Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Nello Rosselli
Carlo Pisacane nel Risorgimento Italiano

IntraText CT - Lettura del testo

  • CARLO PISACANE NEL RISORGIMENTO ITALIANO
    • Capitolo quinto Dopoguerra difficile
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

Capitolo quinto
Dopoguerra difficile

 

Nuovo riflusso dell'ondata migratoria italiana, nella seconda metà del '49: si diffonde fra gli esuli uno stato d'animo di febbrile impazienza, un intenso bisogno d'operosità, e quell'inquietudine propria di chi avendo assistito all'inaspettata realizzazione dei propri ideali politici e poi al loro brutale soffocamento, attribuito a cause esteriori, logicamente attende l'inevitabile riaprirsi della crisi. È una minoranza sceltissima che lascia l'Italia e che al trionfo, pur variamente prospettato, della causa nazionale, pospone e sacrifica ogni considerazione di vantaggio individuale o familiare. Uomini ostinati e decisi: ben pochi, è vero se paragonati alla gran massa degli acquiescenti, pochi, comunque, che non «molleranno» mai. Il che permise, si sa, ai sostenitori impenitenti dello statu quo italiano di inferire che senza qualche migliaio di intriganti riottosi il nostro paese sarebbe stata la piú pacifica terra del mondo; ma valse d'altronde a consacrare agli occhi dei conterranei e d'Europa una causa che doveva pur trovare la sua giustificazione nelle ragioni profonde della vita italiana, rivestire certo carattere di assoluta irresistibilità, se una volta penetrata di sé la volontà di questa minoranza d'uomini, tra i piú colti e riflessivi e preparati e moderni d'ogni provincia italiana, poteva assorbirne ogni facoltà a tal punto da non conceder loro piú mai d'avere altra cura, altro pensiero, altra speranza che in essa e per essa.

I piú, come l'anno innanzi, riparano in Isvizzera; molti forse obbedendo all'ingenuo eppur tanto comprensibile desiderio di non lasciarla troppo, l'Italia, che troppo spazio di cielo, troppa difformità d'idioma e di costumi non si frappongano fra loro e l'Italia. Eppure, non è piú l'estate del '48, quando, per tanti segni evidenti, si rivelava imminente agli esuli la possibilità del ritorno. Ora, da un capo all'altro della penisola, l'orizzonte è abbuiato; due anni di lotte, dopo aver tutto sconvolto, non hanno giovato in ultima analisi a mutare d'un palmo la carta d'Italia. Ora, è l'esilio per davvero. Ma l'illusione regna benefica fra gli emigrati.

Poveri quasi tutti, affittano stanzucce mobiliate a Losanna, a Ginevra, a Lugano, a Capolago, a Locarno;61 molti s'aggruppano, per paesi d'origine e piú per concordanza d'idee, in una stessa casa o alla stessa mensa, assieme discutendo il recente passato, leggendo gli stessi libri e giornali e riviste, arrabattandosi a scovar lezioni o impiegucci provvisori o traducendo o scrivendo. I giorni di festa si ritrovano in brigata in qualche casa ospitale, o alla Castagnola dai Cattaneo, o a casa Airoldi da Grillenzoni, o presso il poeta Dall'Ongaro.

Piú tardi, quando il colpo di stato napoleonico avrà disperso fuori di Francia gli oppositori democratici, molti di costoro affluiranno in Isvizzera: nomi ben noti ai liberali d'Europa, nomi di scrittori celebri, di giornalisti, di combattenti, saliti ai bagliori della ribalta nel '48; e allora frequenti ritrovi presso costoro, come già presso i profughi delle insurrezioni tedesche, e amicizie salde e speranze comuni che nascono fra i proscritti, ai quali s'aggiungono esuli polacchi e russi e ungheresi: imagine vivente, tutti assieme, di quell'internazionalismo che i piú tra questi patriotti sognano come fine ultimo e logico sbocco della lotta per la libertà delle nazioni. I fuorusciti di Roma, di Venezia, di Napoli, che pur già dalla rovina dei sogni quarantotteschi hanno cominciato ad apprendere la necessità di un'impostazione italiana e non piú regionale del problema politico, constatano adesso non esser questo che un particolare aspetto d'un vasto problema europeo. Il trionfo o la perdita della democrazia in Francia o in Russia o in Ispagna è trionfo, è lutto per la democrazia europea. La libertà è una, la battaglia vòlta alla sua conquista ha piú fronti, ma un esercito solo.

A Losanna, sulle sponde del lago, si riuniscono a vita comune in una modesta villa (Montallegro) Mazzini, l'ex triumviro Saffi, Mattia Montecchi, piú tardi il veneziano Varè62; brevi soggiorni vi fanno Filippo De Boni e Maurizio Quadrio, per qualche giorno v'abita lo stesso Pisacane, fissatosi da prima a Ginevra63. «Da sessanta a settanta franchi al mese per testaracconta il Saffibastavano al nostro mantenimento... Spendevamo la giornata a scrivere articoli..., a tener viva una vasta corrispondenza epistolare, a promovere, per quanto dipendeva da noi, l'ordinamento della parte nazionale all'interno e fra gli esuli. Le prime ore della sera erano date al conversare, a ricevere amici, al giuoco degli scacchi, di cui Mazzini molto si dilettava...» E Mazzini, di Pisacane: «Ci ricongiungemmo a Losanna dove io lo vedeva ogni giorno, sereno, sorridente nella povertà, com'io l'aveva veduto in mezzo ai pericoli».

Due grandi iniziative editoriali, accanto ad altre piú modeste (tale il foglio luganese il Repubblicano) dànno lavoro e retribuzione, pur esigua, ai piú colti fra gli esuli: l'una, varata dal Cattaneo, ahimè ben presto troncata da meschine difficoltà materiali, è l'Archivio triennale delle cose d'Italia dall'avvenimento di Pio IX all'abbandono di Venezia,64 una raccolta cioè di testimonianze immediate intorno a episodi del '48-'49; la seconda, mazziniana, è una rivista di studi politici-militari, che continua nel nomeItalia del Popolo — il foglio repubblicano stampatosi per qualche mese a Milano nel '48. Gli scrittori son tutta gente che ha molto veduto e fatto e sofferto, in Italia, negli ultimi mesi.

Libri, riviste, opuscoli si spacciano sul luogo, ma soprattutto si mira, attraverso a mille costosi e rischiosi accorgimenti, a spargerli in Italia, e dovunque in Europa sono emigrati italiani, a dispetto delle polizie, come sempre incapaci a impedire la diffusione del libero pensiero.

Segno di declinante fiducia nell'azione questo scriver di storia, questo riandar criticamente il recente passato? Non sembra; ché dagli sforzi riuniti di quegli esuli, buoni a menar la spada a suo tempo (e lo avevano, uno per uno, brillantemente mostrato) e ora la penna, uscí un insieme di scritti che giovò immensamente a dare agli italiani la fondata coscienza del loro diritto alla libertà e all'autogoverno: prologo indispensabile a un'azione risolutrice.

Pisacane che a Roma è stato, piú che del Roselli, il Capo di Stato Maggiore di Mazzini, diventa ora l'autorizzato critico e storico militare dell'Italia del Popolo. Esordisce anzi fin dall'agosto con due scritti che vengon stampati come opuscoli, in attesa che la rivista inizi le sue pubblicazioni: un Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma dalla salita della breccia al 15 luglio 1849 e una curiosa Lettre du Chef de l'état major de l'armée de la république romaine au géneral en chef de l'armée française en Italie. Il Cenno, composizione di mera cronaca, non offre oggi alcun speciale interesse; la Lettre invece è documento tipico della mentalità pisacaniana.

L'Oudinot, sbarcando sul suolo romano, aveva preteso, s'è visto, che Roma aprisse fidente le porte alle sue truppe, accorsecosí diceva — a far atto di «fraternità». Giustamente respinto, s'era mostrato qual era: nemico implacabile e, quel che è peggio, fedifrago; ora, domata Roma, osava seguitare in piena mala fede a deplorare la «inaspettata» necessità nella quale si era trovato di penetrare nell'Urbe con la forza dell'armi. Bisognava inchiodare alla gogna della sua dimostrata doppiezza questo messere, violatore d'ogni norma di buona guerra. Ed ecco la bellissima lettera, fremente di sdegno, grido di protesta di un militare sollecito dell'onor militare contro chi lo trascinava nel fango. Perché evitava costui di precisare i termini della missione Lesseps? Perché non confessava al mondo che il potente governo francese s'era servito d'un inganno volgare per penetrare in Roma? Due mesi per impadronirsi di una città aperta! E il vergognoso rovescio del 30 di aprile, bella gloria davvero per l'«eroe» di Roma!

