L'immensa suggestione che l'iniziativa
di Roma — repubblica, abolizione del poter temporale dei Papi,
riconoscimento della missione religiosa della Chiesa — esercitò
sugl'italiani del tempo, non può spiegarsi considerandone
soltanto le ripercussioni dirette d'ordine religioso e politico, sia
che precipitasse da un verso l'attuazione degli estremi ideali civili
dei ceti progressisti, sia che consumasse dall'altro una profanazione
inaudita agli occhi della grande maggioranza della popolazione: v'è
qualcosa di piú. V'è il fascino irresistibile di Roma.
Chi era allora, chi è oggi che non senta la incomparabile
solennità della parola di Roma, dove ogni idea come ogni
pietra, cui grava il peso dei secoli, assume grandezza? In una città
dove anche i tuguri nascondon forse nelle fondamenta un tempio,
accade infatti che lo scherzo figuri una satira e il dramma assurga a
tragedia; su quella ribalta anche un istrione rischia d'esser
scambiato per attore immortale. Eroi e avventurieri, santi e
briganti, ideali e pretesti vi si confondono spesso, ché su
tutti Roma riflette la sua luce, una luce propizia alla formazione
dei miti. Il mondo, guardando a Roma, di rado sorride o trascura:
osanna o maledice.
Ecco dunque perché il fatto
solo della proclamazione della repubblica a Roma, indipendentemente
dalla sua fortuna o dal valore poi dimostrato dai suoi governanti,
costituí per l'Italia un avvenimento di eccezionale importanza
e certo di ben piú vaste risonanze che non tutti insieme gli
altri episodi rivoluzionari svoltisi, o ancora in via di svolgimento,
entro i suoi confini, in quel decisivo biennio: cose italiane eran
stati o eran questi, sia pur con ripercussioni europee; ma quella era
cosa universale: saliva nel buio cielo del mondo come una colossale
réclame luminosa della causa liberale italiana, che
cosí s'imponeva una volta di piú, come problema
interessante ben oltre le nostre o le altrui caste politiche, la
stessa civiltà.
Se Roma
forní alla repubblica il consueto apparato della sua
grandezza, la repubblica, d'altronde, fu degna di Roma. Che importava
se i suoi giorni eran contati, tra il Papa che da Gaeta, furibondo,
scagliava scomuniche, il Borbone suo ospite che minacciava la guerra,
l'Austria che si preparava al tradizionale intervento, la Francia,
pur democratica, che non scordava i privilegi dei suoi re
cristianissimi, e la Spagna che, financo essa, si disponeva a fornir
nuova prova della sua fedeltà alla Chiesa pericolante? Quel
che importava era che la voce di questa libera Roma, prima di venir
soffocata, suonasse alta e fiera, romana davvero. Ed ecco
precipitarsi a Roma, da ogni parte d'Italia e dalle terre d'esilio,
italiani a migliaia, isolati o adunati in schiere armate, risoluti
tutti a sostenere una causa che, nonostante il sicuro insuccesso
immediato, prometteva, se ben condotta, di render piú certo il
trionfo finale delle aspirazioni italiane.
Piú alto di tutti e quasi
sopraffatto dall'emozione che suscita in lui questa rinnovata
«missione» di Roma, pur tanto sognata, giunge Mazzini.
«Vi entrai la sera, a piedi, sui primi del marzo, trepido e
quasi adorando», ricorderà egli stesso piú tardi.
Nessuno ha quanto lui il senso religioso di Roma: non è
Mazzini infatti che ha sempre veduto e additato, in Roma appunto, la
culla di una nuova fede religiosa, che armonizzando le aspirazioni
divine e umane, sociali e politiche, individuali e collettive
dell'uomo, inizierà un'era migliore? Pauroso dunque per lui,
come per tutti gli spiriti veramente grandi, l'atteso confronto di
Roma: si riveleranno le sue forze pari a una prova che egli sente
suprema?
Ai ciurmadori della politica, quando
pervengono a Roma, par necessario, per dimostrare la propria
grandezza, indossata la toga e gonfiate le gote, far monopolio delle
glorie antiche, di continuo evocate e proposte nei roboanti discorsi,
con la pretesa di emularle con gesta mai viste. Mazzini, entrato a
Roma umilmente e quasi di soppiatto, si nasconde dapprima in una
povera stanza d'albergo, in una via secondaria, «un tavolino
d'abete e cinque scranne di paglia... un desinare frugale a tre
paoli»: poi, nominato triumviro, bisogna bene che passi alla
Consulta, ma anche lí sceglie l'alloggio piú umile, che
gli permette di tenersi in continuo contatto col pubblico. Assai
volentieri cede al collega Armellini gli appartamenti di
rappresentanza, che pur sarebbero sua degna sede. Continua, in Roma,
la sua vita d'esilio: scrive e scrive, con quei suoi segni sottili ed
uguali, anima tutti col suo febbrile parlare, con i suoi occhi
febbrili. Ad altri il tenere alto e superbo il capo tra i romani
«redenti»: egli non osa neanche chiamarli a raccolta.
Trascorre via frettoloso agli uffici, il volto chino, timido innanzi
ai monumenti di Roma. Non mai come allora ha cosí fortemente
avvertito la presenza di Dio: piú tardi, sfidando i sarcasmi
dei piú tra i seguaci, vorrà perfino che si riapran le
chiese, lui che è contro la Chiesa; tanto gli sembra che
tutto, a Roma, abbia una ragione profonda.
Il settario, superata la setta, lavora
adesso per tutti, nel nome di tutti.
Verso il 10 di marzo, a Mazzini che,
pur semplice deputato, è già fin d'allora regolatore
supremo delle cose della repubblica, si presenta Pisacane, giunto con
Enrichetta, da Genova, l'8 del mese.35 «Mi si
presentava senza commendatizie; — raccontò poi, nei
Ricordi, Mazzini — m'era ignoto di nome, benché
io ricordassi di averlo alla sfuggita veduto un anno prima..., io non
sapeva né gli studî teorici e pratici, né la
ferita di palla Austriaca che lo aveva tenuto per trenta giorni
inchiodato in un letto, né i principî politici serbati
inconcussi attraverso l'esilio e la povertà, né altro
di lui. Ma bastò un'ora di colloquio perché l'anime
nostre s'affratellassero, e perch'io indovinassi in lui il tipo di
ciò che dovrebb'essere il militare italiano, l'uomo nel quale
la scienza, raccolta con lunghi studî ed amore, non aveva
addormentato, creando il pedante, la potenza d'intuizione e il genio,
sí raro a trovarsi, dell'insurrezione».
