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Nello Rosselli
Carlo Pisacane nel Risorgimento Italiano

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  • CARLO PISACANE NEL RISORGIMENTO ITALIANO
    • Capitolo quarto Difesa di Roma
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Capitolo quarto
Difesa di Roma

 

L'immensa suggestione che l'iniziativa di Romarepubblica, abolizione del poter temporale dei Papi, riconoscimento della missione religiosa della Chiesaesercitò sugl'italiani del tempo, non può spiegarsi considerandone soltanto le ripercussioni dirette d'ordine religioso e politico, sia che precipitasse da un verso l'attuazione degli estremi ideali civili dei ceti progressisti, sia che consumasse dall'altro una profanazione inaudita agli occhi della grande maggioranza della popolazione: v'è qualcosa di piú. V'è il fascino irresistibile di Roma. Chi era allora, chi è oggi che non senta la incomparabile solennità della parola di Roma, dove ogni idea come ogni pietra, cui grava il peso dei secoli, assume grandezza? In una città dove anche i tuguri nascondon forse nelle fondamenta un tempio, accade infatti che lo scherzo figuri una satira e il dramma assurga a tragedia; su quella ribalta anche un istrione rischia d'esser scambiato per attore immortale. Eroi e avventurieri, santi e briganti, ideali e pretesti vi si confondono spesso, ché su tutti Roma riflette la sua luce, una luce propizia alla formazione dei miti. Il mondo, guardando a Roma, di rado sorride o trascura: osanna o maledice.

Ecco dunque perché il fatto solo della proclamazione della repubblica a Roma, indipendentemente dalla sua fortuna o dal valore poi dimostrato dai suoi governanti, costituí per l'Italia un avvenimento di eccezionale importanza e certo di ben piú vaste risonanze che non tutti insieme gli altri episodi rivoluzionari svoltisi, o ancora in via di svolgimento, entro i suoi confini, in quel decisivo biennio: cose italiane eran stati o eran questi, sia pur con ripercussioni europee; ma quella era cosa universale: saliva nel buio cielo del mondo come una colossale réclame luminosa della causa liberale italiana, che cosí s'imponeva una volta di piú, come problema interessante ben oltre le nostre o le altrui caste politiche, la stessa civiltà.

Se Roma forní alla repubblica il consueto apparato della sua grandezza, la repubblica, d'altronde, fu degna di Roma. Che importava se i suoi giorni eran contati, tra il Papa che da Gaeta, furibondo, scagliava scomuniche, il Borbone suo ospite che minacciava la guerra, l'Austria che si preparava al tradizionale intervento, la Francia, pur democratica, che non scordava i privilegi dei suoi re cristianissimi, e la Spagna che, financo essa, si disponeva a fornir nuova prova della sua fedeltà alla Chiesa pericolante? Quel che importava era che la voce di questa libera Roma, prima di venir soffocata, suonasse alta e fiera, romana davvero. Ed ecco precipitarsi a Roma, da ogni parte d'Italia e dalle terre d'esilio, italiani a migliaia, isolati o adunati in schiere armate, risoluti tutti a sostenere una causa che, nonostante il sicuro insuccesso immediato, prometteva, se ben condotta, di render piú certo il trionfo finale delle aspirazioni italiane.

Piú alto di tutti e quasi sopraffatto dall'emozione che suscita in lui questa rinnovata «missione» di Roma, pur tanto sognata, giunge Mazzini. «Vi entrai la sera, a piedi, sui primi del marzo, trepido e quasi adorando», ricorderà egli stesso piú tardi. Nessuno ha quanto lui il senso religioso di Roma: non è Mazzini infatti che ha sempre veduto e additato, in Roma appunto, la culla di una nuova fede religiosa, che armonizzando le aspirazioni divine e umane, sociali e politiche, individuali e collettive dell'uomo, inizierà un'era migliore? Pauroso dunque per lui, come per tutti gli spiriti veramente grandi, l'atteso confronto di Roma: si riveleranno le sue forze pari a una prova che egli sente suprema?

Ai ciurmadori della politica, quando pervengono a Roma, par necessario, per dimostrare la propria grandezza, indossata la toga e gonfiate le gote, far monopolio delle glorie antiche, di continuo evocate e proposte nei roboanti discorsi, con la pretesa di emularle con gesta mai viste. Mazzini, entrato a Roma umilmente e quasi di soppiatto, si nasconde dapprima in una povera stanza d'albergo, in una via secondaria, «un tavolino d'abete e cinque scranne di paglia... un desinare frugale a tre paoli»: poi, nominato triumviro, bisogna bene che passi alla Consulta, ma anche sceglie l'alloggio piú umile, che gli permette di tenersi in continuo contatto col pubblico. Assai volentieri cede al collega Armellini gli appartamenti di rappresentanza, che pur sarebbero sua degna sede. Continua, in Roma, la sua vita d'esilio: scrive e scrive, con quei suoi segni sottili ed uguali, anima tutti col suo febbrile parlare, con i suoi occhi febbrili. Ad altri il tenere alto e superbo il capo tra i romani «redenti»: egli non osa neanche chiamarli a raccolta. Trascorre via frettoloso agli uffici, il volto chino, timido innanzi ai monumenti di Roma. Non mai come allora ha cosí fortemente avvertito la presenza di Dio: piú tardi, sfidando i sarcasmi dei piú tra i seguaci, vorrà perfino che si riapran le chiese, lui che è contro la Chiesa; tanto gli sembra che tutto, a Roma, abbia una ragione profonda.

Il settario, superata la setta, lavora adesso per tutti, nel nome di tutti.

 

Verso il 10 di marzo, a Mazzini che, pur semplice deputato, è già fin d'allora regolatore supremo delle cose della repubblica, si presenta Pisacane, giunto con Enrichetta, da Genova, l'8 del mese.35 «Mi si presentava senza commendatizie; — raccontò poi, nei Ricordi, Mazzini — m'era ignoto di nome, benché io ricordassi di averlo alla sfuggita veduto un anno prima..., io non sapeva né gli studî teorici e pratici, né la ferita di palla Austriaca che lo aveva tenuto per trenta giorni inchiodato in un letto, né i principî politici serbati inconcussi attraverso l'esilio e la povertà, né altro di lui. Ma bastò un'ora di colloquio perché l'anime nostre s'affratellassero, e perch'io indovinassi in lui il tipo di ciò che dovrebb'essere il militare italiano, l'uomo nel quale la scienza, raccolta con lunghi studî ed amore, non aveva addormentato, creando il pedante, la potenza d'intuizione e il genio, raro a trovarsi, dell'insurrezione».

I due affrontano subito il problema fondamentale della repubblica: la situazione militare. Spaventoso, in proposito, il lavoro che incombe ai governanti di Roma: tien luogo d'esercito, infatti, una disordinata accozzaglia di gente armata alla meglio, disseminata in un territorio vastissimo che va da Ferrara ai confini napoletani, da Civitavecchia ad Ancona: quindicimila uomini circa, molti dei quali tengono piú, quasi, all'autonomia delle bande cui sono affiliati e alla gloria dei rispettivi capi che non alla salvezza della repubblica. Il Ministero della Guerra ha fino allora funzionato a rovescio: subalterni incapaci cacciati ai comandi, tecnici di valore sprecati in sottordine; confusione dovunque, dalle uniformi all'armamento; assenza totale di piani organici.

Bisogna, dice Pisacane a Mazzini con la consueta chiarezza, stabilire senza indugio un programma di reclutamento atto a triplicare gli effettivi esistenti; imporre a tutti un regolamento che non soffra eccezioni; precisare il criterio gerarchico, e cosí via. Cose semplici, è vero, e di lapalissiana evidenza; ma quel che colpisce Mazzini fin dal primo istante (come già un anno innanzi a Milano il Cattaneo) è il tono fermo, severo, sicuro, con cui Pisacane si fa a proporle: il tono d'un uomo che, misurandone perfettamente le inevitabili difficoltà, si rivela disposto e capace di portarle a compimento contro tutto e tutti. La miglior soluzione sarebbe quella di affidare a lui e a nessun altro che a lui il compito della riorganizzazione militare, per poi riferirne, s'intende, all'Assemblea sovrana; ma anche nella Roma rivoluzionaria di quante suscettibilità pronte ad offendersi bisogna tener conto! Girando perciò la posizione, Mazzini propone la nomina di una Commissione di cinque che lavori all'uopo accanto al Ministro, naturalmente «senza lederne la libertà di azione e la responsabilità»; suggerisce quattro Carneadi, piú Pisacane, per Commissari. L'Assemblea, docile, approva.36 È il 17 di marzo: la Commissione si pone subito all'opera con la piú grande energia. Pisacaneera da prevedersi — fa quel che vuole: in pochi giorni, provocate o spontanee, ecco le dimissioni del sig. Ministro («un asino», per Pisacane); al cui posto, fin dal due di aprile, s'insedia la Commissione. Pisacane, cioè, promosso maggiore il 26 di Marzo, è virtualmente Ministro.

