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Nello Rosselli
Carlo Pisacane nel Risorgimento Italiano

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  • CARLO PISACANE NEL RISORGIMENTO ITALIANO
    • Capitolo settimo Piemonte socialista
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Capitolo settimo
Piemonte socialista

 

Pisacane fu il primo che tentasse di spiegare con motivi prevalentemente economico-sociali l'insuccesso del biennio rivoluzionario italiano. Esagererebbe per altro l'importanza della Guerra combattuta chi la definisse perciò come un riuscito saggio di applicazione integrale del materialismo storico: geniale anticipazione, , ma troppo generica. Siamo alle soglie del socialismo scientifico. Pisacane dimostra infatti nel suo libro piú fede che dottrina, piú capacità d'intuizione che forza vera di ragionamento; è il neofita entusiasta che scrive, non l'argomentatore preciso e convincente che ha approfondito il suo credo e sa misurarne la portata e i limiti. Se la Guerra combattuta ha, in terreno italiano, tutto il valore e l'originalità d'una scoperta, questa scoperta attende insomma o dal suo autore o da altri sistemazione e sfruttamento adeguati.

Comunque è una pietra miliare nella storia del pensiero socialista italiano.

Un socialista, nel Piemonte del '51? Stando alle versioni fin qui accreditate della storia italiana recente, questo accostamento fa addirittura trasecolare. Che anche Ferrari s'atteggiasse a socialista in quel tempo, si sapeva; ma si osservava che a forza di stare in Francia e di bazzicare i Proudhon e i Leroux egli si era del tutto infranciosato. Vene socialistoidi si erano notate, è vero, negli scritti del Franchi, ma chi pigliava sul serio questo prete spretato, buttatosi ai piú spregiudicati estremismi e a molte altre stranezze, per poi tornare, vecchio pentito e contrito, in grembo a santa madre chiesa?

Pisacane, dunque, isolato precursore e profeta del socialismo, unico veggente in terra di ciechi: questa per l'appunto la leggenda che si è accreditata fin qui. Tanto che quando si son volute stabilire le sue fonti, identificare le suggestioni alle quali soggiacque, si son fatti i soliti nomi dei socialisti francesi, i soliti nomi di Ferrari e di Franchi. Cose viste, da lui, in fatto di associazionismo operaio? Molte, ma tutte fuori d'Italia.

Si direbbe che a quel tempo, nel nostro paese, il problema del lavoro non esistesse neanche.

Se tutto ciò fosse esatto, se Pisacane avesse cioè parlato, nel Piemonte, nell'Italia del '51, un linguaggio nuovo e inaudito, la controprova dovrebbe trovarsi nella stampa contemporanea. Figurarsi se giornali e riviste di destra non avrebbero solennemente condannato il novissimo eretico e quei di sinistra non avrebbero segnalato, lodandola o no, l'audacia del suo scritto!

La controprova, invece, fallisce in pieno. La Guerra combattuta fece , come s'è visto, un gran chiasso, ma solo in quanto la maggioranza dei suoi lettori non restò affatto persuasa dei giudizi perentori azzardati dall'autore sulla pretesa competenza di questo o quel generale, sull'accortezza di questa o quella manovra guerresca, e cose del genere. Poco scalpore, niente scandalo, per contro, provocò il dichiarato socialismo di Pisacane. Gli è che di socialismo e di questione sociale, nel Piemonte del '51, contrariamente al supposto, si discorreva non dirò neanche spesso, ma quotidianamente102; che i problemi operai v'erano all'ordine del giorno; che Pisacane socialista non faceva che ricomporre, elevare a sistema, portare alle estreme conclusioni motivi ideali e stati d'animo assai largamente diffusi nell'ambiente medesimo nel quale viveva. Non era, insomma, quel tale solitario navigatore per mari inesplorati voluto dagli ignoranti biografi: quel mare formicolava di vascellipiú o meno rapidi e moderni del suo — mossi dallo stesso vento, diretti alla sua stessa meta. Ma forse è necessario, per ristabilire il vero, distaccare per un poco lo sguardo dal vascello di punta.

 

Che il problema sociale destasse allora in Piemonte l'interesse piú fervido (e, se si vuole, il piú «interessato») appare chiaro a chi scorra giornali e riviste del tempo.

Tutta suggestione di Francia, tutti riflessi degli esperimenti quarantotteschi al di delle Alpi, tutta influenza dei socialisti stranieri amici dei democratici nostrani? No. Che la stampa piemontese calcasse le orme della maggior sorella oltremontana non è dubbio, cosí strette son sempre state ed erano anche allora le relazioni culturali tra le due vicine nazioni; che la rivoluzione parigina del '48 avesse esaltato e terrorizzato l'Europa intera, e quindi il piccolo Piemonte, è ugualmente sicuro. Ma non per questo si deve ritenere che il rigoglio di idee intorno al problema sociale e di esperienze pratiche nel campo della organizzazione del lavoro manifestatosi in Piemonte nel decennio anteriore al '60 sia nient'altro che frutto d'importazione. Questo bisogno, che appare quasi improvviso e come portato di subitanea esplosione negli uomini colti piemontesi dopo il '49, di rivedere le basi della società e negli operai di migliorare la propria sorte, non si è in realtà verificato d'un tratto, ma preesisteva da lungo tempo. Solo che non ebbe la possibilità di manifestarsi alla luce del sole, di svilupparsi e di lasciar traccia di sé nella stampa se non dopo la concessione dello Statuto, che garantiva la libertà di associazione, di riunione, di parola e di stampa; o meglio, se non dopo il '49, quando cioè, male o bene terminata la duplice guerra con le sue conseguenze inevitabili di limitazione della lotta e delle libertà politiche, al Piemonte fu dato finalmente applicare, e ai piemontesi godere, le benefiche concessioni dello Statuto.

Frutto spontaneo, dunque, condotto a rapida maturazione del regime liberale pur inaugurato, non è detto per questo che l'intenso interesse per la questione sociale manifestatosi in Piemonte dopo il '49 non abbia ricevuto fortissimo impulso dagli avvenimenti del biennio precedente: tutti i grandi sconvolgimenti politici recano in sé la radice di successivi perturbamenti sociali; e non è a dire se le guerre e le insurrezioni e le divisioni stesse provocate nell'ambiente sociale italiano dal vario atteggiamento di ceti e gerarchie dinanzi alla crisi del '48-'49, e il generale impoverimento del paese, non abbian prodotto un profondo turbamento dell'equilibrio sociale e anche, come suole accadere, quella certa inquietudine degli strati piú bassi della società, che si manifesta nella morbosa ansietà di migliorare il proprio stato economico e nell'allentamento del rigido criterio gerarchico.

Nel biennio rivoluzionario si era parlato un po' dappertutto di socialismo e di questione sociale; e le rivendicazioni del proletariato, piú o meno generiche, piú o meno spontanee, erano affiorate un po' dappertutto, in qualche luogo assumendo perfino un aperto carattere sedizioso.

Il fenomeno, anzi, aveva cominciato a manifestarsi fino dal 1847, vuoi in conseguenza del generale risveglio delle minoranze liberaleggianti e della avvenuta concessione, in qualche Stato, di alcune riforme; vuoi in conseguenza della carestia determinatasi ovunque per via degli scarsi raccolti del '46103. Rivendicazioni, meglio che del « proletariato», della povera gente; indistinta volontà di miglioramento che proruppe qua e in agitazioni senza speranza e senza scopo preciso, nelle quali sarebbe vana fatica voler oggi distinguere la parte giocata dalle frazioni operaie o dai dispersi artigiani o dai braccianti agricoli. Quando i giornali conservatori alludevano a questi moti e al rivelarsi di questi torbidi desideri, li battezzavano piuttosto comunisti che socialisti, e giustamente del resto ne additavano il carattere e i limiti in un diffuso risentimento contro le classi ricche e in una sommaria protesta contro l'ordinamento della proprietà. Moti di questo genere si verificarono in Toscana, in Lombardia, in Romagna nei primi mesi del '47, e non furon pochi tra i liberali quelli che, notandone la contemporaneità e il naturale effetto di stringere i timorosi ceti possidenti ai governi conservatori, vollero vedervi lo zampino, oltre che del partito retrivo, del suo grande ispiratore e sostegno: lo zampino dell'Austria104.