Ultima parte, la meno buona: avesse il comando romano seguito i consigli suoi, di Pisacane, allora che l'Oudinot avrebbe a proprie spese imparato quanto mai ingrata e pericolosa si fosse l'impresa di assalire un popolo intero deliberato a difendere la sua libertà. Dove lo scrittore dimenticava due cose: la prima che i nemici si vincono in campo e a nulla giovano, deposte le armi, le postume rivelazioni, i cavilli e le bravate; la seconda che era ancora un po' presto per arrischiare il computo dei meriti e delle responsabilità della difesa di Roma e che, comunque, non proprio a lui, ex capo di S. M., toccava aprire il torneo delle recriminazioni dando addosso a superiori e a colleghi, e attribuendo col senno del poi ai suoi inascoltati pareri tutte quelle probabilità di successo che sembran sempre arridere alle iniziative inattuate. Petulanza e superbia che gli procurarono inimicizie accanite e, peggio ancora, freddezza di amici provati. Giusto è però concedergli le circostanze attenuanti: ché a principiar da quella estate si verificò un vero diluvio di pubblicazioni, nelle quali ogni capoccia vero o preteso d'insurrezioni, ogni caporalaccio di truppe, ognuno insomma che nel biennio non avesse assolutamente tenuto le mani incrociate sul petto, magnificava quel che aveva fatto e veduto e detto e profetato, ciascuno sentenziando che se si fosse dato retta a lui l'Italia una sarebbe stata a quell'ora un fatto compiuto e assestato.

Meridionale, colonnello a trent'anni, come poteva Pisacane, imperversando l'epidemia, salvarsi dal contagio?

Il suo contegno, d'altronde, era anche determinato da necessità di legittima difesa. Se egli non perdonava agli avventurieri della guerra (tipo Garibaldi) e ai pedanti militari di vecchio stile (tipo Roselli), questi due, e altri molti, non la perdonavano a lui, che nel disimpegno dei suoi uffici romani aveva con la sua rigidezza, s'è visto, irritato e superiori e inferiori. Ripicchi che si rinnovano sempre all'indomani di un grande insuccesso: schiuma residua della mareggiata.

Un passo di una lunga lettera diretta nell'autunno del '50 da Enrichetta a Pisacane illumina vivamente questo stato di cose: «L'altra sera passeggiando» — cosí ella scriveva — «ebbi una lunga discussione col Boldoni» (l'antico compagno della Nunziatella, poi tra i difensori di Venezia), «il quale diceva che tutti quei che erano stati a Roma non avevano data alcuna prova di abilità; che il solo Garibaldi era comparso e si era fatto amare e che aveva un partito fortissimo in Italia... e tante bestialità simili. È proprio un asino! Io a tutti quei che vengono qua e che hanno qualche merito, cerco indagare ciò che si dice di te, ed ho trovato in tutti che dicono avere tu i difetti ch'io ti trovai allora, cioè fosti debole nel non rinunziare ad incarichi che ti venivano affidati, e che non potevi disimpegnare come avresti voluto, cioè, l'essere sostituito con Avezzana, capo di Stato Maggiore con Roselli. La generalità dei capi dei corpi di Roma che sono tutti qui, attribuiscono a tua incapacità di poter fare il capo dello Stato Maggiore e che non sapevi consigliare Roselli. Dicono che avevi esitazione nel dare gli ordini, e che spesso li cambiavi. Insomma io speravo almeno che tu fossi restato oscuro, ma invece ti dànno molti torti che non hai. Spero non ti dispiaccia ciò ch'io ti dico». Speranza assurda: non era umano che a Pisacane dispiacesse moltissimo, che ne rimanesse offeso e ferito e che abbondasse nella controffensiva?

Ma alla sua guarigione da certe ubbie, da certe smanie di grandezza giovò non poco, di certo, la vicinanza di Mazzini, il quale — di ben piú alto e generale riconoscimento meritevole che non spettasse a lui — pur vilipeso nelle polemiche partigiane, calunniato, in cento modi avvilito, di ciò noncurante, si mostrava assai piú sollecito del nuovo che di battagliar sul passato. A poco a poco, con molta solitudine e molta riflessione, e soprattutto con l'acquistar l'abitudine di quelle sode letture che agli uomini d'ingegno insegnano infallibilmente a paragonare il poco che sanno col troppo che ignorano e quindi a rispettare opinioni e attitudini discordi dalle proprie, le asprezze e intolleranze del carattere di Pisacane s'andarono attenuando, e con esse quella esagerata e quasi morbosa preoccupazione dell'io di cui egli allora cosí intensamente soffriva.

 

Otto furono gli articoli che Pisacane dal settembre 49 al luglio '50 pubblicò sull'Italia del Popolo: articoli di varia dimensione e importanza, ma che a rileggerli rivelano tutti, nella concisa sobrietà della forma, nella risoluta enunciazione del pensiero sempre scheletricamente chiaro, nella precisione degli appunti critici, una mente matura ed equilibrata, particolarmente inclinata, s'intende, alla trattazione delle piú diverse questioni in qualche modo connesse con la scienza e la storia della guerra. Il primo fu La Guerra Italiana, indagante le probabili vie della soluzione del problema italiano. Questa, per Pisacane, dipende indubbiamente dall'esito di un formidabile conflitto, ch'egli presente vicino a scatenarsi nella penisola tra forze liberali e forze dispotiche, tra quelle italiane cioè e quelle straniere o legate a interessi stranieri; bisogna dimetter l'idea che il Piemonte possa costituire, con la sua azione supposta a beneficio di tutti, un diversivo da questo binario obbligato. Chi sappia infatti non lasciarsi abbagliare dall'equivoco costituzionale constaterà che in Piemonte le cose non si presentano diversamente che nel resto d'Italia: anche una stragrande maggioranza assetata di libertà è oppressa da una minoranza dispotica. Il problema, seppur con carattere d'urgenza maggiore o minore, si presenta identico nella penisola tutta. Orbene, posta l'innegabile preponderanza numerica delle forze inclini a libertà sulle oligarchie di governo, l'esito del conflitto offre una sola incognita: la maturità rivoluzionaria delle prime, e cioè il grado di risolutezza con la quale nel momento decisivo esse sapranno gettarsi all'azione. Con l'esperienza che gli viene dal conoscere appieno sentimenti e aspirazioni dei popoli napoletano, lombardo, piemontese e romano, Pisacane ritiene per certo che la «rivoluzione morale» sia già compiuta in Italia: al cui avvenire è lecito dunque guardare con assoluto ottimismo.

Ma nel conflitto quali saranno le forze operanti italiane? Semplicissimo: i due eserciti piemontese e napoletano, i quali finora obbediscono ai rispettivi sovrani ma che nel della lotta, ricordando d'esser fatti di popolo, volgeranno certamente le armi contro il comune nemico; dietro ad essi si affolleranno le moltitudini, insorte progressivamente a principiar dal mezzogiorno d'Italia (dove piú diffuso e sentito è il malcontento)65 su su fino al nord. Le forze avversarie, inoltrandosi nella penisola, saran costrette dall'Appennino a sdoppiarsi; e sarà proprio , allo sbarramento appenninico, che la battaglia dovrà essere imposta; le insurrezioni a catena, dilatandosi nel bacino del Po, serreranno il nemico in una morsa di ferro.

Ottimismo esagerato, d'accordo. Ma l'articolo era importante non tanto per le sue conclusioni discutibilissime quanto per le premesse: non accadeva infatti tutti i giorni che un «rivoluzionario» impostasse il problema italiano in termini di tanta chiarezza staccandosi dalla consueta falsariga della vecchia propaganda insurrezionistica, che faceva sempre discorsi generici e troppo fidava, ammettendo l'insurrezione scoppiata, nelle capacità improvvisatrici del popolo in rivoluzione o nella divina provvidenza. Era, quello di Pisacane, un bilancio di forze che nel suo semplicismo noi oggi tacciamo d'erroneo; il suo merito, per altro, stava in ciò che esso dimostrava la necessità che bilanci preventivi si tentassero e che ogni voce ne venisse rigorosamente controllata. Gran passo innanzi, poi, che un militare, dal suo punto di vista sottolineasse la possibilità e la eseguibilità dell'idea mazziniana d'una rivoluzione integrale e sopraregionale.

