Nuovo riflusso dell'ondata migratoria
italiana, nella seconda metà del '49: si diffonde fra gli
esuli uno stato d'animo di febbrile impazienza, un intenso bisogno
d'operosità, e quell'inquietudine propria di chi avendo
assistito all'inaspettata realizzazione dei propri ideali politici e
poi al loro brutale soffocamento, attribuito a cause esteriori,
logicamente attende l'inevitabile riaprirsi della crisi. È una
minoranza sceltissima che lascia l'Italia e che al trionfo, pur
variamente prospettato, della causa nazionale, pospone e sacrifica
ogni considerazione di vantaggio individuale o familiare. Uomini
ostinati e decisi: ben pochi, è vero se paragonati alla gran
massa degli acquiescenti, pochi, comunque, che non «molleranno»
mai. Il che permise, si sa, ai sostenitori impenitenti dello statu
quo italiano di inferire che senza qualche migliaio di intriganti
riottosi il nostro paese sarebbe stata la piú pacifica terra
del mondo; ma valse d'altronde a consacrare agli occhi dei
conterranei e d'Europa una causa che doveva pur trovare la sua
giustificazione nelle ragioni profonde della vita italiana, rivestire
certo carattere di assoluta irresistibilità, se una volta
penetrata di sé la volontà di questa minoranza
d'uomini, tra i piú colti e riflessivi e preparati e moderni
d'ogni provincia italiana, poteva assorbirne ogni facoltà a
tal punto da non conceder loro piú mai d'avere altra cura,
altro pensiero, altra speranza che in essa e per essa.
I piú, come l'anno innanzi,
riparano in Isvizzera; molti forse obbedendo all'ingenuo eppur tanto
comprensibile desiderio di non lasciarla troppo, l'Italia, che troppo
spazio di cielo, troppa difformità d'idioma e di costumi non
si frappongano fra loro e l'Italia. Eppure, non è piú
l'estate del '48, quando, per tanti segni evidenti, si rivelava
imminente agli esuli la possibilità del ritorno. Ora, da un
capo all'altro della penisola, l'orizzonte è abbuiato; due
anni di lotte, dopo aver tutto sconvolto, non hanno giovato in ultima
analisi a mutare d'un palmo la carta d'Italia. Ora, è l'esilio
per davvero. Ma l'illusione regna benefica fra gli emigrati.
Poveri quasi tutti, affittano
stanzucce mobiliate a Losanna, a Ginevra, a Lugano, a Capolago, a
Locarno;61 molti s'aggruppano, per paesi d'origine e piú
per concordanza d'idee, in una stessa casa o alla stessa mensa,
assieme discutendo il recente passato, leggendo gli stessi libri e
giornali e riviste, arrabattandosi a scovar lezioni o impiegucci
provvisori o traducendo o scrivendo. I giorni di festa si ritrovano
in brigata in qualche casa ospitale, o alla Castagnola dai
Cattaneo, o a casa Airoldi da Grillenzoni, o presso il poeta
Dall'Ongaro.
Piú
tardi, quando il colpo di stato napoleonico avrà disperso
fuori di Francia gli oppositori democratici, molti di costoro
affluiranno in Isvizzera: nomi ben noti ai liberali d'Europa, nomi di
scrittori celebri, di giornalisti, di combattenti, saliti ai bagliori
della ribalta nel '48; e allora frequenti ritrovi presso costoro,
come già presso i profughi delle insurrezioni tedesche, e
amicizie salde e speranze comuni che nascono fra i proscritti, ai
quali s'aggiungono esuli polacchi e russi e ungheresi: imagine
vivente, tutti assieme, di quell'internazionalismo che i piú
tra questi patriotti sognano come fine ultimo e logico sbocco della
lotta per la libertà delle nazioni. I fuorusciti di Roma, di
Venezia, di Napoli, che pur già dalla rovina dei sogni
quarantotteschi hanno cominciato ad apprendere la necessità di
un'impostazione italiana e non piú regionale del problema
politico, constatano adesso non esser questo che un particolare
aspetto d'un vasto problema europeo. Il trionfo o la perdita della
democrazia in Francia o in Russia o in Ispagna è trionfo, è
lutto per la democrazia europea. La libertà è una, la
battaglia vòlta alla sua conquista ha piú fronti, ma un
esercito solo.
A Losanna, sulle sponde del lago, si
riuniscono a vita comune in una modesta villa (Montallegro) Mazzini,
l'ex triumviro Saffi, Mattia Montecchi, piú tardi il veneziano
Varè62; brevi soggiorni vi fanno Filippo De Boni e
Maurizio Quadrio, per qualche giorno v'abita lo stesso Pisacane,
fissatosi da prima a Ginevra63. «Da sessanta a settanta
franchi al mese per testa — racconta il Saffi — bastavano
al nostro mantenimento... Spendevamo la giornata a scrivere
articoli..., a tener viva una vasta corrispondenza epistolare, a
promovere, per quanto dipendeva da noi, l'ordinamento della parte
nazionale all'interno e fra gli esuli. Le prime ore della sera erano
date al conversare, a ricevere amici, al giuoco degli scacchi, di cui
Mazzini molto si dilettava...» E Mazzini, di Pisacane: «Ci
ricongiungemmo a Losanna dove io lo vedeva ogni giorno, sereno,
sorridente nella povertà, com'io l'aveva veduto in mezzo ai
pericoli».
Due grandi iniziative editoriali,
accanto ad altre piú modeste (tale il foglio luganese il
Repubblicano) dànno lavoro e retribuzione, pur esigua,
ai piú colti fra gli esuli: l'una, varata dal Cattaneo, ahimè
ben presto troncata da meschine difficoltà materiali, è
l'Archivio triennale delle cose d'Italia dall'avvenimento di Pio
IX all'abbandono di Venezia,64 una raccolta cioè
di testimonianze immediate intorno a episodi del '48-'49; la seconda,
mazziniana, è una rivista di studi politici-militari, che
continua nel nome — Italia del Popolo — il foglio
repubblicano stampatosi per qualche mese a Milano nel '48. Gli
scrittori son tutta gente che ha molto veduto e fatto e sofferto, in
Italia, negli ultimi mesi.
Libri, riviste, opuscoli si spacciano sul luogo, ma soprattutto si
mira, attraverso a mille costosi e rischiosi accorgimenti, a
spargerli in Italia, e dovunque in Europa sono emigrati italiani, a
dispetto delle polizie, come sempre incapaci a impedire la diffusione
del libero pensiero.
Segno di declinante fiducia
nell'azione questo scriver di storia, questo riandar criticamente il
recente passato? Non sembra; ché dagli sforzi riuniti di
quegli esuli, buoni a menar la spada a suo tempo (e lo avevano, uno
per uno, brillantemente mostrato) e ora la penna, uscí un
insieme di scritti che giovò immensamente a dare agli italiani
la fondata coscienza del loro diritto alla libertà e
all'autogoverno: prologo indispensabile a un'azione risolutrice.