L'accordo con Mazzini è altamente fruttuoso. Pisacane completa infatti come meglio non si potrebbe il futuro triumviro, il quale, felicissimo nell'ideare audaci piani di guerra, si trova poi nell'impossibilità di vararli, ignorando affatto come s'impieghi il fucile o che sia mai la manovra avvolgente o come si appresti a difesa un terreno! Lunghe ore essi trascorrono insieme, chini sulla carta d'Italia, ragionando oltre che dell'immediato avvenire di Roma, d'una guerra d'Italia e del modo di accenderla. Ma se le idee loro collimano per quanto riguarda l'ordinamento delle milizie romane, proprio in tema di fini e condotta di guerra esse divergono assai. Il contrasto è quanto mai curioso: Mazzini, repubblicano per antonomasia, caldeggia la collaborazione con l'esercito di Sua Maestà Sabauda, nell'imminente crociata antiaustriaca sul Po; Pisacane, ex ufficiale borbonico, ex ufficiale nell'esercito sardo (al cui comando ha suggerito, non è che un mese, l'unione militare con Roma) sostiene invece calorosamente che il Piemonte e le Due Sicilie, in quanto monarchici, vanno considerati dalla repubblica nemicipiú né meno dell'Austria. Intransigenza, purismo repubblicano d'uno zelante neofita, contrapposti alla duttilità del vecchio lottatore politico? Soltanto in apparenza; come infatti, con i suoi precedenti, potrebbe Pisacane mostrarsi sdegnoso di patteggiamenti e alleanze sperati vantaggiosi al conseguimento di fini comuni? La verità è che egli questa speranza non l'ha. Esaminando le cose da un punto di vista puramente politico-militare, egli, che prevede Novara, trova pazzesco che si voglian legare le sorti della giovane repubblica alla cadente fortuna sabauda. Il fine ultimo del rivolgimento italiano è forse la mera liberazione dall'Austria o non piuttosto la formazione di uno Stato liberale unitario? Ebbene, la situazione del marzo '49 offre, per la prima volta da moltissimi anni, la possibilità di mirare al raggiungimento rapido e integrale di quel fine. L'Austria e il Piemonte essendo infatti immobilizzati sul Po, le tre repubbliche italiane dovrebbero profittarne per far marciare su Napoli un esercito collegato. Napoli, indebolita dalla rivolta in Sicilia, mal difesa da un esercito cui gli avvenimenti del '48 hanno inferto il colpo di grazia, priva per giunta dell'intervento dell'Austria, finirebbe certamente col cedere: sfasciatosi cosí il regime borbonico, la popolazione farebbe causa comune con Roma, Toscana e Venezia; i due eserciti, espressione di piú che mezza Italia, si scaglierebbero allora, in condizioni di netta superiorità, contro i due superstiti nemici del nord, l'un contro l'altro armati. La vittoria darebbe la libertà all'Italia: libertà in tutti i sensi.37

Ma l'attuazione dell'audacissimo piano è resa impossibile non soltanto dalla contrarietà di Mazzini e della maggioranza dei consultori di Roma, fedeli interpreti delle aspirazioni e delle opinioni prevalenti tra i cittadini pensanti, sibbene anche dalla riluttanza notoria e ripetutamente espressa dei governi di Venezia e Toscana a compromettersi facendo apertamente causa comune con gli usurpatori del Papa. A Pisacane, pure imprecante contro il municipalismo, eterna piaga d'Italia, è giuocoforza inchinarsi.

Cosicché non appena il Piemonte denuncia l'armistizio, Roma proclama l'intervento; il 20 marzo Carlo Alberto si muove, il giorno appresso diecimila uomini affidati al comando di Mezzacapo lasciano il territorio della repubblica per raggiungere il Po.38 Ma il 23 marzo Novara, sconvolgendo le speranze italiane, conferma appieno le previsioni di Pisacane. Mezzacapo ripiega, e a Roma tutti comprendono che ormai non piú di successi della repubblica si tratta e neanche della sua stessa salvezza, ma soltanto di come piú romanamente morire.

 

A mali estremi estremi rimedi: il 29 di marzo l'Assemblea procede alla nomina del Triumvirato; ormai Mazzini è l'arbitro riconosciuto delle sorti romane. Ma il mese d'aprile, in Italia, è tutto un rovinío: caduta di Brescia, tramonto della libertà siciliana, rivolta e capitolazione di Genova, rovesciamento del governo toscano, calata austriaca. Venezia sola continua a lottare. Di fronte alla molteplicità e all'accresciuta efficienza delle forze contrarie, Roma viene cosí a trovarsi in un isolamento addirittura paradossale. È vero che dalla Sicilia, dalla Toscana, da Genova è una nuova affluenza di colonne d'armati e di sbandati rivoluzionari ma, con l'anello che le si stringe d'attorno, a che mai può quell'affluenza giovare se non a consegnare alla storia la popolarità della causa romana in Italia?39

Febbrile, in tanto imperversar di bufera, prosegue l'opera della Commissione di Guerra, suprema autorità militare: è la Commissione che, superando resistenze ostinate di piccoli ras gelosi della propria autonomia, crea veramente l'esercito; è la Commissione che ne fissa l'organico; è la Commissione che discioglie le anarchiche bande sostituendole con reggimenti normali e che dispone l'immediato concentramento dell'esercito in due sole piazzaforti; è la Commissione che fa definitivamente naufragare il progetto, caldeggiato da molti, di affidare il comando supremo a un generale straniero; è ancora la Commissione che, accanto alle misure d'ordine generale, emana quotidianamente gli ordini di servizio e di marcia, ciascuno dei quali impone una vera battaglia con i recalcitranti comandi in sottordine; è la Commissione infine che, il 18 di aprile, suggerita la nomina del generale Avezzana, uno dei triunviri di Genova insorta, a Ministro della Guerra e Comandante in capo delle truppe romane, può quietamente sciogliersi con la fiera coscienza d'aver realizzato un miracolo. La Commissione? Ma a chi ne risalissero i meriti dimostrò chiaramente, nel seguito, il fatto che i rancori diffusi e tenaci da essa sollevati s'appuntarono tutti contro il solo Pisacane, che intanto, quello stesso 18 d'aprile, era stato designato a sostituto del Ministro della Guerra.40

Mentre cosí si apprestano uomini e mezzi alla difesa della repubblica, una colossale fatica di provvidenze e riforme interiori si va svolgendo dai triumviri e dai diversi ministri, in vista soprattutto di legare alla conservazione del nuovo regime le fin qui indifferenti popolazioni romane. Si direbbe, da quanto fanno, che proprio nessun pericolo esterno minacci l'esistenza dello Stato; ma è Mazzini che ha detto: «lavorare come se avessimo il nemico alle porte e a un tempo come se si lavorasse per l'eternità», e tutti intendono e obbediscono a lui.

Attivissimo è anche il lavorio diplomatico volto a persuadere le Cancellerie europee del buon diritto di Roma; ma qui lo scacco è ben grave. Il 16 aprile, infatti, il governo «repubblicano» di Francia, pur imbellettando la mossa con equivoche dichiarazioni d'amicizia pel popolo italiano e di assoluto rispetto per la sua autodeterminazione, annuncia l'intenzione d'intervenire nelle cose romane: il bis della spedizione di Ancona! Non passano otto giorni che 7000 francesi già sbarcano a Civitavecchia. Stupefazione e disorientamento a Roma: sono amici o nemici? Mazzini, appassionato difensore piú ancora che della materiale esistenza della repubblica, della sua dignità, raccoglie il consenso generale sfidando superbamente i francesi ad accostarsi a Roma, ch'egli dichiara risoluta senz'altro a respingerli. Ma se avanzano, sarà davvero la guerra?

