Giunto a Milano il 14 aprile, Pisacane
fa capo a Cattaneo: lo crede ancora il padrone della città,
mentre è ormai nient'altro che un povero Catone inascoltato o
quasi, lí lí per doventare un sospetto agli occhi dei
reggitori.
Nel rigurgito di tanti volontari
spavaldi e ignoranti, Cattaneo apprezza subito il valore d'un
Pisacane, se non altro un militare di mestiere, con idee chiare in
testa. Discutono sulla situazione. Pisacane si orienta subito:
Radetzki è serrato in Verona dal principio del mese,
l'esercito sardo sta perdendo il suo tempo sulla riva sinistra del
Mincio. Le forze, su per giú, si equilibrano: Radetzki aspetta
i famosi rinforzi; i piemontesi contano un poco sulle truppe di
Napoli, di Roma, di Firenze, niente sui volontari. Nuvoloni
all'orizzonte parecchi: il fervore popolare s'è smorzato
assai, e i milanesi riposano ormai sugli allori, pensando che la
guerra vera, in campo, tocca agli eserciti stanziali. Morire
d'iniziative, perciò, e dedizione passiva al monarca, e le
redini strappate di mano a quanti pretendono che la Lombardia
prosegua la sua guerra d'insurrezione accanto al Piemonte; diffidenze
incrociantesi, degli autonomisti e repubblicani, sulle vere
intenzioni di Carlo Alberto; dei piemontesi e monarchici sul pericolo
di sinistra, e ovunque il riflesso dei gelosi sospetti suscitati in
tutta Italia dalla mossa sabauda; e già vive e accorate le
recriminazioni reciproche sulle eccezionali occasioni perdute per
farla finita con l'Austria.
Data la situazione, Pisacane dichiara
che vuol proseguire immediatamente pel fronte; Cattaneo si offre di
accompagnarlo dal generale Lechi, che comanda in capo il cosidetto
esercito lombardo. I milanesi, lungo la via, si voltano «a
mirare quel bel giovane in quell'insolita uniforme»19.
Lechi è vecchiotto, burocratico, della vecchia scuola; propone
a Pisacane di trattenersi a Milano per ordinare e «mettere a
punto» un nuovo reggimento di volontari. Sfuriata di Pisacane:
è venuto dall'Africa per fare la guerra, non «per
trascinar neghittoso la spada per le vie di Milano». Già
troppa gente affolla i caffè e le redazioni dei giornali,
sputando critiche e progetti balordi20; già troppo si
ciancia sull'avvenire della Lombardia (pelle dell'orso), quando le
sorti delle armi pendono ancora terribilmente incerte.
Lo contentano subito; e poiché
i gradi, si sa, costano poco, ecco a lui che è tenente,
brevetto di capitano e assegnazione a un reggimento di nuova
formazione, che lo stesso 14 aprile parte pel fronte: il «reggimento
della morte». (Son fuori strada, dunque, quelli tra i biografi
di Pisacane, che, trovando un documento da lui firmato in quei giorni
qual capitano in quel corpo, hanno creduto di speculare sulla sua
vanteria)21.
La partenza — e la nuova
separazione da Enrichetta — non avvengono che il 17 d'aprile,
ché Pisacane, aderendo a un invito di Cattaneo, ammiratore,
sí, del suo slancio guerresco, ma piú della sua
competenza, si ferma due giorni in Milano per precisar brevemente, e
consegnare a chi di dovere, le sue idee Sul momentaneo ordinamento
dell'esercito lombardo in aprile 1848. Incitamenti a
intensificare il reclutamento e l'addestramento dei volontari?
Proposta di richiedere alla Francia — con la quale gli inviati
lombardi stanno fiaccamente trattando le modalità di una
spedizione di soccorso — la cessione del contingente italiano
militante nella Legione Straniera?22 Fatica sprecata: «già
i savii non accettavano piú consigli», spiegherà
poi l'amareggiato Cattaneo.
Ma ecco Desenzano sul Garda, centro di
raccolta, con la vicina Salò, di volontari d'ogni paese e
favella: disertori austriaci, gente di Lombardia o Veneto o Lazio o
Calabria, svizzeri e financo polacchi. Quivi, aggregato a una colonna
lombarda comandata da un maggiore Borra, il nuovo venuto è
tutt'altro che «neghittoso»: una faccenda grave
trasformar quella masnada in combattenti sul serio! Occorre poi
mantenere i contatti con l'estrema ala destra dell'esercito sardo che
presidia Peschiera. Marce ed esercitazioni quotidiane, perciò.
Lettera al fratello Filippo: Pisacane
in complesso è contento; la sua colonna, gli scrive, per
quanto non sia per anco organizzata a dovere e gli uomini sappiano a
mala pena maneggiare il fucile, può considerarsi tra le
migliori. Certo, si vorrebbe fare molto di piú, ma bisogna pur
rassegnarsi agli ordini emanati dallo Stato Maggior generale e
attendere, per cominciare la guerra anche lassú, «il
signor Carlo Alberto». E poi, senza eufemismi: «Gli
affari della guerra in generale vanno bene, perché non possono
andar male; ma Carlo Alberto è una b... senza pari; 90 000
combattenti arrestati sul Mincio senza ragione. Se gli austriaci
avranno forze noi saremo completamente girati dal Tirolo».
Il guaio si è che tale
opinione, tale sfiducia integrale nella capacità tecnica del
Comando Sardo non sono prerogativa di Pisacane, sempre abbondante, si
sa, nel criticare, ma hanno preso radice tra i volontari tutti.
L'ultimo appunto, in special modo, era grave e fondato: gli
austriaci, padroni di Riva sul Garda, padroni della Val di Ledro,
padroni delle vie d'accesso alla Val Sabbia, avrebbero potuto infatti
avanzare a ventaglio sulla pianura bresciana senza incontrare
resistenza valida. Per fortuna, le forze di cui essi disponevano in
quella zona erano appena sufficienti ad assicurare la loro propria
difesa.