Pisacane che a Roma è stato,
piú che del Roselli, il Capo di Stato Maggiore di Mazzini,
diventa ora l'autorizzato critico e storico militare dell'Italia
del Popolo. Esordisce anzi fin dall'agosto con due scritti che
vengon stampati come opuscoli, in attesa che la rivista inizi le sue
pubblicazioni: un Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma
dalla salita della breccia al dí 15 luglio 1849 e una
curiosa Lettre du Chef de l'état major de l'armée de
la république romaine au géneral en chef de l'armée
française en Italie. Il Cenno, composizione di mera
cronaca, non offre oggi alcun speciale interesse; la Lettre
invece è documento tipico della mentalità pisacaniana.
L'Oudinot,
sbarcando sul suolo romano, aveva preteso, s'è visto, che Roma
aprisse fidente le porte alle sue truppe, accorse — cosí
diceva — a far atto di «fraternità».
Giustamente respinto, s'era mostrato qual era: nemico implacabile e,
quel che è peggio, fedifrago; ora, domata Roma, osava
seguitare in piena mala fede a deplorare la «inaspettata»
necessità nella quale si era trovato di penetrare nell'Urbe
con la forza dell'armi. Bisognava inchiodare alla gogna della sua
dimostrata doppiezza questo messere, violatore d'ogni norma di buona
guerra. Ed ecco la bellissima lettera, fremente di sdegno, grido di
protesta di un militare sollecito dell'onor militare contro chi lo
trascinava nel fango. Perché evitava costui di precisare i
termini della missione Lesseps? Perché non confessava al mondo
che il potente governo francese s'era servito d'un inganno volgare
per penetrare in Roma? Due mesi per impadronirsi di una città
aperta! E il vergognoso rovescio del 30 di aprile, bella gloria
davvero per l'«eroe» di Roma!
Ultima parte, la meno buona: avesse il
comando romano seguito i consigli suoi, di Pisacane, allora sí
che l'Oudinot avrebbe a proprie spese imparato quanto mai ingrata e
pericolosa si fosse l'impresa di assalire un popolo intero deliberato
a difendere la sua libertà. Dove lo scrittore dimenticava due
cose: la prima che i nemici si vincono in campo e a nulla giovano,
deposte le armi, le postume rivelazioni, i cavilli e le bravate; la
seconda che era ancora un po' presto per arrischiare il computo dei
meriti e delle responsabilità della difesa di Roma e che,
comunque, non proprio a lui, ex capo di S. M., toccava aprire il
torneo delle recriminazioni dando addosso a superiori e a colleghi, e
attribuendo col senno del poi ai suoi inascoltati pareri tutte quelle
probabilità di successo che sembran sempre arridere alle
iniziative inattuate. Petulanza e superbia che gli procurarono
inimicizie accanite e, peggio ancora, freddezza di amici provati.
Giusto è però concedergli le circostanze attenuanti:
ché a principiar da quella estate si verificò un vero
diluvio di pubblicazioni, nelle quali ogni capoccia vero o preteso
d'insurrezioni, ogni caporalaccio di truppe, ognuno insomma che nel
biennio non avesse assolutamente tenuto le mani incrociate sul petto,
magnificava quel che aveva fatto e veduto e detto e profetato,
ciascuno sentenziando che se si fosse dato retta a lui l'Italia una
sarebbe stata a quell'ora un fatto compiuto e assestato.
Meridionale, colonnello a trent'anni,
come poteva Pisacane, imperversando l'epidemia, salvarsi dal
contagio?
Il suo contegno, d'altronde, era anche
determinato da necessità di legittima difesa. Se egli non
perdonava agli avventurieri della guerra (tipo Garibaldi) e ai
pedanti militari di vecchio stile (tipo Roselli), questi due, e altri
molti, non la perdonavano a lui, che nel disimpegno dei suoi uffici
romani aveva con la sua rigidezza, s'è visto, irritato e
superiori e inferiori. Ripicchi che si rinnovano sempre all'indomani
di un grande insuccesso: schiuma residua della mareggiata.
Un passo di una lunga lettera diretta
nell'autunno del '50 da Enrichetta a Pisacane illumina vivamente
questo stato di cose: «L'altra sera passeggiando» —
cosí ella scriveva — «ebbi una lunga discussione
col Boldoni» (l'antico compagno della Nunziatella, poi
tra i difensori di Venezia), «il quale diceva che tutti quei
che erano stati a Roma non avevano data alcuna prova di abilità;
che il solo Garibaldi era comparso e si era fatto amare e che aveva
un partito fortissimo in Italia... e tante bestialità simili.
È proprio un asino! Io a tutti quei che vengono qua e che
hanno qualche merito, cerco indagare ciò che si dice di te, ed
ho trovato in tutti che dicono avere tu i difetti ch'io ti trovai
allora, cioè fosti debole nel non rinunziare ad incarichi che
ti venivano affidati, e che non potevi disimpegnare come avresti
voluto, cioè, l'essere sostituito con Avezzana, capo di Stato
Maggiore con Roselli. La generalità dei capi dei corpi di Roma
che sono tutti qui, attribuiscono a tua incapacità di poter
fare il capo dello Stato Maggiore e che non sapevi consigliare
Roselli. Dicono che avevi esitazione nel dare gli ordini, e che
spesso li cambiavi. Insomma io speravo almeno che tu fossi restato
oscuro, ma invece ti dànno molti torti che non hai. Spero non
ti dispiaccia ciò ch'io ti dico». Speranza assurda: non
era umano che a Pisacane dispiacesse moltissimo, che ne rimanesse
offeso e ferito e che abbondasse nella controffensiva?
Ma alla sua guarigione da certe ubbie,
da certe smanie di grandezza giovò non poco, di certo, la
vicinanza di Mazzini, il quale — di ben piú alto e
generale riconoscimento meritevole che non spettasse a lui —
pur vilipeso nelle polemiche partigiane, calunniato, in cento modi
avvilito, di ciò noncurante, si mostrava assai piú
sollecito del nuovo che di battagliar sul passato. A poco a poco, con
molta solitudine e molta riflessione, e soprattutto con l'acquistar
l'abitudine di quelle sode letture che agli uomini d'ingegno
insegnano infallibilmente a paragonare il poco che sanno col troppo
che ignorano e quindi a rispettare opinioni e attitudini discordi
dalle proprie, le asprezze e intolleranze del carattere di Pisacane
s'andarono attenuando, e con esse quella esagerata e quasi morbosa
preoccupazione dell'io di cui egli allora cosí
intensamente soffriva.
Otto furono gli articoli che Pisacane
dal settembre 49 al luglio '50 pubblicò sull'Italia del
Popolo: articoli di varia dimensione e importanza, ma che a
rileggerli rivelano tutti, nella concisa sobrietà della forma,
nella risoluta enunciazione del pensiero sempre scheletricamente
chiaro, nella precisione degli appunti critici, una mente matura ed
equilibrata, particolarmente inclinata, s'intende, alla trattazione
delle piú diverse questioni in qualche modo connesse con la
scienza e la storia della guerra. Il primo fu La Guerra Italiana,
indagante le probabili vie della soluzione del problema italiano.