I due affrontano subito il problema
fondamentale della repubblica: la situazione militare. Spaventoso, in
proposito, il lavoro che incombe ai governanti di Roma: tien luogo
d'esercito, infatti, una disordinata accozzaglia di gente armata alla
meglio, disseminata in un territorio vastissimo che va da Ferrara ai
confini napoletani, da Civitavecchia ad Ancona: quindicimila uomini
circa, molti dei quali tengono piú, quasi, all'autonomia delle
bande cui sono affiliati e alla gloria dei rispettivi capi che non
alla salvezza della repubblica. Il Ministero della Guerra ha fino
allora funzionato a rovescio: subalterni incapaci cacciati ai
comandi, tecnici di valore sprecati in sottordine; confusione
dovunque, dalle uniformi all'armamento; assenza totale di piani
organici.
Bisogna, dice Pisacane a Mazzini con
la consueta chiarezza, stabilire senza indugio un programma di
reclutamento atto a triplicare gli effettivi esistenti; imporre a
tutti un regolamento che non soffra eccezioni; precisare il criterio
gerarchico, e cosí via. Cose semplici, è vero, e di
lapalissiana evidenza; ma quel che colpisce Mazzini fin dal primo
istante (come già un anno innanzi a Milano il Cattaneo) è
il tono fermo, severo, sicuro, con cui Pisacane si fa a proporle: il
tono d'un uomo che, misurandone perfettamente le inevitabili
difficoltà, si rivela disposto e capace di portarle a
compimento contro tutto e tutti. La miglior soluzione sarebbe quella
di affidare a lui e a nessun altro che a lui il compito della
riorganizzazione militare, per poi riferirne, s'intende,
all'Assemblea sovrana; ma anche nella Roma rivoluzionaria di quante
suscettibilità pronte ad offendersi bisogna tener conto!
Girando perciò la posizione, Mazzini propone la nomina di una
Commissione di cinque che lavori all'uopo accanto al Ministro,
naturalmente «senza lederne la libertà di azione e la
responsabilità»; suggerisce quattro Carneadi, piú
Pisacane, per Commissari. L'Assemblea, docile, approva.36 È
il 17 di marzo: la Commissione si pone subito all'opera con la piú
grande energia. Pisacane — era da prevedersi — fa quel
che vuole: in pochi giorni, provocate o spontanee, ecco le dimissioni
del sig. Ministro («un asino», per Pisacane); al cui
posto, fin dal due di aprile, s'insedia la Commissione. Pisacane,
cioè, promosso maggiore il 26 di Marzo, è virtualmente
Ministro.
L'accordo con Mazzini è
altamente fruttuoso. Pisacane completa infatti come meglio non si
potrebbe il futuro triumviro, il quale, felicissimo nell'ideare
audaci piani di guerra, si trova poi nell'impossibilità di
vararli, ignorando affatto come s'impieghi il fucile o che sia mai la
manovra avvolgente o come si appresti a difesa un terreno! Lunghe ore
essi trascorrono insieme, chini sulla carta d'Italia, ragionando
oltre che dell'immediato avvenire di Roma, d'una guerra d'Italia e
del modo di accenderla. Ma se le idee loro collimano per quanto
riguarda l'ordinamento delle milizie romane, proprio in tema di fini
e condotta di guerra esse divergono assai. Il contrasto è
quanto mai curioso: Mazzini, repubblicano per antonomasia, caldeggia
la collaborazione con l'esercito di Sua Maestà Sabauda,
nell'imminente crociata antiaustriaca sul Po; Pisacane, ex ufficiale
borbonico, ex ufficiale nell'esercito sardo (al cui comando ha
suggerito, non è che un mese, l'unione militare con Roma)
sostiene invece calorosamente che il Piemonte e le Due Sicilie, in
quanto monarchici, vanno considerati dalla repubblica nemici né
piú né meno dell'Austria. Intransigenza, purismo
repubblicano d'uno zelante neofita, contrapposti alla duttilità
del vecchio lottatore politico? Soltanto in apparenza; come infatti,
con i suoi precedenti, potrebbe Pisacane mostrarsi sdegnoso di
patteggiamenti e alleanze sperati vantaggiosi al conseguimento di
fini comuni? La verità è che egli questa speranza non
l'ha. Esaminando le cose da un punto di vista puramente
politico-militare, egli, che prevede Novara, trova pazzesco che si
voglian legare le sorti della giovane repubblica alla cadente fortuna
sabauda. Il fine ultimo del rivolgimento italiano è forse la
mera liberazione dall'Austria o non piuttosto la formazione di uno
Stato liberale unitario? Ebbene, la situazione del marzo '49 offre,
per la prima volta da moltissimi anni, la possibilità di
mirare al raggiungimento rapido e integrale di quel fine. L'Austria e
il Piemonte essendo infatti immobilizzati sul Po, le tre repubbliche
italiane dovrebbero profittarne per far marciare su Napoli un
esercito collegato. Napoli, indebolita dalla rivolta in Sicilia, mal
difesa da un esercito cui gli avvenimenti del '48 hanno inferto il
colpo di grazia, priva per giunta dell'intervento dell'Austria,
finirebbe certamente col cedere: sfasciatosi cosí il regime
borbonico, la popolazione farebbe causa comune con Roma, Toscana e
Venezia; i due eserciti, espressione di piú che mezza Italia,
si scaglierebbero allora, in condizioni di netta superiorità,
contro i due superstiti nemici del nord, l'un contro l'altro armati.
La vittoria darebbe la libertà all'Italia: libertà in
tutti i sensi.37
Ma l'attuazione dell'audacissimo piano
è resa impossibile non soltanto dalla contrarietà di
Mazzini e della maggioranza dei consultori di Roma, fedeli interpreti
delle aspirazioni e delle opinioni prevalenti tra i cittadini
pensanti, sibbene anche dalla riluttanza notoria e ripetutamente
espressa dei governi di Venezia e Toscana a compromettersi facendo
apertamente causa comune con gli usurpatori del Papa. A Pisacane,
pure imprecante contro il municipalismo, eterna piaga d'Italia, è
giuocoforza inchinarsi.
Cosicché non appena il Piemonte
denuncia l'armistizio, Roma proclama l'intervento; il 20 marzo Carlo
Alberto si muove, il giorno appresso diecimila uomini affidati al
comando di Mezzacapo lasciano il territorio della repubblica per
raggiungere il Po.38 Ma il 23 marzo Novara, sconvolgendo le
speranze italiane, conferma appieno le previsioni di Pisacane.
Mezzacapo ripiega, e a Roma tutti comprendono che ormai non piú
di successi della repubblica si tratta e neanche della sua stessa
salvezza, ma soltanto di come piú romanamente morire.
