Pisacane fu il primo che tentasse di
spiegare con motivi prevalentemente economico-sociali l'insuccesso
del biennio rivoluzionario italiano. Esagererebbe per altro
l'importanza della Guerra combattuta chi la definisse perciò
come un riuscito saggio di applicazione integrale del materialismo
storico: geniale anticipazione, sí, ma troppo generica. Siamo
alle soglie del socialismo scientifico. Pisacane dimostra infatti nel
suo libro piú fede che dottrina, piú capacità
d'intuizione che forza vera di ragionamento; è il neofita
entusiasta che scrive, non l'argomentatore preciso e convincente che
ha approfondito il suo credo e sa misurarne la portata e i
limiti. Se la Guerra combattuta ha, in terreno
italiano, tutto il valore e l'originalità d'una scoperta,
questa scoperta attende insomma o dal suo autore o da altri
sistemazione e sfruttamento adeguati.
Comunque è una pietra miliare
nella storia del pensiero socialista italiano.
Un
socialista, nel Piemonte del '51? Stando alle versioni fin qui
accreditate della storia italiana recente, questo accostamento fa
addirittura trasecolare. Che anche Ferrari s'atteggiasse a socialista
in quel tempo, si sapeva; ma si osservava che a forza di stare in
Francia e di bazzicare i Proudhon e i Leroux egli si era del tutto
infranciosato. Vene socialistoidi si erano notate, è vero,
negli scritti del Franchi, ma chi pigliava sul serio questo prete
spretato, buttatosi ai piú spregiudicati estremismi e a molte
altre stranezze, per poi tornare, vecchio pentito e contrito, in
grembo a santa madre chiesa?
Pisacane, dunque, isolato precursore e
profeta del socialismo, unico veggente in terra di ciechi: questa per
l'appunto la leggenda che si è accreditata fin qui. Tanto che
quando si son volute stabilire le sue fonti, identificare le
suggestioni alle quali soggiacque, si son fatti i soliti nomi dei
socialisti francesi, i soliti nomi di Ferrari e di Franchi. Cose
viste, da lui, in fatto di associazionismo operaio? Molte, ma tutte
fuori d'Italia.
Si direbbe che a quel tempo, nel
nostro paese, il problema del lavoro non esistesse neanche.
Se tutto ciò fosse esatto, se
Pisacane avesse cioè parlato, nel Piemonte, nell'Italia del
'51, un linguaggio nuovo e inaudito, la controprova dovrebbe trovarsi
nella stampa contemporanea. Figurarsi se giornali e riviste di destra
non avrebbero solennemente condannato il novissimo eretico e quei di
sinistra non avrebbero segnalato, lodandola o no, l'audacia del suo
scritto!
La controprova, invece, fallisce in
pieno. La Guerra combattuta fece sí, come s'è
visto, un gran chiasso, ma solo in quanto la maggioranza dei suoi
lettori non restò affatto persuasa dei giudizi perentori
azzardati dall'autore sulla pretesa competenza di questo o quel
generale, sull'accortezza di questa o quella manovra guerresca, e
cose del genere. Poco scalpore, niente scandalo, per contro, provocò
il dichiarato socialismo di Pisacane. Gli è che di
socialismo e di questione sociale, nel Piemonte del '51,
contrariamente al supposto, si discorreva non dirò neanche
spesso, ma quotidianamente102; che i problemi operai v'erano
all'ordine del giorno; che Pisacane socialista non faceva che
ricomporre, elevare a sistema, portare alle estreme conclusioni
motivi ideali e stati d'animo assai largamente diffusi nell'ambiente
medesimo nel quale viveva. Non era, insomma, quel tale solitario
navigatore per mari inesplorati voluto dagli ignoranti biografi: quel
mare formicolava di vascelli — piú o meno rapidi e
moderni del suo — mossi dallo stesso vento, diretti alla sua
stessa meta. Ma forse è necessario, per ristabilire il vero,
distaccare per un poco lo sguardo dal vascello di punta.
Che il problema sociale destasse
allora in Piemonte l'interesse piú fervido (e, se si vuole, il
piú «interessato») appare chiaro a chi scorra
giornali e riviste del tempo.
Tutta suggestione di Francia, tutti
riflessi degli esperimenti quarantotteschi al di là delle
Alpi, tutta influenza dei socialisti stranieri amici dei democratici
nostrani? No. Che la stampa piemontese calcasse le orme della maggior
sorella oltremontana non è dubbio, cosí strette son
sempre state ed erano anche allora le relazioni culturali tra le due
vicine nazioni; che la rivoluzione parigina del '48 avesse esaltato e
terrorizzato l'Europa intera, e quindi il piccolo Piemonte, è
ugualmente sicuro. Ma non per questo si deve ritenere che il rigoglio
di idee intorno al problema sociale e di esperienze pratiche nel
campo della organizzazione del lavoro manifestatosi in Piemonte nel
decennio anteriore al '60 sia nient'altro che frutto d'importazione.
Questo bisogno, che appare quasi improvviso e come portato di
subitanea esplosione negli uomini colti piemontesi dopo il '49, di
rivedere le basi della società e negli operai di migliorare la
propria sorte, non si è in realtà verificato d'un
tratto, ma preesisteva da lungo tempo. Solo che non ebbe la
possibilità di manifestarsi alla luce del sole, di svilupparsi
e di lasciar traccia di sé nella stampa se non dopo la
concessione dello Statuto, che garantiva la libertà di
associazione, di riunione, di parola e di stampa; o meglio, se non
dopo il '49, quando cioè, male o bene terminata la duplice
guerra con le sue conseguenze inevitabili di limitazione della lotta
e delle libertà politiche, al Piemonte fu dato finalmente
applicare, e ai piemontesi godere, le benefiche concessioni dello
Statuto.