Questa, per Pisacane, dipende indubbiamente dall'esito di un
formidabile conflitto, ch'egli presente vicino a scatenarsi nella
penisola tra forze liberali e forze dispotiche, tra quelle italiane
cioè e quelle straniere o legate a interessi stranieri;
bisogna dimetter l'idea che il Piemonte possa costituire, con la sua
azione supposta a beneficio di tutti, un diversivo da questo binario
obbligato. Chi sappia infatti non lasciarsi abbagliare dall'equivoco
costituzionale constaterà che in Piemonte le cose non si
presentano diversamente che nel resto d'Italia: anche lí una
stragrande maggioranza assetata di libertà è oppressa
da una minoranza dispotica. Il problema, seppur con carattere
d'urgenza maggiore o minore, si presenta identico nella penisola
tutta. Orbene, posta l'innegabile preponderanza numerica delle forze
inclini a libertà sulle oligarchie di governo, l'esito del
conflitto offre una sola incognita: la maturità rivoluzionaria
delle prime, e cioè il grado di risolutezza con la quale nel
momento decisivo esse sapranno gettarsi all'azione. Con l'esperienza
che gli viene dal conoscere appieno sentimenti e aspirazioni dei
popoli napoletano, lombardo, piemontese e romano, Pisacane ritiene
per certo che la «rivoluzione morale» sia già
compiuta in Italia: al cui avvenire è lecito dunque guardare
con assoluto ottimismo.
Ma nel conflitto quali saranno le
forze operanti italiane? Semplicissimo: i due eserciti piemontese e
napoletano, i quali finora obbediscono ai rispettivi sovrani ma che
nel dí della lotta, ricordando d'esser fatti di popolo,
volgeranno certamente le armi contro il comune nemico; dietro ad essi
si affolleranno le moltitudini, insorte progressivamente a principiar
dal mezzogiorno d'Italia (dove piú diffuso e sentito è
il malcontento)65 su su fino al nord. Le forze avversarie,
inoltrandosi nella penisola, saran costrette dall'Appennino a
sdoppiarsi; e sarà proprio là, allo sbarramento
appenninico, che la battaglia dovrà essere imposta; le
insurrezioni a catena, dilatandosi nel bacino del Po, serreranno il
nemico in una morsa di ferro.
Ottimismo esagerato, d'accordo. Ma
l'articolo era importante non tanto per le sue conclusioni
discutibilissime quanto per le premesse: non accadeva infatti tutti i
giorni che un «rivoluzionario» impostasse il problema
italiano in termini di tanta chiarezza staccandosi dalla consueta
falsariga della vecchia propaganda insurrezionistica, che faceva
sempre discorsi generici e troppo fidava, ammettendo l'insurrezione
scoppiata, nelle capacità improvvisatrici del popolo in
rivoluzione o nella divina provvidenza. Era, quello di Pisacane, un
bilancio di forze che nel suo semplicismo noi oggi tacciamo
d'erroneo; il suo merito, per altro, stava in ciò che esso
dimostrava la necessità che bilanci preventivi si tentassero e
che ogni voce ne venisse rigorosamente controllata. Gran passo
innanzi, poi, che un militare, dal suo punto di vista sottolineasse
la possibilità e la eseguibilità dell'idea mazziniana
d'una rivoluzione integrale e sopraregionale.
Dall'articolo, che confidava la
liberazione d'Italia non piú alla miracolistica azione d'un
dei suoi Principi, ma alla volontà rivoluzionaria dell'intero
popolo italiano, balzava dunque l'indicazione di una duplice azione:
propaganda insurrezionale in tutta la penisola e particolarmente
nelle Due Sicilie, da un verso; neutralizzazione della propaganda
piemontese, dall'altro. Ai quali imperativi Pisacane obbedirà
strettamente negli anni avvenire. L'idea dell'iniziativa dal sud, in
special modo, diverrà la sua fissazione: è vero che
essa s'andava allora accreditando anche indipendentemente da lui
nell'ambiente mazziniano66, ma Pisacane lo sentiva, ci
credeva, v'era portato per istinto profondo piú di chiunque
altro. Fin dal settembre di quell'anno, ad esempio, volle entrare in
corrispondenza con Nicola Fabrizi, meridionale anche lui, che era
come il padre spirituale di ogni manifestazione italiana nel
mezzogiorno della penisola: Fabrizi concordava appieno67. Ma
perché quell'idea potesse diffondersi dappertutto in Italia
era necessario dapprima purgare da molti preconcetti e diffidenze
antimeridionaliste gli italiani del resto d'Italia: come distruggere
ad esempio l'esosa leggenda che circolava a danno dei meridionali
(napoletani e siciliani in un mazzo) essere il loro carattere molle e
arrendevole, atto a prorompere sí, ma non a resistere; o
l'altra della loro pretesa incapacità congenita a uno sforzo
concorde?
Era stata allora allora pubblicata una
relazione sulla campagna del '49 in Sicilia nella quale l'autore, ex
aiutante di campo del generale Mieroslawski, aveva tranquillamente
attribuito la colpa del disastroso esito delle operazioni agl'isolani
indisciplinati e indolenti e al loro rovinoso governo. Pisacane, cui
pure non era sfuggito il carattere deplorabilmente piú
antinapoletano che italiano, piú autonomistico che democratico
della rivoluzione siciliana, colse la palla al balzo; e in un nuovo
articolo dell'Italia del Popolo, in mezzo a censure e sarcasmi
all'indirizzo dell'infausto condottiero polacco, che con la sua magra
scienza avrebbe condotto alla sconfitta non pure i siciliani ma il
piú bellicoso popolo del mondo, tracciò un magnifico
elogio morale e politico dei meridionali in genere, sottolineando la
continuità e l'eroicità del loro sforzo per
conquistarsi libere istituzioni. Poteva dirsi altrettanto d'altri
paesi piú settentrionali, signor Mieroslawski?
Ma anche l'antipiemontesismo ebbe
Pisacane, da allora in poi, milite attivo e accanito. Quella formola
«lasciar fare al Piemonte» in nome della quale troppa
gente da troppo gran tempo andava ponendo bastoni nelle ruote a chi
intendesse suscitare un rivolgimento originale italiano lo
imbestialiva infatti al di là di ogni dire e gli strappava le
piú veementi proteste. Poste le sue premesse ideali, non era
logico d'altronde che la quiete e la relativa floridezza delle quali
godeva il Piemonte venissero da lui considerate come un'insidia
all'avvenire d'Italia? A Giuseppe Montanelli che nel '49, esule in
Isvizzera, andava tessendo le lodi del Piemonte costituzionale, un
«eccellente repubblicano» ribatté «che la
sopravvivenza dello Statuto piemontese era, a senso suo, di tutte le
nostre disgrazie la maggiore, e bisognava desiderare che cadesse e
cadesse presto, affinché l'Italia fosse adeguata allo stesso
livello»68. Era Pisacane costui? Il Montanelli non
dice: certo, eran quelle le idee di Pisacane. Alle quali, sí,
la storia ha dato torto; ma, oltre che le opposizioni giovano sempre
ai governi intelligenti (e il Piemonte lo era assaissimo), è
proprio impossibile oggi riconoscere che, almeno in parte, aveva
ragione Pisacane e con lui i rivoluzionari intransigenti? Lasciamo
andare che l'accentramento monopolistico dell'azione italiana svolto
dal Piemonte impresse una obbligatoria etichetta monarchica al
processo unitario; ma non è forse vero che esso nel fatto
scoraggiò, e certo non sollecitò in misura adeguata la
pur tanto necessaria collaborazione del popolo italiano alla propria
liberazione? Il Piemonte assicurava sí la probabilità
di una rapida ricostituzione d'Italia, ma questa rapidità era
utile o non piuttosto minacciava di danneggiare il fondamento morale
dell'unità? Probabilmente i responsabili della politica
piemontese non sospettaron neanche che la progressiva
piemontesizzazione delle élites italiane potesse essere
indizio, oltre che di realismo politico, di alquanta timidezza e
neghittosità; che la delega al Piemonte dell'azione italiana
potesse equivalere insomma, nella mente di molti patriotti non
piemontesi, a una specie di gravoso premio di assicurazione che
conveniva pagare pur di sottrarsi ai rischi, alle fatiche, alle
incertezze e lungaggini d'una genuina rivoluzione politica.