A mali estremi estremi rimedi: il 29
di marzo l'Assemblea procede alla nomina del Triumvirato; ormai
Mazzini è l'arbitro riconosciuto delle sorti romane. Ma il
mese d'aprile, in Italia, è tutto un rovinío: caduta di
Brescia, tramonto della libertà siciliana, rivolta e
capitolazione di Genova, rovesciamento del governo toscano, calata
austriaca. Venezia sola continua a lottare. Di fronte alla
molteplicità e all'accresciuta efficienza delle forze
contrarie, Roma viene cosí a trovarsi in un isolamento
addirittura paradossale. È vero che dalla Sicilia, dalla
Toscana, da Genova è una nuova affluenza di colonne d'armati e
di sbandati rivoluzionari ma, con l'anello che le si stringe
d'attorno, a che mai può quell'affluenza giovare se non a
consegnare alla storia la popolarità della causa romana in
Italia?39
Febbrile, in tanto imperversar di
bufera, prosegue l'opera della Commissione di Guerra, suprema
autorità militare: è la Commissione che, superando
resistenze ostinate di piccoli ras gelosi della propria
autonomia, crea veramente l'esercito; è la Commissione che ne
fissa l'organico; è la Commissione che discioglie le
anarchiche bande sostituendole con reggimenti normali e che dispone
l'immediato concentramento dell'esercito in due sole piazzaforti; è
la Commissione che fa definitivamente naufragare il progetto,
caldeggiato da molti, di affidare il comando supremo a un generale
straniero; è ancora la Commissione che, accanto alle misure
d'ordine generale, emana quotidianamente gli ordini di servizio e di
marcia, ciascuno dei quali impone una vera battaglia con i
recalcitranti comandi in sottordine; è la Commissione infine
che, il 18 di aprile, suggerita la nomina del generale Avezzana, uno
dei triunviri di Genova insorta, a Ministro della Guerra e Comandante
in capo delle truppe romane, può quietamente sciogliersi con
la fiera coscienza d'aver realizzato un miracolo. La Commissione? Ma
a chi ne risalissero i meriti dimostrò chiaramente, nel
seguito, il fatto che i rancori diffusi e tenaci da essa sollevati
s'appuntarono tutti contro il solo Pisacane, che intanto, quello
stesso 18 d'aprile, era stato designato a sostituto del Ministro
della Guerra.40
Mentre cosí si apprestano
uomini e mezzi alla difesa della repubblica, una colossale fatica di
provvidenze e riforme interiori si va svolgendo dai triumviri e dai
diversi ministri, in vista soprattutto di legare alla conservazione
del nuovo regime le fin qui indifferenti popolazioni romane. Si
direbbe, da quanto fanno, che proprio nessun pericolo esterno minacci
l'esistenza dello Stato; ma è Mazzini che ha detto: «lavorare
come se avessimo il nemico alle porte e a un tempo come se si
lavorasse per l'eternità», e tutti intendono e
obbediscono a lui.
Attivissimo è anche il lavorio
diplomatico volto a persuadere le Cancellerie europee del buon
diritto di Roma; ma qui lo scacco è ben grave. Il 16 aprile,
infatti, il governo «repubblicano» di Francia, pur
imbellettando la mossa con equivoche dichiarazioni d'amicizia pel
popolo italiano e di assoluto rispetto per la sua autodeterminazione,
annuncia l'intenzione d'intervenire nelle cose romane: il bis
della spedizione di Ancona! Non passano otto giorni che 7000 francesi
già sbarcano a Civitavecchia. Stupefazione e disorientamento a
Roma: sono amici o nemici? Mazzini, appassionato difensore piú
ancora che della materiale esistenza della repubblica, della sua
dignità, raccoglie il consenso generale sfidando superbamente
i francesi ad accostarsi a Roma, ch'egli dichiara risoluta senz'altro
a respingerli. Ma se avanzano, sarà davvero la guerra?
Sarà la guerra. La fase eroica
ha finalmente principio.
Due vie si presentano ai difensori di
Roma: serrarsi in città e garantirne ad ogni costo l'accesso;
oppure sgombrarla e con tutte le truppe dar battaglia campale al
corpo francese. Pisacane — che nel frattempo (carriere
rivoluzionarie) è stato nuovamente promosso al grado superiore
e addetto alla prima sezione dello Stato Maggiore41 —
manco a dirlo propende per il piano offensivo. C'è qualche
analogia fra la situazione di Roma nel '49 e quella di Milano nel
'48. Ambedue città aperte, ambedue indifendibili; con
l'aggravante, per Roma, che oltre l'attacco francese, bisogna
attendersi quello austriaco e napoletano, e che alla fine d'aprile le
truppe presenti in città sommano appena a un 9000 uomini. La
caduta di Roma sarebbe dunque questione di giorni. Quanto piú
vantaggioso trasformare un assedio passivo in una guerra di
movimento: il corpo romano, conservando per sé l'iniziativa
del dare o non dare battaglia, potrà a suo agio investire i
francesi sul fianco durante la loro marcia dal mare, oppure,
radunandosi a nord di Roma con le milizie dell'oltre Appennino,
attendere, per piombare sull'invasore, d'aver raggiunto una sicura
superiorità numerica. Salva o non salva Roma, finché un
esercito rivoluzionario si aggiri in Italia, chi potrà mai
dire spenta la causa italiana?
Dal punto di vista strategico Pisacane
e qualche altro che la pensa come lui hanno perfettamente ragione; da
quello morale e politico, invece, è nel giusto Mazzini quando
protesta contro l'assurdo errore che costoro commettono di
considerare Roma, cioè, né piú né meno
che come una qualunque «posizione», abbandonata la quale
si possa sceglierne, per la difesa, un'altra migliore. Roma è
un simbolo, un mito; se poche, relativamente, son le braccia accorse
a difenderla, con l'animo sarà sugli spalti la parte migliore
d'Italia. Roma che cade senza colpo ferire è il mito che si
dissolve; Roma che cade dopo resistenza accanita son gl'italiani che
ne sentiranno poi sempre il tormento e in quel glorioso ricordo
sapranno osare e soffrire.
Ancora una volta, in cosí dire,
Mazzini ha con sé la maggioranza dei capi militari e dei
deputati all'Assemblea; tanto che in un consesso dei triumviri e dei
ministri, all'uopo riunito, il piano di Pisacane viene respinto
all'unanimità.