Dall'articolo, che confidava la liberazione d'Italia non piú alla miracolistica azione d'un dei suoi Principi, ma alla volontà rivoluzionaria dell'intero popolo italiano, balzava dunque l'indicazione di una duplice azione: propaganda insurrezionale in tutta la penisola e particolarmente nelle Due Sicilie, da un verso; neutralizzazione della propaganda piemontese, dall'altro. Ai quali imperativi Pisacane obbedirà strettamente negli anni avvenire. L'idea dell'iniziativa dal sud, in special modo, diverrà la sua fissazione: è vero che essa s'andava allora accreditando anche indipendentemente da lui nell'ambiente mazziniano66, ma Pisacane lo sentiva, ci credeva, v'era portato per istinto profondo piú di chiunque altro. Fin dal settembre di quell'anno, ad esempio, volle entrare in corrispondenza con Nicola Fabrizi, meridionale anche lui, che era come il padre spirituale di ogni manifestazione italiana nel mezzogiorno della penisola: Fabrizi concordava appieno67. Ma perché quell'idea potesse diffondersi dappertutto in Italia era necessario dapprima purgare da molti preconcetti e diffidenze antimeridionaliste gli italiani del resto d'Italia: come distruggere ad esempio l'esosa leggenda che circolava a danno dei meridionali (napoletani e siciliani in un mazzo) essere il loro carattere molle e arrendevole, atto a prorompere , ma non a resistere; o l'altra della loro pretesa incapacità congenita a uno sforzo concorde?

Era stata allora allora pubblicata una relazione sulla campagna del '49 in Sicilia nella quale l'autore, ex aiutante di campo del generale Mieroslawski, aveva tranquillamente attribuito la colpa del disastroso esito delle operazioni agl'isolani indisciplinati e indolenti e al loro rovinoso governo. Pisacane, cui pure non era sfuggito il carattere deplorabilmente piú antinapoletano che italiano, piú autonomistico che democratico della rivoluzione siciliana, colse la palla al balzo; e in un nuovo articolo dell'Italia del Popolo, in mezzo a censure e sarcasmi all'indirizzo dell'infausto condottiero polacco, che con la sua magra scienza avrebbe condotto alla sconfitta non pure i siciliani ma il piú bellicoso popolo del mondo, tracciò un magnifico elogio morale e politico dei meridionali in genere, sottolineando la continuità e l'eroicità del loro sforzo per conquistarsi libere istituzioni. Poteva dirsi altrettanto d'altri paesi piú settentrionali, signor Mieroslawski?

Ma anche l'antipiemontesismo ebbe Pisacane, da allora in poi, milite attivo e accanito. Quella formola «lasciar fare al Piemonte» in nome della quale troppa gente da troppo gran tempo andava ponendo bastoni nelle ruote a chi intendesse suscitare un rivolgimento originale italiano lo imbestialiva infatti al di di ogni dire e gli strappava le piú veementi proteste. Poste le sue premesse ideali, non era logico d'altronde che la quiete e la relativa floridezza delle quali godeva il Piemonte venissero da lui considerate come un'insidia all'avvenire d'Italia? A Giuseppe Montanelli che nel '49, esule in Isvizzera, andava tessendo le lodi del Piemonte costituzionale, un «eccellente repubblicano» ribatté «che la sopravvivenza dello Statuto piemontese era, a senso suo, di tutte le nostre disgrazie la maggiore, e bisognava desiderare che cadesse e cadesse presto, affinché l'Italia fosse adeguata allo stesso livello»68. Era Pisacane costui? Il Montanelli non dice: certo, eran quelle le idee di Pisacane. Alle quali, , la storia ha dato torto; ma, oltre che le opposizioni giovano sempre ai governi intelligenti (e il Piemonte lo era assaissimo), è proprio impossibile oggi riconoscere che, almeno in parte, aveva ragione Pisacane e con lui i rivoluzionari intransigenti? Lasciamo andare che l'accentramento monopolistico dell'azione italiana svolto dal Piemonte impresse una obbligatoria etichetta monarchica al processo unitario; ma non è forse vero che esso nel fatto scoraggiò, e certo non sollecitò in misura adeguata la pur tanto necessaria collaborazione del popolo italiano alla propria liberazione? Il Piemonte assicurava la probabilità di una rapida ricostituzione d'Italia, ma questa rapidità era utile o non piuttosto minacciava di danneggiare il fondamento morale dell'unità? Probabilmente i responsabili della politica piemontese non sospettaron neanche che la progressiva piemontesizzazione delle élites italiane potesse essere indizio, oltre che di realismo politico, di alquanta timidezza e neghittosità; che la delega al Piemonte dell'azione italiana potesse equivalere insomma, nella mente di molti patriotti non piemontesi, a una specie di gravoso premio di assicurazione che conveniva pagare pur di sottrarsi ai rischi, alle fatiche, alle incertezze e lungaggini d'una genuina rivoluzione politica.

Dove per contro riesce anche oggi difficile seguire piú oltre quei rivoluzionari si è nel loro considerare decisamente piú sano il dominio straniero, piú sano l'assolutismo oligarchico che non la «canzonatura» di libertà rappresentata dal monarcato costituzionale; poiché, secondo loro, l'assolutismo se non altro avrebbe eccitato alla reazione e serbato le popolazioni vive e frementi e potenzialmente almeno padrone del loro destino; laddove il costituzionalismo, col gabellarle libere e sovrane, ne avrebbe cloformizzati gli istinti rivoluzionari, smorzando in esse perfino il desiderio della libertà integrale. che il liberale vero avrebbe dovuto e dovrebbe assai piú impensierirsi dell'impianto di un regime, diciamo, all'inglese, che non del prolungarsi (o stabilirsi) d'un sistema antiliberale. Paradosso che ormai ha fatto il suo tempo, come quello che ha condotto molti, in piena buona fede, a farsi alleati della reazione per soverchio amore di libertà.

Ma fin che Pisacane sosteneva che la scintilla della emancipazione italiana si sarebbe determinata non già nelle provincie nelle quali si stava meno peggio e si godeva una maggior libertà d'azione, ma in quelle piú inermi e addormentate e oppresse, era nel vero e nel giusto (astrazion fatta, s'intende, dall'intervento nel giuoco, all'ultimo, di quelle soluzioni di compromesso delle quali egli, mirando all'autoliberazione degli italiani, naturalmente non teneva conto). E che vi fosse in questa sua opinione buona dose di campanilismo napoletano, non importa davvero. Urgeva dunque di render consapevoli le masse dei mali dei quali soffrivano e della possibilità di rimuoverli. Prematuro sforzo, e in ultima analisi nient'altro che pretesti offerti al Borbone per nuovi «giri di vite» da praticarsi sugli infelici regnicoli, protestavano molti. Tanto di guadagnato: pressione che in una caldaia aumenta oltre il normale, scoppio vicino.

Chiarito l'obbiettivo della rivoluzione italiana, restava da precisarne il come. È quel che Pisacane cercò di fare in altri due numeri dell'Italia del Popolo (settembre-ottobre) col saggio La scienza della guerra, mirante non solo a divulgare principii di strategia e norme tattiche, ma a rimuovere talune delle piú gravi difficoltà contro le quali generalmente si urtavano i promotori delle insurrezioni, giovani generosi ma per lo piú inesperti. S'aveva da tener presente l'esempio di Milano 1848? Era presto detto: la via da seguirsi era precisamente l'opposta di quella che allora avean scelta. Del possibile apporto di forze regolari alleate (ossia di forze monarchiche) si facesse nessun conto; massimo conto invece dei volontari, i quali andavano accolti con entusiasmo, ordinati immediatamente, utilizzati al piú presto, aumentati con ogni mezzo; gli ufficiali si eleggessero dai volontari stessi, compreso il comandante supremo; l'esercito insurrezionale fosse mobilissimo, non tentasse — il nemico avanzandodifesa di piazzeforti o città; evitasse con ogni cura una sorpresa a suo danno; rifiutasse lo scontro, pur di poca importanza, ove non avesse la preventiva certezza della vittoria; quando fosse forte abbastanza per passare all'offensiva, proporzionasse via via gli obbiettivi immediati al crescere della sua superiorità numerica. Monsieur de Lapalisse? Può darsi; ma non era colpa di Pisacane se in piú di un'occasione gl'italiani insorti avevan dato prova d'ignorare, in questa materia, lo stesso abbicí e troppo spesso d'apprezzar piú la gloria d'una scaramuccia vittoriosa o d'una posizione difesa fino all'ultimo sangue, che non il raggiungimento dello scopo finale.