Sarà la guerra. La fase eroica ha finalmente principio.

Due vie si presentano ai difensori di Roma: serrarsi in città e garantirne ad ogni costo l'accesso; oppure sgombrarla e con tutte le truppe dar battaglia campale al corpo francese. Pisacane — che nel frattempo (carriere rivoluzionarie) è stato nuovamente promosso al grado superiore e addetto alla prima sezione dello Stato Maggiore41manco a dirlo propende per il piano offensivo. C'è qualche analogia fra la situazione di Roma nel '49 e quella di Milano nel '48. Ambedue città aperte, ambedue indifendibili; con l'aggravante, per Roma, che oltre l'attacco francese, bisogna attendersi quello austriaco e napoletano, e che alla fine d'aprile le truppe presenti in città sommano appena a un 9000 uomini. La caduta di Roma sarebbe dunque questione di giorni. Quanto piú vantaggioso trasformare un assedio passivo in una guerra di movimento: il corpo romano, conservando per sé l'iniziativa del dare o non dare battaglia, potrà a suo agio investire i francesi sul fianco durante la loro marcia dal mare, oppure, radunandosi a nord di Roma con le milizie dell'oltre Appennino, attendere, per piombare sull'invasore, d'aver raggiunto una sicura superiorità numerica. Salva o non salva Roma, finché un esercito rivoluzionario si aggiri in Italia, chi potrà mai dire spenta la causa italiana?

Dal punto di vista strategico Pisacane e qualche altro che la pensa come lui hanno perfettamente ragione; da quello morale e politico, invece, è nel giusto Mazzini quando protesta contro l'assurdo errore che costoro commettono di considerare Roma, cioè, né piú né meno che come una qualunque «posizione», abbandonata la quale si possa sceglierne, per la difesa, un'altra migliore. Roma è un simbolo, un mito; se poche, relativamente, son le braccia accorse a difenderla, con l'animo sarà sugli spalti la parte migliore d'Italia. Roma che cade senza colpo ferire è il mito che si dissolve; Roma che cade dopo resistenza accanita son gl'italiani che ne sentiranno poi sempre il tormento e in quel glorioso ricordo sapranno osare e soffrire.

Ancora una volta, in cosí dire, Mazzini ha con sé la maggioranza dei capi militari e dei deputati all'Assemblea; tanto che in un consesso dei triumviri e dei ministri, all'uopo riunito, il piano di Pisacane viene respinto all'unanimità.

Piú divisi invece i pareri sulla questione se, per contrattaccare i francesi, convenga proprio attendere che questi investano le mura di Roma. Mazzini ritiene di , sperando sempre che la spedizione francese, organizzata piú che altro per esigenze di politica interna, possa da un nuovo Ministero o da una nuova Camera (pendono in Francia le elezioni politiche) venir richiamata o almeno spogliata di ogni apparenza offensiva; cosí stando le cose non sarebbe pazzesco anticipare uno scontro, col rischio di scatenare davvero le correnti belligere dell'opinione francese? Questo ragionamento persuade poco, s'intende, la gioventú di Roma, e Pisacane pochissimo; ma l'opinione del Capo, che tutti sanno legato da antichi vincoli ai leaders della democrazia francese, ha gran peso che le opposizioni, pur fremendo, si tacciono.

Lanciata dunque all'Europa un'anticipata protesta contro la violazione inaudita del diritto delle genti che la Francia minaccia di consumare, il governo di Roma si limita ad apprestare entro le mura la difesa della città. Tanto ingenua e profonda è l'illusione nella quale Mazzini si culla che, per ordine suo, lungo la strada di Civitavecchia vengono affissi vistosi cartelli, redatti in francese, riepiloganti il buon diritto di Roma!

Abituato agli scacchi (piano di reclutamento suggerito nell'aprile '48, tenuto in non cale; piani di guerra del maggio e del luglio successivi, respinti; piano spedito al Bava, giudicato troppo ardito), Pisacane non s'adonta per il rigetto delle sue proposte, anzi volentieri s'adatta a studiare come meglio si possa tradurre in effetto quel disegno che pur lo persuade poco; e tanta buona lena vi pone che, per riconoscimento dei piú, si dovrà in buona parte proprio a lui e alle disposizioni da lui escogitate (oltre che, si sa, alla eccezionale capacità combattentistica di Garibaldi) se la prima giornata di guerra delle milizie romane si concluderà con un successo autentico42.

Brusco risveglio per Mazzini ancora ostinatamente gallofilo quel 30 d'aprile, quei diecimila francesi avanzanti su Roma! Violentemente attaccati e respinti, cento dei loro, morti, oltre a quasi trecento arresisi, rimangon ad attestare a che sia ridotta la repubblicana fraternità del governo di Francia. Garibaldi, viste le terga nemiche, vorrebbe perfezionar la vittoria, gettandosi all'inseguimento; e forse, per dovere d'ufficio, tocca per l'appunto a Pisacane, che pur sarebbe dello stesso parere, trasmettere l'ordine perentorio del triumvirato di non uscire dagl'immediati dintorni della città. Mazzini, imperturbabile, si sforza adesso di pensare che, avuta una buona volta la prova della risolutezza romana, Parigi rinuncerà a colorire il suo iniquo disegno; animato da tale speranza, che Pisacane, da buon militare, principia a trovare pericolosa e ridicola, non giungerà egli perfino a ordinare la restituzione dei prigionieri del 30?

Le perdite romane, in quello stesso scontro, non sono state gravi: una settantina di morti, un centinaio di feriti, affidati questi, nelle ambulanze reggimentali, oltre che a medici piovuti d'ogni parte d'Italia, all'assistenza e alle cure di un Comitato di Signore presieduto dalla Belgiojoso43. Fra le quali, e delle piú attive, brava infermiera espostasi al fuoco a Porta S. Pancrazio, Enrichetta; il 5 di maggio il Monitore romano stamperà anzi di lei, che firma adesso Enrichetta Pisacane, una commossa relazione sulla parte presa dai trasteverini alla giornata del 30 d'aprile44.

Ma quella, dopo tutto, non era stata che una scaramuccia di poco momento; nel seguito l'attività del Comitato dové naturalmente moltiplicarsi ed estendersi, a centinaia affluendo i feriti negli improvvisati ospedali per ricevervi, con le povere cure che la chirurgia sapeva allora apprestare, l'incomparabile conforto morale che solo la donna può offrire. Duri mesi dunque, quelli di Roma, per Enrichetta, anticipata e oscura Nightingale italiana45; poiché non vi è pena piú intensa che il vegliare le pene degli altri.

 

Roma, ancora tutta vibrante dell'insperato successo, osservava con qualche inquietudine le mosse del corpo francese, accampatosi senza apparenti intenzioni offensive a poca distanza dalle sue mura, quando, dalla frontiera di Terracina, giunse il 2 maggio la notizia dell'avanzata napoletana: 12 000 uomini e piú che 50 cannoni!46 Il dilemma era tragico. Per affrontare i borbonici e toglier loro la voglia di compiere nel territorio della repubblica simili passeggiate militari si sarebbe dovuto abbandonar Roma ai francesi, né si poteva. Il mezzo termine scelto fu, com'è noto, l'urgente richiamo del corpo di Mezzacapo e d'altre colonne operanti lontano dalla capitale e insieme l'ordine a Garibaldi di spingersi con la sua legione in ricognizione offensiva verso i colli Albani dove intanto si erano provvisoriamente postate le truppe di Re Ferdinando.

Dopo due lievi scontri la ricognizione aveva termine il 17 di maggio e, caso strano, con pari soddisfazione d'entrambi le parti, i romani vantando il pieno raggiungimento degli obiettivi propostisi, i napoletani nientedimeno che d'aver costretto Garibaldi alla fuga.

Chi fosse il vincitore vero non venne chiarito neanche a guerra ultimata; lo stesso Pisacane polemizzò in proposito col fratello ufficiale borbonico, secondo il quale uno degli scontri — quello di Palestrinarisaliva a gloria immortale dei suoi commilitoni! Guerre e battaglie d'ottant'anni fa.

