai regimi tirannici! Che sarebbe stata l'Italia senza la
periodica forzata emigrazione nel mondo di cospicue minoranze
intellettuali che, in tempi d'oscuramento della libertà,
quindi della coltura, in patria, assicurarono — fuori —
la continuità ideale del nostro sviluppo civile?
Francia ed Inghilterra, poi,
precedevan l'Italia di almeno cinquant'anni, allora, se non altro per
quel che riguarda lo sviluppo effettivo e dottrinale della civiltà
moderna. Un italiano che vivesse sia pure poche settimane in quei
paesi, con occhio attento a quel che gli accadeva d'intorno, si
trovava in condizione d'anticipare la visione di problemi ancora
immaturi, o addirittura neppure impostati, per allora, in patria.
Soprattutto poteva afferrarvi d'un subito, o sfogliando un giornale,
o visitando un quartiere industriale, o frequentando le sedute delle
Camere, l'idea della complessità d'ogni fenomeno sociale e
della relatività d'ogni questione politica. Si pensi alla vita
industriale inglese, ai paurosi problemi che i grandi concentramenti
operai facevano affacciare: si pensi a Parigi, al rigoglio di studi
sociali comparsi fra il '30 e il '48, come inevitabile effetto della
precipitosa trasformazione subita in quegli anni dalla organizzazione
del lavoro. Fourier e Saint Simon, Blanqui e Proudhon, Blanc e Cabet:
critiche sempre piú aspre e scientifiche alla civiltà
borghese, prime linee d'una sempre meno romantica ricostruzione
futura, appassionate difese, e requisitorie, e polemiche. Né
restavano, queste ultime, sepolte nei libri, ma — diffuse e
semplificate da innumerevoli quotidiani e periodici — le
assorbiva avidamente, bene o male comprese non importa, il mondo
operaio, traverso il filtro di un piccolo esercito di organizzatori e
politicanti, abili nel cavarne motivi e formole di propaganda e
d'azione.
I borghesi intellettuali che a Parigi
nel '47 meditavano e preparavano una seconda e definitiva rivoluzione
di luglio avevano programmi assai radicali in politica, ma esigevano
intatto, nelle sue grandi linee, l'assetto sociale; riformatori
sociali e operai piú evoluti scavalcavano invece a piè
pari la questione politica, ché a loro importava rifare le
basi, non la facciata dell'edificio. Non d'altro si parlava in certi
quartieri e in certi circoli, non d'altro si ragionava su certi
giornali15. Dunque unità e indipendenza e bilanci in
pareggio non erano tutto per una nazione? Non in queste formole era
l'ubi consistam del progresso civile?
Sí che Pisacane, nell'atto
stesso in cui poneva attenzione al problema politico e considerava
sotto questo aspetto l'avvenire d'Italia, era portato a oltrepassarlo
o meglio ad afferrarne, con la palese relatività, il processo
dialettico di superamento.
Caratteristica tutta sua, questa, che
gli derivò proprio dall'avere cosí tardi, e in cosí
particolare ambiente e condizioni, inteso e affrontato la questione
italiana.
Cervello solido, sistematico,
ordinato, a Pisacane non ne derivò scetticismo, ma il disagio
di una visione complessa e torbida, faticosamente elaborata e
chiarita di poi: contradittorie impressioni, idee suggestive ma
incomplete o imprecise insieme ad istantanee vivaci e
indimenticabili di un mondo progredito in via di ulteriore sviluppo;
soprattutto un'improrogabile esigenza: uscire definitivamente dalla
piccola cerchia della vita individuale, affrontare i grandi problemi
della convivenza sociale, studiarli particolarmente in riflesso
all'Italia, alla quale urgeva dare il senso di quanto, in ogni campo,
e non solamente nell'assetto politico, essa fosse in arretrato di
fronte all'Europa. Difficile compito, per altro, risvegliar gli
italiani, se un Pisacane avea potuto, fin quasi a trent'anni,
compiacersi di un genere di vita, di problemi, di orizzonti non solo
napoletani, ma propri in Napoli a un esiguo ceto sociale!
Interessantissima, dunque, questa vita
a Parigi; piacevole il prolungarla, non fosse stato il bisogno, che
urgeva, di sistemarsi in qualche modo e la sperimentata impossibilità
di trovar lavoro nella capitale. Pisacane finí con
l'aggrapparsi all'estrema risorsa che in Francia sorride — e
sorrideva già allora, dal '31 in poi — a tutti i vinti
della vita, gli spiantati, i senza patria che affollan le vie di
Parigi: la Legione Straniera. Della Legione, istituita
per la guerra algerina e piú ancora per purgare il paese dei
troppi rifugiati che lo infestavano, aveva un tempo fatto parte —
e parte cospicua — un battaglione italiano, disciolto il quale
nel 1840, non era per questo diminuita l'affluenza degli italiani;
ché anzi, in quegli anni di pace, molti malinconici sognatori
di gloria v'erano affluiti dalle varie provincie della penisola. In
un certo momento (forse nel '46) lo stesso Pisacane, deciso a
tentare, per la sua passione amorosa poi rivelatasi inguaribile, la
cura della lontananza, avea richiesto al suo re il permesso di andare
a morire laggiú. Ma gli era stato negato16.