Di socialismo, inteso generalmente nel senso di riforme sociali piú o meno radicali da ottenersi con mezzi legali, inserite nel quadro della auspicata generale riforma politica, cominciavano invece a discorrere gli uomini colti, le teste calde del partito avanzato. Carlo Marx, da Colonia, inneggiava ai principii professati dall'Alba di Firenze105. Né l'Alba era sola a slanciarsi per quella via: allentata la stretta della censura, la parola magicasocialismo — e l'interesse non dirò predominante ma certo di primo pianoproblema sociale — erano affiorati spontaneamente e automaticamente nella Toscana del '47, nell'identico modo che si sarebbe verificato nel Piemonte del '49. Chi voglia saperne di piú non ha che da sfogliare la Rivista di Firenze, il Popolano, l'Italia, il Conciliatore, il Nazionale, giornali e riviste che si stamparono in Firenze o Livorno nel corso del 1847.

Con l'anno successivo naturalmente la propaganda socialista andò intensificandosi in tutta Italia. Bagliori di comunismo si ebbero in Puglia nella prima metà del '48, quando — sancita la Costituzione — nella plebe rurale delle Due Sicilie si sparse la mirifica credenza che Costituzione significasse, su per giú, distribuzione delle terre ai lavoratori; e apostoli del comunismo si misero a girar le campagne, incitando i contadini a invader senz'altro demani e latifondi (terrore delle classi possidenti dalle cui stesse fila son pure usciti molti di coloro che hanno spinto alle riforme politiche; diffuse nostalgie di restaurazione del regime assolutista!) Dalla propaganda è breve il passo all'azione: in tutto il Regno si moltiplicarono gli episodi di occupazione di terre comunali106. Nelle città, agitazioni consimili: a Napoli, ad esempio, mentre i fogli democratici profittavano della breve parentesi costituzionale per invocare e discutere ampie riforme sociali, i tipografi dichiaravan lo sciopero, i sarti organizzavano clamorose dimostrazioni di protesta contro il trattamento economico (aprile); a Cava e a Salerno si registravano movimenti fra i tessili.

A Roma e in provincia eran quotidiane, quasi, le dimostrazioni popolari contro la gente ricca.

A Firenze e in tutta la Toscana s'intensificavano le polemiche giornalistiche e le discussioni nei circoli politici intorno al problema sociale e al socialismo. Notoriamente mentiva il Guerrazzi quando, sia pure a fin di bene, dichiarava al Consiglio generale, il 14 ottobre, che «il popolo nostro ignora perfino i nomi di comunismo e di socialismo». A sbugiardarlo stavano le agitazioni dei facchini e tipografi verificatesi a Firenze proprio nel marzo e la grande dimostrazione dei disoccupati del luglio107. Ma la menzogna non era sintomatica?

Neanche le Legazioni eran rimaste immuni dal contagio: c'era a Bologna un giornale dal titolo significativoIl Povero — il quale svolgeva una cosí intensa propaganda socialista che ad esso si volle da molti imputare il poco patriottico contegno tenuto da una minoranza del popolino della città nell'agosto del '48. Idee socialistoidi venivano nel contempo diffuse dai circoli democratici di Modena, Ravenna, Faenza, oltre che di Bologna medesima.

Socialismo in Lombardia: dove, tra il marzo e il luglio del '48, assai se ne discorse, un po' per naturale conseguenza della rivoluzione di popolo108, un po' anche per opera d'interessati agenti della monarchia sarda o, peggio, dell'Austria, postulandosi l'equazione: repubblica = avvento del socialismo. Il Lombardo ad esempio svolse, nella sua breve vita, aperta propaganda classista; e L'Operaio, professantesi «egualitario», si pose a dar consigli di associazionismo autonomo ai lavoratori109. Nell'Italia del Popolo, che pure evitò sempre gli accenni alla questione sociale, si poteva leggere, il 25 luglio, a conclusione d'una serie di articoli dedicati a illustrare la tristissima sorte del proletariato agricolo, la seguente sentenza: «... noi siamo ingiusti quando chiediamo ad essi (ai contadini cioè) sacrifici per la patria che conoscono tanto matrigna». E infatti i contadini dell'alta Lombardia che, come è noto, contrastarono passivamente le operazioni dell'esercito sardo, andavan borbottando, e qualche volta dissero forte che «il regno dei signori» (i patrioti antiaustriaci) era ormai tramontato per sempre110. Ai primi d'aprile, a Milano, si verificarono, scriveva un giornale, «attruppamenti» d'operai reclamanti un aumento di paga. Nel maggio, i tipografi si misero in agitazione per protestare contro l'adozione di un nuovo tipo di macchina; poco dopo fu la volta dei lavoranti sarti.

Socialismo in Piemonte: dove Il giornale degli operai (Torino) si fece banditore di animose rivendicazioni sociali, e in Parlamento una sonora fischiata del pubblico accolse il rigetto, da parte della maggioranza, della proposta instaurazione d'una imposta unica progressiva sul reddito; a Genova, il 4 d'aprile, scoppiò violentissimo lo sciopero dei facchini e quello dei carrozzieri, protestanti contro l'introduzione degli omnibus; il giorno appresso quello dei tipografi. Nel maggio-giugno, si ebbe minaccia di sciopero, a Torino, da parte di lavoranti sarti e calzolai. Le tendenze comuniste nella capitale sabauda erano cosí accentuate che scrittori liberali mostrarono perfino di nutrire serie preoccupazioni per l'avvenire di Torino industriale! A Genova nel novembre un oratore popolare si permise di fare aperta propaganda classista; nel marzo '48 qualcuno presentò al Parlamento una petizione richiedente addirittura che «in nome dell'eguaglianza», «le sostanze e i beni si dividessero fra tutti i cittadini»111.

Socialismo in senso molto impreciso della parola? Generica espressione di malcontento, chiassate e niente altro? Sia pure. Certo è però che la borghesia italiana cominciò ad aver familiarità con i due «spettri» del socialismo e del comunismo proprio in questo periodo di tempo, e che da allora in poi i suoi portavoce non cessarono piú dal dilatarne minacciosamente le proporzioni e i possibili effetti, o al contrario dall'ostentare calorose simpatie socialiste, a seconda che si orientavano verso un conservatorismo ad oltranza, deliberato a tutto pur di distogliere gli italiani dall'impresa dell'indipendenza, o verso un liberalismo di sinistra, ansioso d'interessare in qualche modo le masse all'edificazione dell'auspicato Stato unitario.

Esempi di artificioso ingigantimento del pericolo socialista non difettano davvero, anche a volersi fermare al 1849. La repubblica romana, la sua assemblea, i suoi ministri e i suoi triumviri sono senz'altro socialisti sfegatati per i fogli clerico-reazionari; taluni dei quali non esitano a dichiarare che quell'assoluta dedizione di sé alla patria in pericolo, richiesta da Mazzini ai romani, non ad altro tende che a instaurare «nella teoria e nella pratica il comunismo». Sacrosanta perciò la «crociata» francese: «La Francia che combatte contro Romascrive, solenne, Il Saggiatore, torinese, 15 giugno '49 — è il diritto che fa guerra al socialismo di cui il santuario di Vesta... è divenuto centro e sinagoga». Fioccano risposte furenti di quelli fra i difensori di Roma che prendono sul serio le aberrazioni dell'estrema destra: «Qui non siamo, l'ho detto sovente, né socialisti, né comunisti, né montagnardi; noi siamo italiani e repubblicani», prorompe Cernuschi nell'Assemblea romana, il 2 di luglio; e il Torre: «... noi fummo trattati da discepoli di Proudhon e di Cabet. Né ci duole che cosí la pensassero i diplomatici e gli uomini del francese governo... Ma ci stupisce assai che scrittori italiani e costituzionali non vergognassero di ripetere cosí stolte accuse».