Comunque i napoletani si guardaron bene dall'avvicinarsi ulteriormente a Roma; e poiché in breve tempo affluirono nella città i rinforzi (portando a diciottomila uomini la guarnigione effettiva) e s'erano intanto iniziate trattative d'armistizio con l'Oudinot generale francese, la situazione della repubblica avrebbe potuto dirsi radicalmente migliore se il terzo nemico, l'austriaco, presa Bologna e tenendo ormai tutta quanta la Toscana, non avesse rappresentato lui adesso la minaccia immediata, polarizzata su Ancona, unico porto che a Roma fosse rimasto.

La necessità della difesa di Ancona, anzi, portò a un nuovo rimpasto nell'alto comando, ché l'Avezzana venne inviato a dirigerla, e un colonnello, il Roselli, prese il suo posto qual generale delle operazioni. Un Bonaparte costui? Tutt'altro, ma senza dubbio il migliore tra gli ufficiali di cittadinanza romana, e un romano sembrò allora che ci volesse a quel posto, per piú ragioni, o pretesti, campanilistici. Pisacane, che andava pian piano imponendosi come il factotum del triumvirato, fece in quest'occasione un nuovo balzo in avanti, sostituendo nell'ufficio di Capo di Stato Maggiore il Galletti, che del resto aveva già completamente offuscato e per attività e per competenza. Poco prima lo si era nominato altresí presidente del Consiglio di Guerra e della Commissione per le requisizioni.47 Mazzini aveva sempre piú fiducia, e sempre piú bisogno di lui. Lo avrebbe attestato piú tardi: «Per me egli non era solamente il capo dello Stato Maggiore, esecutore rapido e diligente delle intenzioni del Generale in capo e delle nostre; era l'ufficiale nato per la guerra d'insurrezione, dotato di quella potenza d'iniziativa che trova la vittoria dove il nemico, fidando nella scienza tradizionale, non prevede l'assalto, ed al quale io poteva affacciare i piú arditi consigli, securo ch'ei non li avrebbe respinti unicamente perché in apparenza contrarî alle cosí dette regole dell'arte bellica».

Tra i Roselli e i molti del suo stampo, pedantescamente aggrappati, nonché a quelle regole, all'osservanza di una disciplina formale, assurda in quei frangenti, e i Garibaldini, valorosissimi, , ma che intendevan la guerra un poco troppo da anarchici, Pisacane rappresentava infatti, se non il punto d'incrocio e d'intesa (ché il suo carattere non si prestava a quel compito), certo una tendenza media, assai piú equilibrata d'entrambi.48

Andavan tutti d'accordo, intorno alla metà di maggio, che bisognasse, ora che Roma era finalmente ben guernita di truppe, uscire dalle mezze misure e finirla con quella inconcludente guerretta; ma chi, al solito, voleva non si pensasse ad altro che a trasformar la città in una piazzaforte sul serio, chi — Pisacane ad esempiodiffidando della buona fede francese, pretendeva si rinnovasse senza indugio, e in proporzioni piú vaste, il conflitto del 30 di aprile, per poi passare ai borbonici. Mazzini, sempre invischiato nella pania francese (il 17 di maggio il Monitore ufficialmente annunziava la sospensione delle ostilità franco-romane), timoroso d'altronde che, ove si lasciassero i napoletani avvicinarsi a Roma, l'Oudinot non ne prendesse pretesto per «amichevolmente» occuparla, aveva un terzo progetto: uscir di sorpresa dalla città con quasi tutto l'esercito e investire i borbonici accampati in Velletri con un'offensiva siffatta da obbligarli a mollare la posizione e comunque da infligger loro una sconfitta che servisse a rianimare i difensori di Roma.

Pisacane — è Mazzini che lo attesta — fu il solo tra i capi militari che, sedotto dall'«audace consiglio», se ne facesse banditore entusiasta; laddove Roselli, in successive polemiche di stampa, orgogliosamente si attribuí e la paternità e il merito di quel progetto. La questione non è ancora perfettamente chiarita; certo è comunque che Pisacane ebbe parte precipua nell'apprestamento tecnico dell'operazione, la quale venne ben presto coronata dal piú brillante successo. Non era proprio lui che andava insistendo, fin dai primi di marzo, che Roma s'avesse a difender fuori di Roma?

L'attuazione del piano seguí rapidissima e nel piú grande segreto; al punto che quando, alla sera del 16 maggio, i romani stupefatti videro, reggimento dopo reggimento, ben diecimila uomini lasciar la città per porta S. Giovanni con alla testa Roselli stesso e Garibaldi e Pisacane, lo sbigottimento fu intenso, voci di tradimento circolarono subito e mezza Assemblea si precipitò da Mazzini a chiedergli conto di quel che stesse accadendo; ci volle del bello e del buono per acquietarli un poco. La fortuna assistendo, dubbi e sospetti si tramutaron poi presto in sconfinati entusiasmi.

Il comando romano, infatti, o vogliam dire Mazzini, rivelò in questo caso straordinario tempismo. Velletri? Diversivo a uso di politica interna? Altro che questo! I napoletani, incalzati, spariron d'incanto dalla regione dei colli, non solo, ma dovettero ripassare in tutta fretta il confine. Disfatta morale aggravata dalla presenza del re in persona fra le sue truppe. È vero che Ferdinando aveva disposta la ritirata fin dal 17 di maggio — mentre i romani raggiunsero le sue posizioni soltanto il 19 —, non appena cioè gli era giunta notizia della sospensione di ostilità intervenuta tra l'Oudinot e il triunvirato e dell'immediata mobilitazione di tutte le forze romane contro di lui; ma la sua fuga, per quanto ufficialmente attribuita alla fallita intesa con Francia, non mancava per questo di costituire per lui, che il confine romano aveva baldanzosamente varcato due settimane innanzi, uno scacco bruciante e per la repubblica un clamoroso successo (che fosse poco sudato non monta).

L'unico scontro verificatosi in quell'effimera campagna, d'altronde, quello del 19 di maggio, aveva fornito una prova brillante dell'efficienza delle truppe repubblicane, e comunque piú che bastevole ad accreditare la vanteria romana avere unicamente il loro valore costretto il nemico alla fuga.49

Altra questione è quella, dibattutissima, se Garibaldi cui risaliva il merito di codesto scontro fosse stato bene o male ispirato nel provocarlo, spingendosi, come avea fatto contro gli ordini espressi di Roselli, fin sotto Velletri con la sola avanguardia.

Fiumi d'inchiostro si sparsero su questo episodio, Mazzini, Roselli, Pisacane e molti altri dei quarantanovisti lamentando la sua imprudenza e indisciplina; Garibaldi e i suoi accoliti e sostenitori, per contro, la lentezza di mosse e una tal quale pedanteria dimostrata dallo Stato Maggiore, il quale — cosí ironizzavano — si figurava forse di comandare a un agguerrito esercito di veterani anziché a improvvisate colonne di volontari tanto entusiasti quanto «scalcinati». La ragione, come accade, era un po' di qua e un po' di ; è vero, tuttavia, che i fatti l'avevan data, nel caso concreto, a Garibaldi, smentendo appieno le preoccupazioni dei suoi critici non avesse l'intero corpo napoletano a rovesciarsi sull'avanguardia romana. che al solo Garibaldi si dovette se l'esercito della repubblica poté rientrare in Roma recando, tra i molti che gliene aveva regalati il Borbone, qualche ramo di alloro che si era còlto da sé.

Ma neanche Pisacane era rimasto con le braccia in croce la mattina del 19. Bensí, disposta l'avanzata generale, s'era preso il comando di alcune forze miste, puntando su Velletri;50 e se a Velletri era giunto troppo tardi per partecipare alla mischia, s'era segnalato ugualmente eseguendo una fruttuosa ricognizione.

Il piano originale del comando romano, che la sortita garibaldina aveva violato, era quello di girare Velletri, e guadagnando Cisterna tagliare la ritirata ai borbonici o almeno assalirli sul fianco51. Ma ora che conveniva di fare? Tornare al primitivo disegno o tentare di espugnar Velletri? Garibaldi e Pisacane una volta tanto concordano e già questi sta emanando gli ordini perché le truppe discendano al piano quando Roselli, poco sicuro dei suoi uomini e desideroso d'una esplicita autorizzazione di Roma, oppone il suo veto. Si perde cosí quel pomeriggio prezioso a rinnovare inutili attacchi contro Velletri, che l'indomani mattina, vuota di difensori, cadrà automaticamente; ma intanto l'intero corpo borbonico trae in salvo al di dei confini.