Libero adesso, riprese il progetto; e
per accelerare le pratiche ottenne che il Ministro francese della
Marina — il duca di Montebello, che Pisacane avea conosciuto a
Napoli, quando v'era stato ambasciatore — lo presentasse e
raccomandasse: finalmente, ecco per lui un brevetto di sottotenente.
La partenza fu ritardata pel parto di lei? Oppure la creatura non
giunse a termine? Chi sa; certo che Enrichetta, sola sola e
doppiamente triste, si fermò a Marsiglia, presso persone
amiche: di là egli s'era imbarcato il 5 dicembre per l'Africa.
Primo distacco, dopo cosí pochi mesi di tempestosa unione: a
quando — se mai — il ritorno? Ché in Algeria la
ormai disperata resistenza di Abd-el-Kader contro l'occupazione
francese si manifestava in periodici ritorni offensivi, scaramucce
cruente e imboscate. Sei ufficiali italiani eran caduti, dal '31 in
poi, combattendo nella Legione Straniera!
Una guerra di conquista coloniale, non
provocata, viola sempre i diritti dell'umanità: impossibile
giustificarla se non ricorrendo al «sacro egoismo» di una
nazione espansionistica. Ma quale idealità può mai
infiammare alla guerra i soldati di una Legione Straniera? Nessuna,
se non, per molti sciagurati, il bisogno di rifarsi un nome o, per
uomini della tempra di Pisacane, l'aspirazione a provare in un campo
qualunque le proprie attitudini militari.
Sfortuna,
anche in questo: proprio il 13 dicembre di quell'anno Abd-el-Kader,
ridotto all'estremo, si arrende al generale Lamoricière.
L'Algeria è provincia francese, e alle truppe d'occupazione
non competono ormai che servizi, duri fin che si voglia, ma poco
brillanti e gloriosi, di sorveglianza, di penetrazione piú o
meno pacifica, di rastrellamento delle superstiti tribú
ribelli.
Inquadrato nella Legione, rassegnato
al pacifico compito, distaccato, pare, in Orano (anche lí,
quanti fuorusciti italiani, e quanto si dovea parlare d'Italia!) a
Pisacane non mancò modo di distinguersi, e di porre in valore
la sua solidissima preparazione tecnica. Piú tardi si lavorò
di fantasia su questo suo soggiorno algerino, attribuendosi a
Pisacane — per poco piú di tre mesi di permanenza —
nientemeno che un paio di duelli e un primo peccato letterario (una
raccolta di lettere, si disse, sul tipo dello Iacopo Ortis)!
Fole17, ché di questi pretesi scritti non s'è
mai saputo piú niente: quanto ai duelli, par difficile pensare
che a un ufficiale attaccabrighe e violento si siano da parte dei
suoi superiori propinate tante dimostrazioni di simpatia e di stima
quante ne ricevette Pisacane allorché, già nel marzo
'48, presentò le dimissioni per ritornare in Europa.
Le strepitose novità italiane
ed europee gli avevano messo la febbre in corpo. Si combatte in
Italia, per la sua indipendenza, una guerra sul serio contro un
nemico potente; come potrebbe un italiano, cui scorra sangue nelle
vene, continuare a combattere la guerricciola d'Africa? Sí che
per quanto il suo colonnello qualifichi la sua partenza come una vera
perdita pel reggimento e il generale gli suggerisca di sospendere le
dimissioni, recandosi prima in Italia per giudicar sul posto come
procedano le cose, Pisacane — che odia le mezze decisioni —
insiste nel suo proposito, e parte precipitosamente seguito da altri
legionari italiani. Non ha perduto i suoi tre mesi africani: perfino
il Ministro della Guerra, Arago, che egli ha probabilmente conosciuto
a Parigi da Pepe, scriverà piú tardi cose assai
lusinghiere sul conto suo.
Questo scoppio liberale del '48
sorprese un po' tutti; ma dové sorprendere come una folgore
Pisacane che la sua Italia conosceva sí poco: gennaio,
rivoluzione in Sicilia, gran dimostrazione a Napoli, Ferdinando
concede (di che cuore!) la Costituzione; marzo, Costituzione in
Piemonte, Costituzione a Roma. Il tutto preceduto, accompagnato,
seguíto dai grandi incendi di Parigi e di Vienna. Metternich
che se ne va, Luigi Filippo che se ne va. Trionfo inconcepibile del
liberalismo europeo. In Italia, poi, la folla delle capitali impazza
perché, con quattro dimostrazioni, ha ottenuto una serie di
riforme e di garanzie che non ha mai desiderato e non sa neanche cosa
voglian dire, e i pochi iniziatori esultano (e dovrebbero stupire e
diffidare) perché il popolo, con «divino» intuito,
ha sposato d'un tratto la causa delle libertà politiche.
Portar corona in capo, sui primi del '48, è diventata, in men
che non si dica, la piú difficile e meno invidiabile delle
posizioni sociali: in Italia, sentendosi mancare il terreno sotto i
piedi, i Principi si buttano in gara di demagogia, fanno a chi piú
concede, e a chi piú presto.