Il fine propostosi dai clerico-reazionari con questo ricatto del comunismo, che da allora in poi è diventato d'uso frequente, era ben chiaro: dimostrare ai Principi italiani e ai loro governi che fuor del piú rigido ossequio alla volontà della Chiesa non c'era rimedio possibile alle crescenti pazze pretese dei rivoluzionari. Dal che, con agile passo, l'occhio volto alla liberale politica sarda, si veniva a dimostrare come e qualmente le confische di beni ecclesiastici, operate dai governi rivoluzionari e accennate da quello di Torino, rientrassero senz'altro negli abominevoli confini del «comunismo».

Pio IX, ufficialmente e privatamente, non parlava che di socialismo e comunismo! Aveva principiato nel '46 (9 novembre), con l'enciclica Qui pluribus; riprese il 20 aprile '49 con l'allocuzione Quibus, quantisque lamentando il diffondersi ovunque del «luttuoso e orrendo sistema del socialismo ed anche del comunismo»; l'8 dicembre '49 fulminò contro le perverse dottrine una furibonda scomunica: i difensori della repubblica romana, vi si leggeva, non avrebbero avuto altro scopo che quello «di spingere i popoli... a rovesciare ogni ordine sociale, e al tempo stesso condurli ad abbracciare i nefandi sistemi del nuovo socialismo e comunismo». E anche: «I maestri tutti, sia del Comunismo che del Socialismo... si sono riuniti in un comune disegno, ed è quello di agitare con perpetue commozioni gli operai, ed altri uomini, specialmente delle ultime classi, dopo averli sedotti con le loro menzogne, e illusi con le promesse di una piú felice condizione, e addestrarli a poco a poco ad altri piú gravi delitti, affinché in seguito possano servirsi dell'opera loro per combattere il governo di qualunque siasi autorità superiore, per derubare, saccheggiare e invadere, prima le proprietà della Chiesa, poi di qualunque altro, e per violare infine tutti i diritti umani e divini»...112

 

Calato il sipario sulle disgraziate esperienze del '48-'49, rimessa ovunque la cappa di piombo della censura a soffocare le intemperanze degli intellettuali, le polizie provvedendo a rintuzzare per conto loro, energicamente, le pericolose tendenze della classe operaia, il solo Piemonte, s'è detto, raccolse in qualche modo l'eredità spirituale del biennio.

Il movimento di associazione operaia, intanto, fu incoraggiato, laddove non mostrasse di perseguire larvati scopi politici. Prima del '48 in tutto il regno non esistevano che 12 Società operaie di mutuo soccorso: nel '59 esse ammontavano a 134. Importante passo innanzi, queste Società principiarono fin dal 1851 ad allacciare rapporti fra di loro e a discutere la possibilità di una federazione.113 Nel '53 si riunirono in Congresso e fu da allora in poi, anno per anno, una serie ininterrotta di Congressi (il a Genova, 1855) sempre piú affollati, preziose occasioni per uno scambio d'idee tra i piú intelligenti operai e i democratici borghesi che dirigevano il movimento: né è a dirsi se e quanto le discussioni in merito a problemi del lavoro iniziate nei Congressi trovassero seguito ed eco nella stampa del tempo.114

Accanto alle Società operaie, le cooperative di consumo e di produzione; e in seno ad esse una marcata tendenza a esorbitare dai fini del mutuo soccorso per sfociare, da un verso, nella politica, dall'altro, nelle agitazioni economiche e negli scioperi.

Il movimento era piú intenso e turbolento a Genova, dove Pisacane risiedeva. Non resulta che egli se ne occupasse personalmente, ma certo ne seguiva lo sviluppo e ne ricavò suggestioni per i suoi scritti (nei Saggi ad esempio additò qual sintomo «del nuovo giorno... la tendenza delle moltitudini all'associazione»). È noto infatti che le relazioni fra l'ambiente democratico repubblicano di Genova e la locale classe operaia si mantenevano assai strette e cordiali.

Povero egli stesso e costretto a un mal retribuito lavoro, la dura sorte del proletariato piemontese non poteva non impressionarlo dolorosamente: salari di fame e per alcune industrie notevolmente ribassati in confronto al decennio precedente; né sempre corrisposti interamente in moneta, ma con un supposto equivalente in natura, a tutto vantaggio degl'imprenditori; orari di lavoro abbrutenti, inesistente legislazione protettiva del lavoro115. Le agitazioni e i disordini si succedevano senza posa.

Nel '49 erano i vellutai di Zoagli che, richiedendo aumenti di salario e cessazione appunto del pagamento dei salari in natura, davan grossi fastidi alle autorità; sui primi di maggio del '50 erano i vignaiuoli di Cassolo Lomellina che clamorosamente protestavano contro i licenziamenti arbitrari: seguivano incendi, invio di truppe, arresti; nel '51 la polizia genovese segnalava ufficialmente la «diffusione di massime socialistiche» a mezzo delle associazioni in quella classe operaia; nell'ottobre '55, a Torino, gli operai sarti si mettevano in isciopero; nel gennaio '56, in tutto il Piemonte, si tennero foltissime adunate popolari per protestar contro le tasse e sollecitare l'istituzione della famosa imposta unica progressiva sul reddito. Nel novembre del medesimo anno gli operai sarti di Genova, in un memoriale presentato ai loro principali, chiedevano (ma non ottenevano): aumento nella mercede, pagamento dei salari in moneta, orario di lavoro di... 11 ore!116

Sembrerebbe già abbastanza; ma non ho scelto e citato, tra i molti, che qualche episodio piú caratteristico, atto a documentare il progressivo destarsi di una coscienza di classe nel proletariato subalpino.

Accanto a questa «prassi», e in parte come conseguenza di essa, come caloroso il corrispondente interesse o la corrispondente preoccupazione dei ceti borghesi per la questione sociale!117

Si prenda un giornale liberale, il torinese Risorgimento (Cavour, Balbo, Castelli, Ricotti) e si osservi quanto assidua e zelante sia la vigilanza — non saprei come meglio definirla — che esso, fin dai suoi primi numeri, esercita sull'avanzarsi del socialismo. I suoi articoli in materia sembrano addirittura bollettini di guerra di un esercito assediato!118 Se già nel '48 il Risorgimento ha ritenuto possibile un'ondata socialista in Italia come conseguenza degli avvenimenti francesi, dal '50 in poi questa preoccupazione diventa un'idea fissa: non una parola, non una mossa dei socialisti di Francia sfuggono ai suoi redattori, ogni accenno a socialismo vero o supposto che possa constatarsi in Piemonte vien da costoro denunciato d'urgenza; la nuova barbarie, pretendono, sarebbe per sommerger l'Europa! Piú combatte il nemico, piú s'adopra a gonfiarne l'importanza e il pericolo, e piú, s'intende, il Risorgimento contribuisce senza volerlo a fargli réclame.119 «Non passa giorno — si legge nel numero del 29 gennaio '50 — senza che ci alletti l'occhio e l'orecchio qualche massima sociale» sospetta; o non s'intende dai democratici che «ai nostri l'attuazione di una tale idea (il socialismo cioè) avrebbe per inevitabile conseguenza il ritorno al principio del governo assoluto»? (8 febbraio). E il 12 marzo: «La parola socialismo... è una parola che scotta; poté essere innocente e nobile nel suo primitivo senso, ma i piccoli Considérant e Proudhon dei nostri dintorni, scherzando troppo sopra certe materie, finiranno per fare scoccare il grilletto di un'arma che poco conoscono». A giornaletti piemontesi di provincia che «fanno il Leroux ed il Proudhon del loro circondario» fa la predica il 20 d'aprile anche il Torelli (che ha preso a stampare nell'appendice del Risorgimento, sotto lo pseudonimo di Ciro D'Arco, una vivacissima serie di lettere sulla questione sociale), lamentando il progredire di certe tendenze «in un paese finora immune dalla tempesta socialista».