Ad ogni modo, quasi a calmare le
apprensioni di Pisacane, ecco, sulla fine d'aprile, l'ordine che
ingiunge al general Durando (Giacomo) di assumere il comando di tutto
il complesso settore montano che costituisce l'estrema linea di
confine tra la Lombardia e il Tirolo austriaco: da Limone sul Garda
per l'altopiano di Tremosine a Ponte Caffaro; di qui al Tonale e allo
Stelvio.
Benissimo, dunque: solo che a guarnire
un fronte di tanta estensione Durando non può disporre che di
tre o quattromila uomini, pessimamente armati e allenati! Non c'è
altro da fare che stenderli a guisa di cordone sanitario, piuttosto a
vigilare che a difendere: in seconda linea, due o tre luoghi forti. È
poco, ma è pur sempre un progresso rispetto a quel che hanno
fatto, nel primo mese di guerra, in quello stesso settore, le bande
semi-anarchiche dell'Allemandi.
Le colonne di volontari concentrate
sulla sponda meridionale del Garda raggiungono una dopo l'altra le
posizioni assegnate. Pisacane, che nella colonna Borra comanda adesso
una compagnia cacciatori, parte il 28 per Tremosine. Una catena di
monti separa quella zona dalla Val di Ledro austriaca; Pisacane, che
non può per mancanza di forze occuparne le cime, ne guarda gli
sbocchi, numerosi e quasi tutti ad alta quota. Non è la guerra
combattuta, come aveva sognato; ma è vita dura lassú,
freddo intenso, scarsi ricoveri, viottole impervie; e del nemico,
appostato nell'altro versante, ben poche notizie, perciò timor
di sorprese, frequenti ricognizioni sui monti soprastanti,
apprestamenti difensivi nella vallata; gran difficoltà, poi,
per organizzare i servizi. Pisacane è un capitano «pignolo»,
in moto tutto il giorno, esigente, coscienzioso, autoritario.
Certo che gli brucia sentir solo da
lontano fragor di battaglie. Sei maggio, Santa Lucia, primo scacco un
po' grave dei piemontesi; e il corpo di Nugent che da Gorizia, sui
primi di maggio, s'è portato con rapidissima marcia a Belluno:
Verona è a poche tappe! Pisacane si allarma. Le notizie,
lassú, giungono con esasperante lentezza, ma si ha la vaga
impressione che la guerra cominci a voltar male. Il 29 aprile è
stata la doccia fredda dell'enciclica papale; ora, il 15 maggio, è
la controrivoluzione a Napoli. Le truppe sarde principiano a
scorarsi, i volontari, dimenticati sui monti, danno spettacolo
d'indisciplina. Un episodio tipico? Il 28 d'aprile Pisacane,
piuttosto scandalizzato, ha scritto al fratello che l'antico compagno
d'armi De Turris, capitato in un reggimento scarso d'ufficiali, è
stato in tre giorni promosso maggiore. Non passan due mesi che De
Turris e con lui altri tre ufficiali danno alle stampe un comunicato
recante le loro dimissioni «da quel reggimento... per il
cattivo andamento e direzione di quel comandante, digiuno delle
necessarie cognizioni di amministrazione interna e di strategia e
tattica militare in campo». E tutto ciò in tempo di
guerra!23
Il 22 di maggio un fatto d'arme
importante si svolge in Val Sabbia, a non grande distanza dalle
posizioni occupate da Pisacane: 3000 austriaci forzano di sorpresa il
passaggio di Ponte Caffaro, respingendone i difensori fino su Anfo
dove il Durando ha stabilito il suo quartier generale. Le conseguenze
dello sfondamento potrebbero essere gravi e forse irrimediabili se i
volontari italiani, con manovra ripetuta in successive azioni di
guerra (ché fu quello, come del resto tutto il settore del
Durando, teatro di ben tre guerre successive, '59, '66, '915-18), non
s'impadronissero di rimbalzo della vetta del Monte Suello, di lassú
sbarrando la via al corpo austriaco avanzante nel fondo valle. Ma se
invece che in 3000 gli austriaci si fossero presentati col doppio o
col triplo di forze chi mai li avrebbe piú fermati nella
disastrosa avanzata su Brescia? E se il tentativo si ripetesse? Le
apprensioni che Pisacane ha partecipato al fratello alla fine di
aprile risorgono adesso in lui con piú forza di prima. Gli
austriaci potrebbero risolvere rapidamente la guerra a loro vantaggio
se tentassero un colpo grosso sul settore montano.