 

Quegli articoli fecero chiasso; e per esempio il general Mieroslawski in persona fece a Pisacane l'onore di un'irosa risposta, gremita di rinnovate accuse contro i disgraziati siciliani. Ma a che pro discuter con lui?69 Comunque la fama di Pisacane scrittore o era fatta o s'andava sicuramente facendo. Gran peccato dunque che motivi a noi ignoti, ma facilmente intuibili (d'idee si abbondava nella redazione dell'Italia del Popolo; non cosí di danaro!) costringessero Pisacane a lasciare Losanna e il tranquillo e operoso cenacolo mazziniano70. S'apriva un nuovo periodo di ricerche infruttuose, di spostamenti, d'inquietudine.

Fu dapprima a Lugano, dove, per quanto non vi si trattenesse che ben pochi giorni, «fece colpo» tra gli esuli italiani. Non era piú il capitanuccio ignoto e appartato dell'anno innanzi; era Pisacane, ex Capo di Stato Maggiore della repubblica romana: emergeva dal gregge. Il poeta e patriota Dall'Ongaro si era affrettato a comunicare il suo arrivo al Tommaseo (in Corfú), definendo senz'altro Pisacane come «l'anima e la mente di quel poco che a Roma si poté fare di buono»71. Dall'Ongaro, è vero, era già intimo di Pisacane, che aveva incontrato a Roma appunto; e delle sue doti di militare e di scrittore di cose militari si professava da tempo ammiratore entusiasta. Ma, siamo giusti, v'era di che ammirare questo nobile in volontaria miseria, unicamente assorto, ormai, nel sogno appassionato della emancipazione italiana. Spalle quadre, salute da vendere, idee cristalline, era di quelli che col solo aderirvi aggiungono credito alla causa che servono: un animatore. Bisognava vederlo nelle discussioni! «Aveva scatti improvvisi», ci racconta il Dall'Ongaro; «aveva collere che lo trasportavano intieramente. Bisognava vederlo quando la conversazione s'animava e pigliava un tono vivace, appassionato. Già, non si discuteva che della prossima rivoluzione, delle prossime fucilate, della prossima proclamazione della repubblica. Allora gli occhi di Pisacane scintillavano, la sua barbetta bionda s'agitava convulsivamente e la parola gli usciva dalle labbra calda, animata, fremente. Guai a contraddirlo!... Il suo contradditore dinanzi a quella parola di fuoco piena di figure, accompagnata da una mimica meridionale, espressiva, fantasiosa, era subito costretto a ripiegare; a darsi per vinto. Chi pagava le spese di quella turbinosa eloquenza era quasi sempre il disgraziato tavolino intorno a cui quei colloqui tempestosi avevano luogo: il poveretto scricchiolava da tutti i lati sotto i pugni poderosi che ci batteva sopra il Pisacane»...

I soggetti di discussione, e magari di litigio, non mancavano certo, pur tra colleghi in rivoluzionarismo repubblicano! Lasciamo andare se fra tanti «giacobini» capitasse un monarchico, fra tanti liberi pensatori un cattolico militante, fra tanti progressisti un retrogrado; ma nel loro circolo stesso, pur progressisti, antipapali, repubblicani tutti, erano gravissime scissioni teoriche e pratiche. Propaganda d'azione immediata, o propaganda culturale e spirituale a piú lunga scadenza? Programma d'iniziativa italiana, anche se isolata, o attesa d'un moto europeo, con iniziativa prevedibilmente francese? Propaganda puramente politica o anche di riforme sociali? Accordi con l'ambizioso Piemonte o azione indipendente? Alleanza di tutte le forze liberali o intransigenza repubblicana? Queste e molte altre questioni trovavan Mazzini e Cattaneo ai poli opposti: ma se i due capi del movimento repubblicano unitario e di quello federalista, pur seguendo ciascuno la propria via, o non s'urtavano o, urtatisi, s'affrettavano a scansarsi, i loro rispettivi seguaci, bizzosi sacerdoti ortodossi, s'accapigliavano furiosissimamente, scagliandosi a vicenda accuse da non si dire, terminando, s'intende, con lo screditarsi tutti: sciupío d'inchiostro, fioccar d'incidenti personali, sabotaggio delle iniziative reciproche. Chi voglia averne un'idea non ha che da leggere I misteri repubblicani di Perego e Lavelli, maligno libello uscito nel '51, che rimestando in quel mezzo sollevò un non piú visto vespaio. Non osava perfino il federalista Giuseppe Ferrari scrivere a Mazzini, a lui direttamente, nell'ottobre del '50: «il vostro sistema se lo seguite perderà il vostro onore», «la reazione vi guadagna», «oggi il nemico vi sdegna; che domani una rivoluzione scoppi a Parigi, accetterà subito la maschera offerta. Non capite che allora tutti i traditori si chiameranno Mazzini?» Né è a dirsi se le stesse divisioni non regnassero tra gli emigrati repubblicani in Francia, ché anzi vi trovavano il terreno piú adatto; tre sètte (unitari federalisti e costituentisti), e una guerra a morte tra loro.72

Come precisamente fra tante beghe la pensasse Pisacane non è ben certo. Doveva molto a Mazzini, è vero, e aveva vissuto con lui in quella intimità al cui incomparabile fascino nessuno sapeva sottrarsi, e per lui aveva lavorato e lavorava tuttavia; ma il soggiorno a Lugano, per quanto fugace, e la consuetudine piú ancora che col Cattaneo con gli amici di lui non poterono non ispirargli i primi spunti di quella attitudine critica verso il «Maestro» che nei due anni successivi egli svolse impetuosamente e quasi con ira. Furon Mauro Macchi e De Boni, probabilmente, i colpevoli: assidui entrambi alla Castagnola, entrambi per forma mentis, cultura, interessi spirituali diametralmente discosti dal Mazzini il cui misticismo inguaribile e l'apparente indifferenza pel problema sociale a loro, positivisti e liberi pensatori, francamente repugnavano. Da costoro Pisacane, che andava ancora alla cerca di un credo definitivo o, diciamo, di un orientamento filosofico, attinse comunque assai largamente.

 

Ma il soggiorno piú formativo per lui fu senza dubbio quello di Londra, iniziato sugli ultimi di novembre di quell'anno. Neanche a Lugano egli avea trovato l'araba fenice della quale da tanto tempo ormai andava vanamente in cerca, un impiego cioè; e già l'Italia del Popolo, pur nata, rivelava minacciosi i segni della crisi finanziaria che ben presto ne avrebbe spenta la voce; e sparivano i risparmi modesti del periodo di guerra; e incombeva su lui come su tutti gli emigrati la spada di Damocle di una possibile espulsione dalla Svizzera. Si era risolto perciò, dopo aver consegnato a Mazzini altri quattro articoli di critica e storia militare73, a ritentare il viaggio oltre la Manica, d'infausta memoria per lui. Sperava che, libero ormai nei suoi movimenti e non ignoto del tutto e peritissimo in fatto d'ingegneria, non avrebbe stentato a sistemarsi in un paese di grande industria. Ma se gli amici di Mazzini lo accolsero letteralmente a braccia aperte e in mille guise si prodigarono in suo favore, neanche lassú potè scovarsi il desiato posto; che a Pisacane, confuso tra le migliaia di rifugiati d'ogni nazione d'Europa, piombati perché attratti, come lui, ancor piú che dal miraggio della libertà inglese, da quello supposto dei facili guadagni, fu giuocoforza far ancora buon viso alle solite lezioni e ripetizioni: si sarebbe detto che agl'italiani non si chiedesse altro, in ogni parte del globo, che lezioni e lezioni. Miseria nera, però!