Quali erano questi scapestrati fratelli minori del Risorgimento? Vediamone uno, Il Carroccio, di Casale, diretto dal Mellana. Discorre a tutto pasto di socialismo, è vero, e non nasconde la sua viva simpatia per esso, e spesso e volentieri riproduce articoli socialistoidi dalla stampa francese; giusto è osservare per altro che si trattava d'un socialismo all'acqua di rose, tutto riforme e progressive conquiste, niente miracoli, niente violenze. Che importa? Il 31 luglio '50 Il Carroccio vien sottoposto a processo, nientedimeno che sotto l'accusa di bandire le dottrine socialiste (nel caso, qual legge ne aveva mai proibito la diffusione?) Alla udienza, naturalmente, è un gran battagliare sull'idra malefica e le sue varie tendenze. «Non ignoro qual pericolo si corra non solo quando si prende la difesa del socialismo, ma anche quando se ne parla con qualche moderazione...», esordisce uno dei difensori, il Sineo. L'altro (il Rattazzi) nobilmente rivendica il rispetto dovuto alla libertà di stampa, anche quando essa venga utilizzata per divulgar dottrine contrarie al diritto di proprietà; sempreché non si tenda a tradurle in atto con mezzi illegali.

Nel deliberare l'assoluzione del giornale incriminato, tra gli applausi del pubblico, i giurati di Casale seguon l'esempio dei loro colleghi di Alessandria, che pochi giorni innanzi in un processo identico hanno mandato assolto L'Avvenire, altro foglio d'estrema sinistra. Il Carroccio s'affretta a render conto ai lettori del riportato trionfo, malignamente garantendo all'autorità giudiziaria che «i socialisti loro sapranno buon grado della cura che si prendono di far conoscere e propagare le dottrine loro». Piú malinconica la moderata Concordia (Valerio, Correnti): «Il pubblico ministero ieri ha tessuto la storia del socialismo, ed ha cosí insegnato le piú tristi teorie al nostro popolo che le ignorava affatto...»

Mutiamo ambiente: sfogliamo un giornale clerico-reazionario, Lo Smascheratore, di Torino, che ha giurato eterna guerra alla democrazia e alle sue «inevitabili» degenerazioni socialiste. Il 18 maggio '49 esso gravemente c'informa che «tanta parte dei colti operai della città» è dichiaratamente socialista; il 27 giugno addita ai moderati, ciechi e sordi, il «rovinoso torrente del comunismo», che avanza; tre giorni appresso li previene esser l'attuale trionfo del radicalismo preludio «alle brutali triturazioni del socialismo, del comunismo». Non mancano, s'intende, né il ricatto sul «turpe comunismo» considerato quale inevitabile effetto dell'attenuarsi della fede cattolica, né l'indiretto e involontario incitamento all'odio antiborgheseBel sovrano — il popolo — che una volta era libero sotto nome di schiavo; oggi è schiavo sotto il nome di libero!» — 12 novembre), tutti consueti elementi della propaganda clerico-reazionaria. Di tanto in tanto, invece, qualche azzeccata punta contro le pose della borghesia democratica: «In questi ultimi anniscrive ad esempio il 21 febbraio '50 — la parola d'ordine, lo specifico per far fortuna si è la tenerezza per il popolo che si ha sempre fra le labbra»; e il di giugno: pare impossibile che non si possan piú scrivere due righe «senza levarsi il cappello a monsú il Popolo».

Il Risorgimento, Il Carroccio, Lo Smascheratore sono esempi tipici dell'appassionato fervore sociale che animava in quegli anni le diverse frazioni della borghesia colta piemontese. Ma quanti altri giornali implicati nella grande polemica si potrebbero citare!

Filosocialista è la torinese Gazzetta del Popolo (Borella, Bottero, Govean), avanguardia della democrazia radicale; filosocialista La Fratellanza di Cuneo (ecco forse un altro di quegli imprudenti giornaletti di provincia, ai quali accennava Il Risorgimento), che nel marzo 1850 dichiara non essere le libertà politiche se non «crudele ironia pei molti che soffrono». Nel gennaio 1850 inizia le sue pubblicazioni a Torino L'Universitario, il cui programma reca, oltre l'impegno di dedicarsi al «miglioramento di condizione delle povere classi», un grido di «guerra agli abusi ed a' privilegi». La Voce del deserto, torinese anche essa e diretta dal Brofferio, fa aperta professione di socialismo: ne I Mietitori, ad esempio, poesiola stampata l'8 settembre, mentre si lamentano le crude disuguaglianze sociali («qua si agonizza di fame e sete si singhiozza di sazietà»), è stigmatizzata l'assurda pretesa che molti hanno di trovare sinceri affetti di patria in «chi suol non ha»; un articolo del 24 novembre risolutamente afferma («a costo di sentirci a chiamare socialisti») notarsi nell'ordine sociale «capitalissimi vizi da riformare» se si voglia davvero «ricondurre l'Europa a riposate condizioni». Lo stesso giornale mazziniano Italia e Popolo, di Genova, che pur riceve da Londra istruzioni antisocialiste, abbonda nel senso contrario, come dimostra il canto allo Sciesa dovuto a «un operaio» e pubblicato il 19 agosto 1851, come dimostra un articolo dell'11 settembre 1851 in suffragio della tesi, diciamo cosí, pisacaniana, secondo la quale non vi sarà vera rivoluzione nazionale se non accompagnata da una rivoluzione sociale.120 Accenni filosocialisti del resto non eran mancati, nel 1850, nella stessa Italia del popolo, la rivista mazziniana cui Pisacane aveva collaborato e che, stampata in Isvizzera, aveva forte diffusione in Piemonte.

Qualche anno piú tardi, e precisamente nel '54, Tommaso Villa, direttore di un quotidiano torinese d'intonazione mazziniana (il Goffredo Mameli, giornale della gioventú italiana) si buscava un rabbuffo da Mazzini in persona per aver stampato, il 21 dicembre, l'articolo poco ortodosso Un di socialismo.

Vi erano poi i giornali prettamente operai: e a sincerarsi dell'immensa suggestione esercitata in quel tempo dal socialismo il lettore non ha che da sfogliare le brevi collezioni del Proletario, Torino; L'Uguaglianza, Torino; Il giornale degli operai, Torino; o dei giornaletti genovesi L'amico del povero; Il lavoro; La Bandiera del popolo; L'Associazione; La libertà e associazione (lodato da Pisacane nei Saggi), stampati tutti fra il '50 e il '55.

Nel 1853 esce a Torino il settimanale L'Imparziale, che propugna una sorta di socialismo legalitario da attuarsi attraverso una grande organizzazione di credito popolare e la moltiplicazione delle associazioni operaie. Due anni appresso è la volta di un importante quotidiano dedicato al popolo, La Speranza: esso apertamente propugna La necessità dello sviluppo del socialismo nelle classi operaie, reca articoli a firma «un operaio socialista», incoraggia il libero associazionismo dei lavoratori, afferma non essere piú concepibile un rivolgimento politico che non adduca al popolo «un vantaggio materiale, un miglioramento nella sua condizione d'esistenza». È troppo naturale che un cosí fatto giornale incappi ben presto nei rigori della giustizia: 20 settembre '55, primo sequestro per un articolo I ricchi ed i poveri; nelle sei settimane successive altri cinque sequestri! Ma i redattori non attenuano il loro linguaggio, si ridono anzi di «chi si abbandona a stolide paure e grida al fuoco, ai ladri, ogni volta che intende pronunciare nome di popolo, di miseria, di problemi sociali»; mettono in luce l'internazionalità della causa della emancipazione operaia, e — a buon intenditor... — dicono chiaro che «la servitú delle classi laboriose è piú dura ed umiliante in patria libera che in patria serva».