Piú divisi invece i pareri
sulla questione se, per contrattaccare i francesi, convenga proprio
attendere che questi investano le mura di Roma. Mazzini ritiene di
sí, sperando sempre che la spedizione francese, organizzata
piú che altro per esigenze di politica interna, possa da un
nuovo Ministero o da una nuova Camera (pendono in Francia le elezioni
politiche) venir richiamata o almeno spogliata di ogni apparenza
offensiva; cosí stando le cose non sarebbe pazzesco anticipare
uno scontro, col rischio di scatenare davvero le correnti belligere
dell'opinione francese? Questo ragionamento persuade poco, s'intende,
la gioventú di Roma, e Pisacane pochissimo; ma l'opinione del
Capo, che tutti sanno legato da antichi vincoli ai leaders
della democrazia francese, ha sí gran peso che le opposizioni,
pur fremendo, si tacciono.
Lanciata
dunque all'Europa un'anticipata protesta contro la violazione
inaudita del diritto delle genti che la Francia minaccia di
consumare, il governo di Roma si limita ad apprestare entro le mura
la difesa della città. Tanto ingenua e profonda è
l'illusione nella quale Mazzini si culla che, per ordine suo, lungo
la strada di Civitavecchia vengono affissi vistosi cartelli, redatti
in francese, riepiloganti il buon diritto di Roma!
Abituato agli scacchi (piano di
reclutamento suggerito nell'aprile '48, tenuto in non cale; piani di
guerra del maggio e del luglio successivi, respinti; piano spedito al
Bava, giudicato troppo ardito), Pisacane non s'adonta per il rigetto
delle sue proposte, anzi volentieri s'adatta a studiare come meglio
si possa tradurre in effetto quel disegno che pur lo persuade sí
poco; e tanta buona lena vi pone che, per riconoscimento dei piú,
si dovrà in buona parte proprio a lui e alle disposizioni da
lui escogitate (oltre che, si sa, alla eccezionale capacità
combattentistica di Garibaldi) se la prima giornata di guerra delle
milizie romane si concluderà con un successo
autentico42.
Brusco risveglio per Mazzini ancora
ostinatamente gallofilo quel 30 d'aprile, quei diecimila francesi
avanzanti su Roma! Violentemente attaccati e respinti, cento dei
loro, morti, oltre a quasi trecento arresisi, rimangon lí ad
attestare a che sia ridotta la repubblicana fraternità del
governo di Francia. Garibaldi, viste le terga nemiche, vorrebbe
perfezionar la vittoria, gettandosi all'inseguimento; e forse, per
dovere d'ufficio, tocca per l'appunto a Pisacane, che pur sarebbe
dello stesso parere, trasmettere l'ordine perentorio del triumvirato
di non uscire dagl'immediati dintorni della città. Mazzini,
imperturbabile, si sforza adesso di pensare che, avuta una buona
volta la prova della risolutezza romana, Parigi rinuncerà a
colorire il suo iniquo disegno; animato da tale speranza, che
Pisacane, da buon militare, principia a trovare pericolosa e
ridicola, non giungerà egli perfino a ordinare la restituzione
dei prigionieri del 30?
Le perdite romane, in quello stesso
scontro, non sono state gravi: una settantina di morti, un centinaio
di feriti, affidati questi, nelle ambulanze reggimentali, oltre che a
medici piovuti d'ogni parte d'Italia, all'assistenza e alle cure di
un Comitato di Signore presieduto dalla Belgiojoso43. Fra le
quali, e delle piú attive, brava infermiera espostasi al fuoco
a Porta S. Pancrazio, Enrichetta; il 5 di maggio il Monitore
romano stamperà anzi di lei, che firma adesso Enrichetta
Pisacane, una commossa relazione sulla parte presa dai trasteverini
alla giornata del 30 d'aprile44.
Ma quella, dopo tutto, non era stata
che una scaramuccia di poco momento; nel seguito l'attività
del Comitato dové naturalmente moltiplicarsi ed estendersi, a
centinaia affluendo i feriti negli improvvisati ospedali per
ricevervi, con le povere cure che la chirurgia sapeva allora
apprestare, l'incomparabile conforto morale che solo la donna può
offrire. Duri mesi dunque, quelli di Roma, per Enrichetta, anticipata
e oscura Nightingale italiana45; poiché non vi è
pena piú intensa che il vegliare le pene degli altri.
Roma, ancora tutta vibrante
dell'insperato successo, osservava con qualche inquietudine le mosse
del corpo francese, accampatosi senza apparenti intenzioni offensive
a poca distanza dalle sue mura, quando, dalla frontiera di Terracina,
giunse il 2 maggio la notizia dell'avanzata napoletana: 12 000 uomini
e piú che 50 cannoni!46 Il dilemma era tragico. Per
affrontare i borbonici e toglier loro la voglia di compiere nel
territorio della repubblica simili passeggiate militari si sarebbe
dovuto abbandonar Roma ai francesi, né si poteva. Il mezzo
termine scelto fu, com'è noto, l'urgente richiamo del corpo di
Mezzacapo e d'altre colonne operanti lontano dalla capitale e insieme
l'ordine a Garibaldi di spingersi con la sua legione in ricognizione
offensiva verso i colli Albani dove intanto si erano provvisoriamente
postate le truppe di Re Ferdinando.
Dopo due lievi scontri la ricognizione
aveva termine il 17 di maggio e, caso strano, con pari soddisfazione
d'entrambi le parti, i romani vantando il pieno raggiungimento degli
obiettivi propostisi, i napoletani nientedimeno che d'aver costretto
Garibaldi alla fuga.
Chi fosse il vincitore vero non venne
chiarito neanche a guerra ultimata; lo stesso Pisacane polemizzò
in proposito col fratello ufficiale borbonico, secondo il quale uno
degli scontri — quello di Palestrina — risaliva a gloria
immortale dei suoi commilitoni! Guerre e battaglie d'ottant'anni fa.
Comunque i napoletani si guardaron
bene dall'avvicinarsi ulteriormente a Roma; e poiché in breve
tempo affluirono nella città i rinforzi (portando a
diciottomila uomini la guarnigione effettiva) e s'erano intanto
iniziate trattative d'armistizio con l'Oudinot generale francese, la
situazione della repubblica avrebbe potuto dirsi radicalmente
migliore se il terzo nemico, l'austriaco, presa Bologna e tenendo
ormai tutta quanta la Toscana, non avesse rappresentato lui adesso la
minaccia immediata, polarizzata su Ancona, unico porto che a Roma
fosse rimasto.
La necessità della difesa di
Ancona, anzi, portò a un nuovo rimpasto nell'alto comando, ché
l'Avezzana venne inviato a dirigerla, e un colonnello, il Roselli,
prese il suo posto qual generale delle operazioni. Un Bonaparte
costui? Tutt'altro, ma senza dubbio il migliore tra gli ufficiali di
cittadinanza romana, e un romano sembrò allora che ci volesse
a quel posto, per piú ragioni, o pretesti, campanilistici.