Modesto capitano, egli non ha voce
nella direzione della guerra; pure vuol dire la sua, e chi può
ne tenga il conto che crede. Il 26 di maggio stende un rapporto
diretto al generale Durando e agli «Illustrissimi Signori del
Comitato di Guerra di Brescia» (già, perché
accanto al Ministero della Guerra, in Milano, accanto al Quartier
generale Sardo, sul fronte, seguitavano a funzionare — e con
quali pretese d'autonomia! — questi Comitati locali). Sguardo
d'insieme sull'andamento delle operazioni: l'incognita è
costituita dalla colonna Nugent. Che via prenderà? Nugent,
cosí ragiona Pisacane, è troppo abile stratega per
proseguire nella marcia in pianura, che lo costringerebbe ben presto
ad affrontare una battaglia campale con l'intero esercito sardo,
enormemente superiore di numero. A lui conviene evidentemente tentare
l'aggiramento, spingendosi con rapide mosse per la Val Sugana su
Trento; da Trento, per Vezzano e Tione, rovesciarsi, forte
dell'esperienza del 22 di maggio, in Val Sabbia, debolmente
presidiata, per aprirsi la strada di Brescia. Hanno pensato a questo
i signori generali italiani? Hanno mai posto mente che l'eventuale
piano Nugent si potrebbe prevenire e forse rovesciare? Ci son tre
contro-piani possibili, secondo lui. Il piú audace e fruttuoso
sarebbe quello di radunare tutte le forze sin qui dislocate nel
settore del Garda e a valle del lago di Ledro per gettarle, sfondata
la linea nemica, su Trento e Rovereto, notoriamente sguernite di
truppe e, a quanto si dice, disposte a rivoluzione antiaustriaca: la
guerra si trasporterebbe cosí in territorio nemico e, in caso
di successo, l'esercito di Radetzki, tagliato dalle comunicazioni,
verrebbe a trovarsi stretto tra due fuochi. Troppo audace e rischiosa
questa manovra? (Strano che non sembrasse senz'altro tale ad un
esperto del suo valore: da Ponte Caffaro a Trento corrono infatti
settantacinque chilometri!) E allora si assegni come obiettivo
all'azione una sorpresa su Riva, posizione importante perché
«osserva dappresso» e Rovereto e Trento, e perché
assicura il dominio del Garda. Urge comunque rinunciare al sistema
del «cordone sanitario» provatamente inutile e
dispendiosissimo: se anche Riva è scartata, si scelga dunque
per lo schieramento dei volontari una posizione piú
ragionevole di quelle assegnate sin qui: tra la Sarca e il Chiese, in
territorio attualmente nemico, non mancano punti di passaggio
obbligati dai quali si possa, tenendo riunita la forza, metterla in
grado di opporsi a rilevanti effettivi austriaci.
Giustissimo; ma Pisacane ignorava
evidentemente che al di là dei confini guardati dai volontari
erano terre austriache, sí, ma costituenti parte integrale
della Confederazione Germanica; varcarli poteva dunque far
precipitare in una discesa offensiva il fermento anti italiano già
manifestatosi fra i tirolesi, e, chi sa, portare a una dichiarazione
di guerra da parte della Baviera; allorquando occorreva invece
sottolineare all'Europa il carattere di pura rivolta antiaustriaca,
in quanto l'Austria era potenza italiana, della guerra lombarda.
Ignorava altresí talune circostanze sopravvenute in quei
giorni che toglievano purtroppo ogni base ai suoi ragionamenti, i
quali infatti caddero nel vuoto: e intanto quella, di estrema
gravità, che la riunione di Nugent e Radetzki, tra Verona e
Vicenza, aveva già avuto luogo senza che le truppe del «Signor
Carlo Alberto» avessero saputo validamente opporvisi. Il che
rendeva cosí seria la posizione dell'esercito sardo che
sarebbe stato pazzesco addirittura sottrargli sia pure un solo fucile
per tentar diversivi non essenziali in montagna; e il Durando, per
parte sua, sprovvisto d'artiglieria, con quella poca gente, avesse
pur sconfinato, quali obiettivi poteva proporsi?
Curtatone e Montanara, Goito e
Peschiera; 10 di giugno, caduta di Vicenza, il Veneto — Venezia
eccettuata — interamente perduto; Carlo Alberto che teme uno
scontro decisivo e appresta l'inutilissimo assedio di Mantova; i
lombardi che lo accusano di condurre la guerra con fiacchezza voluta,
e anzi di cercar l'armistizio fin dal giorno in cui essi hanno avuto
la dabbenaggine di votar la fusione col Piemonte; i repubblicani che
a gola spiegata già imprecano al tradimento...
Pisacane deve dunque rassegnarsi a
restare a Tremosine, in relativa inoperosità, a comandar della
gente che a forza di non far nulla ha perduto ogni entusiasmo e
centuplicato l'indisciplina; per giunta il general Durando gli
comunica l'ordine «in caso di attacco dalla parte del nemico
con forze superiori» di ritirarsi nientemeno che a Tuscolano,
abbandonando cosí tutte le posizioni montane, e Limone e
Tremosine e Gargnano medesime24. Ah questi generali che
dirigon le cose senza mai visitare la zona d'operazioni, senza —
o cosí sembra — consultare le carte, sdegnando i
consigli degli ufficiali che si trovan sul posto! Non si rendono
conto del pericolo che Brescia corre, col nemico che ammassa forze in
valle di Ledro e allestisce cannoniere a Riva?
Ma Durando forse pensava che gli
ufficiali al fronte vedono il loro settore, e basta; par loro che le
sorti della guerra abbiano a decidersi unicamente lí.
D'un tratto — è la metà
di giugno — perviene a Pisacane una compagnia di rinforzi con
l'ordine di impadronirsi d'una importante posizione strategica, la
vetta del Monte Nota (1384 metri d'altezza) che sta a cavaliere tra
l'altipiano di Tremosine e la Valle di Ledro. Rinforzi? Gli si
darebbe dunque ragione? Oh no: il comando voleva «disfarsi di
certi indisciplinati»!25
L'azione riesce benissimo: austriaci
non ce ne sono; si trovano a qualche ora di marcia dal Nota, a
Molina, una borgata allo sbocco del lago di Ledro. Vederli,
finalmente! Pisacane spinge i suoi uomini in ricognizione. «Era
la prima volta che i soldati vedevano il fuoco», racconterà
poi, «... l'affare riuscí brillante... io ero arrivato a
venti passi dalle case, vi ordinavo pochi uomini per l'attacco alla
baionetta... ma all'arrivo del rinforzo (austriaco) feci battere la
ritirata».
Quel giorno stesso e i successivi il
Monte Nota e i suoi accessi diventano oggetto di frequenti piccoli
attacchi e contrattacchi. I giornali di Milano, lieti di poter
contrapporre successi del corpo lombardo a insuccessi dell'esercito
sardo, ne parlano assai. Il 16 giugno (si legge ad esempio sui fogli
di cinque giorni appresso) gli austriaci attaccarono «colla
forza di 300 uomini... le due compagnie stanziate sul M. Nota
comandate dai capitani Pizzacane (sic) e Brambilla. I nostri,
dopo fatta una scarica, caricarono alla baionetta il nemico, che
tosto indietreggiò alle sue posizioni, lasciando tre morti e
cinque feriti». Il 17, gran confusione: «il nemico —
cosí almeno si legge sulla Gazzetta di Milano del 3 di
luglio — tentò uno sbarco a Limone. Il Municipio fece
tosto avvertito il cap. Pisacane il quale colla 5a
Fucilieri... volò subito alla difesa di questo posto; i nemici
però non osarono aspettare i nostri e fuggirono minacciando
ritorno e distruzione».