È vero che fin dall'agosto '49 funzionava a Londra, in soccorso degli esuli indigenti, l'Italian Refugee Fund Committee, ma quanto deboli le sue risorse, e poi come avrebbe potuto onorevolmente ricorrervi il colonnello Pisacane, dei duchi di S. Giovanni? A Londra gli ex combattenti italiani morivano allegramente di fame...74

Il triste soggiorno si prolungò per Pisacane per quasi sette mesi, fino al giugno '50; e non sappiamo neanche se gli fosse d'accanto, a rallietargli l'esilio la sua Enrichetta.75 Ma non ci sono che gl'intelletti miseri che attribuiscono alla miseria la pochezza della loro vita: Pisacane non si lasciò intimidire dall'ostilità della sorte, e bravamente si lanciò alla conquista di Londra, di quella parte di Londra, per meglio dire, che aveva un interesse per lui. Non capitava proprio tutti i giorni la possibilità d'incontrare in un miglio quadrato gente della risma d'un Blanc, d'un Leroux, d'un Ledru-Rollin,76 d'un Cabet, d'un Dupont; né d'imbattersi, tra i banchi del British Museum, col celebre autore del Manifesto dei Comunisti. Chi di costoro riuscí Pisacane a avvicinare? Ahimè, non si sa; alcuni di certo se il Macchi ci attesta che dalla viva voce dei «capi della democrazia francese» egli apprese allora i rudimenti delle nuove dottrine sociali. Le occasioni per frequentarli, d'altronde, non gli dovevan mancare, ché nei salotti dei suoi nuovi amici inglesi i socialisti erano allora alla moda ed era anche alla moda che i democratici si riunissero in «agapi fraterne» in questa o quella taverna, libando alle «immancabili» sorti.

Se dunque il soggiorno in Isvizzera aveva offerto a Pisacane la possibilità di fare un nuovo passo in avanti nel superamento d'un patriottismo troppo esclusivo e d'intuire la stretta interdipendenza che correva tra gli avvenimenti politici dei vari Stati d'Europa, i mesi di Londra riportarono la sua attenzione sulle relazioni esistenti tra problemi politici e problemi sociali. Nel luogo e nell'ambiente in cui un Marx andava studiando ed esponendo le cause economiche dello scoppio rivoluzionario del '48, e un Ledru-Rollin dipingeva nella sua opera sulla Decadenza dell'Inghilterra un quadro impressionante delle condizioni del proletariato britannico; in cui si compilavano, per seminarli poi in tutto il continente, giornali e riviste ispirati al socialismo; in cui si formavano tra gli esuli delle varie nazionalità clubs socialisti e comunisti; in questo luogo e in questo ambiente Pisacane, all'indomani del '48-'49, non poteva trascorrere sette mesi senza che il suo orientamento spirituale ne risentisse profondamente.

È molto contrariante, in verità, che non si riesca a trovare una sola traccia di questi contatti fra Pisacane e gli esuli democratici di Londra. Ma quel che preme di rilevare è che, di ritorno dall'Inghilterra, Pisacane ci appare assolutamente un altro uomo: in un tessuto già favorevolmente disposto questo secondo viaggio in Inghilterra ha inoculato per sempre ormai il germe della insolubile questione sociale; e il primo effetto di questo mutato atteggiamento fu quello di temperare i suoi ardori di rivoluzionario politico, di cacciare nel suo animo un formidabile e inquietante punto interrogativo al posto della baldanzosa affermazione, essere in Italia già compiuta la rivoluzione morale, con la quale alcuni mesi innanzi aveva concluso il suo articolo sulla Guerra italiana.

Ma perché poi, munito di un passaporto sotto mentito nome, quello di Giacomo Stansfeld, lasciasse Londra per tornare ancora una volta a Lugano, è un mistero. Forse una missione affidatagli da Mazzini?77 Oppure Cattaneo e Macchi o qualcun altro gli hanno trovato un provvisorio impiego? Silenzio dei biografi: anzi Mazzini scrive che da Londra ripartí per l'Italia e nei Cenni premessi ai suoi postumi Saggi si legge che nel giugno '50 si trasferí dall'Inghilterra a Genova. E non è vero.78

Eppure anche a Lugano non ha terren che lo regga, per quanto il noto ambiente gli torni oltremodo gradito e gli amici lo accolgano come un fratello: due, tre mesi, poi riparte e questa volta per l'odiato Piemonte. La breve sosta è tuttavia importantissima. Pisacane dev'essere tornato da Londra con la testa piena d'idee nuove e con l'impressione di poter dominare da un punto di vista originale e, almeno per i suoi compatrioti, affatto nuovo il complesso succedersi dei recenti avvenimenti italiani.

Come scrittore militare, pur rivelando una tendenza costante a trarre dai particolari conclusioni di carattere generale, egli ha finora lavorato, si può dire, di dettaglio e intorno a dettagli (anche l'ultimo suo articolo comparso nell'Italia del Popolo, nel quale ha esposto la sua motivata avversione contro gli eserciti permanenti, istituzione ch'egli ritiene storicamente superata e ormai giustificabile solo in funzione e in servizio della tirannia politica e sociale79, si lega sotto questo rapporto ai precedenti suoi scritti). Ora tutto ciò non lo soddisfa piú; sente che senza una bussola il navigante anche provetto si perde nel vasto mare, e che per abbracciare un ampio panorama bisogna salire in alto, dove i particolari si fondono in linee e colori. Prima del suo viaggio a Londra egli ha arrischiato delle previsioni politiche; ora s'accorge che il loro valore è zero, in quanto egli ha implicitamente supposto che le forze determinanti il domani sarebbero state le stesse che hanno giuocato in passato. Invece — lo ha capito fuori — quanti nuovi elementi, interessi, dottrine, punti di vista si vanno elaborando, dalla cui combinazione scaturirà senza dubbio un diverso domani! Se tentasse, in base almeno a taluni di questi nuovi elementi dei quali ha tanto inteso parlare e tanto letto in Inghilterra, una nuova sintesi, una specie di consuntivo dell'epopea quarantottesca? Gli pare che ora saprebbe assai meglio che non l'anno innanzi intenderne certe deficienze e valutarne alcune caratteristiche, oltre che avanzare piú meditate e lungimiranti previsioni sui futuri andamenti. Cattaneo, che ha pur mo' pubblicato un suo saggio magistrale sulla rivoluzione milanese, lo incoraggia al lavoro e lo aiuta a chiarire le idee; i suoi consigli, i dati che egli solo può fornire, la sua fobia del generico salveranno Pisacane dal cadere nelle astrazioni inconcludenti. L'occasione anche per altri aspetti è magnifica: i piú attendibili testimoni e attori d'ogni importante episodio del '48-'49 sono, si può dire, tutti a portata di mano, a Lugano o a poca distanza di ; si può quindi verificare ogni versione, chiarire ogni punto oscuro, costruire sul solido; e poi utilizzare la collezione di narrazioni e documenti raccolti per l'Archivio triennale. Al lavoro, dunque.

Si delinea cosí e poi d'un getto solo, diresti, si forma il primo volume di Pisacane, La guerra combattuta in Italia nel 1848-1849, che reca appunto la data di Lugano ottobre 1850. È un libro appassionato e ispirato, animatissimo dalla prima all'ultima pagina, una cosa perfettamente riuscita. La nuda militaresca concisione della parte narrativa, la estrema vivacità dei giudizi critici, l'originalità dell'assunto, l'equilibrato padroneggiamento della materia, lo stile nervoso e asciutto dànno la misura del fervore da cui è animato l'autore, della freschezza e novità delle sue convinzioni; e insieme rivelano se non m'inganno a partito, una nuova influenza di Cattaneo: incitatore prima ed ora giudice e correttore severo. Ma del libro si dirà piú innanzi, ché non venne alla luce se non l'anno appresso.

 

Racconta il Macchi: «Molti mesi egli allora passò meco in quasi fraterna dimestichezza con Cattaneo, con Dall'Ongaro, con De Boni80; e presto abituatomi alla cara consuetudine della sua compagnia, non dimenticherò mai il dolore, che sentii dentro di me il giorno in cui ci diede addio, per raggiungere incognito quell'egregia signora, che aveva abbandonato la primitiva famiglia, i parenti, gli agi domestici, il paese nativo per dividere le tribolate sorti del profugo politico».