Dove per
contro riesce anche oggi difficile seguire piú oltre quei
rivoluzionari si è nel loro considerare decisamente piú
sano il dominio straniero, piú sano l'assolutismo oligarchico
che non la «canzonatura» di libertà rappresentata
dal monarcato costituzionale; poiché, secondo loro,
l'assolutismo se non altro avrebbe eccitato alla reazione e serbato
le popolazioni vive e frementi e potenzialmente almeno padrone del
loro destino; laddove il costituzionalismo, col gabellarle libere e
sovrane, ne avrebbe cloformizzati gli istinti rivoluzionari,
smorzando in esse perfino il desiderio della libertà
integrale. Sí che il liberale vero avrebbe dovuto e dovrebbe
assai piú impensierirsi dell'impianto di un regime, diciamo,
all'inglese, che non del prolungarsi (o stabilirsi) d'un sistema
antiliberale. Paradosso che ormai ha fatto il suo tempo, come quello
che ha condotto molti, in piena buona fede, a farsi alleati della
reazione per soverchio amore di libertà.
Ma fin che Pisacane sosteneva che la
scintilla della emancipazione italiana si sarebbe determinata non già
nelle provincie nelle quali si stava meno peggio e si godeva una
maggior libertà d'azione, ma in quelle piú inermi e
addormentate e oppresse, era nel vero e nel giusto (astrazion fatta,
s'intende, dall'intervento nel giuoco, all'ultimo, di quelle
soluzioni di compromesso delle quali egli, mirando
all'autoliberazione degli italiani, naturalmente non teneva conto). E
che vi fosse in questa sua opinione buona dose di campanilismo
napoletano, non importa davvero. Urgeva dunque di render consapevoli
le masse dei mali dei quali soffrivano e della possibilità di
rimuoverli. Prematuro sforzo, e in ultima analisi nient'altro che
pretesti offerti al Borbone per nuovi «giri di vite» da
praticarsi sugli infelici regnicoli, protestavano molti. Tanto di
guadagnato: pressione che in una caldaia aumenta oltre il normale,
scoppio vicino.
Chiarito l'obbiettivo della
rivoluzione italiana, restava da precisarne il come. È
quel che Pisacane cercò di fare in altri due numeri
dell'Italia del Popolo (settembre-ottobre) col saggio La
scienza della guerra, mirante non solo a divulgare principii di
strategia e norme tattiche, ma a rimuovere talune delle piú
gravi difficoltà contro le quali generalmente si urtavano i
promotori delle insurrezioni, giovani generosi ma per lo piú
inesperti. S'aveva da tener presente l'esempio di Milano 1848? Era
presto detto: la via da seguirsi era precisamente l'opposta di quella
che allora avean scelta. Del possibile apporto di forze regolari
alleate (ossia di forze monarchiche) si facesse nessun conto; massimo
conto invece dei volontari, i quali andavano accolti con entusiasmo,
ordinati immediatamente, utilizzati al piú presto, aumentati
con ogni mezzo; gli ufficiali si eleggessero dai volontari stessi,
compreso il comandante supremo; l'esercito insurrezionale fosse
mobilissimo, non tentasse — il nemico avanzando — difesa
di piazzeforti o città; evitasse con ogni cura una sorpresa a
suo danno; rifiutasse lo scontro, pur di poca importanza, ove non
avesse la preventiva certezza della vittoria; quando fosse forte
abbastanza per passare all'offensiva, proporzionasse via via gli
obbiettivi immediati al crescere della sua superiorità
numerica. Monsieur de Lapalisse? Può darsi; ma non era colpa
di Pisacane se in piú di un'occasione gl'italiani insorti
avevan dato prova d'ignorare, in questa materia, lo stesso abbicí
e troppo spesso d'apprezzar piú la gloria d'una scaramuccia
vittoriosa o d'una posizione difesa fino all'ultimo sangue, che non
il raggiungimento dello scopo finale.
Quegli articoli fecero chiasso; e per
esempio il general Mieroslawski in persona fece a Pisacane l'onore di
un'irosa risposta, gremita di rinnovate accuse contro i disgraziati
siciliani. Ma a che pro discuter con lui?69 Comunque la fama
di Pisacane scrittore o era fatta o s'andava sicuramente facendo.
Gran peccato dunque che motivi a noi ignoti, ma facilmente intuibili
(d'idee si abbondava nella redazione dell'Italia del Popolo;
non cosí di danaro!) costringessero Pisacane a lasciare
Losanna e il tranquillo e operoso cenacolo mazziniano70.
S'apriva un nuovo periodo di ricerche infruttuose, di spostamenti,
d'inquietudine.
Fu dapprima a Lugano, dove, per quanto
non vi si trattenesse che ben pochi giorni, «fece colpo»
tra gli esuli italiani. Non era piú il capitanuccio ignoto e
appartato dell'anno innanzi; era Pisacane, ex Capo di Stato Maggiore
della repubblica romana: emergeva dal gregge. Il poeta e patriota
Dall'Ongaro si era affrettato a comunicare il suo arrivo al Tommaseo
(in Corfú), definendo senz'altro Pisacane come «l'anima
e la mente di quel poco che a Roma si poté fare di
buono»71. Dall'Ongaro, è vero, era già
intimo di Pisacane, che aveva incontrato a Roma appunto; e delle sue
doti di militare e di scrittore di cose militari si professava da
tempo ammiratore entusiasta. Ma, siamo giusti, v'era di che ammirare
questo nobile in volontaria miseria, unicamente assorto, ormai, nel
sogno appassionato della emancipazione italiana. Spalle quadre,
salute da vendere, idee cristalline, era di quelli che col solo
aderirvi aggiungono credito alla causa che servono: un animatore.
Bisognava vederlo nelle discussioni! «Aveva scatti improvvisi»,
ci racconta il Dall'Ongaro; «aveva collere che lo trasportavano
intieramente. Bisognava vederlo quando la conversazione s'animava e
pigliava un tono vivace, appassionato. Già, non si discuteva
che della prossima rivoluzione, delle prossime fucilate, della
prossima proclamazione della repubblica. Allora gli occhi di Pisacane
scintillavano, la sua barbetta bionda s'agitava convulsivamente e la
parola gli usciva dalle labbra calda, animata, fremente. Guai a
contraddirlo!... Il suo contradditore dinanzi a quella parola di
fuoco piena di figure, accompagnata da una mimica meridionale,
espressiva, fantasiosa, era subito costretto a ripiegare; a darsi per
vinto. Chi pagava le spese di quella turbinosa eloquenza era quasi
sempre il disgraziato tavolino intorno a cui quei colloqui tempestosi
avevano luogo: il poveretto scricchiolava da tutti i lati sotto i
pugni poderosi che ci batteva sopra il Pisacane»...