«Volò», frasi di
guerra: dalla vetta del Nota a Limone son milleduecento metri di
dislivello e parecchie ore di marcia per sentieri da capre!
Il 23 e 24, attacchi austriaci al
passo di Bestana (a oriente del Nota). I volontari resistono,
respingono il nemico; si conducono benissimo, nonostante la
pesantezza di quella guerra in alta montagna. Gli è che per la
prima volta in due mesi s'accorgono di servire a qualcosa; Pisacane,
poi, è addirittura raggiante: giunti ulteriori rinforzi
(pazienza se di qualità piuttosto scadente) egli assume il
comando di tutte e quattro le compagnie stanziate nella zona.
Il 25 gli austriaci nuovamente
attaccano in forze il piccolo posto stabilito a Bestana: tengono
molto, si vede, a respingere i volontari sull'altro versante. Ma si
ritirano ancora una volta; senonché, narra la Gazzetta
di Milano, invece di recedere fino alla linea abituale, si
celano tra i cespugli di Cadrione, alle falde del monte; l'indomani
prima dell'alba sorprendono gli avamposti italiani. Cinque ore di
combattimento accanito, e a quanto pare con vantaggio degli austriaci
superiori di numero. Pisacane, che è in moto dalle tre del
mattino, si tiene sulla difensiva sin quando non sopraggiunge una
compagnia di granatieri chiamata a rinforzo. Sferra allora il
contrattacco, violento. Ma nell'investire «un piccolo ridotto
che (gli austriaci) s'erano formati dietro un masso di pietre, e dal
quale fulminavano i nostri, fu Pisacane ferito al braccio destro; non
pertanto continuò ancora il comando di difesa».26
Quando il nemico, alla fine, ridiscese sconfitto, contava trenta
morti e altrettanti feriti; che per le scaramucce del tempo
costituiva una cifra assai rispettabile!
Il ferito, che è stato
costretto — son sue parole — a «camminare due ore a
piedi e quattro sopra una sedia», vien trasportato a Salò.
Spaventosa l'organizzazione sanitaria! Gli ospedali non offrono che
pagliericci, e qualche volta manca perfino la paglia. I medici, Dio
ne scampi e liberi: propongono a Pisacane l'amputazione del braccio;
il disgraziato può ringraziar la fortuna che fa sopraggiungere
un chirurgo sul serio, certo Leone. Questi gli salva, nonché
il braccio, probabilmente la vita stessa.
Enrichetta accorre da Milano, lo vuole
assistere lei. Triste era stata, due anni prima, un'altra
convalescenza a Napoli; tristissima adesso, nell'assolata Salò.
Il tempo che passa lavora infatti per l'Austria che si ristabilisce
all'interno e il cui esercito gradatamente riacquista la superiorità
del numero e dell'iniziativa sul proprio avversario. Le truppe sarde
tengono ancora nel luglio, prima metà; ma il 25 del mese è
Custoza. E poi, per scontri perduti, per deficienza di servizi, per
la scarsa combattività delle truppe, per l'indecisione del re,
per la mancanza di seconde linee preventivamente disposte, di un
piano di ritirata, per cent'altre ragioni, le tappe fulminee della
disfatta. L'armistizio rifiutato, il proclama agl'italiani,
l'ingresso in Milano.
Pisacane, che ha pur già tante
volte bollato d'incapacità l'alto Comando Sardo, crede di
sognare dinanzi al crescendo di spropositi strategici e
tattici che esso va commettendo: possibile che si pensi davvero a
difender Milano, città aperta, da entro le mura? Tanto
disastro, tanta inettitudine lo infuriano. Mezzo invalido ancora,
precipita a Milano, si presenta a Fanti, Maestri, Restelli, membri
del Comitato di Difesa: la salvezza, dice, è forse possibile
ancora, purché si ardisca di separare senz'altro la causa
lombarda da quella della monarchia di Savoia, e si sappia, si voglia,
risuscitar per davvero l'animo delle Cinque Giornate. Il piano che
egli propone, che altri del resto hanno già proposto, è
audacissimo: sgombrar la città, concentrar fulmineamente tutte
le forze lombarde — un quaranta o cinquantamila uomini,
calcolando su una leva in massa immediata — tra Bergamo e
Brescia; di là sferrare un colpo disperato, gettandole tutte
dapprima contro il corpo di Thurn, asserragliato a Peschiera, poi
contro quello di Welden, che sta bloccando Venezia. Rischioso, sí;
ma non ci si trova di fronte a una situazione, peggio che disperata,
perduta di già?
Fanti, Maestri, Restelli lo ascoltano
in silenzio; poi gli significano che gl'invalidi hanno l'ordine di
sgombrare immediatamente Milano: pensano forse che oltre che al
braccio egli sia stato ferito alla testa? Al capitano Pisacane è
giuocoforza inchinarsi e obbedire; non senza prima avere espresso
agli amici la sua convinzione, ahimè confermata anche troppo
presto dai fatti, che dai dirigenti la Difesa «non s'avesse
alcun fermo proposito di resistere al nemico né di far opera
degna di quel popolo che a loro obbediva». Poco piú di
un mese è passato da quando gli austriaci, sul Nota, gli han
fracassato l'arto; ed ora, sulla via di Brescia, non può che
apparirgli tutta la dolorosa inutilità di quella scaramuccia
di cui pure andava tanto glorioso, del suo sacrificio, di quella
guerra insomma al cui richiamo è accorso con tanto ingenuo
entusiasmo. Nella voragine della pianura lombarda, tutto,
miserevolmente sprofondando, s'annulla: ardori, speranze, eroismi.