Salvo in Sicilia, dove la rivolta
antinapoletana ha cause profonde e locali e perciò sentite e
sofferte dalla maggioranza della popolazione urbana, in tutto il
resto d'Italia (ma sí, anche a Milano e a Venezia) il
Quarantotto è movimento in gran parte riflesso, obbediente a
una legge fisica secondo la quale un corpo arroventato e un corpo
diaccio non possono aderire senza che il contatto modifichi la
rispettiva temperatura. L'Europa è il corpo arroventato,
l'Italia quello tiepido se non diaccio addirittura, e in Italia
(checché si dica o speri in contrario) circola il sangue
d'Europa. Senza le novità francesi ed austriache il '48
avrebbe rassodato fra noi la tendenza riformistica, ma nulla piú;
una rivoluzione non era davvero matura né a Napoli né a
Roma né a Firenze né a Milano né a Venezia.
Il 18 marzo scoppia la rivolta
antiaustriaca a Milano: improvviso rigurgito di irritazione
compressa, di ricordi non mai sepolti di gloriosa autonomia,
un'aspirazione generica a una libertà che ciascuno intende a
suo modo. Nessuna seria preparazione (chi avrebbe preveduto la
possibilità delle Cinque Giornate, due mesi prima?), ma
l'abbagliante subitanea scoperta che l'Austria è uno Stato che
minaccia rovina, che sotto l'orpello della sua Corte e dietro la
siepe delle sue baionette c'è un popolo che aspira anch'esso a
libertà; la febbre improvvisa ed effimera, insomma, che
pervade la maggioranza dei ceti cittadini, dell'«ora o mai».
Ora o mai, che cosa? Ora o mai ci si libera dal giogo austriaco e
torniamo padroni in casa nostra. Tanto pesante dunque quel giogo,
tanto terribile il governo austriaco? No, non peggiore certo di tutti
gli altri italiani; ma governo straniero, umiliante e irritante,
anche se amministra alla perfezione, e fa strade ponti e bonifiche.
Rovesciarlo, avevan detto e predetto per anni e anni, gridando al
deserto, gruppi di patriotti: ma ora tutti d'un subito avvertono che
si è presentata, per disfarsi dell'Austria, l'occasione unica,
imprevedibile, superiore ai desideri piú arditi, che trova la
sua base storica e sentimentale nel ricordo del periodo francese,
quando Milano era orgogliosa capitale. E Milano s'avventa; il giorno
prima, a Venezia, è stato liberato Manin. Il 23 marzo, non
troppo decisa, s'accende la guerra sarda; tre giorni appresso sonante
ingresso in Milano delle truppe Carlalbertine.
Tanto rapidamente marciavano le cose
italiane in quella primavera del '48, che mentre Milano, orgoglio
delle democrazie europee, subiva la doppia invasione di volontari
provenienti da ogni parte del globo, e di dottrinari saccenti,
gabellanti ciascuno la ricetta infallibile pel successo finale; nel
resto d'Italia guizzavano nel cielo, e un dopo l'altro esplodevano,
stupefacenti fuochi d'artificio. Erano il Papa, il Granduca, il
Borbone che, gelosi di Carlo Alberto e premuti dall'irrequieta folla
delle capitali, si rassegnavano, pur di salvare il trono, a dichiarar
guerra all'Austria, salvo poi a intervenire sul Po con moto
uniformemente ritardato. Fuochi d'artificio, sí; ma chi se ne
accorgeva allora? Quegli scoppi e quel persistente bagliore
ingannarono tutti. Come sembrava mutata l'Italia, come mutati i suoi
Principi, come inalzato il suo popolo, negli ultimi mesi!
Tanto mutato, tutto, che a Pisacane,
sbarcato a Marsiglia il 1° di aprile, parve legittimo attendersi
che in un tal clima i suoi recenti trascorsi venissero considerati
come appartenenti addirittura a una remota antichità, e perciò
dimenticati e sanati: su ben altro che scandaletti donneschi avevan
dovuto, a Napoli, passare a malincuore la spugna... L'ufficiale
«disertore», l'adultero si presenta dunque al Console
delle Due Sicilie, al quale chiede un salvacondotto per Napoli: gli
sorride, è logico, di fare la guerra col grado suo, con i suoi
concittadini, in un esercito comandato dal Pepe. Ma il buon
funzionario (non c'è che la burocrazia che non muti, nel '48),
pauroso di tanta responsabilità, gira la pratica al Ministero.
Aspettare? Pisacane ha poca pazienza;
sente che quei giorni contan per anni; gli ripugna vivacchiare a
Marsiglia, sia pure con Enrichetta accanto, mentre in Italia tuona la
«bella guerra». Al diavolo dunque le autorità
borboniche: parte di furia per Milano, e il salvacondotto, concesso,
resterà poi a dormire negli uffici del Console.
Sono in quattro nel viaggio: lui, la
sua compagna, un altro ufficiale della Legione straniera18, e
un Giovanni Cattaneo, emigrato, cugino dell'altro Cattaneo pezzo
grosso dell'insurrezione.
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