Spentasi l'eco clamorosa e meschina
suscitata dalla pubblicazione del suo libro, Pisacane, un po' perché
disgustato dalle polemichette astiose, dai malintesi e ripicchi, ma
piú perché gli preme adesso di approfondire i gravi
problemi che ha soltanto sfiorato nella sua Guerra combattuta,
muta vita radicalmente. Va ad abitare in campagna (dove, fra l'altro,
si spende assai meno), dirada i convegni con gli amici, riduce la sua
corrispondenza, e legge, legge, legge. Fervore di vita interiore,
quieta serena intimità con Enrichetta, in attesa che il
turbine dell'azione — per ora sopito — lo riafferri.
«Noi, scrive nel '52, viviamo in campagna ad un tiro di cannone
dalla Superba. Amenissimo sito, una buona abitazione per poco ed il
vantaggio che il padrone di casa mi ha completamente affidato una
ricca libreria, per me risorsa grandissima». La casa sorgeva
sul colle di Albaro, poco lungi da quella dei Cadolini, intimi di
Pisacane, e dalla villetta «Paradisino» nella quale
attorno ai fratelli Orlando solevan riunirsi a conversazione
moltissimi loro amici emigrati.
Giudicato dal di fuori, da chi non
sapeva capacitarsi che un uomo del '48 potesse trascorrere gli anni
fra i libri, in una placida attesa, questo ritiro spirituale di
Pisacane poté sembrare dal punto di vista politico indizio di
raffreddamento, di rinunzia; e non era. Ogni temperamento ha le sue
diverse esigenze. Mazzini, ad esempio, checché protestasse in
contrario, non produceva, non era lui, non viveva insomma, se non lo
circondava l'affannoso va e vieni degli amici esuli o di passaggio, o
non lo elettrizzava il miraggio di un'azione imminente.
L'atteggiamento pacato di Pisacane, di molti altri vicini a lui, non
poteva perciò non indispettirlo. Li conosceva «italiani»
ardenti al pari di lui; come dunque potevano badare ai propri
spirituali o materiali interessi, chiudersi o quasi nel cerchio della
loro vita individuale, in attesa dei comodi «tempi migliori»?
Se l'Austria impiccava e il Borbone colmava le galere, come non
sentivano essi l'irresistibile bisogno di balzare in piedi, di
gettare il libro, la penna, gli affari, per agire, per gridare al
mondo la loro esasperata protesta? «...Amici, concretiamo
perdio!... Vogliamo lasciare a mezzo, a furia di discussioni, un
duello a morte che abbiamo, con grande apparato di frasi e minaccie,
intimato all'Austria e ai nostri padroni?» È vero, essi
non condannavano a priori l'azione, anzi, a sentirli, non
desideravano altro; ma le condizioni che ponevano alla loro
collaborazione, le garanzie che esigevano erano tali e tante che con
ciò solo rivelavano appieno la loro intima sfiducia e un
crescente pessimismo. Mazzini ora li punge e li esalta, ora pretende
di ignorarli e li taccia di imbelli e «neutrali», ora
prorompe in disperate catastrofiche previsioni sull'avvenire delle
cose italiane affidate a uomini di cosí fiacca tempra; salvo
poi a riaccostarli, a lusingarli, a sottoporre loro un «ultimo»
piano, una «ultima base» di intesa. Il perpetuo sfogo
contro di loro fa per altro trasparire la convinzione radicata in lui
che quel gruppetto di dissidenti, ove avesse davvero voluto, avrebbe
fatto incommensurabilmente piú e meglio di mille altri
rumorosissimi omuncoli che gli si tenevan d'intorno, invariabilmente
disposti, loro, ad agire.
Pisacane che fa? Medici è
morto? E Cosenz dov'è?131 E Mezzacapo e Gorini e Masi?
Faccian di tutto, i fedeli, per smuoverli, pungendoli, «ma in
modo amorevole di chi stima». «In tutta Italia v'è
un certo fermento, e riescirebbe decisivo, se... i militari di Genova
e Torino tornassero nei sensi; ma questo non sarà».