I soggetti di discussione, e magari di
litigio, non mancavano certo, pur tra colleghi in rivoluzionarismo
repubblicano! Lasciamo andare se fra tanti «giacobini»
capitasse un monarchico, fra tanti liberi pensatori un cattolico
militante, fra tanti progressisti un retrogrado; ma nel loro circolo
stesso, pur progressisti, antipapali, repubblicani tutti, erano
gravissime scissioni teoriche e pratiche. Propaganda d'azione
immediata, o propaganda culturale e spirituale a piú lunga
scadenza? Programma d'iniziativa italiana, anche se isolata, o attesa
d'un moto europeo, con iniziativa prevedibilmente francese?
Propaganda puramente politica o anche di riforme sociali? Accordi con
l'ambizioso Piemonte o azione indipendente? Alleanza di tutte le
forze liberali o intransigenza repubblicana? Queste e molte altre
questioni trovavan Mazzini e Cattaneo ai poli opposti: ma se i due
capi del movimento repubblicano unitario e di quello federalista, pur
seguendo ciascuno la propria via, o non s'urtavano o, urtatisi,
s'affrettavano a scansarsi, i loro rispettivi seguaci, bizzosi
sacerdoti ortodossi, s'accapigliavano furiosissimamente, scagliandosi
a vicenda accuse da non si dire, terminando, s'intende, con lo
screditarsi tutti: sciupío d'inchiostro, fioccar d'incidenti
personali, sabotaggio delle iniziative reciproche. Chi voglia averne
un'idea non ha che da leggere I misteri repubblicani di Perego
e Lavelli, maligno libello uscito nel '51, che rimestando in quel
mezzo sollevò un non piú visto vespaio. Non osava
perfino il federalista Giuseppe Ferrari scrivere a Mazzini, a lui
direttamente, nell'ottobre del '50: «il vostro sistema se lo
seguite perderà il vostro onore», «la reazione vi
guadagna», «oggi il nemico vi sdegna; che domani una
rivoluzione scoppi a Parigi, accetterà subito la maschera
offerta. Non capite che allora tutti i traditori si chiameranno
Mazzini?» Né è a dirsi se le stesse divisioni non
regnassero tra gli emigrati repubblicani in Francia, ché anzi
vi trovavano il terreno piú adatto; tre sètte (unitari
federalisti e costituentisti), e una guerra a morte tra
loro.72
Come precisamente fra tante beghe la
pensasse Pisacane non è ben certo. Doveva molto a Mazzini, è
vero, e aveva vissuto con lui in quella intimità al cui
incomparabile fascino nessuno sapeva sottrarsi, e per lui aveva
lavorato e lavorava tuttavia; ma il soggiorno a Lugano, per quanto
fugace, e la consuetudine piú ancora che col Cattaneo con gli
amici di lui non poterono non ispirargli i primi spunti di quella
attitudine critica verso il «Maestro» che nei due anni
successivi egli svolse impetuosamente e quasi con ira. Furon Mauro
Macchi e De Boni, probabilmente, i colpevoli: assidui entrambi alla
Castagnola, entrambi per forma mentis, cultura, interessi
spirituali diametralmente discosti dal Mazzini il cui misticismo
inguaribile e l'apparente indifferenza pel problema sociale a loro,
positivisti e liberi pensatori, francamente repugnavano. Da costoro
Pisacane, che andava ancora alla cerca di un credo definitivo o,
diciamo, di un orientamento filosofico, attinse comunque assai
largamente.
Ma il
soggiorno piú formativo per lui fu senza dubbio quello di
Londra, iniziato sugli ultimi di novembre di quell'anno. Neanche a
Lugano egli avea trovato l'araba fenice della quale da tanto tempo
ormai andava vanamente in cerca, un impiego cioè; e già
l'Italia del Popolo, pur mò nata, rivelava minacciosi i
segni della crisi finanziaria che ben presto ne avrebbe spenta la
voce; e sparivano i risparmi modesti del periodo di guerra; e
incombeva su lui come su tutti gli emigrati la spada di Damocle di
una possibile espulsione dalla Svizzera. Si era risolto perciò,
dopo aver consegnato a Mazzini altri quattro articoli di critica e
storia militare73, a ritentare il viaggio oltre la Manica,
d'infausta memoria per lui. Sperava che, libero ormai nei suoi
movimenti e non ignoto del tutto e peritissimo in fatto d'ingegneria,
non avrebbe stentato a sistemarsi in un paese di grande industria. Ma
se gli amici di Mazzini lo accolsero letteralmente a braccia aperte e
in mille guise si prodigarono in suo favore, neanche lassú
potè scovarsi il desiato posto; sí che a Pisacane,
confuso tra le migliaia di rifugiati d'ogni nazione d'Europa,
piombati lí perché attratti, come lui, ancor piú
che dal miraggio della libertà inglese, da quello supposto dei
facili guadagni, fu giuocoforza far ancora buon viso alle solite
lezioni e ripetizioni: si sarebbe detto che agl'italiani non si
chiedesse altro, in ogni parte del globo, che lezioni e lezioni.
Miseria nera, però!
È vero che fin dall'agosto '49
funzionava a Londra, in soccorso degli esuli indigenti, l'Italian
Refugee Fund Committee, ma quanto deboli le sue risorse, e poi
come avrebbe potuto onorevolmente ricorrervi il colonnello Pisacane,
dei duchi di S. Giovanni? A Londra gli ex combattenti italiani
morivano allegramente di fame...74
Il triste soggiorno si prolungò
per Pisacane per quasi sette mesi, fino al giugno '50; e non sappiamo
neanche se gli fosse d'accanto, a rallietargli l'esilio la sua
Enrichetta.75 Ma non ci sono che gl'intelletti miseri che
attribuiscono alla miseria la pochezza della loro vita: Pisacane non
si lasciò intimidire dall'ostilità della sorte, e
bravamente si lanciò alla conquista di Londra, di quella parte
di Londra, per meglio dire, che aveva un interesse per lui. Non
capitava proprio tutti i giorni la possibilità d'incontrare in
un miglio quadrato gente della risma d'un Blanc, d'un Leroux, d'un
Ledru-Rollin,76 d'un Cabet, d'un Dupont; né
d'imbattersi, tra i banchi del British Museum, col celebre
autore del Manifesto dei Comunisti. Chi di costoro riuscí
Pisacane a avvicinare? Ahimè, non si sa; alcuni di certo se il
Macchi ci attesta che dalla viva voce dei «capi della
democrazia francese» egli apprese allora i rudimenti delle
nuove dottrine sociali. Le occasioni per frequentarli, d'altronde,
non gli dovevan mancare, ché nei salotti dei suoi nuovi amici
inglesi i socialisti erano allora alla moda ed era anche alla moda
che i democratici si riunissero in «agapi fraterne» in
questa o quella taverna, libando alle «immancabili»
sorti.