Frutto spontaneo, dunque, condotto a
rapida maturazione del regime liberale pur mò inaugurato, non
è detto per questo che l'intenso interesse per la questione
sociale manifestatosi in Piemonte dopo il '49 non abbia ricevuto
fortissimo impulso dagli avvenimenti del biennio precedente: tutti i
grandi sconvolgimenti politici recano in sé la radice di
successivi perturbamenti sociali; e non è a dire se le guerre
e le insurrezioni e le divisioni stesse provocate nell'ambiente
sociale italiano dal vario atteggiamento di ceti e gerarchie dinanzi
alla crisi del '48-'49, e il generale impoverimento del paese, non
abbian prodotto un profondo turbamento dell'equilibrio sociale e
anche, come suole accadere, quella certa inquietudine degli strati
piú bassi della società, che si manifesta nella morbosa
ansietà di migliorare il proprio stato economico e
nell'allentamento del rigido criterio gerarchico.
Nel biennio rivoluzionario si era
parlato un po' dappertutto di socialismo e di questione sociale; e le
rivendicazioni del proletariato, piú o meno generiche, piú
o meno spontanee, erano affiorate un po' dappertutto, in qualche
luogo assumendo perfino un aperto carattere sedizioso.
Il fenomeno, anzi, aveva cominciato a
manifestarsi fino dal 1847, vuoi in conseguenza del generale
risveglio delle minoranze liberaleggianti e della avvenuta
concessione, in qualche Stato, di alcune riforme; vuoi in conseguenza
della carestia determinatasi ovunque per via degli scarsi raccolti
del '46103. Rivendicazioni, meglio che del «
proletariato», della povera gente; indistinta volontà di
miglioramento che proruppe qua e là in agitazioni senza
speranza e senza scopo preciso, nelle quali sarebbe vana fatica voler
oggi distinguere la parte giocata dalle frazioni operaie o dai
dispersi artigiani o dai braccianti agricoli. Quando i giornali
conservatori alludevano a questi moti e al rivelarsi di questi
torbidi desideri, li battezzavano piuttosto comunisti che socialisti,
e giustamente del resto ne additavano il carattere e i limiti in un
diffuso risentimento contro le classi ricche e in una sommaria
protesta contro l'ordinamento della proprietà. Moti di questo
genere si verificarono in Toscana, in Lombardia, in Romagna nei primi
mesi del '47, e non furon pochi tra i liberali quelli che, notandone
la contemporaneità e il naturale effetto di stringere i
timorosi ceti possidenti ai governi conservatori, vollero vedervi lo
zampino, oltre che del partito retrivo, del suo grande ispiratore e
sostegno: lo zampino dell'Austria104.
Di socialismo, inteso generalmente nel
senso di riforme sociali piú o meno radicali da ottenersi con
mezzi legali, inserite nel quadro della auspicata generale riforma
politica, cominciavano invece a discorrere gli uomini colti, le teste
calde del partito avanzato. Carlo Marx, da Colonia, inneggiava ai
principii professati dall'Alba di Firenze105. Né
l'Alba era sola a slanciarsi per quella via: allentata la
stretta della censura, la parola magica — socialismo — e
l'interesse non dirò predominante ma certo di primo piano —
problema sociale — erano affiorati spontaneamente e
automaticamente nella Toscana del '47, nell'identico modo che si
sarebbe verificato nel Piemonte del '49. Chi voglia saperne di piú
non ha che da sfogliare la Rivista di Firenze, il
Popolano, l'Italia, il Conciliatore, il
Nazionale, giornali e riviste che si stamparono in Firenze o
Livorno nel corso del 1847.
Con l'anno successivo naturalmente la
propaganda socialista andò intensificandosi in tutta Italia.
Bagliori di comunismo si ebbero in Puglia nella prima metà del
'48, quando — sancita la Costituzione — nella plebe
rurale delle Due Sicilie si sparse la mirifica credenza che
Costituzione significasse, su per giú, distribuzione delle
terre ai lavoratori; e apostoli del comunismo si misero a girar le
campagne, incitando i contadini a invader senz'altro demani e
latifondi (terrore delle classi possidenti dalle cui stesse fila son
pure usciti molti di coloro che hanno spinto alle riforme politiche;
diffuse nostalgie di restaurazione del regime assolutista!) Dalla
propaganda è breve il passo all'azione: in tutto il Regno si
moltiplicarono gli episodi di occupazione di terre
comunali106. Nelle città, agitazioni consimili: a
Napoli, ad esempio, mentre i fogli democratici profittavano della
breve parentesi costituzionale per invocare e discutere ampie riforme
sociali, i tipografi dichiaravan lo sciopero, i sarti organizzavano
clamorose dimostrazioni di protesta contro il trattamento economico
(aprile); a Cava e a Salerno si registravano movimenti fra i tessili.
A Roma e in provincia eran quotidiane,
quasi, le dimostrazioni popolari contro la gente ricca.
A Firenze e in tutta la Toscana
s'intensificavano le polemiche giornalistiche e le discussioni nei
circoli politici intorno al problema sociale e al socialismo.
Notoriamente mentiva il Guerrazzi quando, sia pure a fin di bene,
dichiarava al Consiglio generale, il 14 ottobre, che «il
popolo nostro ignora perfino i nomi di comunismo e di socialismo».
A sbugiardarlo stavano le agitazioni dei facchini e tipografi
verificatesi a Firenze proprio nel marzo e la grande dimostrazione
dei disoccupati del luglio107. Ma la menzogna non era
sintomatica?
Neanche le Legazioni eran rimaste
immuni dal contagio: c'era a Bologna un giornale dal titolo
significativo — Il Povero — il quale svolgeva una
cosí intensa propaganda socialista che ad esso si volle da
molti imputare il poco patriottico contegno tenuto da una minoranza
del popolino della città nell'agosto del '48. Idee
socialistoidi venivano nel contempo diffuse dai circoli democratici
di Modena, Ravenna, Faenza, oltre che di Bologna medesima.