Pisacane, che andava pian piano imponendosi come il factotum
del triumvirato, fece in quest'occasione un nuovo balzo in avanti,
sostituendo nell'ufficio di Capo di Stato Maggiore il Galletti, che
del resto aveva già completamente offuscato e per attività
e per competenza. Poco prima lo si era nominato altresí
presidente del Consiglio di Guerra e della Commissione per le
requisizioni.47 Mazzini aveva sempre piú fiducia, e
sempre piú bisogno di lui. Lo avrebbe attestato piú
tardi: «Per me egli non era solamente il capo dello Stato
Maggiore, esecutore rapido e diligente delle intenzioni del Generale
in capo e delle nostre; era l'ufficiale nato per la guerra
d'insurrezione, dotato di quella potenza d'iniziativa che trova la
vittoria dove il nemico, fidando nella scienza tradizionale, non
prevede l'assalto, ed al quale io poteva affacciare i piú
arditi consigli, securo ch'ei non li avrebbe respinti unicamente
perché in apparenza contrarî alle cosí dette
regole dell'arte bellica».
Tra i Roselli e i molti del suo
stampo, pedantescamente aggrappati, nonché a quelle regole,
all'osservanza di una disciplina formale, assurda in quei frangenti,
e i Garibaldini, valorosissimi, sí, ma che intendevan la
guerra un poco troppo da anarchici, Pisacane rappresentava infatti,
se non il punto d'incrocio e d'intesa (ché il suo carattere
non si prestava a quel compito), certo una tendenza media, assai piú
equilibrata d'entrambi.48
Andavan tutti d'accordo, intorno alla
metà di maggio, che bisognasse, ora che Roma era finalmente
ben guernita di truppe, uscire dalle mezze misure e finirla con
quella inconcludente guerretta; ma chi, al solito, voleva non si
pensasse ad altro che a trasformar la città in una piazzaforte
sul serio, chi — Pisacane ad esempio — diffidando della
buona fede francese, pretendeva si rinnovasse senza indugio, e in
proporzioni piú vaste, il conflitto del 30 di aprile, per poi
passare ai borbonici. Mazzini, sempre invischiato nella pania
francese (il 17 di maggio il Monitore ufficialmente annunziava
la sospensione delle ostilità franco-romane), timoroso
d'altronde che, ove si lasciassero i napoletani avvicinarsi a Roma,
l'Oudinot non ne prendesse pretesto per «amichevolmente»
occuparla, aveva un terzo progetto: uscir di sorpresa dalla città
con quasi tutto l'esercito e investire i borbonici accampati in
Velletri con un'offensiva siffatta da obbligarli a mollare la
posizione e comunque da infligger loro una sconfitta che servisse a
rianimare i difensori di Roma.
Pisacane — è Mazzini che
lo attesta — fu il solo tra i capi militari che, sedotto
dall'«audace consiglio», se ne facesse banditore
entusiasta; laddove Roselli, in successive polemiche di stampa,
orgogliosamente si attribuí e la paternità e il merito
di quel progetto. La questione non è ancora perfettamente
chiarita; certo è comunque che Pisacane ebbe parte precipua
nell'apprestamento tecnico dell'operazione, la quale venne ben presto
coronata dal piú brillante successo. Non era proprio lui che
andava insistendo, fin dai primi di marzo, che Roma s'avesse a
difender fuori di Roma?
L'attuazione del piano seguí
rapidissima e nel piú grande segreto; al punto che quando,
alla sera del 16 maggio, i romani stupefatti videro, reggimento dopo
reggimento, ben diecimila uomini lasciar la città per porta S.
Giovanni con alla testa Roselli stesso e Garibaldi e Pisacane, lo
sbigottimento fu intenso, voci di tradimento circolarono subito e
mezza Assemblea si precipitò da Mazzini a chiedergli conto di
quel che stesse accadendo; ci volle del bello e del buono per
acquietarli un poco. La fortuna assistendo, dubbi e sospetti si
tramutaron poi presto in sconfinati entusiasmi.
Il comando romano, infatti, o vogliam
dire Mazzini, rivelò in questo caso straordinario tempismo.
Velletri? Diversivo a uso di politica interna? Altro che questo! I
napoletani, incalzati, spariron d'incanto dalla regione dei colli,
non solo, ma dovettero ripassare in tutta fretta il confine. Disfatta
morale aggravata dalla presenza del re in persona fra le sue truppe.
È vero che Ferdinando aveva disposta la ritirata fin dal 17 di
maggio — mentre i romani raggiunsero le sue posizioni soltanto
il 19 —, non appena cioè gli era giunta notizia della
sospensione di ostilità intervenuta tra l'Oudinot e il
triunvirato e dell'immediata mobilitazione di tutte le forze romane
contro di lui; ma la sua fuga, per quanto ufficialmente attribuita
alla fallita intesa con Francia, non mancava per questo di costituire
per lui, che il confine romano aveva baldanzosamente varcato due
settimane innanzi, uno scacco bruciante e per la repubblica un
clamoroso successo (che fosse poco sudato non monta).
L'unico scontro verificatosi in
quell'effimera campagna, d'altronde, quello del 19 di maggio, aveva
fornito una prova brillante dell'efficienza delle truppe
repubblicane, e comunque piú che bastevole ad accreditare la
vanteria romana avere unicamente il loro valore costretto il nemico
alla fuga.49
Altra questione è quella,
dibattutissima, se Garibaldi cui risaliva il merito di codesto
scontro fosse stato bene o male ispirato nel provocarlo, spingendosi,
come avea fatto contro gli ordini espressi di Roselli, fin sotto
Velletri con la sola avanguardia.
Fiumi d'inchiostro si sparsero su
questo episodio, Mazzini, Roselli, Pisacane e molti altri dei
quarantanovisti lamentando la sua imprudenza e indisciplina;
Garibaldi e i suoi accoliti e sostenitori, per contro, la lentezza di
mosse e una tal quale pedanteria dimostrata dallo Stato Maggiore, il
quale — cosí ironizzavano — si figurava forse di
comandare a un agguerrito esercito di veterani anziché a
improvvisate colonne di volontari tanto entusiasti quanto
«scalcinati». La ragione, come accade, era un po' di qua
e un po' di là; è vero, tuttavia, che i fatti l'avevan
data, nel caso concreto, a Garibaldi, smentendo appieno le
preoccupazioni dei suoi critici non avesse l'intero corpo napoletano
a rovesciarsi sull'avanguardia romana. Sí che al solo
Garibaldi si dovette se l'esercito della repubblica poté
rientrare in Roma recando, tra i molti che gliene aveva regalati il
Borbone, qualche ramo di alloro che si era còlto da sé.