Enrichetta dov'è? Tocchiamo qui forse il motivo dominante della irrequietezza dimostrata da Pisacane negli ultimi tempi. La «compagna» è materialmente e moralmente lontana, molto lontana da lui, smarrita in un'angosciosa crisi spirituale, sulla quale solo di recente il fortuito ritrovamento di una lettera ha gettato una prima luce.

Genova, un piccolo albergo, il 10 di ottobre; scrive Enrichetta a Carlo (dopo avergli narrato della sua vita solitaria, confortata di quando in quando dalle visite di qualche amico di Pisacane e suo): «Conforti è venuto in questo punto..., e mi ha esortato ad amarti sempre, perché lo meriti, e ciò è pur troppo vero, e credo che ben presto ti amerò molto, ed il giorno che avrò la risposta dalla famiglia ti esorterò a venire in tutti i modi a vedermi... Ieri Boldoni mi portò la tua del 7... La lessi, mi commossi molto, ma poi sono ricaduta nell'incertezza di prima... ti prego, non farmi piú domande e né parlarmi piú di questo nostro ultimo dispiacevolissimo affare. È stata una cosa incomprensibile, e credo unica; io stessa ne sono imbrogliataso ben capirla... il certo si è che mi ha cagionato solo immenso dispiacere, e molto volentieri cancellerei dalla mia vita questi ultimi due mesi, che mi hanno fatto perdere tutta l'illusione della superiorità ch'io supponeva avere nel mio carattere. L'anello e i tuoi capelli una sola volta pensai di toglierli, ma riflettendo ch'essi altro non erano che l'emblema di dolce memoria, e come mai mi è dispiaciuto il rammentarmi del passato, cosí li ho tenuti non provandone alcuna impressione. Io ho creduto necessario, senza punto far leggere le tue lettere, dirne qualche idea giusta che tu avevi per questo malaugurato affare, ciò che ha indotto il tuo amico ad allontanarsi, non trovando altro rimedio per dimenticarmi, ed io ho approvato con grande soddisfazione, perché sicuro ci saressimo perduti entrambi, continuando stare vicini. Ti confesso che per due giorni fui dolentissima della sua partenza, ma ora la morale, la ragione, e l'affetto che nutro per te non mi fa quasi piú accorgere ch'io avessi potuto pensare di amare un'altro...»

Si vorrebbe non credere: Enrichetta, che ha abbandonato marito e figli per seguir Pisacane, Enrichetta, la Nightingale della repubblica romana, la donna onorata dal Mazzini, innamorata di un altro, dimentica d'ogni sua dignità? Dovremo dunque pensarla donna leggera, instabile, colpevolmente volubile negli affetti? Persuaderci che da lei Pisacane, anziché forza e serenità per la sua dura vita, abbia attinto amarezze e delusioni?

Ma proseguiamo. «Né incolpare un solo della colpa di due, perché la cosa piú meravigliosa si è stata la prima scambievolezza... Il ritratto che mi fai delle mie due esistenze è vero e crudele assai, e mi ha immerso in tale stato d'incertezza da disperarmi... Ora esaminiamo un poco. Io vorrei riunirmi a te..., ma il dispiacere di rompere coi miei parenti è immenso, la precarietà della nostra esistenza mi spaventa... Cosa decidere! Io non lo so... Se potresti come tu dici divenire cittadino svizzero, allora che credo il miglior partito riunirci, perché non potresti mai esserne cacciato e difficilmente ci mancherebbe il pane. Sii piú che sicuro che qualunque cosa io scrivessi ai miei parenti essi si disgusterebbero con me perché ora essi sono persuasi che io sia come in famiglia, e punto dubitano ch'io potessi ricominciare a dispiacerli... Allorché ho tue lettere vorrei venire da te, allorché ne ho da casa mia, non vorrei piú venire pensando che dispiacere ne avrebbe la povera Mamma. Quest'incertezza mi uccide. Rileggendo il quadro che mi fai della mia vita con te, mi deciderei di restarmi come mi trovo, perché esso troppo mi spaventa, e sono certa che il mio naturale s'irrita tanto della vita provvisoria da renderti troppo infelice. Intanto se credi prudente di spendere qualche centinaio di franchi e vorresti venire qui per meglio discutere a voce, direi non tardare piú...»

Arduo compito quello di dover ricostruire la storia di un'anima da pochi frammenti superstiti: fosse anche a me lecito, sorvolando sull'episodio scabroso, ripetere con Mazzini che al «santuario della vita individuale» deve arrestarsi la curiosità del biografo! Ma in quel santuario, ahimè, ficcò lo sguardo indiscreto la polizia, che nel corso della perquisizione operata al domicilio di Pisacane, dopo la sua morte, rintracciò, tra pochissime altre, la lettera di Enrichetta, per sette anni dunque gelosamente custodita.

Quale si sia l'impressione che essa può suscitare al primo istante, guardiamoci dall'avventar giudizi definitivi su circostanze che restano tuttavia incerte ed oscure. Tentiamo di capire. Da qualche accenno contenuto nella lettera stessa risulta che a Genova, in un primo tempo, Enrichetta poteva contare sull'appoggio di un «Achille», poi trasferitosi a Nizza, che a quanto pare era un suo familiare, forse suo fratello. È possibile che il consiglio di riunirsi provvisoriamente a questo suo congiunto le fosse venuto dallo stesso Pisacane, al ritorno da Londra, e forse anche prima di allora: che ella almeno godesse di un po' di pace finché egli non trovasse, in un luogo o nell'altro, un'occupazione stabile.

Lunghi mesi di solitudine per Enrichetta, preghiere dei suoi perché tronchi una buona volta la relazione con un uomo che in tre anni d'unione non ha saputo offrirle che vita agitata e miseria; nostalgia dei bambini lontani; venerazione per la mamma che «piange sempre e domanda al cielo cosa ha mai fatto per esser cosí punita...»; e non una casa, niente che le riempia le grigie giornate. Questo basta per gettarla in un mare d'angoscie e di dubbiezze. Mentre ella si trova in questo tristissimo stato, lontano il suo Carlo e forse unicamente assorto nella stesura del suo libro, tra quei che la frequentano, uno — il Cosenz, coetaneo e amico d'infanzia di Pisacane — s'invaghisce di lei. Enrichetta, pur non cessando di amare il suo Carlo, sente che una irresistibile forza la trascina suo malgrado a ricambiar quell'affetto. È come se ella non avesse piú volontà sua; segue con la lucidità di un'allucinata il progredir del suo male, ne fa una spietata diagnosi come se si trattasse di un'altra persona, non sa reagire; i suoi sensi tendono irresistibilmente verso quel nuovo tepore; la ragione, che si ribella, crea il conflitto interiore, tormentosissimo. Leali fino allo scrupolo, i due non nascondono all'amico lontano il loro dramma, che è il suo dramma. Gliene descrivon le fasi con fredda imparzialità, come se si trattasse di un problema difficile da risolvere: che fare? Cosenz dovrebbe sposarsi di a poco, ma come lo potrebbe onestamente?

Pisacane risponde: maledice, minaccia, vitupera? Macché. È straordinaria la capacità che certi sentimentali dimostrano di notomizzare il proprio sentimento affettando indifferenza pei resultati che l'esame darà: Pisacane (lo s'intende dalla lettera di lei) non scongiura neanche; probabilmente, riconosciuta la libertà che ad Enrichetta compete di cercarsi la felicità ove meglio ella creda, si limita alla parte del consulente. Nello stesso modo che, italianissimo com'è, ha fatto un bilancio severo dei recenti avvenimenti italiani, fa adesso, impassibile, il bilancio, che potrebb'essere di liquidazione, della sua esperienza d'amore: come se tutto ciò non fosse in carne viva... Non ha diritti, non ha dunque pretese; ragiona solo nell'interesse di lei. Ma le cose che dice, lui che nell'animo di Enrichetta ha imparatoormai da dieci anni — a leggere come in un libro aperto, son cose che aiutano lei a veder chiaro, a distinguere, nella crisi, gli elementi puramente sentimentali dai molt'altri di diversa natura: solitudine, malinconia, nostalgia della casa e dei figli. Non è forse possibile che Enrichetta abbia esagerato il suo male a forza di tormentarcisi su? Che ingenuamente abbia veduto nel Cosenz, avvicinatosi quando la crisi aveva raggiunto il suo apice, il deus ex machina che ne l'avrebbe tratta fuori, quando invece nessuno fuorché il suo io profondo avrebbe potuto placare la tempesta interiore? La risposta di Pisacane, comunque, suona ad Enrichetta come la voce amica che la risveglia dall'incubo. Finalmente si muove, reagisce al fatalistico abbandono cui ha ceduto sinora, resiste alla corrente che stava portandola via, nessuno sa perché. Cosenz è un amico provato, capisce, si allontana. Enrichetta scrive meravigliandosi di aver «potuto pensare di amare un altro».