Quattro d'agosto, armistizio: la
Lombardia torna all'Austria; ma è quello stesso paese che con
le forze sue proprie ha, qualche mese addietro, messo in fuga il
Radetzki? Piú a nord, la guerra sussulta ancora; e il 7
agosto, ad esempio, il corpo di Pisacane prende parte a una
sanguinosa ricognizione tra Lonato e Salò. Ma Pisacane,
convalescente, non c'è: precedendo i commilitoni costretti,
cinque giorni piú tardi, all'esodo definitivo verso il
Piemonte o la Svizzera, egli è già riparato, con
Enrichetta, a Lugano27.
Estate turbinosa, quell'anno, nel
quieto Cantone Ticino, caro ai turisti inglesi, e affluenza di
villeggianti inconsueti: figure eminenti della insurrezione e della
guerra lombarda e d'altri episodi rivoluzionari italiani, combattenti
e feriti pur mò smobilitati, scrittori e agitatori politici,
ciurmaglia in miseria. Gruppo compatto, lo stato maggiore
repubblicano, Mazzini in testa.
Speranze di ripresa in Italia non
mancano, né su tutto il fronte lombardo si è per anco
ristabilita la calma: i volontari allo Stelvio resistono fino al 16
agosto, la colonna Garibaldi, concluso l'avventuroso raid da
Bergamo a Morazzone, non si ritira in Isvizzera che il 27 del mese,
la Valtellina di Quadrio s'agita ancora. La guerra è, sí,
ufficialmente sospesa ma l'armistizio potrebbe da un momento
all'altro venir denunciato. Fervore eccezionale, impazienze,
recriminazioni, dispiegamento senza risparmio del «senno di
poi», dunque, tra gli ospiti del Cantone Ticino, ciascuno
fantasticando sul quando e sul come riappiccare il grande fuoco
sopito, ciascuno a suo modo istruendo il processo al recente passato.
Sembra si sian riuniti in quel luogo come a una specie di gran
congresso dei rappresentanti d'ogni sezione del partito italiano, per
stabilire il programma dell'azione avvenire, innanzi di sparpagliarsi
di nuovo — come faranno a principiar dal settembre — giú
giú per la penisola inquieta, a lavorar di dettaglio.
Come vive Pisacane a Lugano?
Probabilmente se ne sta ritirato, bisognoso ancora di riguardi e di
cure pel braccio ferito28; comunque, ridda di conoscenze
nuove (di particolare appoggio e conforto gli è senza dubbio
il ritrovarsi e poi via via stringersi in deferente amicizia con
Carlo Cattaneo, che nel novembre, di ritorno da un'infruttuosa
missione diplomatica, si ritira nella villetta della Castagnola
presso Lugano) e, appassionato come egli è delle discussioni,
certo finisce col passare anche lui, come i piú fanno, qualche
ora del giorno nei pubblici animatissimi ritrovi dell'emigrazione
italiana.
Un corrispondente della torinese
Opinione cosí descrive quelle giornate: «Alla
mattina si va ad un caffè della piazza, ove si trovano per
tempo gli affamati di notizie», per leggere i giornali: dopo di
che «si va all'ufficio del Repubblicano, se si ha avuto
il privilegio di essere stati presentati al redattore in capo, e là
coi giornali della redazione uno si sbrama un pochino la fame...
Ritornato sulla piazza della Riforma vedi qua e là varii
gruppi di persone, parte civili, e parte ex militari; t'aggiri fra
quelle, e la parola tradimento ti suona sí spesso agli
orecchi, come a Milano negli ultimi due mesi la parola aristocratico.
Poscia una faccia tra il goffo e il birbo ti sciorina per la
trentesima volta la importante notizia che Carlo Alberto chiama e
raduna i Lombardi in Piemonte per irritarli e consegnarli
all'Austria, che la pace è già conclusa, che noi siamo
venduti, e che tutta la guerra non fu che una commedia... Dopo un
modico pranzo... tu riedi a prendere il caffè sulla piazza
della Riforma, salone obbligato dell'emigrazione italiana, e chiamati
privilegiato se non ti viene dinanzi un sere che ti sporge e ti fa
comperare qualche libruzzo di prosa o versi, destinato a mantener
viva la fiamma... della discordia... Poi vai a fare un passeggino
lunghesso il lago con qualche amico... Verso sera entri e t'assidi al
Caffè Nuovo, e lí tu vedi qualche bella, anzi
divina, milanese, qualche notabilità letteraria lombarda, e
parecchi giovani brillanti, ora atteggiati da esuli... Alla sera
della domenica vi è d'ordinario teatro aperto, a beneficio dei
poveri profughi... All'indomani siamo da capo. — Ecco a Lugano
la vita del profugo lombardo»29.
Chiacchiere molte, sí. E molta,
tremenda miseria: iniziative varie per soccorrere i piú
bisognosi, e insieme per cementare i vari gruppi e sorreggere il
morale della massa. A Lugano si costituisce fin dall'agosto il
Comitato lombardo di Mutuo Soccorso per gli emigrati italiani. Ma nel
settembre a questa folla bisognosa e irrequieta vengono ad
aggiungersi le migliaia di ticinesi, espulsi di Lombardia dal
Radetzki, per rappresaglia contro l'ospitalità concessa dal
Cantone agli esuli italiani.