Se dunque il soggiorno in Isvizzera
aveva offerto a Pisacane la possibilità di fare un nuovo passo
in avanti nel superamento d'un patriottismo troppo esclusivo e
d'intuire la stretta interdipendenza che correva tra gli avvenimenti
politici dei vari Stati d'Europa, i mesi di Londra riportarono la sua
attenzione sulle relazioni esistenti tra problemi politici e problemi
sociali. Nel luogo e nell'ambiente in cui un Marx andava studiando ed
esponendo le cause economiche dello scoppio rivoluzionario del '48, e
un Ledru-Rollin dipingeva nella sua opera sulla Decadenza
dell'Inghilterra un quadro impressionante delle condizioni del
proletariato britannico; in cui si compilavano, per seminarli poi in
tutto il continente, giornali e riviste ispirati al socialismo; in
cui si formavano tra gli esuli delle varie nazionalità clubs
socialisti e comunisti; in questo luogo e in questo ambiente
Pisacane, all'indomani del '48-'49, non poteva trascorrere sette mesi
senza che il suo orientamento spirituale ne risentisse profondamente.
È molto contrariante, in
verità, che non si riesca a trovare una sola traccia di questi
contatti fra Pisacane e gli esuli democratici di Londra. Ma quel che
preme di rilevare è che, di ritorno dall'Inghilterra, Pisacane
ci appare assolutamente un altro uomo: in un tessuto già
favorevolmente disposto questo secondo viaggio in Inghilterra ha
inoculato per sempre ormai il germe della insolubile questione
sociale; e il primo effetto di questo mutato atteggiamento fu quello
di temperare i suoi ardori di rivoluzionario politico, di cacciare
nel suo animo un formidabile e inquietante punto interrogativo al
posto della baldanzosa affermazione, essere in Italia già
compiuta la rivoluzione morale, con la quale alcuni mesi innanzi
aveva concluso il suo articolo sulla Guerra italiana.
Ma perché poi, munito di un
passaporto sotto mentito nome, quello di Giacomo Stansfeld, lasciasse
Londra per tornare ancora una volta a Lugano, è un mistero.
Forse una missione affidatagli da Mazzini?77 Oppure Cattaneo
e Macchi o qualcun altro gli hanno trovato un provvisorio impiego?
Silenzio dei biografi: anzi Mazzini scrive che da Londra ripartí
per l'Italia e nei Cenni premessi ai suoi postumi Saggi
si legge che nel giugno '50 si trasferí dall'Inghilterra a
Genova. E non è vero.78
Eppure anche a Lugano non ha terren
che lo regga, per quanto il noto ambiente gli torni oltremodo gradito
e gli amici lo accolgano come un fratello: due, tre mesi, poi riparte
e questa volta per l'odiato Piemonte. La breve sosta è
tuttavia importantissima. Pisacane dev'essere tornato da Londra con
la testa piena d'idee nuove e con l'impressione di poter dominare da
un punto di vista originale e, almeno per i suoi compatrioti, affatto
nuovo il complesso succedersi dei recenti avvenimenti italiani.
Come scrittore militare, pur rivelando
una tendenza costante a trarre dai particolari conclusioni di
carattere generale, egli ha finora lavorato, si può dire, di
dettaglio e intorno a dettagli (anche l'ultimo suo articolo comparso
nell'Italia del Popolo, nel quale ha esposto la sua motivata
avversione contro gli eserciti permanenti, istituzione ch'egli
ritiene storicamente superata e ormai giustificabile solo in funzione
e in servizio della tirannia politica e sociale79, si lega
sotto questo rapporto ai precedenti suoi scritti). Ora tutto ciò
non lo soddisfa piú; sente che senza una bussola il navigante
anche provetto si perde nel vasto mare, e che per abbracciare un
ampio panorama bisogna salire in alto, dove i particolari si fondono
in linee e colori. Prima del suo viaggio a Londra egli ha arrischiato
delle previsioni politiche; ora s'accorge che il loro valore è
zero, in quanto egli ha implicitamente supposto che le forze
determinanti il domani sarebbero state le stesse che hanno giuocato
in passato. Invece — lo ha capito là fuori —
quanti nuovi elementi, interessi, dottrine, punti di vista si vanno
elaborando, dalla cui combinazione scaturirà senza dubbio un
diverso domani! Se tentasse, in base almeno a taluni di questi nuovi
elementi dei quali ha tanto inteso parlare e tanto letto in
Inghilterra, una nuova sintesi, una specie di consuntivo dell'epopea
quarantottesca? Gli pare che ora saprebbe assai meglio che non l'anno
innanzi intenderne certe deficienze e valutarne alcune
caratteristiche, oltre che avanzare piú meditate e
lungimiranti previsioni sui futuri andamenti. Cattaneo, che ha pur
mo' pubblicato un suo saggio magistrale sulla rivoluzione milanese,
lo incoraggia al lavoro e lo aiuta a chiarire le idee; i suoi
consigli, i dati che egli solo può fornire, la sua fobia del
generico salveranno Pisacane dal cadere nelle astrazioni
inconcludenti. L'occasione anche per altri aspetti è
magnifica: i piú attendibili testimoni e attori d'ogni
importante episodio del '48-'49 sono, si può dire, tutti a
portata di mano, a Lugano o a poca distanza di lí; si può
quindi verificare ogni versione, chiarire ogni punto oscuro,
costruire sul solido; e poi utilizzare la collezione di narrazioni e
documenti raccolti per l'Archivio triennale. Al lavoro,
dunque.
Si delinea cosí e poi d'un
getto solo, diresti, si forma il primo volume di Pisacane, La
guerra combattuta in Italia nel 1848-1849, che reca appunto la
data di Lugano ottobre 1850. È un libro appassionato e
ispirato, animatissimo dalla prima all'ultima pagina, una cosa
perfettamente riuscita. La nuda militaresca concisione della parte
narrativa, la estrema vivacità dei giudizi critici,
l'originalità dell'assunto, l'equilibrato padroneggiamento
della materia, lo stile nervoso e asciutto dànno la misura del
fervore da cui è animato l'autore, della freschezza e novità
delle sue convinzioni; e insieme rivelano se non m'inganno a partito,
una nuova influenza di Cattaneo: incitatore prima ed ora giudice e
correttore severo. Ma del libro si dirà piú innanzi,
ché non venne alla luce se non l'anno appresso.
Racconta il Macchi: «Molti mesi
egli allora passò meco in quasi fraterna dimestichezza con
Cattaneo, con Dall'Ongaro, con De Boni80; e presto abituatomi
alla cara consuetudine della sua compagnia, non dimenticherò
mai il dolore, che sentii dentro di me il giorno in cui ci diede
addio, per raggiungere incognito quell'egregia signora, che aveva
abbandonato la primitiva famiglia, i parenti, gli agi domestici, il
paese nativo per dividere le tribolate sorti del profugo politico».
Enrichetta dov'è? Tocchiamo qui
forse il motivo dominante della irrequietezza dimostrata da Pisacane
negli ultimi tempi. La «compagna» è materialmente
e moralmente lontana, molto lontana da lui, smarrita in un'angosciosa
crisi spirituale, sulla quale solo di recente il fortuito
ritrovamento di una lettera ha gettato una prima luce.