Ma neanche Pisacane era rimasto con le
braccia in croce la mattina del 19. Bensí, disposta l'avanzata
generale, s'era preso il comando di alcune forze miste, puntando su
Velletri;50 e se a Velletri era giunto troppo tardi per
partecipare alla mischia, s'era segnalato ugualmente eseguendo una
fruttuosa ricognizione.
Il piano originale del comando romano,
che la sortita garibaldina aveva violato, era quello di girare
Velletri, e guadagnando Cisterna tagliare la ritirata ai borbonici o
almeno assalirli sul fianco51. Ma ora che conveniva di fare?
Tornare al primitivo disegno o tentare di espugnar Velletri?
Garibaldi e Pisacane una volta tanto concordano e già questi
sta emanando gli ordini perché le truppe discendano al piano
quando Roselli, poco sicuro dei suoi uomini e desideroso d'una
esplicita autorizzazione di Roma, oppone il suo veto. Si perde cosí
quel pomeriggio prezioso a rinnovare inutili attacchi contro
Velletri, che l'indomani mattina, vuota di difensori, cadrà
automaticamente; ma intanto l'intero corpo borbonico trae in salvo al
di là dei confini.
La vittoria ad ogni modo era piú
che bastevole; poco opportuno perciò l'invito del triumvirato
al Roselli di inseguire il nemico foss'anche sul suo territorio. Si
eran pesate tutte le conseguenze di una simile mossa? Al Generale e
al suo Capo di Stato Maggiore parve di no e che lo sforzo offensivo
si sarebbe tragicamente spezzato contro le due piazzeforti di Capua e
Gaeta; onde, anziché muoversi, comunicarono a Roma il loro
parere assai ragionevole, ricevendone in risposta l'ordine di
rientrare in città. Restò Garibaldi a eseguire con la
sua divisione la marcia dimostrativa, che si concluse, naturalmente,
senza alcun resultato.
La campagna di Velletri, cagione
d'orgoglio ai romani, aveva rivelato in piena luce solare come sia
difficile in un esercito interamente composto di volontari,
conservare il principio gerarchico. Garibaldi aveva dato lo sgambetto
a Roselli, il colonnello Pisacane apertamente censurava il generale
Garibaldi, la truppa pensava che il Comandante in capo temporeggiasse
esageratamente, tutti avevan l'impressione che il triumvirato si
mescolasse troppo nelle cose di guerra. I malintesi, le gelosie, i
livori non avevano limite. Ma il piú colpito fra tutti fu,
come sempre accade, il povero Capo di Stato Maggiore, tenuto
responsabile di tutti i mali, estraneo al bene. Basterà
leggere, per farsene un'idea, gli scritti sul '49 dei combattenti
devoti a Garibaldi: Hofstetter, ad esempio, che si fa eco dei severi
giudizi pronunziati su Pisacane da Manara (vero è che Manara
fece piú tardi ammenda onorevole). Pisacane negligente
nell'adempimento dei suoi doveri d'ufficio (perfino dimentico, il 16
di maggio, di trasmettere al reggimento Manara l'ordine di marcia,
tanto che si sarebbe buscato dal Manara medesimo un fiero rabbuffo;
ma Pisacane «parve non volerne saper nulla — e si
ritrasse in fretta...»); Pisacane senza una sola idea nella
testa nella notte dal 19 al 20 di maggio, sotto Velletri (Manara si
recò da Roselli e «gli espose con italiana vivacità,
e senza il menomo riguardo le negligenze del suo Stato Maggiore. Le
parole del colonnello fecero impressione sul generale e sui suoi
aiutanti. Sentiva quegli la verità del biasimo; gli altri non
arrischiarono parola che fosse di difesa. Finalmente Roselli disse al
Capo di S. M. e al colonnello Haug che qualche cosa doveva farsi»);
Pisacane pavido dinanzi al pericolo! (Hofstetter fu incaricato, verso
la fine di giugno, di «mostrare al Capo di S. M. la
disposizione della truppa e la giacitura delle fortificazioni. Io
m'inchinai e condussi fuori il colonnello:... feci in fretta le
solite strade delle nostre linee e fortificazioni, ma nel passare
osservai che il colonnello non era tanto indifferente ai saluti
nemici come lo eravamo noi; anzi era d'opinione che la tale e tale
altra cosa avrei potuto spiegargliela nella città»)52.
Peccato che questi appunti su Pisacane contrastino radicalmente con
quel che sappiamo di lui! Ché negligente, passivo, inerte,
pauroso, povero d'iniziativa davvero non fu; ed anzi ebbe, se mai,
proprio i difetti opposti.
Molti attribuirono a lui l'invero
pessima organizzazione dei «servizi» durante la
spedizione di Velletri. E sia.53 Ma non mi sembra fosse equo
pretendere che questi funzionassero perfettamente durante lo
svolgimento di una operazione che si era decisa in fretta e in furia,
e che si eseguiva con truppe in gran parte appena giunte a Roma,
equipaggiate alla meglio, guidate da capi che di mala grazia si
adattavano alla necessaria subordinazione gerarchica a un generale di
fresco promosso e dotato di scarso ascendente personale. Si aggiunga
che molti capi di corpo, avvezzi fino allora a organizzare i servizi
in un modo assai sbrigativo, taglieggiando cioè senza riguardo
e senza misura i disgraziati paesi attraverso i quali per avventura
passavano, mal si acconciavano alla nuova disciplina imposta dal
Comando, che, preoccupato del risentimento delle popolazioni,
giustamente intendeva porre un freno all'andazzo.
Altre critiche si mossero e ancora
oggi si muovono a Pisacane perché, quale Capo di Stato
Maggiore, si permetteva di spedire minuti e inderogabili ordini di
marcia e d'operazione nientedimeno che a Garibaldi.54 Ma
questi critici dovevano e dovrebbero dolersi non tanto con Pisacane,
che faceva il mestier suo, quanto con chi, potendo, non solo non
aveva posto Garibaldi alla somma delle cose, ma ne aveva anzi
precisata la dipendenza gerarchica. Forse che la parola «riguardi»
ha una ragion d'essere o un ben che minimo significato nel mondo
militare?
Il giudizio severo contro Pisacane fu
in qualche modo convalidato e diffuso al gran pubblico dall'Assedio
di Roma del Guerrazzi nel quale a un supposto binomio
Roselli-Pisacane, simbolo di debolezza, vien contrapposta la geniale
iniziativa di Garibaldi.