Un gruppetto, raccolto intorno a
Mazzini e costituito in Giunta Insurrezionale, lavora
accanitamente a suscitare in Lombardia una seconda rivolta
antiaustriaca. Per l'onore italiano, bisogna che il popolo riprenda
le armi: «Sapete voi — scrive Mazzini a un amico, il 23
novembre — che in Francia, in Inghilterra, qui nella Svizzera
ci disprezzano? che il marzo rimane per essi un fenomeno
inesplicabile? che dichiarano esser tutto inutile perché non
vogliamo batterci?»30 Si aizzano le popolazioni di
confine, si disegna di rovesciar giú dai monti di Como e della
Valtellina una valanga di armati sulla piana lombarda: va e vieni di
corrieri, febbrile corrispondenza, contatti stretti con Parigi, dove,
assai vanamente invero, si spera di ottenere una promessa
d'intervento francese in appoggio all'attesa insurrezione lombarda;
intensa propaganda repubblicana in tutta Italia; rapporti col
Provvisorio di Venezia, eccitamenti all'azione autonoma in
Toscana, a Roma, perfino a Genova non del tutto rassegnata ancora al
giogo piemontese. E poi, cento occhi e cento orecchie a Torino per
spiare le mosse di Carlo Alberto: denunzierà o rinnoverà
l'armistizio? Prepara o non prepara la guerra? Prevarranno, cioè,
i retrivi e gli alti gradi dell'esercito, che premono per la
conclusione di una pace sulla base dello statu quo ante, o la
sinistra, gli antiaustriaci arrabbiati, i solleciti dell'onore
piemontese, i profughi lombardi, che invocano la ripresa delle
ostilità?
Pisacane avvicina Mazzini, che
ricorderà poi d'averlo veduto, ma di sfuggita, «fra quel
turbinio d'esuli che la dedizione regia rovesciava da Milano e da
tutti i punti di Lombardia sul Canton Ticino»; ma né
approfondisce la conoscenza né, tanto meno, partecipa
personalmente all'attività del suo gruppo. Il suo pensiero, è
vero, va sempre piú improntandosi, teoricamente, alla dottrina
repubblicana, dopo la doccia fredda che gli avvenimenti del
marzo-agosto hanno inflitto alle sue illusioni sulla politica dei
Principi italiani; ma egli non sa ancora spogliarsi del tutto di
certi abiti mentali propri al militare di professione. Capitano in
licenza di un corpo ormai regolarmente inquadrato nell'esercito sardo
(la cosí detta Divisione Lombarda), egli non soltanto vi si
sente legato da un senso di disciplina formale, ma, per quanto
conservi in pieno il suo altezzoso disdegno pei generali di Carlo
Alberto, non riesce a concepire che l'esercito sardo possa restare
sotto il peso di una disonorante sconfitta, e piú ancora non
riesce a sottrarsi all'idea che la partita antiaustriaca possa venir
regolata in altro modo o in altro luogo che da battaglioni di truppa,
su campi di battaglia; quasi quasi dimentica che senza le Cinque
Giornate non si sarebbe mai avuta la guerra. Come potrebbe dunque
consentir con Mazzini sul programma insurrezionale?
Scorrerie di bande armate, scoppiar di
rivolte suggerite e alimentate dal di fuori, e perciò
circoscritte ed effimere, tutto ciò francamente ripugna alla
sua mentalità. Lo vediamo cosí condannare aspramente il
concetto, l'ordinamento e le mosse della colonna garibaldina (che
invece Mazzini ha incoraggiato e rifornito), giudicare inopportuni «e
perché il popolo non era disposto ad insorgere, e perché
di nuovo le speranze e gli occhi erano rivolti al Piemonte, che
aumentava considerevolmente il suo esercito» i moti ottobrini
della Valle d'Intelvi, dallo stesso Mazzini predisposti e suscitati;
affermare che cospirazioni e congiure «non potranno giammai
compiere una rivoluzione» e sottolineare l'inconsistenza dei
vari Comitati insurrezionali sorti dopo l'armistizio Salasco, formati
da «individui i quali pretendevano comandare, e parlare in nome
di un popolo da cui non erano nemmeno conosciuti».
Gli è dunque increscioso
vivere, senza volervi partecipare, in mezzo a questo crepitio
d'iniziative, a questo incessante agitarsi. Non è forse
sintomatico che l'epistolario di Mazzini, che ci è stato
conservato foltissimo per quei mesi, non nomini neanche una volta
Pisacane, mentre che, si sa, di ufficiali «in gamba» egli
andava affannosamente in cerca per la sua azione rivoluzionaria, al
punto di attirarne a Lugano di quelli incorporati in Piemonte nella
Divisione Lombarda?
Volgono i mesi, ricchi di eventi
previsti e imprevisti. Piemonte che rinnova l'armistizio, mediazione
anglo-francese, caduta di Messina, sollevazione di Livorno
(settembre); moti mazziniani in Lombardia, insurrezione a Vienna,
riunione a Torino del congresso federativo italiano (ottobre); a
Roma, assassinio del Rossi, costituzione del Ministero Galletti,
estrema inquietudine popolare, fuga del papa (novembre). Ma intanto
l'Austria, minacciosa, ha ragione della timida resistenza svizzera, e
impone l'espulsione dal territorio confederale degli emigrati piú
in vista. Se ne vanno, cosí, tutti i migliori; Mazzini,
risoluto a non staccarsi dalla frontiera lombarda, è costretto
a nascondersi. Pisacane non vien disturbato; ma nel decembre,
verificatosi a Torino il colpo di scena del nuovo Ministero Gioberti
— promessa esplicita di prossima guerra — e ormai
risanato il suo braccio, lascia di sua iniziativa la Svizzera, per
riprender servizio in Piemonte31. L'idea sola di entrare nei
ranghi, dopo tanti mesi perduti in vane discussioni politiche, vale a
rasserenarlo; poiché egli non ha potuto rendersi conto ancora
fino a qual punto quella lunga licenza, perfezionando la metamorfosi
iniziata nel febbraio dell'anno innanzi, abbia fatto di lui un
altr'uomo. Se n'accorgerà di lí a poco.