La Speranza rappresenta in certo modo L'Avanti! degli operai piemontesi, tre quarti di secolo or sono. Né manca l'organo di cultura, La critica sociale di quei tempi, destinato all'intellettualità filosocialista: è questo La Ragione che Ausonio Franchi fonda a Torino il 21 ottobre del 1854 (collaboratori De Boni, Ricciardi, Macchi, Ferrari, Levi e vari stranieri; dapprima quindicinale, poi settimanale, e finalmente quotidiano). La Ragione aderisce al socialismo riformista sul terreno economico, come al repubblicanesimo in politica, e al libero pensiero in materia religiosa. In nessun altro giornale il quadro delle inique disuguaglianze sociali è tracciato con piú vivezza e misura; in nessun altro la prolungata discussione sul problema sociale (cui prendon parte, cortesemente ospitati, anche semplici operai) è piú proficua ed equilibrata; gente fattiva e di cultura, questi della Ragione, che agiscono all'infuori di qualsiasi partigiano interesse. «Dunque gridiamo anche noi unità e indipendenza, e nasca quel che vuol nascere (si legge nel numero del 15 dicembre '55); dal giorno in cui l'aborrito straniero non calpesterà piú la sacra terra italiana, siamo certi sparirà la miseria e la corruzione che ci rodono... e le lodole cadranno dal cielo belle e arrostite... Ma della vostra libertà che ci lascia morir di fame... io me ne rido. Siamo stanchi di tante ludificazioni di libertà... In breve, piú che la tirannia straniera, piú che lo smembramento della famiglia italiana, ci dan da pensare il nuovo organamento sociale al domani della lotta, e i mezzi radicali, onde sgombrare dal nostro bel paese privilegi, ipocrisia, ignoranza e miseria, al della vittoria. Che governi Dio o il Popolo, che si confederi o si agglomeri la popolazione frazionata della penisola, poco importa; saran sempre rivoluzioni da scoiattoli, quelle che non tendono a trasformare da cima a fondo questa fracida e sgangherata baracca».

 

Fin qui la stampa periodica, o meglio un campionario scelto della medesima. Ma che diluvio di libri e di opuscoli, poi!

Il '51 fu l'anno fecondo: si aprí con La federazione repubblicana di Giuseppe Ferrari, stampata all'estero, ma in Piemonte assai letta e discussa (si vedrà come eccitasse insieme l'ammirazione e lo sdegno di Pisacane). Direttamente influenzata da quello scritto, che deve considerarsi fondamentale da chi voglia studiare lo sviluppo dell'idea socialista in Italia, usciva pochi mesi dopo, dovuta al Montanelli, l'Introduzione ad alcuni appunti storici sulla rivoluzione d'Italia. Gran nome, quello del Montanelli: il suo libro quindi circolò dappertutto, al suo generico contenuto socialista conferendo singolare importanza l'anzianità dell'autore quale fautore di riforme sociali. L'Introduzione tenta di impostare la questione italiana da un punto di vista generale europeo, ponendo in rilievo come essa non sia se non un episodio della lotta mondiale tra rivoluzionari e conservatori, quando per conservatori s'intendano i militari, il clero e i «monopolisti del capitale». «Il perno della reazione europea è la plutocrazia», ammonisce il Montanelli, il quale brillantemente riprendendo un argomento già largamente discusso nella stampa democratica, sostiene la vanità d'una rivoluzione meramente politica. «Senza cambiare l'ordine economico d'Europa, resterebbe infeconda la nostra vittoria... la rivoluzione europea si risolve nella riforma delle condizioni sociali economiche d'Europa, e perciò l'Italia non può sperare riscatto altro che dai principî da cui questa riforma s'attende», ossia dall'attuazione del socialismo. I patriotti italiani si chiamino dunque ormai, e apertamente, socialisti, e come tali arditamente operino.121

Dopo l'Introduzione, era la volta della Guerra combattuta. Tornava poi nuovamente in lizza il Ferrari con l'attesa e ancor oggi notissima e per molti aspetti pregevole sua opera, Filosofia della rivoluzione, anch'essa uscita dai torchi di Capolago, ma largamente diffusa a Genova e a Torino. Distaccandosi dai socialisti rivoluzionari, Ferrari vi riconosceva l'impossibilità di abolire d'un tratto l'istituto della proprietà, pur ravvisando nella sua progressiva limitazione fino al termine, assunto a mito, di una generale distribuzione delle terre (legge agraria), il fondamento del progresso sociale. L'evoluzione dell'umanità deriverebbe dall'urto dialettico tra istinto di proprietà e istinto di comunanza; e il diritto ereditario, da limitarsi progressivamente, sarebbe la leva sulla quale la società moderna dovrebbe d'ora innanzi agire per raggiungere un assetto migliore, basato sul principio attuato della maggior possibile eguaglianza sociale. Appassionatamente sensibile alle miserie della maggioranza della popolazione, Ferrari abilmente difende la sua visione ottimistica della società futura dalle tradizionali critiche degli anti-socialisti, con grande acutezza abbozzando altresí una giustificazione preventiva di certe necessità d'azione antiliberale (dittatura del proletariato, per dirla in breve) che s'imporranno ai combattenti per la libertà e l'eguaglianza integrali.

Ma questa non è che la parte ultima, conclusiva di un'opera dedicata, nel suo complesso, alla giustificazione storica, psicologica e filosofica del principio dell'uguaglianza.

Filosocialista era, accanto al Ferrari e al Montanelli, Ausonio Franchi. L'editore della Ragione, infatti, in un suo libriccino sulla Religione del secolo XIX (1853) cosí presentava ai lettori lo scabroso soggetto: il socialismo «è la religione degli operai; esso il carattere al movimento del nostro secolo, che è... l'emancipazione del proletario; esso predomina già su d'ogni altro principio in Francia ed in Germania, e comincia a propagarsi in Inghilterra ed in Italia; esso detterà la legge della prossima rivoluzione». E concludeva, non senza enfasi: «l'onda del socialismo sollevasi di giorno in giorno piú alta, s'avanza piú impetuosa, rumoreggia piú forte».

Gli scrittori minori di cose sociali eran poi legione nel Piemonte del tempo: economisti e filosofi, sacerdoti e liberi pensatori, uomini politici e dilettanti delle piú svariate tendenze.122

Rosmini pubblica (Genova, 1849) un pesante studio critico sul comunismo e socialismo. Il padre Tapparelli D'Azeglio agita in un suo diffusissimo opuscolo il pauroso fantasma del socialismo. Il siciliano Corvaja, un genialoide che imbottisce d'insopportabili stramberie poche idee nuove e felici, escogita una panacea generale per guarire la società di tutti i mali del monopolio, né prima né ultima delle sue trovate intorno alla questione sociale; un anonimo che giura nella «supremazia democratica pura» rivolge un appello ai repubblicani, socialisti e comunisti perché s'abbiano a unire fra loro (Genova, 1850); un altro anonimo clericaleggiante stampa nel '51 un saggio sesquipedale sul socialismo e le sue varie dottrine e tendenze; v'è perfino chi traduce Gesú Cristo davanti un consiglio di guerra allo scopo di dimostrare che la dottrina socialista deriva direttamente dal Vangelo (1850); Massino-Turina, un economista, pretende d'aver trovato il verso di fermare il corso della miseria (1850); valanghe di libri e d'opuscoli propugnano l'instaurazione dell'imposta unica progressiva sul reddito. Un deputato, il Turcotti,123 esamina con mentalità di socialista temperato i diritti che a ciascun uomo competono sul frutto integrale del proprio lavoro; Raffaele Conforti124 studia il problema del lavoro da un punto di vista giuridico astratto; un Quaglia considera dottrinalmente il fenomeno dell'associazionismo operaio; il Carpi inizia fin d'ora le sue celebri indagini sulla diffusione del credito; un Giulio si scaglia contro le tasse che colpiscono la povera gente; dozzine di scrittori (Cavedoni, Liberatore, Grimelli, Nobili ecc.) suonan l'allarme contro il socialismo in progresso. Tesi pro e contro il socialismo si trovano svolte, e assai per disteso, nelle trattazioni d'economia d'uno Scialoia (che è un temperato socialista di stato), d'un Boccardo e d'innumeri altri minori (Trinchera, Rusconi, Meneghini). Un di costoro, il Giudice, si protesta antisocialista convinto, ma nel contempo svolge una critica a fondo della società capitalistica e rompe una lancia in pro d'una autoemancipazione operaia e contadina che si potrebbe sollecitare mercè la diffusione del mutuo soccorso. Né è a dirsi se di socialismo non fosse parola nelle troppe pubblicazioni pseudo storiche scritte a fini d'edificazione da penne clerico-reazionarie, tutte in cento modi diversi manipolanti il famoso ricatto del comunismo.