Socialismo in Lombardia: dove, tra il
marzo e il luglio del '48, assai se ne discorse, un po' per naturale
conseguenza della rivoluzione di popolo108, un po' anche per
opera d'interessati agenti della monarchia sarda o, peggio,
dell'Austria, postulandosi l'equazione: repubblica = avvento del
socialismo. Il Lombardo ad esempio svolse, nella sua breve
vita, aperta propaganda classista; e L'Operaio, professantesi
«egualitario», si pose a dar consigli di associazionismo
autonomo ai lavoratori109. Nell'Italia del Popolo, che
pure evitò sempre gli accenni alla questione sociale, si
poteva leggere, il 25 luglio, a conclusione d'una serie di articoli
dedicati a illustrare la tristissima sorte del proletariato agricolo,
la seguente sentenza: «... noi siamo ingiusti quando chiediamo
ad essi (ai contadini cioè) sacrifici per la patria che
conoscono tanto matrigna». E infatti i contadini dell'alta
Lombardia che, come è noto, contrastarono passivamente le
operazioni dell'esercito sardo, andavan borbottando, e qualche volta
dissero forte che «il regno dei signori» (i patrioti
antiaustriaci) era ormai tramontato per sempre110. Ai primi
d'aprile, a Milano, si verificarono, scriveva un giornale,
«attruppamenti» d'operai reclamanti un aumento di paga.
Nel maggio, i tipografi si misero in agitazione per protestare contro
l'adozione di un nuovo tipo di macchina; poco dopo fu la volta dei
lavoranti sarti.
Socialismo in Piemonte: dove Il
giornale degli operai (Torino) si fece banditore di animose
rivendicazioni sociali, e in Parlamento una sonora fischiata del
pubblico accolse il rigetto, da parte della maggioranza, della
proposta instaurazione d'una imposta unica progressiva sul reddito; a
Genova, il 4 d'aprile, scoppiò violentissimo lo sciopero dei
facchini e quello dei carrozzieri, protestanti contro l'introduzione
degli omnibus; il giorno appresso quello dei tipografi. Nel
maggio-giugno, si ebbe minaccia di sciopero, a Torino, da parte di
lavoranti sarti e calzolai. Le tendenze comuniste nella capitale
sabauda erano cosí accentuate che scrittori liberali
mostrarono perfino di nutrire serie preoccupazioni per l'avvenire di
Torino industriale! A Genova nel novembre un oratore popolare si
permise di fare aperta propaganda classista; nel marzo '48 qualcuno
presentò al Parlamento una petizione richiedente addirittura
che «in nome dell'eguaglianza», «le sostanze e i
beni si dividessero fra tutti i cittadini»111.
Socialismo in senso molto impreciso
della parola? Generica espressione di malcontento, chiassate e niente
altro? Sia pure. Certo è però che la borghesia italiana
cominciò ad aver familiarità con i due «spettri»
del socialismo e del comunismo proprio in questo periodo di tempo, e
che da allora in poi i suoi portavoce non cessarono piú dal
dilatarne minacciosamente le proporzioni e i possibili effetti, o al
contrario dall'ostentare calorose simpatie socialiste, a seconda che
si orientavano verso un conservatorismo ad oltranza, deliberato a
tutto pur di distogliere gli italiani dall'impresa dell'indipendenza,
o verso un liberalismo di sinistra, ansioso d'interessare in qualche
modo le masse all'edificazione dell'auspicato Stato unitario.
Esempi di artificioso ingigantimento
del pericolo socialista non difettano davvero, anche a volersi
fermare al 1849. La repubblica romana, la sua assemblea, i suoi
ministri e i suoi triumviri sono senz'altro socialisti sfegatati per
i fogli clerico-reazionari; taluni dei quali non esitano a dichiarare
che quell'assoluta dedizione di sé alla patria in pericolo,
richiesta da Mazzini ai romani, non ad altro tende che a instaurare
«nella teoria e nella pratica il comunismo». Sacrosanta
perciò la «crociata» francese: «La Francia
che combatte contro Roma — scrive, solenne, Il Saggiatore,
torinese, 15 giugno '49 — è il diritto che fa guerra al
socialismo di cui il santuario di Vesta... è divenuto centro e
sinagoga». Fioccano risposte furenti di quelli fra i difensori
di Roma che prendono sul serio le aberrazioni dell'estrema destra:
«Qui non siamo, l'ho detto sovente, né socialisti, né
comunisti, né montagnardi; noi siamo italiani e repubblicani»,
prorompe Cernuschi nell'Assemblea romana, il 2 di luglio; e il Torre:
«... noi fummo trattati da discepoli di Proudhon e di Cabet. Né
ci duole che cosí la pensassero i diplomatici e gli uomini del
francese governo... Ma ci stupisce assai che scrittori italiani e
costituzionali non vergognassero di ripetere cosí stolte
accuse».
Il fine propostosi dai
clerico-reazionari con questo ricatto del comunismo, che da allora in
poi è diventato d'uso frequente, era ben chiaro: dimostrare ai
Principi italiani e ai loro governi che fuor del piú rigido
ossequio alla volontà della Chiesa non c'era rimedio possibile
alle crescenti pazze pretese dei rivoluzionari. Dal che, con agile
passo, l'occhio volto alla liberale politica sarda, si veniva a
dimostrare come e qualmente le confische di beni ecclesiastici,
operate dai governi rivoluzionari e accennate da quello di Torino,
rientrassero senz'altro negli abominevoli confini del «comunismo».