La crisi è dunque superata? No, o almeno non del tutto. Tra la famiglia che la rivuole e Pisacane che non può prometterle se non la continuazione della vita errabonda menata fin qui (chiuse le porte di Napoli, chiuse nel resto d'Italia, nessun punto fermo negli altri Stati d'Europa; e la vita sempre eccitata e irrequieta del profugo) ella esita. Sentendo fino a qual punto il suo «naturale» s'irriti per l'instabilità e il provvisorio, condizioni nelle quali sembra invece che Pisacane trovi il suo miglior rendimento, le vien fatto finanche di dubitare del suo affetto per lui: lo ama davvero? Ma allora perché la spaventa la prospettiva di tornare con lui? È un soliloquio, sono i pensieri e i dubbi e le ipotesi che ogni persona che ama si pone e si discute e scaccia e riprende cento volte al giorno: è la vita dell'anima. Ma Enrichetta è troppo sincera: trascrive queste notazioni intime, che svaporan di solito nel nulla, su fogli di carta e le trasmette al compagno. Forse è un'abitudine loro, di dirsi tutto, anche quello che molti non dicon neppure a se stessi.

Lo so: sarebbe assai piú edificante se dal '47 in poi Enrichetta ci si mostrasse sempre a fianco del suo compagno, fedele, innamorata, modesta, contenta di tutto, anche del perpetuo errare; lo so, la crisi del '50 attesta una debolezza. Ma una macchia, ecco il punto, non è. Prova ne sia la deferenza affettuosa che circonderà sempre Enrichetta81, prova il perdurare della fraterna amicizia tra Pisacane e Cosenz.

Era poi senza colpa Pisacane? Chi sa. Come tutti gli uomini cui brucia in cuore una grande passione — per la politica, per la scienza o per l'arte — egli aveva forse vissuto fino allora unicamente preso da quella, travolto nel gorgo dell'attività politica; dedicando, forse, troppo poco di sé, della sua intimità spirituale, alla compagna, alla quale, quando l'aveva strappata alla famiglia, egli aveva pur promessa una vita comune, nel piú profondo significato dell'espressione. Era andato in Algeria, e l'aveva lasciata a Marsiglia; poi la ferita, la tumultuosa parentesi dell'esilio in Svizzera, la breve permanenza in Piemonte, i mesi febbrili di Roma, la prigionia, Ginevra, Losanna, Lugano, poi Londra. La donna era giovane, avea bisogno d'amore, e da tre anni anelava a un poco di felicità individuale!

Per questo appunto, perché alla donna pur alta e degna non basta formalmente associarsi alla vita dell'amato, ma le è bisogno irresistibile contribuire a foggiarla e insieme crearsi una vita propria, per questo appunto i piú fra gli uomini che si dicono grandi perché hanno creato qualcosa nel mondo dello spirito, vissero senza una donna, se pur seguiti e confortati lungo la via da passeggeri affetti. Per questo appunto Mazzini, se amò, e amò piú volte con rara intensità, a nessuna donna mai volle consacrar la sua vita, lui che pure serbò fino alla tomba l'accorato rimpianto di una famiglia propria!

La crisi di Enrichetta è dunque insieme anche crisi di Carlo; c'è della debolezza di qua, c'è dell'egoismo di : torti reciproci. Si era rasentato il disastro, erano corse parole, peggio che dure, fredde, si era potuto credere che tanto amore naufragasse per sempre nell'indifferenza. Ma la ripresa, previo abbandono immediato di un assurdo dialogo epistolare, non poteva tardare. Minacciato nell'unica consolante certezza della sua vita, Pisacane abbandona le pazze idee per un tratto nutrite di adottare la cittadinanza svizzera o di emigrare, per disperazione, fuori d'Europa e si precipita a Genova. È l'autunno: fine d'ottobre o primi di novembre82. Basta vedersi, parlarsidove, se non in un profondo sguardo possono attingersi certe grandi certezze? — e la tempesta pare una cosa lontana. Davvero si era potuta immaginare la vita lontani l'uno dall'altro?

«Pisacane è tornatochiede Mazzini a Dall'Ongaro. No, non è tornato e non torna. Resta vicino alla sua compagna, che ha tanto bisogno di lui. Vuol riparare ai suoi torti. Si fisseranno a Genova, dove egli tenterà di tutto pur di darle una casa e quel po' di stabilità che è a lei indispensabile: «Il mio naturale s'irrita tanto della vita provvisoria da renderti troppo infelice», aveva scritto Enrichetta (e sarebbe bastato quel renderti, laddove ci si sarebbe attesi un rendermi per far capire quanto ella ancora amasse il suo Carlo!) Pisacane non lo scorderà piú. Dal '50 al '57, infatti, non si muoverà di , da quei luoghi che avevan veduto sfiorire e rinascere il suo unico amore: né per questo rinunzierà affatto ai suoi ideali politici e sociali, ché anzi li andrà sempre piú affinando e approfondendo; né ai suoi amici, ché anzi li coltiverà assiduamente; né, insomma, alla sua vita di azione; ma tutto avrà ormai un suo centro, una sua base, un suo limite, un punto di partenza e d'arrivo, tutto confluirà, tutto troverà ricetto e comprensione nella casa comune.

Dalla rinnovata armonia ideale sgorgherà forza nuova per entrambi, forza che varrà a lui per osare, a lei per comprendere, se non per incitare.






p. -

61 Soltanto a Ginevrascriveva la torinese Concordia, 24 agosto 1849trovansi «circa la metà dei deputati dell'Assemblea romana e del governo repubblicano di Roma».



62 Sull'amicizia tra Varè e P., v. Varè a Dall'Ongaro, 6 nov. 1850, in DE GUBERNATIS, op. cit., 294. Ma poi Varè e P. si guastarono, sembra, in seguito a dissensi politici: quelli stessi che travagliavano allora l'intero movimento repubblicano. «Chi sa se questo libro ci unirà di nuovochiedeva P. a Dall'Ongaro, accennando al V. appunto, il 4 giugno 1851, nella imminenza della pubblicazione della sua Guerra combattuta. Anche Varè s'interessava di problemi sociali, seppure da un punto di vista assai diverso da quello di P. In un articolo stampato sulla mazziniana Italia del Popolo (dic. 1849), egli si compiaceva del fatto che in Italia la questione sociale si presentasse assai meno urgente e assillante che altrove, e ne additava la causa nel dispotismo, livellatore delle classi, e nella scarsa sproporzione fra le fortune individuali.



63 Del soggiorno ginevrino di P. parla Quadrio in una lettera a Dall'Ongaro, pubbl. da DE GUBERNATIS (284), con la data evidentemente erronea 10 febbraio 1849: essa non può essere invece che dell'agosto di quell'anno. E da Ginevra fu senza dubbio scritta la lettera 18 sett. 1849 di P. al fratello, che il Negri ha pubblicato con la data fantastica di Genova. Anche Mazzini scriveva allo Stansfeld il 20 agosto 1849, da Ginevra, per pregarlo di procurargli certa lettera di credito «su Ginevra all'ordine di P. che è qui».



64 Come si sa, l'Archivio triennale era integrato dalla importante collezione Documenti della guerra santa d'Italia.



65 Nei Saggi (III, 39) P. chiarisce che «il popolo non trascorre mai alla violenza perché animato da un concetto, ma perché stimolato dai dolori». — Della guerra insurrezionale in Italia, dei suoi metodi, delle sue finalità, del suo ordinamento si occupavano in quegli anni, oltre P., molti scrittori. Cfr. fra gli altri GENTILINI, Guida alla guerra d'insurrezione. Capolago, 1848; LA MASA, Della guerra insurrezionale in Italia, Torino, 1856; le opere di G. PEPE ecc.