Il suo reggimento — 22°
Fanteria, Divisione Lombarda — è accasermato a Vercelli
e lo comanda un maggiore Campana. Specialissima la situazione di
queste truppe, indispensabili come sono al Piemonte per simbolizzare
agli occhi d'Italia e d'Europa i legami che lo avvincono alla
provincia «perduta», e insieme tenute in gran sospetto
dalle sfere ufficiali a Torino, ancor piú che per la loro
indisciplina inguaribile, per le pretese e le pose repubblicane e
autonomistiche che, dagli ufficiali ai soldati, esse si credono
autorizzate ad assumere. Non sono che sei o settemila uomini,
spartiti in quattro reggimenti piú due battaglioni di
bersaglieri, ma pur dipendendo gerarchicamente dal Ministero della
Guerra, lasciano intendere anche con troppa chiarezza d'essere
disposti, nel caso che il Piemonte non facesse la guerra, a
sconfinare e a portare l'insurrezione in Lombardia: amici zelanti e
pericolosi! Perciò, frequenti « siluramenti»
d'ufficiali e sostituzioni nell'alto comando (dal Durando
all'Olivieri, al Ramorino); scontento crescente delle truppe, che tra
l'altro lamentano la precarietà della loro situazione e il
pessimo equipaggiamento; e, insieme, rivalità tra ufficiali
regolari e lombardi, ai quali ultimi i primi non possono perdonare il
troppo facile acquisto dei gradi conseguiti nella recente campagna.
È vero che quando Pisacane
assume il comando della sua compagnia, l'ordinamento della Divisione
Lombarda è notevolmente migliorato, le voci di guerra valendo
a sostener l'animo delle irrequietissime truppe, concentrate dapprima
a Vercelli, indi a Novi e dintorni; pure egli è presto
scontento e di sé e del suo ufficio. Mentre conduce i suoi
soldati ai fastidiosi esercizi in piazza d'armi, la sua mente corre
alla politica dell'abate Gioberti, che a lui pare tortuosa e
esitante; non è che un povero ufficialetto inferiore, ma
smania perché alla testa dell'esercito sardo è stato
messo, chi sa perché, un generale polacco celebrato per la sua
nullità, e che tra l'altro balbetta a mala pena
l'italiano32; vede chiaro che a Torino, avvicinandosi la
primavera, stagione di guerra, si manca di un piano deciso o peggio
ancora se ne caldeggiano di rovinosi: diffida insomma di tutto e di
tutti nel Piemonte monarchico, e quella tale parola che a Lugano era
in bocca di tutti — tradimento — si insinua adesso,
irresistibile, anche nel suo cervello. La sua, d'altronde, è
un'anima in perpetuo travaglio: un senso critico fin troppo sveglio e
affinato lo fa insofferente di eseguire in sottordine modesti compiti
di dettaglio quando si sente o crede sentirsi tale da poter dominare
l'insieme assai meglio dei suoi superiori: nato al comando,
all'obbedienza negato di certo, egli ha, per concludere, la stoffa
dell'oppositore per sistema e per gusto. Qual meraviglia che a
reggimento egli appaia ben presto uno spostato? L'esosa vita di
guarnigione lo snerva, col troppo tempo che va perduto in inezie.
Potesse almeno passare allo Stato
Maggiore! Quello davvero sarebbe il suo posto, là avrebbe modo
di rivelare appieno capacità fin qui misconosciute da tutti, e
se non altro di rendersi conto in anticipo di come ci si prepari alla
guerra in Torino. È un desiderio assurdo; pure farà di
tutto per realizzarlo: presenta domanda gerarchica, poi, due
febbraio, ne scrive al Durando, suo ex-generale, quello che per aver
ricevuto il suo rapporto del maggio '48 conosce per prova la sua
idoneità all'ufficio richiesto. Trincerista, ferito di guerra,
Pisacane non ha avuto né promozioni né decorazioni;
perché non compensarlo adesso accogliendo, previo esame, la
sua domanda? Dica una sola parola il Durando, e sarà cosa
fatta. «Non ho veruna conoscenza, ella solo Sig. generale,
potrebbe essermi di protezione e di appoggio».
S'ignorano la risposta del generale e
l'esito della domanda; ma se, come sembra, e l'una e l'altro non
furon tali da soddisfar Pisacane, questa fu veramente fortuna per
lui. Ché non certo di gloria avrebbe potuto coprirsi nella
imminente campagna, militando in quella Divisione Lombarda cui, com'è
noto, si volle da molti addossare la colpa della sconfitta; e tanto
meno se lo avessero accolto nello Stato Maggiore divisionale, sotto
quell'infelice suo condottiero, il Ramorino, al quale per un bisogno
irresistibile in Italia, quando le cose volgono a male, fu riservata
l'ingrata funzione di capro espiatorio, come se le deficienze da lui
tragicamente scontate non avessero coinvolto ben altre e piú
alte e piú generali responsabilità.