Pio IX, ufficialmente e privatamente,
non parlava che di socialismo e comunismo! Aveva principiato nel '46
(9 novembre), con l'enciclica Qui pluribus; riprese il 20
aprile '49 con l'allocuzione Quibus, quantisque lamentando il
diffondersi ovunque del «luttuoso e orrendo sistema del
socialismo ed anche del comunismo»; l'8 dicembre '49 fulminò
contro le perverse dottrine una furibonda scomunica: i difensori
della repubblica romana, vi si leggeva, non avrebbero avuto altro
scopo che quello «di spingere i popoli... a rovesciare ogni
ordine sociale, e al tempo stesso condurli ad abbracciare i nefandi
sistemi del nuovo socialismo e comunismo». E anche: «I
maestri tutti, sia del Comunismo che del Socialismo... si sono
riuniti in un comune disegno, ed è quello di agitare con
perpetue commozioni gli operai, ed altri uomini, specialmente delle
ultime classi, dopo averli sedotti con le loro menzogne, e illusi con
le promesse di una piú felice condizione, e addestrarli a poco
a poco ad altri piú gravi delitti, affinché in seguito
possano servirsi dell'opera loro per combattere il governo di
qualunque siasi autorità superiore, per derubare, saccheggiare
e invadere, prima le proprietà della Chiesa, poi di qualunque
altro, e per violare infine tutti i diritti umani e
divini»...112
Calato il sipario sulle disgraziate
esperienze del '48-'49, rimessa ovunque la cappa di piombo della
censura a soffocare le intemperanze degli intellettuali, le polizie
provvedendo a rintuzzare per conto loro, energicamente, le pericolose
tendenze della classe operaia, il solo Piemonte, s'è detto,
raccolse in qualche modo l'eredità spirituale del biennio.
Il movimento di associazione operaia,
intanto, fu incoraggiato, laddove non mostrasse di perseguire larvati
scopi politici. Prima del '48 in tutto il regno non esistevano che 12
Società operaie di mutuo soccorso: nel '59 esse ammontavano a
134. Importante passo innanzi, queste Società principiarono
fin dal 1851 ad allacciare rapporti fra di loro e a discutere la
possibilità di una federazione.113 Nel '53 si
riunirono in Congresso e fu da allora in poi, anno per anno, una
serie ininterrotta di Congressi (il 3° a Genova, 1855) sempre piú
affollati, preziose occasioni per uno scambio d'idee tra i piú
intelligenti operai e i democratici borghesi che dirigevano il
movimento: né è a dirsi se e quanto le discussioni in
merito a problemi del lavoro iniziate nei Congressi trovassero
seguito ed eco nella stampa del tempo.114
Accanto alle Società operaie,
le cooperative di consumo e di produzione; e in seno ad esse una
marcata tendenza a esorbitare dai fini del mutuo soccorso per
sfociare, da un verso, nella politica, dall'altro, nelle agitazioni
economiche e negli scioperi.
Il movimento era piú intenso e
turbolento a Genova, dove Pisacane risiedeva. Non resulta che egli se
ne occupasse personalmente, ma certo ne seguiva lo sviluppo e ne
ricavò suggestioni per i suoi scritti (nei Saggi ad
esempio additò qual sintomo «del nuovo giorno... la
tendenza delle moltitudini all'associazione»). È noto
infatti che le relazioni fra l'ambiente democratico repubblicano di
Genova e la locale classe operaia si mantenevano assai strette e
cordiali.
Povero egli stesso e costretto a un
mal retribuito lavoro, la dura sorte del proletariato piemontese non
poteva non impressionarlo dolorosamente: salari di fame e per alcune
industrie notevolmente ribassati in confronto al decennio precedente;
né sempre corrisposti interamente in moneta, ma con un
supposto equivalente in natura, a tutto vantaggio degl'imprenditori;
orari di lavoro abbrutenti, inesistente legislazione protettiva del
lavoro115. Le agitazioni e i disordini si succedevano senza
posa.
Nel '49
erano i vellutai di Zoagli che, richiedendo aumenti di salario e
cessazione appunto del pagamento dei salari in natura, davan grossi
fastidi alle autorità; sui primi di maggio del '50 erano i
vignaiuoli di Cassolo Lomellina che clamorosamente protestavano
contro i licenziamenti arbitrari: seguivano incendi, invio di truppe,
arresti; nel '51 la polizia genovese segnalava ufficialmente la
«diffusione di massime socialistiche» a mezzo delle
associazioni in quella classe operaia; nell'ottobre '55, a Torino,
gli operai sarti si mettevano in isciopero; nel gennaio '56, in tutto
il Piemonte, si tennero foltissime adunate popolari per protestar
contro le tasse e sollecitare l'istituzione della famosa imposta
unica progressiva sul reddito. Nel novembre del medesimo anno gli
operai sarti di Genova, in un memoriale presentato ai loro
principali, chiedevano (ma non ottenevano): aumento nella mercede,
pagamento dei salari in moneta, orario di lavoro di... 11
ore!116
Sembrerebbe già abbastanza; ma
non ho scelto e citato, tra i molti, che qualche episodio piú
caratteristico, atto a documentare il progressivo destarsi di una
coscienza di classe nel proletariato subalpino.