Ma quel che forse colpisce di piú chi rievochi le correnti di pensiero prevalenti allora in Piemonte si è il fatto che anche in moltissime pubblicazioni non attinenti alla questione sociale, venute alla luce dal '49 in poi, si trovano pagine e pagine dedicate ad essa come alla piú grave preoccupazione del giorno. Di Gioberti e del suo vivo interesse in materia è superfluo parlare125; ma si vedano, a conferma, le opere di Macchi, De Boni, Tuvèri, Mancini126; si leggano, negli Avvedimenti politici del reazionario Solaro della Margarita, i paragrafi dedicati alla sovranità del popolo, alle ineguaglianze sociali, i frequenti apocalittici accenni al socialismo e al comunismo; si veda, tra le Prediche domenicali raccolte in volume dal Bianchi Giovini, quella che tratta del comunismo; si riapra il noto libello di Perego e Lavelli sui Misteri repubblicani, che «nell'attuamento delle società operaie in Piemonte» saluta il «primo gradino al tempio del socialismo».

Perfino l'Enciclopedia popolare consacrava un benigno articolo alla voce Socialisti; perfino un militare, il Roselli, discorrendo della spedizione di Velletri si sentiva tratto a ragionare (o sragionare) sul socialismo; e nelle sue Lezioni di elettricità, o meglio nella prefazione a questo suo libro, il Matteucci, da buon liberale, trovava modo di dare addosso al socialismo.127

Anche i poeti presero la rosolía; poeti come Dall'Ongaro (Libertà e lavoro); come Revere, come Curzio, che piange le ineguaglianze sociali e sogna un avvenire piú giusto; come il comunisteggiante Gojarani, che freme dinanzi allo sfruttamento che pochi privilegiati esercitano a danno della «miseranda schiatta»; poetucoli come il Mazzoldi (Il ricco ed il povero)128.

E come fioccavano le traduzioni in lingua italiana di opere straniere pro e contro il socialismo (ma piuttosto contro che pro)! Libri e pamphlets di Thiers, Blanc, Cortez, Schmit, per non citare, fra i tanti, che pochi nomi piú illustri.129

 

Una conclusione, mi sembra, può trarsi da questo arido elenco di nomi, di dati, di libri: e cioè che, dedicandosi allo studio del problema sociale, Pisacane non ha fatto che cedere alla potente suggestione dell'ambiente in cui ha vissuto, sia questo inglese, svizzero o sardo. L'Europa tutta, in quegli anni, vive sotto l'incubo o nella speranza messianica di un imminente cataclisma sociale. Socialista, egli non sta dunque solo e sdegnoso, neanche in Italia, in mezzo a un mondo ignaro dei vizi della società borghese; al suo fianco, o per combattere la stessa battaglia o anche per figurar di combatterla, è anzi in Piemonte, e nella stessa Genova, una frazione non disprezzabile della classe colta, nativa o emigrata; contro di lui, contro di loro è quasi tutta la stampa, espressione dei ceti di governo, che con sproporzionati attacchi li aizza alla lotta; intorno a loro, incapace d'intendere le premesse dottrinarie del socialismo, ma già decisa a conquistare, con l'associazione, col risparmio, con le buone e con le cattive, un miglioramento del proprio tenore di vita, è una élite della classe operaia.130

Pisacane, con la sua Guerra combattuta, dovrebbe avere un posto onorevole tra i socialisti piemontesi. Resta nell'ombra, invece, un po' perché a quasi tutti è stranamente sfuggito il valore del suo libro dal punto di vista sociale; un po' perché gli mancano qualità giornalistiche; ma soprattutto perché, ingolfato nello studio puramente teoretico di un sistema in cui tutto invita all'azione e impone l'azione, egli tarda a rendersi conto che il suo preciso dovere di socialista è quello di «gettarsi» nel popolo. Comunque il suo sogno, dal '51 in poi, resta pur sempre quello di farsi avanti nella battaglia social-politica, d'acquistarvi con la dottrina, piú che con la facile audacia dialettica cara agli pseudo socialisti imperversanti nella stampa piemontese d'estrema, la competenza e l'autorità d'un capo, per poi davvero volgersi dal cerchio dei dotti alle moltitudini inerti, e guidarle alla conquista di un mondo migliore e piú giusto.






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102 Sulla diffusione delle idee socialiste in Italia nel '47-49 si vedano, oltre le op. cit. in appendice, SALVEMINI, Mazzini, Roma, 1920, MONTI, L'idea federalistica nel Risorg. Italiano, Bari, 1922, BACHI, Una pag. di storia del lavoro in Liguria, estr. dal vol. commemor. in onore di G. Prato, Torino, s. d., GORI, Gli albori del socialismo, Firenze, 1909, TIVARONI, Storia critica del Risorgimento, vol. VI, LEVI D., Ausonia, vita d'azione, Torino, 1882.



103 Accenni a socialismo, del resto, si hanno in Italia anche negli anni precedenti al '47. Importanti e sintomatiche anche se di dubbia autenticità, ad es., le Istruzioni inviate nell'ottobre del 1846 dai «capi socialisti Italiani» residenti in Francia ai loro emissari nella Penisola; cfr. MARTINETTI, Des affaires de l'Italie et de l'avenir probable de l'Europe. Paris, 1849.

Sulla diffusione del socialismo, le paure borghesi ecc., in quel periodo, si veda la felice prefazione di BARBAGALLO alla cit. Op. di ANDRIANI.

Prima del '48, attesta il LEVI (Ausonia, 51), «era delitto... parlare di associazioni d'operai, di società cooperative, di previdenza sociale. Era massima consacrata dal Governo e dalla Chiesa, essere la povertà necessaria per suscitare le opere di carità, essere inoltre la miseria del popolo, l'ignoranza delle plebi... sagacia di governo e mezzo politico per dominarle». E del resto, anche dopo il '49, non pretendeva un tal BROGGIA in un suo Trattato de' tributi di dimostrare la convenienza sociale della miseria delle classi agricole?

Quanto al significato che alla espressione «socialismo» molti davano allora, cfr. il discorso del Ministro dell'Interno piemontese, alla Camera, 14 maggio 1850, in risposta al Brofferio, che aveva proposta la vendita delle proprietà ecclesiastiche. «Queste misure, lo dichiaro, non le accetterò mai, perché non ho fede nelle massime socialiste, e credo socialismo lo spogliare altrui delle sue proprietà». Sull'incerto, equivoco significato di socialismo scriveva assennatamente La Concordia, Torino, 22 marzo 1850; cfr. anche TORRE, op. cit., II, 240-242. — In verità, come bene mise in rilievo LABRIOLA nel suo Socialismo contemporaneo, 121 — «la parola comunista è servita a qualificare il socialismo dei proletari sin verso il 1870»; per socialisti s'intendevano il piú delle volte i democratici filo-operai, ma estranei al movimento operaio, i quali «cercavano aiuti presso le classi colte».



104 Che l'Austria, o piuttosto suoi zelanti agenti bandissero nel '46-47 dottrine socialistoidi in Italia (e segnatamente in Toscana e in Piemonte) è ormai sicuramente provato. La corrispondenza dei diplomatici inglesi, ad es., ne è piena. Cfr. anche BIANCHI, Vicende del mazzinianismo, Savona, 1854, 380-382; CAPPONI, Epistolario, II, 278-285; LINAKER, in La Toscana alla fine del Granducato, Firenze, 1909, 201-203.



105 La lettera di Marx in La Critica sociale, Milano, 1897, 239.



106 I contadini invasero, per dividerselo, il bosco di Lagopesole (Rionero); a Teramo i proprietari si strinsero in una sorta di sindacato anticomunista. A Olevano (Salerno) si predicava apertamente la divisione dei beni.

Una tal quale propaganda socialista fecero perfino, a Civitavecchia, le truppe d'occupazione francese nel '49! (Mazzini alla Sand, 8 agosto 1849).



107 Capponi e Giusti si attendevano a sorprese comuniste m Livorno. — Sul socialismo in Toscana v. anche GENNARELLI, Atti e documenti, ecc., Firenze, 1863, p. III-IX.



108 CANTÚ (Cronistoria, II, 2) alludendo al '48 scriveva: «Erano cominciate le lunghe processioni al grido pane e lavoro, scioperi, macchine rotte, cotoni bruciati».