Povero Mazzini! «Sono nauseato — scrive una volta —
... La classe media, la cospirazione ufficiale, è pessima... I
militari graduati, i piú almeno, ostacoli potenti. Dieci di
loro che dicessero di esser con me e per movere, spianerebbero
le difficoltà... Non vogliono... Siamo frutti avvizziti,
diventati marci prima di giungere a maturità. L'azione non è
sentita. I migliori... son diventati codardi. Se han fatto belle cose
nel '48 e nel '49, tanto peggio per essi ora; ora, sono codardi».
I quali «codardi»,
rassegnati alla gragnuola, parevan gente che a gran fatica fosse
riuscita a sottrarsi a un'influenza potente che per anni avesse
paralizzata la loro volontà; a giudicar dal loro contegno
avresti anzi detto che temessero di ricaderci da un momento
all'altro. Seguitavano a professar reverenza per Mazzini, ma avevan
principiato a raffreddarsi con lui, col «tiranno» di
Londra, fin dal momento che, radunandosi a Genova, s'eran persuasi
dell'importanza cospicua che rivestiva ormai il loro gruppo e per
contro della qualità innegabilmente scadente degli emissari
ufficiali del mazzinianismo in Piemonte, buoni a nulla se non
giungesse loro l'imbeccata di Londra.132 Di Londra, e perché
mai? Forse che il legittimo comitato direttivo del moto italiano non
risiedeva ormai di diritto fra Torino e Genova, fra le migliaia di
rifugiati d'ogni regione che v'avean preso stanza? Fior d'italiani
tutti costoro, esperti di carcere di guerra e d'esilio, provatamente
all'altezza d'un compito direttivo, dunque. Mazzini, sí, era
il migliore tra i veterani del patriottismo italiano, ma non era
appunto un po' troppo un veterano, ostinato a imporre nel '50 sistemi
d'organizzazione e mezzi di lotta escogitati con successo vent'anni
prima ed ora sorpassati? Le istruzioni che spediva dall'Inghilterra
non rivelavano forse l'inevitabile distacco suo dalla realtà
italiana, un certo che di estraneo, di non commisurato alle necessità
del luogo e del momento, di cosa giusta teoricamente, ma stonata, non
pratica? Quante volte le sue assicurazioni sulla indubitabile
maturità della situazione in questa o quella provincia non
s'erano rivelate frutto d'inattendibili informazioni d'uno solo,
contrastanti con mille segni palesi a tutti fuori che a lui! Eterno
malinteso fra i rivoluzionari di fuori e quelli di dentro:
inevitabili accuse incrociantesi d'inerzia a questi, d'imprudenza a
quelli. «Questa questione della Direzione diventa esosa,
protestava Mazzini. Io dichiaro pormi semplice ed ultimo subalterno
sotto quella del primo caporale che sorge e mi dice: organizzo e fo
io»; ma poi: «S'io corrispondo come centro, è
perché tutti quelli che vorrebbero fare s'indirizzano a me».
Non voleva intendere che il dissenso volgeva non solo sulla
opportunità o meno di spostare il centro direttivo della
cospirazione repubblicana, ma altresí, e anzi principalmente,
sulla opportunità o meno di proseguire la sua tattica
dell'azione a ogni costo e dovunque: nelle provincie «mature»
e in quelle che dormivano, nelle prime perché vi arrideva la
speranza del conclusivo successo, nelle seconde perché
occorreva pure svegliarle.133 Avrebbe obbedito, sí, a
un caporale qualunque, sottinteso però che questo avesse,
dall'a alla zeta, le sue medesime idee... E invece
questi militari di Genova condannavano aperto lo stillicidio dei
piccoli moti da lui messi su, e da un pezzo ripetevano con aria
d'importanza che si dovessero concentrare uomini e mezzi, e
risparmiarli in attesa d'aver raggiunto un indiscutibile grado di
preparazione e che si presentasse un'occasione eccezionalmente
favorevole. Bella scoperta! Anche Mazzini diceva cosí,
soltanto che loro non trovavano mai il momento opportuno, e a lui
pareva che dieci volte l'anno lo si fosse lasciato sfuggire; per loro
le forze non eran mai sufficienti e a lui, per meravigliosa illusione
che i disinganni patiti non offuscavan neanche, parevan sempre
imponenti. Differiva, insomma, la disposizione profonda dell'animo:
se da Napoli, da Milano, dalla Sicilia, s'invocavano aiuti per un
moto già stabilito, dovrei io rifiutarmi, domandava Mazzini,
in nome della grande iniziativa avvenire? E non assumerei in tal modo
la responsabilità del fallimento di quel moto? Rispondevano i
dissidenti che a guardar bene si trattava sempre d'iniziativa sua,
diretta o indiretta, di spinta originariamente data da lui e che a
lui tornava, in seguito, sotto specie d'iniziativa locale; e perciò
bisognava boicottarle tutte, queste pericolose proposte partenti
dalle varie provincie, a meno che non fossero di tale importanza e
non presentassero, già di per sé, tali elementi di
probabile successo da rendere opportuna una mobilitazione generale
delle riserve del partito. Il giudizio definitivo, comunque, fosse
lasciato a loro, riuniti in Comitato militare, a loro esperti in
materia.