Ma Pisacane non sembra facesse gran
caso di queste critiche, di queste accuse. Sapeva che molte gli
derivavano dall'aver egli voluto e imposto quel riordinamento
dell'esercito pel quale molti petulanti e pretenziosi capi banda
s'eran visti ridotti al rango di modesti ufficiali, chiamati a
eseguire, non piú a dettar legge e tanto meno a discutere: il
quale aveva dunque rintuzzato ambizioncelle, stroncato gloriuzze, ma
insieme dato nerbo ed efficienza e unità, per quanto si
poteva, alle forze della repubblica. Sapeva che molte altre
derivavano, come suole, da gelosie mal dissimulate per l'alto ufficio
che gli era stato assegnato e per la reputazione che godeva presso il
potere politico. Perciò «tirava diritto»,
sdegnando pettegolezzi e ripicchi.
Ma a lui la breve campagna contro i
borbonici dovette esser fonte d'una particolare penosa emozione.
Sapeva già, il 16 maggio, o seppe nel seguito (forse entrando
in Velletri), che tra le file nemiche, in qualità di
comandante di uno squadrone di cavalleria, combatteva suo fratello
Filippo? Di quella cavalleria, per l'appunto, che in un primo
momento, sotto le mura della città, aveva messo in difficoltà
l'avanguardia garibaldina55, salvando essa sola — col
suo impeto e col valore riconosciutole anche da parte romana —
la dignità dell'esercito napoletano? Nient'altro che un puro
caso, fortunatissimo, avea voluto che i due fratelli non si
scontrassero armati, in quell'azione del 19 mattina! Comunque,
tragica sorte. Sono due anni che non si vedono, che vivon lontani ed
estranei, e l'occasione che materialmente li riavvicina è
questa d'una guerra che essi combattono da sponde opposte, l'un
contro l'altro!
Né si può dire che sia
caso eccezionale, nell'Italia d'allora, questo, dolorosissimo,
accaduto ai due Pisacane. Eccezionale è forse che, al di sopra
della mischia, essi riuscissero a conservare rapporti affettuosi e
financo a intavolare per lettera discussioni amichevoli sulle vicende
di quella campagna; ché, s'intende, Filippo non volle mai
ammettere doversi la ritirata borbonica neppure in minima parte alla
minaccia romana.
Del resto, mi si consenta la
digressione, pare a me che si possa e si debba ormai (son passati
ottant'anni) guardare con uguale rispetto al Pisacane «italiano»
e a quello accanitamente borbonico; e infatti se l'uno contribuí
direttamente alla formazione unitaria del nostro paese, l'altro —
e con lui gl'innumerevoli dimenticati e vilipesi che fino all'ultimo
e con personale sacrificio sostennero i regimi ritenuti legittimi —
lasciò un esempio, sempre valido, di coerenza ideale, di
dirittura, di serietà, di fedeltà a un principio e
nella sua fortuna e nella sua definitiva disgrazia.56
Se il risultato della guerra di Napoli
parve galvanizzare il corpo della repubblica, e ne fioriron rinnovate
speranze, la loro vita fu breve. In Francia, infatti, lo scontro del
30 d'aprile aveva prodotto una tremenda impressione. Il governo,
costretto ad agire energicamente, avrebbe potuto o richiamare la
spedizione (ma il prestigio francese, l'influenza in Italia?) o
proclamare apertamente la sua intenzione di rovesciare al piú
presto il regime repubblicano a Roma per ristabilirvi il Pontefice
(ma avrebbe l'Assemblea consentito?) Scelse, tra gli scogli, una
rotta intermedia, che condusse, com'è noto, a uno fra i piú
disgustosi episodi della recente storia di Francia e a un «caso»
diplomatico assolutamente senza precedenti: missione Lesseps (15
maggio), cioè, con incarico di indurre il governo di Roma ad
accogliere come amiche le truppe francesi. Dopo due settimane di
promettenti trattative (delle quali Oudinot sa profittare per
migliorare la sua posizione strategica e rinforzare il suo corpo),
quando di pieno accordo vien stabilito che le truppe francesi
seguitino a occupare il territorio romano al solo scopo di garantirlo
dall'invasione straniera, e sempre astenendosi dal varcare la cinta
dell'Urbe (31 maggio), una improvvisa comunicazione del generale
francese al triumvirato (1° di giugno) significa che la
convenzione Lesseps è da considerarsi nulla e come non
stipulata e che l'investimento di Roma è questione di ore!
La partita è perduta; né
si vuole qui sostenere che senza Lesseps, senza cioè che i
romani, cullandosi in traditrici illusioni, avessero per quindici
giorni trascurato l'apprestamento della città a difesa (tutti
presi, dopo Velletri, da disegni di arresto dell'avanzata austriaca),
questa si sarebbe salvata; ma certo il suo destino è
affrettato e si è perduta comunque la possibilità, fino
a poco innanzi esistente, di attaccare i francesi finché
inferiori di numero. Mazzini amaramente rimpiange di non aver seguito
a suo tempo i consigli di Pisacane. L'ingenuità romana è
ancora una volta documentata dalla goffa lettera che il Roselli
dirige al generale Oudinot per pregarlo di prolungar l'armistizio in
vista della necessità di fronteggiare la minaccia austriaca;
la risposta francese, nella sua secchezza, sottolinea la sleale
sopraffazione di cui l'Oudinot non ha sdegnato di farsi strumento.
Per quanto la caduta di Roma sia
matematicamente sicura e imminente, uno slancio tanto piú
eroico quanto piú inutile dei suoi difensori decide la
resistenza ad oltranza. «Le monarchie possono capitolare; le
repubbliche muoiono», dirà piú tardi Mazzini. Le
agguerritissime truppe francesi, che s'imaginano di conquistar la
città in un sol balzo e senza colpo ferire, sperimenteranno
con un mese di assiduissimi sforzi, con perdite tutt'altro che lievi,
con consumo spropositato di munizioni, quel che possa valere, anche
in una piazza naturalmente indifesa, la disperata volontà di
qualche migliaio di italiani straccioni e avventurieri. E sí
che la difesa risente non poco del mancato accordo tra i capi, quali
eroicamente avventati, ma ignari della piú tecnica tra le
guerre, quella d'assedio, quali forniti anche troppo di coltura
scientifica, ma inconsapevoli che in talune emergenze val meglio un
pugno d'«arditi» che una manovra sapiente.