La vittoria ad ogni modo era piú che bastevole; poco opportuno perciò l'invito del triumvirato al Roselli di inseguire il nemico foss'anche sul suo territorio. Si eran pesate tutte le conseguenze di una simile mossa? Al Generale e al suo Capo di Stato Maggiore parve di no e che lo sforzo offensivo si sarebbe tragicamente spezzato contro le due piazzeforti di Capua e Gaeta; onde, anziché muoversi, comunicarono a Roma il loro parere assai ragionevole, ricevendone in risposta l'ordine di rientrare in città. Restò Garibaldi a eseguire con la sua divisione la marcia dimostrativa, che si concluse, naturalmente, senza alcun resultato.

 

La campagna di Velletri, cagione d'orgoglio ai romani, aveva rivelato in piena luce solare come sia difficile in un esercito interamente composto di volontari, conservare il principio gerarchico. Garibaldi aveva dato lo sgambetto a Roselli, il colonnello Pisacane apertamente censurava il generale Garibaldi, la truppa pensava che il Comandante in capo temporeggiasse esageratamente, tutti avevan l'impressione che il triumvirato si mescolasse troppo nelle cose di guerra. I malintesi, le gelosie, i livori non avevano limite. Ma il piú colpito fra tutti fu, come sempre accade, il povero Capo di Stato Maggiore, tenuto responsabile di tutti i mali, estraneo al bene. Basterà leggere, per farsene un'idea, gli scritti sul '49 dei combattenti devoti a Garibaldi: Hofstetter, ad esempio, che si fa eco dei severi giudizi pronunziati su Pisacane da Manara (vero è che Manara fece piú tardi ammenda onorevole). Pisacane negligente nell'adempimento dei suoi doveri d'ufficio (perfino dimentico, il 16 di maggio, di trasmettere al reggimento Manara l'ordine di marcia, tanto che si sarebbe buscato dal Manara medesimo un fiero rabbuffo; ma Pisacane «parve non volerne saper nulla — e si ritrasse in fretta...»); Pisacane senza una sola idea nella testa nella notte dal 19 al 20 di maggio, sotto Velletri (Manara si recò da Roselli e «gli espose con italiana vivacità, e senza il menomo riguardo le negligenze del suo Stato Maggiore. Le parole del colonnello fecero impressione sul generale e sui suoi aiutanti. Sentiva quegli la verità del biasimo; gli altri non arrischiarono parola che fosse di difesa. Finalmente Roselli disse al Capo di S. M. e al colonnello Haug che qualche cosa doveva farsi»); Pisacane pavido dinanzi al pericolo! (Hofstetter fu incaricato, verso la fine di giugno, di «mostrare al Capo di S. M. la disposizione della truppa e la giacitura delle fortificazioni. Io m'inchinai e condussi fuori il colonnello:... feci in fretta le solite strade delle nostre linee e fortificazioni, ma nel passare osservai che il colonnello non era tanto indifferente ai saluti nemici come lo eravamo noi; anzi era d'opinione che la tale e tale altra cosa avrei potuto spiegargliela nella città»)52. Peccato che questi appunti su Pisacane contrastino radicalmente con quel che sappiamo di lui! Ché negligente, passivo, inerte, pauroso, povero d'iniziativa davvero non fu; ed anzi ebbe, se mai, proprio i difetti opposti.

Molti attribuirono a lui l'invero pessima organizzazione dei «servizi» durante la spedizione di Velletri. E sia.53 Ma non mi sembra fosse equo pretendere che questi funzionassero perfettamente durante lo svolgimento di una operazione che si era decisa in fretta e in furia, e che si eseguiva con truppe in gran parte appena giunte a Roma, equipaggiate alla meglio, guidate da capi che di mala grazia si adattavano alla necessaria subordinazione gerarchica a un generale di fresco promosso e dotato di scarso ascendente personale. Si aggiunga che molti capi di corpo, avvezzi fino allora a organizzare i servizi in un modo assai sbrigativo, taglieggiando cioè senza riguardo e senza misura i disgraziati paesi attraverso i quali per avventura passavano, mal si acconciavano alla nuova disciplina imposta dal Comando, che, preoccupato del risentimento delle popolazioni, giustamente intendeva porre un freno all'andazzo.

Altre critiche si mossero e ancora oggi si muovono a Pisacane perché, quale Capo di Stato Maggiore, si permetteva di spedire minuti e inderogabili ordini di marcia e d'operazione nientedimeno che a Garibaldi.54 Ma questi critici dovevano e dovrebbero dolersi non tanto con Pisacane, che faceva il mestier suo, quanto con chi, potendo, non solo non aveva posto Garibaldi alla somma delle cose, ma ne aveva anzi precisata la dipendenza gerarchica. Forse che la parola «riguardi» ha una ragion d'essere o un ben che minimo significato nel mondo militare?

Il giudizio severo contro Pisacane fu in qualche modo convalidato e diffuso al gran pubblico dall'Assedio di Roma del Guerrazzi nel quale a un supposto binomio Roselli-Pisacane, simbolo di debolezza, vien contrapposta la geniale iniziativa di Garibaldi.

Ma Pisacane non sembra facesse gran caso di queste critiche, di queste accuse. Sapeva che molte gli derivavano dall'aver egli voluto e imposto quel riordinamento dell'esercito pel quale molti petulanti e pretenziosi capi banda s'eran visti ridotti al rango di modesti ufficiali, chiamati a eseguire, non piú a dettar legge e tanto meno a discutere: il quale aveva dunque rintuzzato ambizioncelle, stroncato gloriuzze, ma insieme dato nerbo ed efficienza e unità, per quanto si poteva, alle forze della repubblica. Sapeva che molte altre derivavano, come suole, da gelosie mal dissimulate per l'alto ufficio che gli era stato assegnato e per la reputazione che godeva presso il potere politico. Perciò «tirava diritto», sdegnando pettegolezzi e ripicchi.

 

Ma a lui la breve campagna contro i borbonici dovette esser fonte d'una particolare penosa emozione. Sapeva già, il 16 maggio, o seppe nel seguito (forse entrando in Velletri), che tra le file nemiche, in qualità di comandante di uno squadrone di cavalleria, combatteva suo fratello Filippo? Di quella cavalleria, per l'appunto, che in un primo momento, sotto le mura della città, aveva messo in difficoltà l'avanguardia garibaldina55, salvando essa sola — col suo impeto e col valore riconosciutole anche da parte romana — la dignità dell'esercito napoletano? Nient'altro che un puro caso, fortunatissimo, avea voluto che i due fratelli non si scontrassero armati, in quell'azione del 19 mattina! Comunque, tragica sorte. Sono due anni che non si vedono, che vivon lontani ed estranei, e l'occasione che materialmente li riavvicina è questa d'una guerra che essi combattono da sponde opposte, l'un contro l'altro!

Né si può dire che sia caso eccezionale, nell'Italia d'allora, questo, dolorosissimo, accaduto ai due Pisacane. Eccezionale è forse che, al di sopra della mischia, essi riuscissero a conservare rapporti affettuosi e financo a intavolare per lettera discussioni amichevoli sulle vicende di quella campagna; ché, s'intende, Filippo non volle mai ammettere doversi la ritirata borbonica neppure in minima parte alla minaccia romana.