Accanto a questa «prassi»,
e in parte come conseguenza di essa, come caloroso il corrispondente
interesse o la corrispondente preoccupazione dei ceti borghesi per la
questione sociale!117
Si prenda un giornale liberale, il
torinese Risorgimento (Cavour, Balbo, Castelli, Ricotti) e si
osservi quanto assidua e zelante sia la vigilanza — non saprei
come meglio definirla — che esso, fin dai suoi primi numeri,
esercita sull'avanzarsi del socialismo. I suoi articoli in materia
sembrano addirittura bollettini di guerra di un esercito
assediato!118 Se già nel '48 il Risorgimento ha
ritenuto possibile un'ondata socialista in Italia come conseguenza
degli avvenimenti francesi, dal '50 in poi questa preoccupazione
diventa un'idea fissa: non una parola, non una mossa dei socialisti
di Francia sfuggono ai suoi redattori, ogni accenno a socialismo vero
o supposto che possa constatarsi in Piemonte vien da costoro
denunciato d'urgenza; la nuova barbarie, pretendono, sarebbe lí
lí per sommerger l'Europa! Piú combatte il nemico, piú
s'adopra a gonfiarne l'importanza e il pericolo, e piú,
s'intende, il Risorgimento contribuisce senza volerlo a fargli
réclame.119 «Non passa giorno — si
legge nel numero del 29 gennaio '50 — senza che ci alletti
l'occhio e l'orecchio qualche massima sociale» sospetta; o non
s'intende dai democratici che «ai dí nostri l'attuazione
di una tale idea (il socialismo cioè) avrebbe per inevitabile
conseguenza il ritorno al principio del governo assoluto»? (8
febbraio). E il 12 marzo: «La parola socialismo... è
una parola che scotta; poté essere innocente e nobile nel suo
primitivo senso, ma i piccoli Considérant e Proudhon
dei nostri dintorni, scherzando troppo sopra certe materie, finiranno
per fare scoccare il grilletto di un'arma che poco conoscono».
A giornaletti piemontesi di provincia che «fanno il Leroux ed
il Proudhon del loro circondario» fa la predica il 20 d'aprile
anche il Torelli (che ha preso a stampare nell'appendice del
Risorgimento, sotto lo pseudonimo di Ciro D'Arco, una
vivacissima serie di lettere sulla questione sociale), lamentando il
progredire di certe tendenze «in un paese finora immune dalla
tempesta socialista».
Quali erano questi scapestrati
fratelli minori del Risorgimento? Vediamone uno, Il
Carroccio, di Casale, diretto dal Mellana. Discorre a tutto pasto
di socialismo, è vero, e non nasconde la sua viva simpatia per
esso, e spesso e volentieri riproduce articoli socialistoidi dalla
stampa francese; giusto è osservare per altro che si trattava
d'un socialismo all'acqua di rose, tutto riforme e progressive
conquiste, niente miracoli, niente violenze. Che importa? Il 31
luglio '50 Il Carroccio vien sottoposto a processo,
nientedimeno che sotto l'accusa di bandire le dottrine socialiste
(nel caso, qual legge ne aveva mai proibito la diffusione?) Alla
udienza, naturalmente, è un gran battagliare sull'idra
malefica e le sue varie tendenze. «Non ignoro qual pericolo
si corra non solo quando si prende la difesa del socialismo, ma anche
quando se ne parla con qualche moderazione...», esordisce uno
dei difensori, il Sineo. L'altro (il Rattazzi) nobilmente rivendica
il rispetto dovuto alla libertà di stampa, anche quando essa
venga utilizzata per divulgar dottrine contrarie al diritto di
proprietà; sempreché non si tenda a tradurle in atto
con mezzi illegali.
Nel deliberare l'assoluzione del
giornale incriminato, tra gli applausi del pubblico, i giurati di
Casale seguon l'esempio dei loro colleghi di Alessandria, che pochi
giorni innanzi in un processo identico hanno mandato assolto
L'Avvenire, altro foglio d'estrema sinistra. Il Carroccio
s'affretta a render conto ai lettori del riportato trionfo,
malignamente garantendo all'autorità giudiziaria che «i
socialisti loro sapranno buon grado della cura che si prendono di far
conoscere e propagare le dottrine loro». Piú malinconica
la moderata Concordia (Valerio, Correnti): «Il pubblico
ministero ieri ha tessuto la storia del socialismo, ed ha cosí
insegnato le piú tristi teorie al nostro popolo che le
ignorava affatto...»
Mutiamo ambiente: sfogliamo un
giornale clerico-reazionario, Lo Smascheratore, di Torino, che
ha giurato eterna guerra alla democrazia e alle sue «inevitabili»
degenerazioni socialiste. Il 18 maggio '49 esso gravemente c'informa
che «tanta parte dei colti operai della città» è
dichiaratamente socialista; il 27 giugno addita ai moderati, ciechi e
sordi, il «rovinoso torrente del comunismo», che avanza;
tre giorni appresso li previene esser l'attuale trionfo del
radicalismo preludio «alle brutali triturazioni del
socialismo, del comunismo». Non mancano, s'intende, né
il ricatto sul «turpe comunismo» considerato quale
inevitabile effetto dell'attenuarsi della fede cattolica, né
l'indiretto e involontario incitamento all'odio antiborghese («Bel
sovrano — il popolo — che una volta era libero sotto nome
di schiavo; oggi è schiavo sotto il nome di libero!» —
12 novembre), tutti consueti elementi della propaganda
clerico-reazionaria. Di tanto in tanto, invece, qualche azzeccata
punta contro le pose della borghesia democratica: «In questi
ultimi anni — scrive ad esempio il 21 febbraio '50 — la
parola d'ordine, lo specifico per far fortuna si è la
tenerezza per il popolo che si ha sempre fra le labbra»; e il
1° di giugno: pare impossibile che non si possan piú
scrivere due righe «senza levarsi il cappello a monsú il
Popolo».
Il Risorgimento, Il Carroccio, Lo
Smascheratore sono esempi tipici dell'appassionato fervore
sociale che animava in quegli anni le diverse frazioni della
borghesia colta piemontese. Ma quanti altri giornali implicati nella
grande polemica si potrebbero citare!