Pisacane, che ha ferma l'idea della
indifendibilità di Roma, insiste ancora nel suo piano di
trasformar l'assedio in battaglia campale: per male che vada non
altro danno ne deriverebbe che l'anticipata caduta di Roma, ma se si
vince le conseguenze sono addirittura incalcolabili! Approva
senz'altro, perciò, il piano suggerito da Mazzini di uscir con
tutto l'esercito, attaccare il nemico a Villa Pamphilj, che è
stata conquistata di sorpresa il 3 di giugno (mentre Oudinot s'era
solennemente impegnato a non iniziare le operazioni prima del 4),
prendere cosí al rovescio gli apprestamenti di assedio e
caricare i francesi in direzione del Tevere.
Ore e ore a interrogar le carte, ore e
ore a studiare il terreno: è lui che stabilisce la
disposizione delle forze, è lui che prepara gli ordini di
marcia. Mazzini gli rende schiettamente questo onore d'aver lui, lui
solo tradotto quel pensiero in un magnifico disegno pratico, dandogli
«s'altri non lo rimutava poco prima dell'esecuzione, tutte le
possibili probabilità di trionfo».
«Questa idea di una battaglia è
nuova», osserva Roselli, che conosce a menadito la storia e la
teoria della guerra d'assedio, quando Mazzini lo chiama per
sottoporgliene il disegno. «Sarà nuova, ma è
adatta alle circostanze», ribatte Mazzini. Roselli aderisce; ma
Garibaldi, incaricato di capeggiare l'impresa, s'impone a sua volta
al debole condottiero, persuadendolo dell'opportunità di
rinunciare alla progettata battaglia campale e d'operare in sua vece
una semplice sortita o sorpresa dimostrativa. «Colonnello —
cosí Garibaldi bruscamente interrompe Pisacane, che è
venuto ad illustrargli il primitivo piano d'operazione —, con
le nostre truppe sono impossibili le manovre». Pisacane si
ritira «mortificatissimo». La notte del 10 di giugno, non
appena la sortita s'inizia, fuor di porta Cavalleggeri, basta un
modesto allarme per scompigliare le truppe, le quali si ritirano
nella piú gran confusione.57
Giorno per giorno, tra episodi
mirabili cari alla memoria degli italiani tutti, ma necessariamente
vani, la sorte di Roma precipita, mentre Oudinot, con metodica calma,
incalza nell'approccio alle mura. Nel tempo stesso Ancona cade, presa
dagli austriaci.
30 di giugno, giornata storica: gran
rapporto, tenuto da Mazzini, dei generali e capi di corpo. Mazzini
prospetta le tre alternative possibili: capitolare, resistere sulle
barricate sino all'ultimo sangue, uscir da Roma esercito, governo,
assemblea e a marcie forzate piombare in Romagna alle spalle degli
austriaci.
Quanto a sé propende per
l'ultima. Discussione: i piú inclinano alla resistenza ad
oltranza, qualcuno suggerisce di andarsi a serrare in Velletri o in
Albano, altri (Pisacane) d'invadere il regno di Napoli per tentar di
sommuoverlo; la capitolazione è respinta. Ma l'Assemblea cui
compete la deliberazione finale non ha piú il coraggio delle
grandi coraggiose risoluzioni; la maggioranza presente che la fase
rivoluzionaria è provvisoriamente tramontata in Europa.
È dunque la resa.
Il comando militare si mette in
relazione col campo francese, il triumvirato si dimette.58
Cosa accadrà dell'esercito? Confusione tremenda: Garibaldi e
Roselli associati nel comando supremo. Il primo, smanioso d'agire,
pianta in tronco il collega e con 3000 uomini scelti si getta alla
straordinaria avventura Sanmarinese. Gli ufficiali superstiti,
adunatisi il 2 di luglio, di notte, ascoltan Pisacane che li incita a
chiudersi col grosso dell'esercito nella città Leonina per
sostenervi un secondo assedio, ascoltan Sterbini di parer contrario.
Roselli ondeggia. Si decide finalmente di uscire da Roma, ma la
decisione non viene eseguita.
Dum Romae consulitur, i
francesi procedono (la mattina del 3) all'occupazione dell'Urbe. Con
imperturbabile solennità l'Assemblea, riunita per l'ultima
volta, vota intanto la definitiva costituzione dello Stato. E allora,
abbattuto il governo, intimata dai francesi l'uscita da Roma ai
militari «stranieri», all'esercito del Roselli non resta
che l'auto dissolvimento, preceduto da una solenne protesta, firmata
da tutti gli ufficiali, «contro la violenza che ha abbattuto il
governo della Repubblica Romana sorto dal libero voto del popolo,
durato nel perfetto ordine civile, e fatto sacro dal sangue versato
per difenderlo».
Il giorno 4 s'inizia l'esodo dei non
romani da Roma, per terra, per mare, diretti i piú fuori
d'Italia molti anche in Piemonte, l'unica terra che abbia serbato e
s'affidi alla libertà costituzionale: triste viaggio quello
che da Roma caduta, per Civitavecchia base francese, e Livorno
gremita d'austriaci, conduce a Genova pur mo' domata nei suoi fremiti
repubblicani e autonomistici; e come triste l'esilio in posti
ospitali e liberi, sí, ma che senza accennare a protesta hanno
assistito alla grande ingiustizia di Roma!
Si andavano spengendo cosí gli
ultimi bagliori di quel fuoco meraviglioso che, troppo improvviso e
troppo splendido, era guizzato sui primi del '48, e che ora la dura
lezione dei fatti e la dimostrata immaturità delle pur meno
ardite speranze parevano aver soffocato per sempre.
Anche Pisacane se ne va, non senza
prima aver sostenuto in Castel S. Angelo alcuni giorni di detenzione.
Forse, contando sull'ascendente che il suo nome e il suo grado
esercitavano sui suoi commilitoni, aveva deliberatamente violato
l'ordinanza oudinottiana per lo sgombro da Roma entro il 4 di luglio,
nella speranza di effettuare, d'accordo con Mazzini che si teneva
ancora in città, qualche disegno non grato ai francesi. Oppure
incappò prosaicamente in qualche disposizione di polizia come
quella, del 12 luglio, che vietava in Roma ai non francesi l'uso
dell'uniforme militare?59 Potrebbe anche darsi che non avesse
ancora risolto dove recarsi: certo è che in un primo tempo
sollecitò il rilascio di un passaporto per l'Inghilterra e da
Mazzini biglietti di presentazione per i suoi amici inglesi (uno dei
quali, assai lusinghiero per lui, ci è stato
conservato)60; ma poi, liberato dal carcere mercè le
premure di Enrichetta, si risolse a tornare verso la già nota
e già cara, ed ora nuovamente gremita d'esuli italiani, terra
di Svizzera.
Il 30 di luglio in compagnia dell'ex
triumviro Saliceti e del Galletti, la coppia Pisacane — mi pare
di poterli ormai chiamare cosí — sbarcava a Marsiglia.
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