66 Anche Maurizio Quadrio, ad esempio, credeva che a Napoli, oltre che, s'intende, in Francia, fosse «il nodo della rivoluzione europea» (a Grillenzoni, 28 aprile 185o: In Epistolario di M. Q., II, 19).



67 Al Fabrizi scriveva Mazzini il 24 settembre 1849: «Vedo in questo momento la tua lettera a P... Convengo in teoria quanto al Sud; ma diffido della possibilità; bisogna nondimeno occuparsene».



68 Il passo di Montanelli si legge nelle sue Memorie sull'Italia, I, XI.



69 Intorno alla polemica Pisacane-Mieroslawski v. R. VILLARI, Cospirazione e rivolta, 113.



70 Lasciando Montallegro, P. vi depositò un suo baule del quale piú tardi ebbe ad occuparsi Mazzini (S.E.I., XLIV, 221).



71 Una prova della giusta considerazione nella quale era allora tenuto P. quale uomo di guerra si trova nell'Almanacco di Giano 1849-1850, stampato in Isvizzera nel 1850, il quale accenna (199) a lui e a pochi altri come allo «stato maggiore» del «futuro esercito insurrezionale italiano».



72 Sui dissensi interni che travagliavano il movimento repubblicano, cfr. MONTI, Un dramma fra gli esuli, Milano, 1921, 117 sg.; MAZZINI, S.E.I., XLIV, XLV, passim (Mazzini contro Ferrari; Ricciardi, Cattaneo, Cernuschi contro Mazzini, ecc.). Dall'Ongaro tentava invano di far da paciere (SAFFI, Cenni biografici e storici a proemio del vol. IX degli Scritti di Mazzini ed. Daelli, XXVI-XXVII), a ciò incoraggiato da Tomaseo (DE GUBERNATIS, 183) e da Gustavo Modena (Politica e arte, 56). Ricciardi, che viveva in Francia, definiva i mazziniani «miserabile setta, fecciume e vergogna d'Italia» (a Dall'Ongaro, 16 febbraio '51; in DE GUBERNATIS, 297). Sulle diatribe fra gli emigrati repubblicani in Francia, v. IACINI, Un conservatore rurale della nuova Italia, I, 36.



73 I quattro ultimi articoli pubblicati da P. ne l'Italia del Popolo furono, nell'ordine, Qualche osservazione sulla relazione scritta dal generale Bava della campagna di Lombardia nel 1848; Poche parole sulla campagna di Bade del 1849; La neutralità della Svizzera; Pensieri sugli eserciti permanenti. Le idee espresse nel articolo vennero poi travasate da P. nella sua Guerra combattuta e perciò non se ne tien parola (per quanto l'articolo venisse giudicato di tale importanza, che Mazzini lo volle ristampare in un volumetto a parte, a forte tiratura, quale appendice del suo scritto sulla Guerra regia in Lombardia; Mazzini a Fabrizi, 29 marzo 1850). Il , in sé poco importante, richiamava l'attenzione per la sua conclusione: avere cioè il partito delle autonomie nazionali, ovunque in Europa, nel biennio, dato prova di spiccata incapacità militare; la gioventú italiana, dunque, si addestrasse senza posa alle armi, in vista dell'inevitabile ripresa avvenire. Nel articolo è interessante la critica all'impegno di neutralità perpetua assunto dalla Svizzera, assurdo finché in Europa continua a prevalere il nemico d'ogni democrazia, l'assolutismo monarchico. Oh, «se nella guerra del 1848 in Lombardia la Svizzera con tutte le sue forze fosse intervenuta, ora l'Italia sarebbe una e forte, l'Austria distrutta, e la Francia non sarebbe caduta basso». Del articolo è fatto cenno nel testo.

L'Italia del Popolo sospese le pubblicazioni nella primavera 1850; le riprese poi nel novembre, ma per cessarle definitivamente nel febbraio seguente.

Già il 27 novembre 1849 Mazzini scriveva alla Hawkes, a Londra: «Suppongo che abbiate veduto P.: ditegli che lo ringrazio per la sua lettera». Altri accenni al soggiorno di P. a Londra si trovano nell'Epistolario di Mazzini, 26 dic. 1849, 24 gennaio, 20 febbraio, 12 aprile 1850.

Ricerche compiute nel Record Office di Londra condurrebbero in verità a anticipare la data del viaggio di P. Secondo i documenti ivi conservati, resulterebbe infatti che il 14 novembre 1849 sbarcava a Londra, da Boulogne, un signore napoletano, di 32 anni (P. era appunto nel suo 32° anno di età), il cui nome, assai malamente trascritto dal commissario di bordo, potrebbe anche leggersi Pisacane. Per strana combinazione non esiste, fra i certificati di sbarco raccolti nel Rec. Off., quello riguardante il predetto signore, che non è possibile controllare la incerta lettura del nome. Da osservarsi però che in tutto il mese di novembre non sbarcò in nessun porto d'Inghilterra alcun altro napoletano. È probabile dunque si trattasse proprio di P., il quale, in tal caso, sarebbe partito dalla Svizzera sui primissimi del mese. La lettera di Dall'Ongaro a Tomaseo, cit., recherebbe dunque una data errata. — Quanto a Medici, risulta dai documenti del Rec. Off. ch'egli sbarcò a Dover il 23 novembre 1849 (H. O., 2, 1849).



74 In pro degli esuli e per batter cassa per quel Comitato aveva scritto un bellissimo, commovente indirizzo lo stesso Dickens, nell'agosto 1849 (Italia del Popolo, sett. 1849).



75 Fu Enrichetta a Londra? Non si può affermarlo con sicurezza; per quanto due accenni contenuti in una lettera di lei a Carlo dell'ottobre '50 e un biglietto di Mazzini alla Hawkes, 14 aprile 1850, rendan l'affermativa piuttosto probabile.

Che la partenza di P. da Londra fosse già avvenuta nel giugno si rileva da una lettera di Mazzini a Saffi, da Londra appunto, giugno 1850.



76 Blanc, Ledru-Rollin, Leroux eran, si sa, amicissimi di Mazzini; fu verosimilmente pel tramite di lui che P. poté avvicinarli.



77 Sul passaporto di P. v. lettera di Mazzini alla Biggs, agosto 1850.

A una missione affidata da Mazzini a P. non credo. Scriveva infatti Mazzini al Grillenzoni (il quale abitava, si sa, a Lugano) il 7 ottobre '50: «Pel lavoro politico di dettaglio... ci vogliono giovani o uomini invecchiati in siffatte pratiche. Tu, Clerici, Dall'Ongaro, Pisacane, del quale nessuno mi parla e ch'è buonissimo, etc., siete quei che dovreste riunirvi, intendervi, operare concordi, formare insomma un Comitato d'azione». Il 14 dello stesso mese lamentava ancora che nessuno gli facesse «cenno di P.».



78 La cronologia di questi spostamenti di P. da Ginevra a Losanna, a Lugano, a Londra, e poi nuovamente a Lugano, e finalmente a Genova, è stata assai imbrogliata dai biografi. Mi sembra di averla ristabilita ormai con sufficiente esattezza, basandomi, oltre che sulle lettere di Mazzini, sullo scritto, cit., del MACCHI e sui doc. del Record Office.



79 Si legga, nei Pensieri sugli eserciti permanenti, l'invito rivolto da P. ai soldati piemontesi e napoletani perché, incrociando le braccia, mettano una buona volta alla prova la supposta popolarità goduta dai loro sovrani.



80 Asserendo di avere allora passato «molti mesi» con P., il Macchi cade in una leggera inesattezza. Ché il M. non giunse in Isvizzera (da Genova, donde era stato espulso) se non verso la metà di settembre (MAZZINI, S.E.I., XLIV, 53).



81 Mazzini, intimo di P., non avrebbe certo potuto scrivere (nei cit. Ricordi) che l'amore di P. per Enrichetta era stato «ricambiato apertamente e con rara fedeltà... sino agli ultimi giorni» se a Enrichetta si fosse potuto imputare un fallo, sia pur passeggero.



82 «Pisacane è a Genova», attesta ancora Mazzini (a Saffi) il 12 novembre 1850.

 

Capitolo VI





Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2009. Content in this page is licensed under a Creative Commons License