Genova, un piccolo albergo, il 10 di
ottobre; scrive Enrichetta a Carlo (dopo avergli narrato della sua
vita solitaria, confortata di quando in quando dalle visite di
qualche amico di Pisacane e suo): «Conforti è venuto in
questo punto..., e mi ha esortato ad amarti sempre, perché lo
meriti, e ciò è pur troppo vero, e credo che ben presto
ti amerò molto, ed il giorno che avrò la risposta dalla
famiglia ti esorterò a venire in tutti i modi a vedermi...
Ieri Boldoni mi portò la tua del 7... La lessi, mi commossi
molto, ma poi sono ricaduta nell'incertezza di prima... ti prego, non
farmi piú domande e né parlarmi piú di questo
nostro ultimo dispiacevolissimo affare. È stata una cosa
incomprensibile, e credo unica; io stessa ne sono imbrogliata né
so ben capirla... il certo si è che mi ha cagionato solo
immenso dispiacere, e molto volentieri cancellerei dalla mia vita
questi ultimi due mesi, che mi hanno fatto perdere tutta l'illusione
della superiorità ch'io supponeva avere nel mio carattere.
L'anello e i tuoi capelli una sola volta pensai di toglierli, ma
riflettendo ch'essi altro non erano che l'emblema di dolce memoria, e
come mai mi è dispiaciuto il rammentarmi del passato, cosí
li ho tenuti non provandone alcuna impressione. Io ho creduto
necessario, senza punto far leggere le tue lettere, dirne qualche
idea giusta che tu avevi per questo malaugurato affare, ciò
che ha indotto il tuo amico ad allontanarsi, non trovando altro
rimedio per dimenticarmi, ed io ho approvato con grande
soddisfazione, perché sicuro ci saressimo perduti entrambi,
continuando stare sí vicini. Ti confesso che per due giorni
fui dolentissima della sua partenza, ma ora la morale, la ragione, e
l'affetto che nutro per te non mi fa quasi piú accorgere ch'io
avessi potuto pensare di amare un'altro...»
Si vorrebbe non credere: Enrichetta,
che ha abbandonato marito e figli per seguir Pisacane, Enrichetta, la
Nightingale della repubblica romana, la donna onorata dal Mazzini,
innamorata di un altro, dimentica d'ogni sua dignità? Dovremo
dunque pensarla donna leggera, instabile, colpevolmente volubile
negli affetti? Persuaderci che da lei Pisacane, anziché forza
e serenità per la sua dura vita, abbia attinto amarezze e
delusioni?
Ma proseguiamo. «Né
incolpare un solo della colpa di due, perché la cosa piú
meravigliosa si è stata la prima scambievolezza... Il ritratto
che mi fai delle mie due esistenze è vero e crudele assai, e
mi ha immerso in tale stato d'incertezza da disperarmi... Ora
esaminiamo un poco. Io vorrei riunirmi a te..., ma il dispiacere di
rompere coi miei parenti è immenso, la precarietà della
nostra esistenza mi spaventa... Cosa decidere! Io non lo so... Se
potresti come tu dici divenire cittadino svizzero, allora sí
che credo il miglior partito riunirci, perché non potresti mai
esserne cacciato e difficilmente ci mancherebbe il pane. Sii piú
che sicuro che qualunque cosa io scrivessi ai miei parenti essi si
disgusterebbero con me perché ora essi sono persuasi che io
sia come in famiglia, e punto dubitano ch'io potessi ricominciare a
dispiacerli... Allorché ho tue lettere vorrei venire da te,
allorché ne ho da casa mia, non vorrei piú venire
pensando che dispiacere ne avrebbe la povera Mamma. Quest'incertezza
mi uccide. Rileggendo il quadro che mi fai della mia vita con te, mi
deciderei di restarmi come mi trovo, perché esso troppo mi
spaventa, e sono certa che il mio naturale s'irrita tanto della vita
provvisoria da renderti troppo infelice. Intanto se credi prudente di
spendere qualche centinaio di franchi e vorresti venire qui per
meglio discutere a voce, direi non tardare piú...»
Arduo compito quello di dover
ricostruire la storia di un'anima da pochi frammenti superstiti:
fosse anche a me lecito, sorvolando sull'episodio scabroso, ripetere
con Mazzini che al «santuario della vita individuale»
deve arrestarsi la curiosità del biografo! Ma in quel
santuario, ahimè, ficcò lo sguardo indiscreto la
polizia, che nel corso della perquisizione operata al domicilio di
Pisacane, dopo la sua morte, rintracciò, tra pochissime altre,
la lettera di Enrichetta, per sette anni dunque gelosamente
custodita.
Quale si sia l'impressione che essa
può suscitare al primo istante, guardiamoci dall'avventar
giudizi definitivi su circostanze che restano tuttavia incerte ed
oscure. Tentiamo di capire. Da qualche accenno contenuto nella
lettera stessa risulta che a Genova, in un primo tempo, Enrichetta
poteva contare sull'appoggio di un «Achille», poi
trasferitosi a Nizza, che a quanto pare era un suo familiare, forse
suo fratello. È possibile che il consiglio di riunirsi
provvisoriamente a questo suo congiunto le fosse venuto dallo stesso
Pisacane, al ritorno da Londra, e forse anche prima di allora: che
ella almeno godesse di un po' di pace finché egli non
trovasse, in un luogo o nell'altro, un'occupazione stabile.
Lunghi mesi di solitudine per
Enrichetta, preghiere dei suoi perché tronchi una buona volta
la relazione con un uomo che in tre anni d'unione non ha saputo
offrirle che vita agitata e miseria; nostalgia dei bambini lontani;
venerazione per la mamma che «piange sempre e domanda al cielo
cosa ha mai fatto per esser cosí punita...»; e non una
casa, niente che le riempia le grigie giornate. Questo basta per
gettarla in un mare d'angoscie e di dubbiezze. Mentre ella si trova
in questo tristissimo stato, lontano il suo Carlo e forse unicamente
assorto nella stesura del suo libro, tra quei che la frequentano, uno
— il Cosenz, coetaneo e amico d'infanzia di Pisacane —
s'invaghisce di lei. Enrichetta, pur non cessando di amare il suo
Carlo, sente che una irresistibile forza la trascina suo malgrado a
ricambiar quell'affetto. È come se ella non avesse piú
volontà sua; segue con la lucidità di un'allucinata il
progredir del suo male, ne fa una spietata diagnosi come se si
trattasse di un'altra persona, non sa reagire; i suoi sensi tendono
irresistibilmente verso quel nuovo tepore; la ragione, che si
ribella, crea il conflitto interiore, tormentosissimo. Leali fino
allo scrupolo, i due non nascondono all'amico lontano il loro dramma,
che è il suo dramma. Gliene descrivon le fasi con fredda
imparzialità, come se si trattasse di un problema difficile da
risolvere: che fare? Cosenz dovrebbe sposarsi di lí a poco, ma
come lo potrebbe onestamente?