Mazzini concludeva che se la
rivoluzione italiana doveva attendere il beneplacito dei signori
ufficiali, tant'era non pensarci piú, e acconciarsi una volta
per sempre al giogo degli austriaci e del Borbone e del
Papa.134
La dolorosa schermaglia si protrasse
per anni. Da Londra partivan piani su piani, che i «militari»
di Genova invariabilmente bocciavano. Già nel '50, verso la
fine dell'anno, Pisacane lamentava che in essi si ripetessero «i
passati errori fatali». Nel '51 Mazzini voleva agire in
Sicilia: parere contrario. Nel '52 in Lombardia: ma Pisacane e
Mezzacapo, pel Comitato, stavan studiando di far qualcosa di serio
nelle Due Sicilie (come ben sapevano, del resto, le autorità
napoletane).135 I processoni di Mantova, nel dicembre di
quell'anno, e il fallimento dell'insurrezione milanese del febbraio
'53 (sconsigliatissima, questa, dal gruppo di Genova) non potevano
certo rinsaldare i rapporti già tesi tra Genova e «li
incorreggibili di Londra», come in una lettera a Pisacane li
bollava Cattaneo.136 Tutt'altro: «... Non credere che
la fazione mazziniana sia del tutto spenta — scriveva Pisacane
medesimo, il 31 di marzo, con freddo distacco, a un suo amico —:
essa continua a pretendere il primato. È imminente la
pubblicazione di un opuscolo del Mazzini, in giustifica del suo
operato, in accusa dei tepidi e codardi, giusta la sua
nuova fraseggiatura adottata. Tale fazione non sarà mai nulla,
ma ci darà ancora molestia». Povero Mazzini!137
Se i Medici, i Cosenz, i Mezzacapo si
erano staccati da lui per le accennate divergenze di natura politica,
infastiditi altresí come liberi pensatori o tepidi cattolici
dalla sua calda e persistente predicazione di nuovi valori
religiosi138, un terzo motivo, anche piú grave, valse
ad approfondire il dissenso con Pisacane: il diverso atteggiamento
intorno alla questione sociale. Nell'affettuoso cenno piú
tardi dedicato all'amico caduto, Mazzini francamente lo ammise: «Da
Genova... ei mantenne corrispondenza con me: corrispondenza
liberamente fraterna, come dovrebbe correre fra uomini che sentono la
propria dignità, e onorano anzitutto il Vero... E noi
dissentivamo su parecchi punti; sulle idee religiose...; sul cosí
detto socialismo, che riducevasi a una mera questione di
parole dacché i sistemi esclusivi, assurdi, immorali delle
sètte francesi erano ad uno ad uno da lui respinti; e sulla
vasta idea sociale... io andava forse piú in là di
lui».139
«Questione di parole»?
Nella Guerra combattuta, è vero, l'argomento non era
stato gran che approfondito; ma durante il soggiorno di Genova, né
Mazzini poteva ignorarlo, l'evoluzione di Pisacane a sinistra era
stata continua e decisa, come si rileva dalle sue lettere.