Filosocialista è la torinese
Gazzetta del Popolo (Borella, Bottero, Govean), avanguardia
della democrazia radicale; filosocialista La Fratellanza di
Cuneo (ecco forse un altro di quegli imprudenti giornaletti di
provincia, ai quali accennava Il Risorgimento), che nel marzo
1850 dichiara non essere le libertà politiche se non «crudele
ironia pei molti che soffrono». Nel gennaio 1850 inizia le sue
pubblicazioni a Torino L'Universitario, il cui programma reca,
oltre l'impegno di dedicarsi al «miglioramento di condizione
delle povere classi», un grido di «guerra agli abusi ed
a' privilegi». La Voce del deserto, torinese
anche essa e diretta dal Brofferio, fa aperta professione di
socialismo: ne I Mietitori, ad esempio, poesiola stampata l'8
settembre, mentre si lamentano le crude disuguaglianze sociali («qua
si agonizza di fame e sete — là si singhiozza di
sazietà»), è stigmatizzata l'assurda pretesa che
molti hanno di trovare sinceri affetti di patria in «chi suol
non ha»; un articolo del 24 novembre risolutamente afferma («a
costo di sentirci a chiamare socialisti») notarsi nell'ordine
sociale «capitalissimi vizi da riformare» se si voglia
davvero «ricondurre l'Europa a riposate condizioni». Lo
stesso giornale mazziniano Italia e Popolo, di Genova, che pur
riceve da Londra istruzioni antisocialiste, abbonda nel senso
contrario, come dimostra il canto allo Sciesa dovuto a «un
operaio» e pubblicato il 19 agosto 1851, come dimostra un
articolo dell'11 settembre 1851 in suffragio della tesi, diciamo
cosí, pisacaniana, secondo la quale non vi sarà vera
rivoluzione nazionale se non accompagnata da una rivoluzione
sociale.120 Accenni filosocialisti del resto non eran
mancati, nel 1850, nella stessa Italia del popolo, la rivista
mazziniana cui Pisacane aveva collaborato e che, stampata in
Isvizzera, aveva forte diffusione in Piemonte.
Qualche anno piú tardi, e
precisamente nel '54, Tommaso Villa, direttore di un quotidiano
torinese d'intonazione mazziniana (il Goffredo Mameli, giornale
della gioventú italiana) si buscava un rabbuffo da Mazzini
in persona per aver stampato, il 21 dicembre, l'articolo poco
ortodosso Un pò di socialismo.
Vi erano poi i giornali prettamente
operai: e a sincerarsi dell'immensa suggestione esercitata in quel
tempo dal socialismo il lettore non ha che da sfogliare le brevi
collezioni del Proletario, Torino; L'Uguaglianza,
Torino; Il giornale degli operai, Torino; o dei giornaletti
genovesi L'amico del povero; Il lavoro; La Bandiera
del popolo; L'Associazione; La libertà e
associazione (lodato da Pisacane nei Saggi), stampati
tutti fra il '50 e il '55.
Nel 1853 esce a Torino il settimanale
L'Imparziale, che propugna una sorta di socialismo legalitario
da attuarsi attraverso una grande organizzazione di credito popolare
e la moltiplicazione delle associazioni operaie. Due anni appresso è
la volta di un importante quotidiano dedicato al popolo, La
Speranza: esso apertamente propugna La necessità dello
sviluppo del socialismo nelle classi operaie, reca articoli a
firma «un operaio socialista», incoraggia il libero
associazionismo dei lavoratori, afferma non essere piú
concepibile un rivolgimento politico che non adduca al popolo «un
vantaggio materiale, un miglioramento nella sua condizione
d'esistenza». È troppo naturale che un cosí fatto
giornale incappi ben presto nei rigori della giustizia: 20 settembre
'55, primo sequestro per un articolo I ricchi ed i poveri;
nelle sei settimane successive altri cinque sequestri! Ma i redattori
non attenuano il loro linguaggio, si ridono anzi di «chi si
abbandona a stolide paure e grida al fuoco, ai ladri,
ogni volta che intende pronunciare nome di popolo, di miseria, di
problemi sociali»; mettono in luce l'internazionalità
della causa della emancipazione operaia, e — a buon
intenditor... — dicono chiaro che «la servitú
delle classi laboriose è piú dura ed umiliante in
patria libera che in patria serva».
La Speranza rappresenta in
certo modo L'Avanti! degli operai piemontesi, tre quarti di
secolo or sono. Né manca l'organo di cultura, La critica
sociale di quei tempi, destinato all'intellettualità
filosocialista: è questo La Ragione che Ausonio Franchi
fonda a Torino il 21 ottobre del 1854 (collaboratori De Boni,
Ricciardi, Macchi, Ferrari, Levi e vari stranieri; dapprima
quindicinale, poi settimanale, e finalmente quotidiano). La
Ragione aderisce al socialismo riformista sul terreno economico,
come al repubblicanesimo in politica, e al libero pensiero in materia
religiosa. In nessun altro giornale il quadro delle inique
disuguaglianze sociali è tracciato con piú vivezza e
misura; in nessun altro la prolungata discussione sul problema
sociale (cui prendon parte, cortesemente ospitati, anche semplici
operai) è piú proficua ed equilibrata; gente fattiva e
di cultura, questi della Ragione, che agiscono all'infuori di
qualsiasi partigiano interesse. «Dunque gridiamo anche noi
unità e indipendenza, e nasca quel che vuol nascere (si legge
nel numero del 15 dicembre '55); dal giorno in cui l'aborrito
straniero non calpesterà piú la sacra terra italiana,
siamo certi sparirà la miseria e la corruzione che ci
rodono... e le lodole cadranno dal cielo belle e arrostite... Ma
della vostra libertà che ci lascia morir di fame... io me ne
rido. Siamo stanchi di tante ludificazioni di libertà... In
breve, piú che la tirannia straniera, piú che lo
smembramento della famiglia italiana, ci dan da pensare il nuovo
organamento sociale al domani della lotta, e i mezzi radicali, onde
sgombrare dal nostro bel paese privilegi, ipocrisia, ignoranza e
miseria, al dí della vittoria. Che governi Dio o il Popolo,
che si confederi o si agglomeri la popolazione frazionata della
penisola, poco importa; saran sempre rivoluzioni da scoiattoli,
quelle che non tendono a trasformare da cima a fondo questa fracida e
sgangherata baracca».