Infastidito, deluso, Pisacane continua
la serie dei suoi colpi di testa: 26 febbraio, richiede e subito
ottiene dal Ministero un permesso, al quale, un mese dopo, seguirà
la dispensa dal servizio33. «Mio caro Filippo —
scriverà nel settembre al fratello — ... La risoluzione
di lasciare il Piemonte la feci appena la sua politica guerriera
principiò a vacillare, tentò l'invasione in Toscana ed
io appena vidi solo il dubbio di potermi battere per conto di un
individuo contro un popolo, sterzai subito e da Roma inviai le mie
dimissioni». Affermazione leggermente inesatta: ché il
gabinetto Gioberti cadde, proprio sulla questione dell'intervento in
Toscana, il 21 febbraio, e Pisacane non firmò la domanda di
permesso che cinque giorni piú tardi. Bisognava pur spiegare
in qualche modo le dimissioni improvvise, e a Pisacane probabilmente
seccava di confessare che, dopo appena due mesi dal suo ritorno in
Piemonte, vi si era risolto un poco per offesa suscettibilità,
ma assai piú per l'attrazione che aveva esercitato su lui la
proclamazione della repubblica a Roma. Pure, era questo un cosí
grande fatto che di per sè giustificava appieno, mi sembra, un
colpo di sterzo del genere. Con la repubblica a Roma la situazione
politica e militare della penisola si era infatti radicalmente
mutata: l'asse della rivolta antiaustriaca si era spostato di colpo
dalla pianura del Po all'Italia centrale dove, di fianco a Roma, il
governo provvisorio del Guerrazzi aveva sostituito la fuggita
autorità granducale. Finché la sola Venezia, con la sua
resistenza, si era assunta in una Italia ritornata monarchica la
difesa della causa repubblicana, il miglior modo per giovare
all'indipendenza italiana era sembrato a molti, e a Pisacane tra gli
altri, che fosse quello di aiutare il Piemonte a moltiplicare le sue
possibilità di rivincita; ma ora, con Roma libera, pareva
chiaro a costoro (e lo era stato, da piú mesi, a Mazzini) che
convenisse finalmente bandire il programma di una guerra «italiana»,
guerra tutta di popolo, con perno sul Campidoglio, e fini piú
vasti che non la mera liberazione d'Italia dal giogo dell'Austria:
l'attesa campagna dell'esercito sardo si presentava ormai come un
episodio parziale di un rivolgimento vastissimo. Non per questo può
dirsi che il 9 febbraio improvvisasse la formazione delle opinioni
repubblicane in Italia; ma solo precipitò, potenziò e
rese attuali quelle che, in numero tutt'altro che esiguo, esistevan
di già.
Pisacane vedeva adesso lontano: le
deficienze e il finale disastro della crociata dell'anno innanzi non
erano stati cagionati appunto dall'avvenuta abdicazione di ogni altra
iniziativa di fronte al non disinteressato intervento di re Carlo
Alberto? Si era cominciato con una guerra nazionale e si era finito
con un ineguale duello austro-sardo. Urgeva adesso rovesciare i
rapporti: con la repubblica a Venezia, a Firenze, a Roma, con Milano
supposta fremente sotto la rinnovata dominazione straniera, era
l'iniziativa originale italiana che ripigliava il sopravvento; e se
il monarca sabaudo poteva ormai contare — o almeno avrebbe
potuto e dovuto — su larghe fattive solidarietà nel
resto d'Italia, si sarebbe potuto altresí controllarlo e
infrenarlo, che non avesse a sfruttare a esclusivo vantaggio del suo
Stato la pur generica aspirazione all'indipendenza degli italiani
tutti.
Innanzi di partire l'ufficiale
rifiutato dallo Stato maggiore si prese una singolare rivincita. Lo
si credeva immaturo a lavorare nell'alto comando? Ebbene, avrebbe
mostrato chi fosse: compilò un dettagliato piano di guerra per
l'imminente ripresa e lo rimise senz'altro al generale Bava, ex
comandante in capo, e ora ispettore generale dell'esercito sardo. Il
concetto informatore, quale si può desumerlo da postumi
accenni di Pisacane medesimo, era semplice e chiaro, forse ispirato a
reminiscenze delle campagne di Napoleone in Italia. L'esercito sardo
ha due vie innanzi a sé: scaglionarsi sulla lunga linea del
Ticino per osservare le mosse austriache e dispor la difesa in
conseguenza; adottare risolutamente il partito offensivo. La prima
via (che per vari segni sembra quella prescelta a Torino) condurrebbe
a una sicura disfatta, ché il nemico, irrompendo in colonna,
avrebbe facilmente ragione dei singoli corpi affrontati un dopo
l'altro. La seconda via, che l'atteggiamento della popolazione
lombarda, pronta ad insorgere alle spalle dell'esercito austriaco,
vale a rendere assai poco rischiosa, promette invece un successo
probabile. Il Comando sardo non ha che da operare una finta su
Novara, tale da impegnare l'attenzione nemica, e intanto, col grosso
delle forze, filare sul Po, traversarlo e puntare a Cremona.
L'esercito austriaco, aggirato, si troverà tagliato d'un
tratto dalle sue piazzeforti, con le comunicazioni sbarrate, con la
rivolta in casa: non gli resterà che la resa. La vittoria
italiana sarà tanto piú certa quanto piú
sollecita sarà la dichiarazione di solidarietà
piemontese coi tre governi di Venezia di Firenze di Napoli, dai quali
è lecito attendersi un contributo essenziale di un 50 000
uomini almeno.
Per quanto poco assuefatto a tanta
audace inframettenza antigerarchica, il generale Bava, sembra, si
degnò esaminare l'audacissimo piano34; certo ne
scrisse all'autore significandogli che a suo parere esso peccava per
soverchio ardimento.
Soverchio ardimento? Agli specialisti
di storia militare l'ardua sentenza definitiva ch'io non mi sento di
dare. Osservo soltanto esser pacifico ormai che l'inconcludente
disegno di mera osservazione e difesa adottato dallo Czarnowski fu il
peggiore di quanti mai se ne potessero scegliere, equivalendo al
suicidio dell'esercito sardo e alla rinuncia effettiva dell'ausilio
lombardo; l'errore commesso venne inoltre aggravato dall'avvenuta
denunzia dell'armistizio prima d'aver negoziato e pattuito
l'immediato intervento delle milizie offerte dall'Italia centrale.
Facile cosa è criticare la
condotta del giuoco quando, a partita ultimata, gli avversari buttan
sul tavolo le carte che tenevano in mano; ma Pisacane aveva con
acutezza suggerito, innanzi l'apertura del giuoco, qualche mossa
importante e, comunque, mostrato quali dovessero ad ogni costo
evitarsi. C'era dunque della stoffa in questo petulante ufficialetto
inferiore, che per la seconda volta osava infrangere la disciplina
gerarchica, offrendo in alto non richiesti consigli.
|