Giustissimamente osservava Mazzini esser il socialismo espressione
elastica sotto cui poteva celarsi, e si celò e confuse
stranamente in quegli anni, la merce piú varia; ma era
gratuito cacciar cosí nel folto mazzo degli pseudo-socialisti
Pisacane, che alla palingenesi sociale rivoluzionariamente imposta
dalle classi lavoratrici ai ceti privilegiati credeva davvero.
«Sulla vasta idea sociale io
andava piú in là di lui». Era esatto? Non troppo:
Mazzini, si sa, era un riformista temperato; pur sostenendo la
necessità di un profondo mutamento nell'assetto sociale, non
lo concepiva altrimenti che come frutto d'un lento processo
evoluzionista imperniato sul cooperativismo operaio e sulla
diffusione del credito; secondo lui, non si trattava tanto di
distruggere i fondamenti della società borghese quanto di
soppiantarli in progresso di tempo, creando e incoraggiando la
formazione di nuovi aggregati sociali, di nuove forme di proprietà
che in un futuro piú o meno remoto sarebbero state le sole ad
avere esistenza legale. Egli contava sull'appoggio della borghesia
per l'emancipazione dei lavoratori, non aveva idee intorno al
problema del proletariato agricolo, non considerava le conseguenze
sociali della nascente grande industria: quando diceva lavoratori
intendeva artigiani; protestava contro ogni sistema che portasse
attentato alla libertà individuale.140
Pisacane — basta per questo
leggere la Guerra combattuta — vedeva le cose in
modo radicalmente diverso: negava la collaborazione di classe,
concepiva il rinnovamento sociale unicamente come portato d'uno
sforzo violento, intransigente, integrale del proletariato contro la
ferrea cornice della società borghese. L'evoluzione pacifica
era per lui una furba invenzione della borghesia timorosa d'esser
detronizzata.
Cosicché se Pisacane diffidava,
in terreno sociale, del pacifismo mazziniano, Mazzini, piú
vecchio, e che conosceva da vicino la storia di molti estremisti,
sinceramente credeva, a conti fatti, d'esser piú socialista
lui, che da dieci anni additava ai lavoratori quel suo programma
moderato e immediato, corrispondente alle loro effettive condizioni
morali e materiali, che non il suo bollente amico e tutti gli
apostoli del socialismo integrale, i quali, agitando miti estremisti
e propinando assurde illusioni alle masse, le inducevano a perdere i
concreti benefici dell'oggi per le nebulose fantasie del domani.
Il dissenso era grave, ma forse
sarebbe rimasto in sordina ove Mazzini non avesse, proprio nel '51,
avvertito la necessità di reagire contro la moda del
socialismo, imperversante sul continente. Quanti non la pretendevano
a socialisti che poi, se avessero davvero veduto scatenarsi la guerra
di classe, prender piede gli scioperi o anche soltanto tentarsi
qualche esperimento cooperativo su larga scala avrebbero mostrato
d'urgenza sotto la maschera progressista il ceffo conservatore!
Bisognava bucare questa vescica, pericolosa, per le sorti della
democrazia europea, la quale, disperdendosi in cerca di pretesi
ideali assoluti, finiva, come sempre accade, col trascurare gli
immediati urgenti doveri che le incombevano.
In due manifesti lanciati
rispettivamente a nome del Comitato centrale democratico europeo
(1° giugno) e del Comitato nazionale italiano (30
settembre), Mazzini s'affrettò dunque a precisare fino a qual
punto socialismo e democrazia fossero termini compatibili, quale
potesse essere in altre parole il programma massimo d'un democratico
in terreno sociale. Riverniciate, le vecchie sue formole suonavan
nuove (abolizione della miseria, eguaglianza economica e via
discorrendo), ma in ultima analisi eran sempre le stesse, d'un
moderato che non crede ai miracoli: piú eque relazioni fra
contadini e proprietari, fra operai e capitalisti, imposta unica sul
reddito, incoraggiamento alle associazioni operaie, scuola di Stato,
semplificazione dell'organismo giudiziario. Chi uscisse di lí,
chi predicasse sovvertimento delle condizioni sociali, adozione di
sistemi violenti ed esclusivisti, tradiva la democrazia. Un'aggiunta,
per gli italiani; appena compiuta la rivoluzione politica, ci si
affrettasse a dar fuori provvedimenti di sollievo per le classi piú
povere, che il popolo realizzasse subito «che la rivoluzione
s'inizia per esso».