Del resto, mi si consenta la digressione, pare a me che si possa e si debba ormai (son passati ottant'anni) guardare con uguale rispetto al Pisacane «italiano» e a quello accanitamente borbonico; e infatti se l'uno contribuí direttamente alla formazione unitaria del nostro paese, l'altro — e con lui gl'innumerevoli dimenticati e vilipesi che fino all'ultimo e con personale sacrificio sostennero i regimi ritenuti legittimilasciò un esempio, sempre valido, di coerenza ideale, di dirittura, di serietà, di fedeltà a un principio e nella sua fortuna e nella sua definitiva disgrazia.56

 

Se il risultato della guerra di Napoli parve galvanizzare il corpo della repubblica, e ne fioriron rinnovate speranze, la loro vita fu breve. In Francia, infatti, lo scontro del 30 d'aprile aveva prodotto una tremenda impressione. Il governo, costretto ad agire energicamente, avrebbe potuto o richiamare la spedizione (ma il prestigio francese, l'influenza in Italia?) o proclamare apertamente la sua intenzione di rovesciare al piú presto il regime repubblicano a Roma per ristabilirvi il Pontefice (ma avrebbe l'Assemblea consentito?) Scelse, tra gli scogli, una rotta intermedia, che condusse, com'è noto, a uno fra i piú disgustosi episodi della recente storia di Francia e a un «caso» diplomatico assolutamente senza precedenti: missione Lesseps (15 maggio), cioè, con incarico di indurre il governo di Roma ad accogliere come amiche le truppe francesi. Dopo due settimane di promettenti trattative (delle quali Oudinot sa profittare per migliorare la sua posizione strategica e rinforzare il suo corpo), quando di pieno accordo vien stabilito che le truppe francesi seguitino a occupare il territorio romano al solo scopo di garantirlo dall'invasione straniera, e sempre astenendosi dal varcare la cinta dell'Urbe (31 maggio), una improvvisa comunicazione del generale francese al triumvirato ( di giugno) significa che la convenzione Lesseps è da considerarsi nulla e come non stipulata e che l'investimento di Roma è questione di ore!

La partita è perduta; né si vuole qui sostenere che senza Lesseps, senza cioè che i romani, cullandosi in traditrici illusioni, avessero per quindici giorni trascurato l'apprestamento della città a difesa (tutti presi, dopo Velletri, da disegni di arresto dell'avanzata austriaca), questa si sarebbe salvata; ma certo il suo destino è affrettato e si è perduta comunque la possibilità, fino a poco innanzi esistente, di attaccare i francesi finché inferiori di numero. Mazzini amaramente rimpiange di non aver seguito a suo tempo i consigli di Pisacane. L'ingenuità romana è ancora una volta documentata dalla goffa lettera che il Roselli dirige al generale Oudinot per pregarlo di prolungar l'armistizio in vista della necessità di fronteggiare la minaccia austriaca; la risposta francese, nella sua secchezza, sottolinea la sleale sopraffazione di cui l'Oudinot non ha sdegnato di farsi strumento.

Per quanto la caduta di Roma sia matematicamente sicura e imminente, uno slancio tanto piú eroico quanto piú inutile dei suoi difensori decide la resistenza ad oltranza. «Le monarchie possono capitolare; le repubbliche muoiono», dirà piú tardi Mazzini. Le agguerritissime truppe francesi, che s'imaginano di conquistar la città in un sol balzo e senza colpo ferire, sperimenteranno con un mese di assiduissimi sforzi, con perdite tutt'altro che lievi, con consumo spropositato di munizioni, quel che possa valere, anche in una piazza naturalmente indifesa, la disperata volontà di qualche migliaio di italiani straccioni e avventurieri. E che la difesa risente non poco del mancato accordo tra i capi, quali eroicamente avventati, ma ignari della piú tecnica tra le guerre, quella d'assedio, quali forniti anche troppo di coltura scientifica, ma inconsapevoli che in talune emergenze val meglio un pugno d'«arditi» che una manovra sapiente.

Pisacane, che ha ferma l'idea della indifendibilità di Roma, insiste ancora nel suo piano di trasformar l'assedio in battaglia campale: per male che vada non altro danno ne deriverebbe che l'anticipata caduta di Roma, ma se si vince le conseguenze sono addirittura incalcolabili! Approva senz'altro, perciò, il piano suggerito da Mazzini di uscir con tutto l'esercito, attaccare il nemico a Villa Pamphilj, che è stata conquistata di sorpresa il 3 di giugno (mentre Oudinot s'era solennemente impegnato a non iniziare le operazioni prima del 4), prendere cosí al rovescio gli apprestamenti di assedio e caricare i francesi in direzione del Tevere.

Ore e ore a interrogar le carte, ore e ore a studiare il terreno: è lui che stabilisce la disposizione delle forze, è lui che prepara gli ordini di marcia. Mazzini gli rende schiettamente questo onore d'aver lui, lui solo tradotto quel pensiero in un magnifico disegno pratico, dandogli «s'altri non lo rimutava poco prima dell'esecuzione, tutte le possibili probabilità di trionfo».

«Questa idea di una battaglia è nuova», osserva Roselli, che conosce a menadito la storia e la teoria della guerra d'assedio, quando Mazzini lo chiama per sottoporgliene il disegno. «Sarà nuova, ma è adatta alle circostanze», ribatte Mazzini. Roselli aderisce; ma Garibaldi, incaricato di capeggiare l'impresa, s'impone a sua volta al debole condottiero, persuadendolo dell'opportunità di rinunciare alla progettata battaglia campale e d'operare in sua vece una semplice sortita o sorpresa dimostrativa. «Colonnellocosí Garibaldi bruscamente interrompe Pisacane, che è venuto ad illustrargli il primitivo piano d'operazione —, con le nostre truppe sono impossibili le manovre». Pisacane si ritira «mortificatissimo». La notte del 10 di giugno, non appena la sortita s'inizia, fuor di porta Cavalleggeri, basta un modesto allarme per scompigliare le truppe, le quali si ritirano nella piú gran confusione.57

Giorno per giorno, tra episodi mirabili cari alla memoria degli italiani tutti, ma necessariamente vani, la sorte di Roma precipita, mentre Oudinot, con metodica calma, incalza nell'approccio alle mura. Nel tempo stesso Ancona cade, presa dagli austriaci.

30 di giugno, giornata storica: gran rapporto, tenuto da Mazzini, dei generali e capi di corpo. Mazzini prospetta le tre alternative possibili: capitolare, resistere sulle barricate sino all'ultimo sangue, uscir da Roma esercito, governo, assemblea e a marcie forzate piombare in Romagna alle spalle degli austriaci.

Quanto a sé propende per l'ultima. Discussione: i piú inclinano alla resistenza ad oltranza, qualcuno suggerisce di andarsi a serrare in Velletri o in Albano, altri (Pisacane) d'invadere il regno di Napoli per tentar di sommuoverlo; la capitolazione è respinta. Ma l'Assemblea cui compete la deliberazione finale non ha piú il coraggio delle grandi coraggiose risoluzioni; la maggioranza presente che la fase rivoluzionaria è provvisoriamente tramontata in Europa.

È dunque la resa.

Il comando militare si mette in relazione col campo francese, il triumvirato si dimette.58 Cosa accadrà dell'esercito? Confusione tremenda: Garibaldi e Roselli associati nel comando supremo. Il primo, smanioso d'agire, pianta in tronco il collega e con 3000 uomini scelti si getta alla straordinaria avventura Sanmarinese. Gli ufficiali superstiti, adunatisi il 2 di luglio, di notte, ascoltan Pisacane che li incita a chiudersi col grosso dell'esercito nella città Leonina per sostenervi un secondo assedio, ascoltan Sterbini di parer contrario. Roselli ondeggia. Si decide finalmente di uscire da Roma, ma la decisione non viene eseguita.

Dum Romae consulitur, i francesi procedono (la mattina del 3) all'occupazione dell'Urbe. Con imperturbabile solennità l'Assemblea, riunita per l'ultima volta, vota intanto la definitiva costituzione dello Stato. E allora, abbattuto il governo, intimata dai francesi l'uscita da Roma ai militari «stranieri», all'esercito del Roselli non resta che l'auto dissolvimento, preceduto da una solenne protesta, firmata da tutti gli ufficiali, «contro la violenza che ha abbattuto il governo della Repubblica Romana sorto dal libero voto del popolo, durato nel perfetto ordine civile, e fatto sacro dal sangue versato per difenderlo».

Il giorno 4 s'inizia l'esodo dei non romani da Roma, per terra, per mare, diretti i piú fuori d'Italia molti anche in Piemonte, l'unica terra che abbia serbato e s'affidi alla libertà costituzionale: triste viaggio quello che da Roma caduta, per Civitavecchia base francese, e Livorno gremita d'austriaci, conduce a Genova pur mo' domata nei suoi fremiti repubblicani e autonomistici; e come triste l'esilio in posti ospitali e liberi, , ma che senza accennare a protesta hanno assistito alla grande ingiustizia di Roma!

Si andavano spengendo cosí gli ultimi bagliori di quel fuoco meraviglioso che, troppo improvviso e troppo splendido, era guizzato sui primi del '48, e che ora la dura lezione dei fatti e la dimostrata immaturità delle pur meno ardite speranze parevano aver soffocato per sempre.