109 Lo stesso Operaio, di Milano, 19 giugno 1848, in certi suoi Consigli agli operai, scriveva: «È dunque ormai tempo di togliere questo avanzo delle tiranniche leggi del medioevo, che prescrive al popolo di passare un'intiera giornata lavorando per guadagnarsi un tozzo di pane; al ricco di dormire i suoi sonni... Uguaglianza! Tu, o ricco, vuoi del pane? lavora



110 Sul contegno dei contadini lombardi nel '48-49 cfr. su L'Italia del Popolo, di Lugano, un notevole articolo (dic. '49 - genn. '50) «... Come si avrebbe coraggio di fare rimprovero ad essi se... non riconobbero come propria la guerra? Mal sapendo apprezzare il valore della nazionale indipendenza (i contadini) non rilevarono... gran differenza nel regime amministrativo, che è quanto piú davvicino li tocca, fra il governo insurrezionale ed il governo straniero. Quindi avveniva che nelle campagne il Provvisorio lombardo era qualificato come il governo dei ricchi. E non senza ragione». L'articolista osservava che, mentre era di moda attribuire «tutti i rovesci politici e tutti i mali economici dei tempi nostri» al socialismo, sarebbe stato piú giusto farne carico alla inveterata, iniqua sperequazione sociale. — Nel '51 (5 agosto) scriveva la Gazzetta d'Augusta: «Pare d'altronde che la nobiltà (lombarda) abbia finalmente compreso che la conseguenza di una rivolta ad altro non potrebbe condurre che al socialismo e al comunismo, che sotto il manto della indipendenza d'Italia potrebbe accagionare il piú gran male al paese». Due anni dopo, il moto milanese del 6 febbraio venne da molti giudicato, specie all'estero, come una prova generale della rivoluzione sociale. «I nobili italianiscriveva re Leopoldo del Belgio alla nipote regina d'Inghilterra — si sono mostrati dei grandi pazzi, operando come hanno fatto ed aprendo cosí la strada alla rivoluzione sociale».



111 Il primo sciopero genovesesecondo il BACHI, 3 — si sarebbe verificato nel dicembre '42 fra gli operai di una fabbrica di tessuti. — Di un minacciato sciopero dei setaioli torinesi parla il Ministro inglese a Torino in un dispaccio al suo governo, 13 gennaio 1834 (Record Office, F. O. 67 | 191). — I tipografi di Genova invocavano da un mese quegli stessi miglioramenti di tariffa che già eran stati concessi ai loro colleghi di Torino. Non appena (dopo 3 giorni) ai giornali fu possibile riprendere le pubblicazioni forzatamente interrotte, i tipografi scioperanti vennero naturalmente additati quali «perturbatori della pubblica quiete». Risposero gli operai con una pioggia di volantini stampati alla macchia: «Molti principali Genovesi — si leggeva in uno di essi — hanno già fatto discrete e giuste concessioni; ma molti sono duri nel persistere... infelici costoro dovranno cedere loro malgrado ai giusti reclami dei loro maltrattati operai». Cedettero invece, senza nulla ottenere, i tipografi. (Questo ed altri volantini genovesi dello stesso periodo si trovano conservati in una importante raccolta, chi sa come pervenuta al British Museum di Londra: Miscellanee politiche genovesi. In un altro di essi, Due parole ai ricchi, invocante soccorsi per le famiglie dei feriti in guerra, si legge il passo seguente: «... ma che mi faccio io a dipingervi l'orridezza della classe miserabile, mentre voi, piú duri ancora, mi vantate innanzi, e i soccorsi dei magistrati di misericordia, e i piccoli pegni restituiti, e i pani della città...? E che son questi soccorsi, pur sempre lodevolissimi, in paragone dei bisogni della società? E a che li mettete voi innanzi se non a vostra vergogna?... In questi momenti di tanto dubbia agitazione... non potremo noi, non potranno i posteri accusarvi dei disordini, dei partiti, dalla miseria quasi necessariamente prodotti?») — È il Promis che manifesta timori per l'avvenire di Torino industriale (GORI, 400). — Udí l'oratore popolare in Genova (tal Pellegrini) il TORELLI (Ricordi politici, 193), il quale ne trasse ispirazione per le sue lettere, piú oltre cit., di Ciro D'Arco.



112 Al Papa rispose subito, con un ispirato travolgente appello ai sacerdoti italiani, Mazzini nella sua Italia del Popolo. Insistendo sulle profonde antinomie fra socialismo e comunismo, insieme confusi nello scritto vaticano, M. condanna il secondo «siccome concetto anti-progressivo, ostile alla libertà umana, e praticamente impossibile», ergendosi invece a difensore aperto del socialismo.



113 Nel mio vol. Mazzini e Bakounine trovasi un frettoloso cenno sul movimento operaio svoltosi in Piemonte fra il '49 e il '60. I dati qui riportati, frutto di successive ricerche, vanno considerati quali sviluppo e integrazione di quel primo cenno. — Il periodo piú intenso per la fondazione delle Società operaie fu quello fra il 1850 e il '53 con 85 Società nuove (cifra accertata dalle statistiche ufficiali, peccanti piuttosto per difetto che per eccesso). La prima Società di resistenza sorse a Torino nel '48.



114 Già nel '51 si era avuto un convegno di 600 operai, membri di varie Società, ad Alba. E nell'ottobre di quello stesso anno si riunirono a Torino i delegati di 33 Società per discutere in merito alla convenienza o meno di una federazione delle varie Società. Nel maggio seguente altra riunione dei delegati di 39 Società, nella quale vengono presi accordi per i futuri Congressi generali. Cfr. Le Società operaie di Torino e di Piemonte, Roma, 1883, 12 sg. — In un fascicolo della Democrazia italiana, 1851, Genova, 1852, P(iero) C(ironi) si occupava delle Società operaie piemontesi, asserendo che se esse avessero seguitato a moltiplicarsi come avevano fatto fino allora, avrebbero finito col rendere «il popolo arbitro delle condizioni sociali». E aggiungeva: «I governi osteggiano ed avversano le associazioni, le quali se non possono affatto troncare, cercano corrompere traendole per mezzo dei capi nella loro dipendenza. I sacerdoti le fulminano di ecclesiastiche censure dai pergami... I giornali reazionari le combattono... Però a ragione le associazioni mostraronsi qui gelose di serbare la propria indipendenza, rifiutando quel tentativo di loro accentramento che si partí da Torino, il quale tendeva nientemeno che a togliere ogni libertà d'azione a tutte le associazioni operaie dello Stato, con sostituire un nuovo sistema di centralizzazione». — Nel 1855 un Congresso medico, riunito a Cuneo, discusse la questione della durata del lavoro negli opifici.



115 Da un dispaccio del Ministro inglese a Torino al proprio governo (3 agosto 1841) si rileva ad es. che il salario di un setaiolo, in città, è di L. 1,20 al giorno (di una donna, 0,60; di un ragazzo, 0,25); di un cotoniere L. 1,00. A Biella esser salario massimo di un operaio L. 1,50; a Genova, L. 2,00. (Record Office, F. O., 67 | 116). GEISSER, PUGLIESE, PRATO, nelle note loro opere di storia economica, offrono qualche dato sulla estrema bassezza dei salari industriali in Piemonte intorno al 1850.



116 Anche gli operai sarti, nonostante avessero costituito una cassa di resistenza e deliberato l'astensione dal lavoro fino a completo accoglimento delle loro richieste, finirono col cedere senza aver nulla ottenuto, vinti dallo spettro della disoccupazione.



117 Nel progetto di risposta del Senato piemontese al discorso della Corona, 7 agosto 1849, si leggeva che ogni sforzo andava fatto per premunire il popolo «contro quelle dottrine sovvertitrici, che audacemente bandite hanno troppo facile accesso negli animi non corroborati dagli insegnamenti della morale e dal conforto della religione».

Indirizzo di ringraziamento di «alcuni proletari» al dep. Radice, che si è scagliato, alla Camera, contro le imposte che colpiscono le classi meno abbienti: «Che altro è questa maledetta invenzione dei tributi... se non un diabolico lambicco, entro cui si distilla, voi dite, il sudore, noi aggiungiamo il sangue, le midolle del povero popolo?» (Lo Smascheratore, Torino, 31 ott. 1849).