Fin qui la stampa periodica, o meglio
un campionario scelto della medesima. Ma che diluvio di libri e di
opuscoli, poi!
Il '51 fu l'anno fecondo: si aprí
con La federazione repubblicana di Giuseppe Ferrari, stampata
sí all'estero, ma in Piemonte assai letta e discussa (si vedrà
come eccitasse insieme l'ammirazione e lo sdegno di Pisacane).
Direttamente influenzata da quello scritto, che deve considerarsi
fondamentale da chi voglia studiare lo sviluppo dell'idea socialista
in Italia, usciva pochi mesi dopo, dovuta al Montanelli,
l'Introduzione ad alcuni appunti storici sulla rivoluzione
d'Italia. Gran nome, quello del Montanelli: il suo libro quindi
circolò dappertutto, al suo generico contenuto socialista
conferendo singolare importanza l'anzianità dell'autore quale
fautore di riforme sociali. L'Introduzione tenta di impostare
la questione italiana da un punto di vista generale europeo, ponendo
in rilievo come essa non sia se non un episodio della lotta mondiale
tra rivoluzionari e conservatori, quando per conservatori s'intendano
i militari, il clero e i «monopolisti del capitale». «Il
perno della reazione europea è la plutocrazia»,
ammonisce il Montanelli, il quale brillantemente riprendendo un
argomento già largamente discusso nella stampa democratica,
sostiene la vanità d'una rivoluzione meramente politica.
«Senza cambiare l'ordine economico d'Europa, resterebbe
infeconda la nostra vittoria... la rivoluzione europea si risolve
nella riforma delle condizioni sociali economiche d'Europa, e perciò
l'Italia non può sperare riscatto altro che dai principî
da cui questa riforma s'attende», ossia dall'attuazione del
socialismo. I patriotti italiani si chiamino dunque ormai, e
apertamente, socialisti, e come tali arditamente operino.121
Dopo l'Introduzione, era la
volta della Guerra combattuta. Tornava poi nuovamente in lizza
il Ferrari con l'attesa e ancor oggi notissima e per molti aspetti
pregevole sua opera, Filosofia della rivoluzione, anch'essa
uscita dai torchi di Capolago, ma largamente diffusa a Genova e a
Torino. Distaccandosi dai socialisti rivoluzionari, Ferrari vi
riconosceva l'impossibilità di abolire d'un tratto l'istituto
della proprietà, pur ravvisando nella sua progressiva
limitazione fino al termine, assunto a mito, di una generale
distribuzione delle terre (legge agraria), il fondamento del
progresso sociale. L'evoluzione dell'umanità deriverebbe
dall'urto dialettico tra istinto di proprietà e istinto di
comunanza; e il diritto ereditario, da limitarsi progressivamente,
sarebbe la leva sulla quale la società moderna dovrebbe d'ora
innanzi agire per raggiungere un assetto migliore, basato sul
principio attuato della maggior possibile eguaglianza sociale.
Appassionatamente sensibile alle miserie della maggioranza della
popolazione, Ferrari abilmente difende la sua visione ottimistica
della società futura dalle tradizionali critiche degli
anti-socialisti, con grande acutezza abbozzando altresí una
giustificazione preventiva di certe necessità d'azione
antiliberale (dittatura del proletariato, per dirla in breve) che
s'imporranno ai combattenti per la libertà e l'eguaglianza
integrali.
Ma questa non è che la parte
ultima, conclusiva di un'opera dedicata, nel suo complesso, alla
giustificazione storica, psicologica e filosofica del principio
dell'uguaglianza.
Filosocialista era, accanto al Ferrari
e al Montanelli, Ausonio Franchi. L'editore della Ragione,
infatti, in un suo libriccino sulla Religione del secolo XIX
(1853) cosí presentava ai lettori lo scabroso soggetto: il
socialismo «è la religione degli operai; esso dà
il carattere al movimento del nostro secolo, che è...
l'emancipazione del proletario; esso predomina già su d'ogni
altro principio in Francia ed in Germania, e comincia a propagarsi in
Inghilterra ed in Italia; esso detterà la legge della prossima
rivoluzione». E concludeva, non senza enfasi: «l'onda del
socialismo sollevasi di giorno in giorno piú alta, s'avanza
piú impetuosa, rumoreggia piú forte».
Gli scrittori minori di cose sociali
eran poi legione nel Piemonte del tempo: economisti e filosofi,
sacerdoti e liberi pensatori, uomini politici e dilettanti delle piú
svariate tendenze.122
Rosmini pubblica (Genova, 1849) un
pesante studio critico sul comunismo e socialismo. Il padre
Tapparelli D'Azeglio agita in un suo diffusissimo opuscolo il pauroso
fantasma del socialismo. Il siciliano Corvaja, un genialoide che
imbottisce d'insopportabili stramberie poche idee nuove e felici,
escogita una panacea generale per guarire la società di tutti
i mali del monopolio, né prima né ultima delle sue
trovate intorno alla questione sociale; un anonimo che giura nella
«supremazia democratica pura» rivolge un appello ai
repubblicani, socialisti e comunisti perché s'abbiano a unire
fra loro (Genova, 1850); un altro anonimo clericaleggiante stampa nel
'51 un saggio sesquipedale sul socialismo e le sue varie dottrine e
tendenze; v'è perfino chi traduce Gesú Cristo davanti
un consiglio di guerra allo scopo di dimostrare che la dottrina
socialista deriva direttamente dal Vangelo (1850); Massino-Turina, un
economista, pretende d'aver trovato il verso di fermare il corso
della miseria (1850); valanghe di libri e d'opuscoli propugnano
l'instaurazione dell'imposta unica progressiva sul reddito. Un
deputato, il Turcotti,123 esamina con mentalità di
socialista temperato i diritti che a ciascun uomo competono sul
frutto integrale del proprio lavoro; Raffaele Conforti124
studia il problema del lavoro da un punto di vista giuridico
astratto; un Quaglia considera dottrinalmente il fenomeno
dell'associazionismo operaio; il Carpi inizia fin d'ora le sue
celebri indagini sulla diffusione del credito; un Giulio si scaglia
contro le tasse che colpiscono la povera gente; dozzine di scrittori
(Cavedoni, Liberatore, Grimelli, Nobili ecc.) suonan l'allarme contro
il socialismo in progresso. Tesi pro e contro il socialismo si
trovano svolte, e assai per disteso, nelle trattazioni d'economia
d'uno Scialoia (che è un temperato socialista di stato), d'un
Boccardo e d'innumeri altri minori (Trinchera, Rusconi, Meneghini).