A Pisacane, che non sognava allora se
non rivoluzione sociale e non vedeva intorno a sé che inique
ingiustizie da vendicare («Qui, aveva scritto a un amico in
febbraio, si sono date feste che hanno costato 18 000 franchi, mentre
tanti muoiono di fame; sono cose che fanno venir la febbre»),
a Pisacane il programma mazziniano parve naturalmente un palliativo
ridicolo. Si sfogò con Dall'Ongaro: «il dire piú
eque le condizioni fra contadino e proprietario, fra capitalisti e
operai non ammette che due casi: o P.(ippo) crede possibile risolvere
il problema sociale senza abolire la proprietà, ed allora non
ha studiato a fondo la società presente; o P. parla cosí
per non intimidire i proprietari, e allora simula; ciò non è
da rivoluzionario... Ho studiato con assiduità (e non ho
ancora terminato) tutti gli economisti e i socialisti e ti assicuro
che per ottenere ciò che vuol P. non ci è mezzo
termine; gli strumenti del lavoro debbono essere in comune. Perché
temere di parlar chiaro, perché non fare tra le masse una
propaganda di questo genere, la quale è facilissima?»
Mazzini avrebbe potuto domandare a
Pisacane perché mai non la iniziasse lui, tale propaganda, se
gli pareva utile. Pisacane avrebbe probabilmente risposto che nel
momento era tutto assorto nell'esame teorico della questione, nella
lettura di opere d'economia, di storia, di filosofia, da Vico a
Pagano, da Filangieri a Galluppi, da Beccaria a Romagnosi fino a
Leroux, a Blanc, a Proudhon, ma che era ben deciso, una volta
ferratosi nelle sue convinzioni, a rilanciarsi nell'agone politico.
Comunista o collettivista, proudhoniano o d'altra scuola ancora,
d'una cosa era certo: che le mezze misure non conducono a nulla e che
il mondo, per progredire, ha bisogno di scosse.
L'urto fra i due in materia di
politica sociale s'inasprí ancora nel seguito: nel '51 Mazzini
era pur sempre, per Pisacane, il vecchio amico Pippo; dal '52 in poi
non lo fu piú. Pareva adesso che un vero furore antisocialista
si fosse impadronito di Mazzini, folgorante scomuniche ai novissimi
eretici. Quando mai aveva trovato accenti tanto vibranti e sdegnosi
nella sua carriera rivoluzionaria? Mazzini alleato della reazione,
Mazzini «dall'altra parte»: era uno spettacolo doloroso
davvero.
Il nuovo manifesto del Comitato
nazionale italiano (gennaio '52) e poi il vivacissimo scritto
Doveri della democrazia (marzo) erano infatti requisitorie
spietate. Onta ai socialisti per aver preteso ridurre «alle
proporzioni di un problema economico... l'immenso moto delle
generazioni anelanti unità di progresso, d'educazione, di
fede»; onta a loro per aver spenta nel popolo ogni idea di
dovere, ogni virtú di sacrificio; per avere identificato il
«nome santo» di repubblica col concetto e la pratica
della guerra di classe, con un impossibile annientamento della
borghesia; onta ai socialisti francesi responsabili della vergognosa
acquiescenza del «popolo iniziatore» alle baionette
napoleoniche; onta e rimorso per avere, nell'epoca sacra alla
ricostituzione delle nazionalità, infiacchito, per quanto
potevano, ovunque, l'amore di patria. Sono essi che, ponendo come
fine alla vita anziché il compimento d'una missione la bruta
ricerca della felicità, che sospingendo l'operaio all'egoismo
borghese, hanno tradito con la Francia il moto di rinnovamento
europeo.