Osservava Brofferio alla Camera subalpina il 14 maggio 1850, criticando la eccessiva severità della censura sui libri di provenienza estera: «si teme l'introduzione di libri socialisti, ma tutti i giornali liberali parlano del socialismo; perché non li proibite



118 Anche Lo Smascheratore, 31 dic. 1849, lamentava che «il socialismo e il comunismo piú isfacciato e sanguinario predicasi in tanti giornali di provincia».



119 «Signori, di questo socialismo ve ne fate un grande spauracchio», ammoniva lo stesso Sineo, alla Camera, il 16 maggio 1850.



120 Del Canto allo Sciesa trascrivo qui i versi piú significativi: «Operaio all'officina — Perché sudi insino a sera? — La campana alla mattina — Che ti chiama all'officina — Perché dice in suo linguaggio — Tu sei figlio del servaggio?... — La tua lima, il tuo martello — Il telaio e lo scalpelloOperaio fan potenti — I padroni ed opulenti — E il salario a te non basta... — Ma se un quella campanaManda un suon diverso affatto... — Quello è il giorno del riscatto... — Libertà lavoro e paneVorran dire le campane».

Sulle istruzioni antisocialiste da Mazzini impartite alla Italia e Popolo, v. S.E.I., XLVII, 108, 127. — Un articolo sulla necessità della rivoluzione sociale oltreché politica stampava lo stesso giornale l'11 sett. 1851. Altri articoli sul socialismo v. nei n.i 12 sett., 3 ott. 1851; 31 dic. 1854; 27 nov. 1856.



121 «Socialisti», fautori della «bandiera rossa» venivan definiti Montanelli e i suoi seguaci nei Misteri repubblicani; e Jacini diceva di loro, nel '51, che «promettono un eden di delizie, fra cui primeggiano le confische e la ghigliottina ai moderati, ai ricchi, agli aristocratici» (Un conservatore rurale, I, 36).



122 In un trattatello reazionario Della vera e falsa libertà, stampato a Torino nel 1850, trovo un sarcastico Dizionario della demagogia, contenente definizioni di questo genere: «Diritti del popolo. Facoltà di fabbricarsi nuove catene di schiavitú per mezzo di rivoluzione». «Sovranità del popolo. Diritto di eleggersi qualche centinaio di tirannelli, e di pagarli a caro prezzo». — Ne La nemesi subalpina ossia dieci anni di liberalismo in Piemonte. Canzoniere politico. Torino, 1858, l'anonimo autore (un reazionario di tre cotte) tocca sovente il tasto socialista, s'intende bene con quali intenti.



123 Il Turcotti — si notiinsegnava diritto costituzionale nella Scuola della Società degli operai di Torino (Le soc. Op., 22).



124 MAZZIOTTI, 318, ricorda una conferenza tenuta a Genova dal Conforti nel 1851 intorno al migliore ordinamento del lavoro.



125 GIOBERTI nel Rinnovamento assomma a tre principalissimi i bisogni dell'epoca: predominio del pensiero, autonomia della nazione, riscatto delle plebi.



126 Importante il Programma della Associazione degli operai pubblicato da Macchi a Torino nel nov. 1848. Il Macchi, veramente, avrebbe preferito che le discussioni sul problema sociale venissero rimesse a quando si fosse già risolta la questione politica; ma — scriveva al Cattaneo, 14 gennaio '50 — «poiché non dipende da noi il sospendere la questione socialista... sento come un debito di coscienza di farvi qualche attenzione» (SAFFIOTTI, op. cit., 734-735). Nel nov.-dic. 1856 Macchi sostenne una vivacissima polemica con L'Italia e Popolo intorno al socialismo e alla questione sociale. Si veda, oltre al cit. giornale, MACCHI, La conciliazione dei partiti, Genova, 1857, appendice.

De Boni era filosocialista come tutti i razionalisti, ma nettamente anticomunista: «Il comunismo in Italiascriveva nel 1850 — non esiste che nella fantasia dei retrogradi e nelle calunnie della polizia» (GORI, 352).

MANCINI, nella sua Introduzione allo studio del diritto pubblico marittimo, Torino, 1853, segnala l'immensa importanza della questione sociale. «Le masse — egli osservadove piú, dove meno han mostrato di non saper che farsi di una libertà formale vôta ed infeconda dei prodigiosi benefizi da esse sperati, e tante volte invano promessi».

Socialista, ma anticomunista era il Vecchi (La Italia, 46). Nel 1853 egli aveva caldeggiato il progetto di stabilire a Rodi una colonia italiana su basi ugualitarie (VECCHI V. A., op. cit., 35). Gustavo Modena attraversò, pare, un periodo di vero entusiasmo pel socialismo. Ne lo rimproverava Mazzini (alla Hawkes, 16 febbr. 1855).



127 N. BIANCHI (Vicende del mazzinianismo, 281) si studia di mettere in guardia la società contro i pericoli derivanti dalla distruzione del sentimento religioso nelle masse. «Si badi, egli ammonisce, che il popolo potrebbe compiere una di quelle violente perturbazioni, in cui la guerra si fa a coltello contro i pasciuti e i vestiti, e le turbe accostano la libertà come una meretrice». In quel caso le classi agiate sarebbero costrette a fare un fronte unico di resistenza «a necessario vantaggio del dispotismo».

Nel 1858 Cavour confessava che se non fosse stato tutto preso dalla questione nazionale, si sarebbe volto a quella delle relazioni fra capitale e lavoro e delle condizioni della classe lavoratrice (CROCE, Storia d'Europa, Bari, 1932, 208).

MINGHETTI (Miei ricordi, Torino, 1888-1890, III, 130) riporta una sua lettera del '56 contenente il seguente passaggio: «La questione sociale per noi sovrasta anche alla questione politica».



128 Del Curzio, nativo di Acquaviva in Puglia, accerta LUCARELLI, 109, che era amico di P., di Cattaneo, Nicotera ecc., e che «cercava di trarre nell'orbita della rivoluzione non solo il ceto abbiente, ma anche le classi operaie».

Gojorani era pesciatino; mazziniano (poi socialista), venne espulso dal Piemonte nel 1854. CECCHI (pref. alle sue Op. scelte) scrive che nel '57, dalla Svizzera, G. si precipitava a Genova «per unirsi alla spedizione P.», ma giunse troppo tardi. Cfr. in proposito la lettera di Mazzini a Pigozzi, del luglio 1856: «Vorrei che Gojorani e Rocchi si tenessero presti a recarsi in Genova sopra un avviso che venisse loro da me». Ritengo per altro che Mazzini intendesse utilizzare il G. per il moto in Toscana. Di lui cfr. specialmente Il legato di un proscritto, 1854; Una visita, 1856; La terra promessa, 1857.

Anche il Mercantini, stabilito a Genova dal 1854, toccava argomenti sociali nelle sue poesie. Si veda ad es. la sua Canzone del mendico, 1842.



129 Ai tempi di P., scrive ORANO, I patriarchi del socialismo, 135, «gli scritti di Proudhon, di Leroux, di Blanc avevano, a malgrado della censura feroce, una diffusione sufficiente ad una cultura discreta del... pensiero socialista».

Cfr. nell'Appendice bibliografica l'elenco delle opere cui in questo capitolo si è accennato. Il lettore avrà notato che esse son tutte ed esclusivamente stampate in Piemonte. Una bibliografia del genere estesa all'Italia tutta richiederebbe moltissimo spazio.



130 Non era dunque troppo esatto il Ferrari quando (a Cattaneo, sett. 1850, in MONTI, 90) scriveva: «in Italia il socialismo è sconosciuto, calunniato, sfigurato». Piú nel vero P. (Saggi, III, 53): «non tutti sono socialisti, ma tutti; comeché professando dottrine opposte al socialismo, si compiacciono dirsi tali... il socialismo riguardasi ancora dottrina e tutti cercano farne pompa senza comprenderlo o approvarlo».

 

Capitolo VIII





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