Pisacane risponde: maledice, minaccia,
vitupera? Macché. È straordinaria la capacità
che certi sentimentali dimostrano di notomizzare il proprio
sentimento affettando indifferenza pei resultati che l'esame darà:
Pisacane (lo s'intende dalla lettera di lei) non scongiura neanche;
probabilmente, riconosciuta la libertà che ad Enrichetta
compete di cercarsi la felicità ove meglio ella creda, si
limita alla parte del consulente. Nello stesso modo che,
italianissimo com'è, ha fatto un bilancio severo dei recenti
avvenimenti italiani, fa adesso, impassibile, il bilancio, che
potrebb'essere di liquidazione, della sua esperienza d'amore: come se
tutto ciò non fosse in carne viva... Non ha diritti, non ha
dunque pretese; ragiona solo nell'interesse di lei. Ma le cose che
dice, lui che nell'animo di Enrichetta ha imparato — ormai da
dieci anni — a leggere come in un libro aperto, son cose che
aiutano lei a veder chiaro, a distinguere, nella crisi, gli elementi
puramente sentimentali dai molt'altri di diversa natura: solitudine,
malinconia, nostalgia della casa e dei figli. Non è forse
possibile che Enrichetta abbia esagerato il suo male a forza di
tormentarcisi su? Che ingenuamente abbia veduto nel Cosenz,
avvicinatosi quando la crisi aveva raggiunto il suo apice, il deus
ex machina che ne l'avrebbe tratta fuori, quando invece nessuno
fuorché il suo io profondo avrebbe potuto placare la
tempesta interiore? La risposta di Pisacane, comunque, suona ad
Enrichetta come la voce amica che la risveglia dall'incubo.
Finalmente si muove, reagisce al fatalistico abbandono cui ha ceduto
sinora, resiste alla corrente che stava portandola via, nessuno sa
perché. Cosenz è un amico provato, capisce, si
allontana. Enrichetta scrive meravigliandosi di aver «potuto
pensare di amare un altro».
La crisi è dunque superata? No,
o almeno non del tutto. Tra la famiglia che la rivuole e Pisacane che
non può prometterle se non la continuazione della vita
errabonda menata fin qui (chiuse le porte di Napoli, chiuse nel resto
d'Italia, nessun punto fermo negli altri Stati d'Europa; e la vita
sempre eccitata e irrequieta del profugo) ella esita. Sentendo fino a
qual punto il suo «naturale» s'irriti per l'instabilità
e il provvisorio, condizioni nelle quali sembra invece che Pisacane
trovi il suo miglior rendimento, le vien fatto finanche di dubitare
del suo affetto per lui: lo ama davvero? Ma allora perché la
spaventa la prospettiva di tornare con lui? È un soliloquio,
sono i pensieri e i dubbi e le ipotesi che ogni persona che ama si
pone e si discute e scaccia e riprende cento volte al giorno: è
la vita dell'anima. Ma Enrichetta è troppo sincera: trascrive
queste notazioni intime, che svaporan di solito nel nulla, su fogli
di carta e le trasmette al compagno. Forse è un'abitudine
loro, di dirsi tutto, anche quello che molti non dicon neppure a se
stessi.
Lo so: sarebbe assai piú
edificante se dal '47 in poi Enrichetta ci si mostrasse sempre a
fianco del suo compagno, fedele, innamorata, modesta, contenta di
tutto, anche del perpetuo errare; lo so, la crisi del '50 attesta una
debolezza. Ma una macchia, ecco il punto, non è. Prova ne sia
la deferenza affettuosa che circonderà sempre
Enrichetta81, prova il perdurare della fraterna amicizia tra
Pisacane e Cosenz.
Era poi senza colpa Pisacane? Chi sa.
Come tutti gli uomini cui brucia in cuore una grande passione —
per la politica, per la scienza o per l'arte — egli aveva forse
vissuto fino allora unicamente preso da quella, travolto nel gorgo
dell'attività politica; dedicando, forse, troppo poco di sé,
della sua intimità spirituale, alla compagna, alla quale,
quando l'aveva strappata alla famiglia, egli aveva pur promessa una
vita comune, nel piú profondo significato dell'espressione.
Era andato in Algeria, e l'aveva lasciata a Marsiglia; poi la ferita,
la tumultuosa parentesi dell'esilio in Svizzera, la breve permanenza
in Piemonte, i mesi febbrili di Roma, la prigionia, Ginevra, Losanna,
Lugano, poi Londra. La donna era giovane, avea bisogno d'amore, e da
tre anni anelava a un poco di felicità individuale!
Per questo appunto, perché alla
donna pur alta e degna non basta formalmente associarsi alla vita
dell'amato, ma le è bisogno irresistibile contribuire a
foggiarla e insieme crearsi una vita propria, per questo appunto i
piú fra gli uomini che si dicono grandi perché hanno
creato qualcosa nel mondo dello spirito, vissero senza una donna, se
pur seguiti e confortati lungo la via da passeggeri affetti. Per
questo appunto Mazzini, se amò, e amò piú volte
con rara intensità, a nessuna donna mai volle consacrar la sua
vita, lui che pure serbò fino alla tomba l'accorato rimpianto
di una famiglia propria!
La crisi di Enrichetta è dunque
insieme anche crisi di Carlo; c'è della debolezza di qua, c'è
dell'egoismo di là: torti reciproci. Si era rasentato il
disastro, erano corse parole, peggio che dure, fredde, si era potuto
credere che tanto amore naufragasse per sempre nell'indifferenza. Ma
la ripresa, previo abbandono immediato di un assurdo dialogo
epistolare, non poteva tardare. Minacciato nell'unica consolante
certezza della sua vita, Pisacane abbandona le pazze idee per un
tratto nutrite di adottare la cittadinanza svizzera o di emigrare,
per disperazione, fuori d'Europa e si precipita a Genova. È
l'autunno: fine d'ottobre o primi di novembre82. Basta
vedersi, parlarsi — dove, se non in un profondo sguardo possono
attingersi certe grandi certezze? — e la tempesta pare una cosa
lontana. Davvero si era potuta immaginare la vita lontani l'uno
dall'altro?
«Pisacane è tornato?»
chiede Mazzini a Dall'Ongaro. No, non è tornato e non torna.
Resta vicino alla sua compagna, che ha tanto bisogno di lui. Vuol
riparare ai suoi torti. Si fisseranno a Genova, dove egli tenterà
di tutto pur di darle una casa e quel po' di stabilità che è
a lei indispensabile: «Il mio naturale s'irrita tanto della
vita provvisoria da renderti troppo infelice», aveva scritto
Enrichetta (e sarebbe bastato quel renderti, laddove ci si
sarebbe attesi un rendermi per far capire quanto ella ancora
amasse il suo Carlo!) Pisacane non lo scorderà piú. Dal
'50 al '57, infatti, non si muoverà di là, da quei
luoghi che avevan veduto sfiorire e rinascere il suo unico amore: né
per questo rinunzierà affatto ai suoi ideali politici e
sociali, ché anzi li andrà sempre piú affinando
e approfondendo; né ai suoi amici, ché anzi li
coltiverà assiduamente; né, insomma, alla sua vita di
azione; ma tutto avrà ormai un suo centro, una sua base, un
suo limite, un punto di partenza e d'arrivo, tutto confluirà,
tutto troverà ricetto e comprensione nella casa comune.
Dalla rinnovata armonia ideale
sgorgherà forza nuova per entrambi, forza che varrà a
lui per osare, a lei per comprendere, se non per incitare.
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