Un di costoro, il Giudice, si protesta antisocialista convinto, ma
nel contempo svolge una critica a fondo della società
capitalistica e rompe una lancia in pro d'una autoemancipazione
operaia e contadina che si potrebbe sollecitare mercè la
diffusione del mutuo soccorso. Né è a dirsi se di
socialismo non fosse parola nelle troppe pubblicazioni pseudo
storiche scritte a fini d'edificazione da penne clerico-reazionarie,
tutte in cento modi diversi manipolanti il famoso ricatto del
comunismo.
Ma quel che forse colpisce di piú
chi rievochi le correnti di pensiero prevalenti allora in Piemonte si
è il fatto che anche in moltissime pubblicazioni non attinenti
alla questione sociale, venute alla luce dal '49 in poi, si trovano
pagine e pagine dedicate ad essa come alla piú grave
preoccupazione del giorno. Di Gioberti e del suo vivo interesse in
materia è superfluo parlare125; ma si vedano, a
conferma, le opere di Macchi, De Boni, Tuvèri,
Mancini126; si leggano, negli Avvedimenti politici del
reazionario Solaro della Margarita, i paragrafi dedicati alla
sovranità del popolo, alle ineguaglianze sociali, i frequenti
apocalittici accenni al socialismo e al comunismo; si veda, tra le
Prediche domenicali raccolte in volume dal Bianchi Giovini,
quella che tratta del comunismo; si riapra il noto libello di Perego
e Lavelli sui Misteri repubblicani, che «nell'attuamento
delle società operaie in Piemonte» saluta il «primo
gradino al tempio del socialismo».
Perfino l'Enciclopedia popolare
consacrava un benigno articolo alla voce Socialisti; perfino
un militare, il Roselli, discorrendo della spedizione di Velletri si
sentiva tratto a ragionare (o sragionare) sul socialismo; e nelle sue
Lezioni di elettricità, o meglio nella prefazione a
questo suo libro, il Matteucci, da buon liberale, trovava modo di
dare addosso al socialismo.127
Anche i poeti presero la rosolía;
poeti come Dall'Ongaro (Libertà e lavoro); come Revere,
come Curzio, che piange le ineguaglianze sociali e sogna un avvenire
piú giusto; come il comunisteggiante Gojarani, che freme
dinanzi allo sfruttamento che pochi privilegiati esercitano a danno
della «miseranda schiatta»; poetucoli come il Mazzoldi
(Il ricco ed il povero)128.
E come fioccavano le traduzioni in
lingua italiana di opere straniere pro e contro il socialismo (ma
piuttosto contro che pro)! Libri e pamphlets di Thiers, Blanc,
Cortez, Schmit, per non citare, fra i tanti, che pochi nomi piú
illustri.129
Una conclusione, mi sembra, può
trarsi da questo arido elenco di nomi, di dati, di libri: e cioè
che, dedicandosi allo studio del problema sociale, Pisacane non ha
fatto che cedere alla potente suggestione dell'ambiente in cui ha
vissuto, sia questo inglese, svizzero o sardo. L'Europa tutta, in
quegli anni, vive sotto l'incubo o nella speranza messianica di un
imminente cataclisma sociale. Socialista, egli non sta dunque solo e
sdegnoso, neanche in Italia, in mezzo a un mondo ignaro dei vizi
della società borghese; al suo fianco, o per combattere la
stessa battaglia o anche per figurar di combatterla, è anzi in
Piemonte, e nella stessa Genova, una frazione non disprezzabile della
classe colta, nativa o emigrata; contro di lui, contro di loro è
quasi tutta la stampa, espressione dei ceti di governo, che con
sproporzionati attacchi li aizza alla lotta; intorno a loro, incapace
d'intendere le premesse dottrinarie del socialismo, ma già
decisa a conquistare, con l'associazione, col risparmio, con le buone
e con le cattive, un miglioramento del proprio tenore di vita, è
una élite della classe operaia.130
Pisacane, con la sua Guerra
combattuta, dovrebbe avere un posto onorevole tra i socialisti
piemontesi. Resta nell'ombra, invece, un po' perché a quasi
tutti è stranamente sfuggito il valore del suo libro dal punto
di vista sociale; un po' perché gli mancano qualità
giornalistiche; ma soprattutto perché, ingolfato nello studio
puramente teoretico di un sistema in cui tutto invita all'azione e
impone l'azione, egli tarda a rendersi conto che il suo preciso
dovere di socialista è quello di «gettarsi» nel
popolo. Comunque il suo sogno, dal '51 in poi, resta pur sempre
quello di farsi avanti nella battaglia social-politica, d'acquistarvi
con la dottrina, piú che con la facile audacia dialettica cara
agli pseudo socialisti imperversanti nella stampa piemontese
d'estrema, la competenza e l'autorità d'un capo, per poi
davvero volgersi dal cerchio dei dotti alle moltitudini inerti, e
guidarle alla conquista di un mondo migliore e piú giusto.
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