Anche Pisacane se ne va, non senza prima aver sostenuto in Castel S. Angelo alcuni giorni di detenzione. Forse, contando sull'ascendente che il suo nome e il suo grado esercitavano sui suoi commilitoni, aveva deliberatamente violato l'ordinanza oudinottiana per lo sgombro da Roma entro il 4 di luglio, nella speranza di effettuare, d'accordo con Mazzini che si teneva ancora in città, qualche disegno non grato ai francesi. Oppure incappò prosaicamente in qualche disposizione di polizia come quella, del 12 luglio, che vietava in Roma ai non francesi l'uso dell'uniforme militare?59 Potrebbe anche darsi che non avesse ancora risolto dove recarsi: certo è che in un primo tempo sollecitò il rilascio di un passaporto per l'Inghilterra e da Mazzini biglietti di presentazione per i suoi amici inglesi (uno dei quali, assai lusinghiero per lui, ci è stato conservato)60; ma poi, liberato dal carcere mercè le premure di Enrichetta, si risolse a tornare verso la già nota e già cara, ed ora nuovamente gremita d'esuli italiani, terra di Svizzera.

Il 30 di luglio in compagnia dell'ex triumviro Saliceti e del Galletti, la coppia Pisacane — mi pare di poterli ormai chiamare cosísbarcava a Marsiglia.






p. -

35 La data di arrivo di P. a Roma si ricava dal Mon. Romano, 12 marzo 1849, nella rubrica Arrivi: «P. Carlo, napoletano, capitano, da Livorno».



36 Sulla nomina dei membri della Commissione di guerra v. VECCHI C. A., lettera al padre 17 marzo 1849. V. dice P. «amico mio e del Mazzini, nostro da piú anni». Nella votazione che seguí all'Assemblea, sui nomi dei Commissari proposti, P. ottenne, numericamente, il secondo posto, con 113 suffragi su 125 votanti. Primo riuscí il Giusti (Mon. Romano, 18 marzo 1849).



37 Nei Saggi, I, 100, P. illustra l'audace piano.



38 Il nome di Mezzacapo quale condottiero dell'esercito romano sul Po venne per altro suggerito, a quanto pare, da P. Stesso (MAZZINI, Ricordi su P.).



39 Tra le forze che affluiscono a Roma in aprile si nota una compagnia di quel 22° fanteria, Divisione Lombarda, cui P. ha appartenuto.



40 Di P. membro della Commissione di guerra scriveva Mazzini nei Ricordi: «Se le di lui cure attive non avessero apprestato materiali alla difesa, i generosi propositi di Roma sarebbero forse stati strozzati in sul nascere». E in un altro punto: «L'unità dell'esercito, l'abolizione in esso di ogni privilegio e disuguaglianza, il miglioramento degli elementi direttivi, il concentramento... furono opera in gran parte di P.».

Critiche acerbe alla Comm. di guerra sollevò Garibaldi, e dietro a lui i suoi biografi e apologisti. S'intende che Garibaldi fremesse di dover sottostare agli ordini di una Commissione; ma un esame rigoroso dell'attività svolta e delle direttive emanate dalla Comm. medesima non sembra giustificare tali critiche. Il piú grave appunto mosso da G. alla Comm. fu quello di non avergli permesso di eseguire, sui primi di aprile, una puntata offensiva in Abruzzo; ma, considerate le poche forze che erano allora a disposizione di G., pare a me che la Comm. agisse in quell'incontro assai saviamente! — Altre critiche alla Comm. di guerra sollevò tra gli altri il GABUSSI, 190.



41 La prima sezione dello Stato Maggiore era la piú importante, in quanto incaricata della «riconcentrazione di tutti i rapporti delle diverse sezioni ed emanazione degli ordini» (Mon. rom., 27 aprile 1849). Nella sua nuova qualità, P. aveva tra gli altri, alle sue dipendenze, Mameli, Bixio e Vecchi.



42 Il merito di P. nel successo del 30 di aprile vien sottolineato dagli anonimi autori del Cenno premesso ai postumi Saggi di P.; e si sa che sotto il velo dell'anonimo si nascondevano nomi di militari esperti e informatissimi come Cosenz, Carrano e Mezzacapo.



43 Il Comitato di Signore iniziò la sua attività il 26 di aprile indirizzando un Manifesto alle donne romane, che recava tra le altre la firma di «Marietta Pisacane - Al Corso rimpetto al palazzo Chigi n. 192» (Mon. Rom., 27 aprile 1849).



44 qui per disteso la Relazione di Enrichetta, considerando che di lei non altro scritto ci resta, all'infuori di poche lettere, una delle quali non eccessivamente lusinghiera per lei. «Se lode meritaronsi i prodi che a fianco del primo Reggimento di Fanteria di Linea, loro vita esposero nella memorabile giornata dei 30 Aprile contro lo sleale straniero, non minore devesi a quei Cittadini di quest'alma Città che tanto cooperarono col loro zelo e colle loro premure per il sollievo de' propri fratelli combattenti: e valgano fra i molti fatti questi di cui fu spettatrice l'ambulanza del primo Reggimento suddetto. Erano già i prodi militi attaccati in piú punti, fra i quali a Porta S. Pancrazio, ove vivo il fuoco si faceva sentire nelle ore piú calde del giorno. Molti e molti trasteverini si presentarono alla retroguardia ed agli avamposti, dimostrando il piú vivo desiderio di dividere i pericoli con noi, ed esternando un marcato dolore che non vi fossero piú armi da poter loro distribuire onde, inermi quali erano, si posero fra le nostre file per essere pronti a trasportare quei prodi che rimanevano morti o feriti sul campo dell'onore. Accorgendosi poi che momentaneamente mancava alla truppa vino per dissetarsi, ne prevennero il bisogno coll'apprestare istantaneamente vino e pane; cosa che alleviò moltissimo i nostri defaticati soldati, che ne esprimono la piú viva gratitudine. Le donne incoraggiavano i fratelli e i mariti ad essere pronti a prestarsi per noi; ed esse stesse gareggiavano con loro per coadiuvarci in qualche cosa. L'ambulanza suddetta trovavasi allo scoperto sulla Piazza delle Fornaci in prossimità della porta anzidetta, quando venivano portati varj feriti, ed il tempo sembrava minacciare pioggia. Una tale situazione commosse le donne del vicino Conservatorio Pio, che spontanee apersero il loro parlatorio ed andito, con tre o quattro ambienti forniti di letti e materassi e di ogni occorribile; ed avresti detto che il tutto fosse stato preparato da lungo tempo tanta ne fu la sollecitudine nel far ritrovare tutto ciò che abbisognava. Quivi non pochi feriti vennero con ogni comodità curati, e quelle donne divisero l'assistenza coi curanti, dimostrando in ogni atto quanto caritatevole e sensibile fosse il cuore di quella comunità. Lode adeguata e lode eterna ai valorosi figli del Gianicolo: lode a quelle donne cristiane che sentono il primo de' doveri del Divin Maestro, la carità cioè ed il soccorso a chi soffre. Serva tutto ciò di sprone a qualcuno, se ancora fosse restío alla già incoata salute della Eterna Città».



45 Delle cure da Enrichetta prestate in Roma al ferito Teodoro Pateras tenne memoria essa stessa nell'Album del Pateras, due anni appresso. (FALCO).



46 L'ufficiosa Relazione della campagna militare nello Stato romano fatta dal Corpo napoletano l'anno 1849, stesa dal D'AMBROSIO (Napoli, 1851) riduce a dir vero le forze napoletane a poco piú di 8000 uomini.



47 Sull'attività di P. quale presidente del Consiglio di guerra si v. il Mon. Rom., dal 5 al 22 maggio 1849. Il Cons. di guerra durante questo periodo pronunciò, tra le altre, due condanne a morte, che il Triunvirato poi si affrettò a commutare. Il 22 maggio P. e gli altri membri del Consiglio vennero sostituiti perché «assenti e presso il corpo di operazione».

Su P. presidente della Commissione per le requisizioni v. ancora il Mon. Rom., 7 maggio 1849. P. vi pubblicava un suo ordine del giorno del 6 maggio, che cosí esordiva: «Infiniti ed inconcepibili abusi e bassezze, commessi da taluni nelle requisizioni degli oggetti pel servizio della Repubblica, ci obbligano a provvedere energicamente per scoprire il triste che vestito di arbitraria missione, che dovrebb'essere santa come il suo scopo, approfitta della urgente bisogna di questi solenni momenti per adempire a delle particolari mire di cupidigia, e manomettere, cosí rendendo grave e dannoso il savio provvedimento del vigilante, dell'operoso, del giusto». Gravi pene eran comminate a questi prevaricatori.



48 Sui rapporti fra P. e Roselli da un verso, Mazzini dall'altro, scriverà P. nell'articolo del 1853 su La Voce della libertà: «Non mi diressi mai al generale Rosselli, ma sempre al triumviro Mazzini, e perché questi mostrava accettare con piacere le mie idee, e perché allora sentiva per esso sincera ed affettuosa amicizia, e perché il triumvirato suppliva in parte, con la sua autorità, al difetto di disciplina dell'esercito».

Il Trusiani, rispondendo a questo articolo, insinuò che P. lo avesse scritto unicamente per soddisfare alla sua smoderata ambizione; della quale gli pareva prova lampante l'asserzione di alcuni amici suoi «che quando furon promossi generali i colonnelli Mezzacapo, Haugh e Milbitz, il P. cessò di colpo dall'andare al quartiere generale, a rischio s'incagliassero gli affari, e mandò al generale supremo un foglio di rinunzia alla carica di capo di Stato Maggiore». Superfluo aggiungere come tale asserzione, che neanche il Roselli, interpellato, si sentí di confermare, resulti pienamente infondata.



49 Intorno ai motivi della ritirata napoletana, ragionevolmente osservava P. al fratello, il 18 settembre, che se i borbonici si eran ritirati per volontà loro, ciò «è credibile, ma ti assicuro che è un genere affatto nuovo di tattica che forse sarà tutto vostro... Si cambia politica col nemico a fronte? Eravate venuti per attaccarci nello Stato, perché ritirarvi al nostro avvicinarsi



50 Sull'azione personale svolta da P. sotto Velletri v. la sua lettera 18 sett. 1849, cit., al fratello.



51 È di Mazzini l'osservazione che la mossa di Garibaldi impedí l'esecuzione della contromarcia su Cisterna. Ma si osservi che Garibaldi agí la mattina del 19, quando il grosso delle forze romane non si trovava davvero in procinto di iniziare la marcia. Ci assicura inoltre il D'AMBROSIO, che il comando napoletano aveva previsto il movimento romano ed era pronto a contrastarlo energicamente.



52 Scrive ancora lo Hofstetter che i componenti lo Stato Maggiore romano «suggerivano o sconsigliavano, senza precedenti accordi tra loro, secondo che l'aura del momento veniva in ciascuno d'essi soffiando» (90). All'Hofstetter e al suo libro dedicò P. poche sdegnose parole nel suo articolo su La Voce della libertà. H. «non fu che un partigiano, e come tale scrisse; ed i libri scritti con ispirito di partito non si confutano»; onestamente aggiungeva però che «quel libro può essere utile a qualche cosa, a porgere qualche dettaglio del servizio del fronte attaccato, sceverandolo sempre da ciò che riguarda personalmente l'autore».



53 TORRE, II, 129, accentua le responsabilità di P. riguardo al cattivo funzionamento dei servizi.



54 Sui rapporti fra P. e Garibaldi durante la repubblica romana; V. LOEVINSON, passim. Significativa fra tutte la lettera di P. a Garibaldi, probabilmente del 9 aprile (ivi, III, 212-213): «La sua soverchia suscettibilitàcominciava P. — Le ha fatto credere un'offesa quello che la Commissione di guerra ha esposto»; e concludeva: «Sono troppo noti i suoi sentimenti patriottici. Ella è troppo apprezzata dal governo della repubblica per dubitare dell'interesse che si attacca alla sua persona ed al suo corpo. Le raccomandazioni per la disciplina sono conseguenza del desiderio che si ha di rendere (il corpo) di partigiani amato in ogni paese, giacché su tale corpo da Lei capitanato è fondata la parte principale del piano di difesa».

Sulla sua esperienza di Capo di S. M. scriverà piú tardi P.: «In Roma mi trovai ad un posto contrario al mio carattere, alle mie naturali inclinazioni; ho abborrito sempre le cancellerie; avrei le mille volte preferito il comando di un battaglione. Subii la mia posizione, e mi tenni strettamente fra i limiti delle mie attribuzioni; fui quale doveva essere, con espressione oltremontana, l'homme du général en chef. Amatore di disciplina, l'osservai per primo. Nei dettagli del servizio emetteva, come era mio dovere, la mia opinione, poi mi uniformava alla parte di esecutore d'ordini» (artic. su La Voce della libertà).



55 La carica della cavalleria borbonica contro l'avanguardia romana era stata cosí impetuosa che lo stesso Garibaldi, è noto, corse serio pericolo della vita.

Nella lettera al fratello, 18 sett. 1849, P. contesta che Garibaldi, sul cui valore di generale egli pure non si fa grandi illusioni, sia mai stato fugato dal corpo napoletano.



56 Sulla carriera di Filippo Pisacane, cfr. BUTTÀ, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, II, 113 e DORIA, Un re in esilio, Bari, 1930, 6, 74. Filippo partecipò alla campagna del '60 e seguí poi re Francesco a Roma, ottenendone nel '61 un sussidio; piú tardi, sempre in Roma, lo si trova citato quale padrino in un duello tra ufficiali.



57 Che non fosse troppo opportuna, dal punto di vista del rendimento effettivo, la tattica garibaldina dei frequenti piccoli scontri durante l'assedio, riconosce lo stesso Vecchi, pur fedelissimo del generale (La Italia, 463). Gabussi reca particolari intorno all'urto fra P. e Garibaldi verificatesi in occasione della progettata azione del 10 di giugno (437).

Il 27 di giugno il Mon. Rom. stampa una breve relazione sui fatti del 26 e 27 a firma di P. Lo stesso giorno P. venne incaricato di sostituire Manara, indisposto, quale Capo di S. M. di Garibaldi. Ciò resulta da lettera in pari data di Mazzini a Manara appunto. E poiché Mazzini raccomandava: «Spero del resto che voi e P. v'intenderete benissimo. P. è giovine di core e di mente; ed ama il paese innanzi tutto. Siete dunque fatti l'uno per l'altro», Manara gli rispondeva: «Ho parlato con P.; siamo perfettamente d'accordo. Animati ambedue dal medesimo spirito, è impossibile che tra noi possano essere false gelosie. Statene certo».



58 La squisita cortesia formale conservata da parte francese e romana nei rapporti ufficiali, pur nei giorni piú accaniti di lotta, suona quasi ridicola. Il giugno Oudinot, si è detto, comunica il differimento dello «attacco della piazza sino a lunedí mattina per lo meno». Il 13 giugno i triumviri chiudono una loro comunicazione a Oudinot con «l'assicurazione della nostra distinta considerazione». Rosselli da parte sua abbonda ancora di piú: «Non sono che i bravi quelli che sono degni di stare a petto de' soldati francesi... Vi desidero salute e auguro fratellanza...», scrive al suo avversario quel giorno stesso!



59 Della detenzione di P. non si seppe mai la causa vera, scrivono gli autori del Cenno premesso all'ed. originale dei Saggi, che pure erano intimi di P.

Nell'articolo su La Voce della libertà P. afferma che, entrati i francesi a Roma, giuocoforza gli fu rassegnarsi «all'umiliante condizione di ragionare col nemico; piú di una volta fui obbligato di portarmi al suo quartier generale, e ne trassi poche simpatie. Sciolto l'esercito, rientrato nella vita privata, venni arrestato e condotto in Castel S. Angelo».



60 Il biglietto di Mazzini (a Emilia Hawkes, 10 luglio 1849) cosí si esprimeva: «P. è un amico, uno dei nostri. È stato capo di S. M. nel nostro esercito romano, e si è comportato coraggiosamente e patriotticamente. A me piace moltissimo, e sono certo piacerà a voi. Volete presentarlo a tutta la vostra famiglia, e a tutti gli amici che possono riuscirgli utili? Egli deve naturalmente cercarsi un'occupazione, ed è degno di trovarla sia come ingegnere, sia altrimenti. So che questo è assai difficile; vale tuttavia la pena di tentarlo».

 

Capitolo V





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