Manifesti e scritti se non in tutto
equanimi, certo tra i piú ispirati commossi e impetuosi che
Mazzini avesse mai dettato:141 corsero in un baleno l'Europa,
suscitando infiniti commenti, aspre risposte polemiche, goffe
adesioni.142 Rabbiosa, s'intende, la reazione dello stato
maggior socialista esule a Londra contro l'antico compagno di lotta,
rivelatosi in quel triste frangente — dicevano— strumento
e complice delle vendette borghesi. Perfino Ledru-Rollin, suo braccio
destro nel Comitato europeo, trovò inescusabile che Mazzini
avesse atteso la tragica dispersione della democrazia francese per
assalirla a quel modo. Tra i radicali italiani, grande emozione,
battaglia accanita d'opinioni discordi: a Parigi i piú giurano
che Mazzini è ammattito, a Torino, a Genova non si discorre
d'altro; la madre del grande proscritto teme piú adesso per
l'incolumità di suo figlio che non mai per l'innanzi! Quanto a
Mazzini, egli soffre piuttosto per le interessate lodi di certa
stampa che non pel cumulo d'ingiurie che gli piovon sul capo. Ha la
coscienza tranquilla: amare sí le verità che ha detto,
amarissimo il dirle, ma avrebbe mancato al suo dovere tacendo.
Bisognava pure che i lavoratori d'Europa sapessero che mentre il
tiranno francese legava la nazione per le mani e per i piedi, la
democrazia socialista seguitava a cianciare di giustizia sociale e
gli operai imperturbabili a occuparsi di questioni salariali: a
tanto, al dispotismo cioè, conduceva senza fallo una dottrina
che predicava l'indifferenza per le sorti della lotta politica.
Stesse del resto la Francia, da tempo
imbarbarita e corrotta, contenta del suo stato; l'essenziale era che
l'esperienza sua (dalla repubblica sociale alla reazione militare)
non servisse di comodo pretesto ai ceti conservatori di tutta Europa
— Mazzini naturalmente pensava soprattutto all'Italia —
per riprendere su vasta scala le note speculazioni sulle
«inevitabili» degenerazioni dei regimi liberi. Questione
di vita o di morte, dunque, per la democrazia, una volta isolato il
caso francese e diagnosticatone il male, segnalarne agli altri
popoli, perché potessero combatterli, i germi epidemici.
Pisacane dissentiva toto cœlo:
ma a che pro polemizzar con Mazzini? A che pro farsi avanti a
dimostrare ad esempio, contro di lui, doversi i guai di Francia,
anziché al dilagare del socialismo, alla debolezza di quel
movimento in un paese dalla borghesia strapotente? A che pro? Era
ormai cosí lontano da lui in tutte le questioni importanti,
cosí diversamente orientato! Gli pareva che Mazzini, nuovo
Giosuè, pretendesse fermare il corso del sole: il sole,
avanzando, avrebbe folgorato, nonché Mazzini, tutti coloro che
credevano di potere inchiodare l'umanità a ideali e valori
sorpassati, incapaci di guardare innanzi, incapaci d'intendere le
esigenze e le aspirazioni delle nuove generazioni. Meglio era dunque
lasciare che i «vecchi» (Mazzini era sulla breccia dal
'30!) sfogassero la loro vana stizza perché i giovani li
disertavano, e impiegare il proprio tempo a studiar le vie del
domani: radicare le proprie convinzioni nel profondo terreno del
passato per acquistar la certezza di saperle poi, quando scoccasse
l'ora d'agire, adattare alla tempra degl'italiani, e anche per
cercarvi la conferma di certe nuove intuizioni sul meccanismo sociale
balenategli nell'osservare la vita moderna.
Nessun desiderio di polemica, molto di
solitudine e di raccoglimento. Il naturale distacco dalle cose
dell'oggi che prende chi abbia d'un tratto scoperto l'immensità
delle cose che furono. E anche quando lo riafferra il giuoco della
politica attuale, gli piace intrattenersene con uomini che siano
anch'essi un po' distanti dalle meschinità della lotta, al di
sopra della mischia, differenti insomma da questi «insopportabili
mazziniani» che pretendono occuparsi di tutto, dettar legge a
tutti e che vivono nella certezza che niente accada in Italia se non
voluto e predisposto da loro.
«Pisacane, che ho promosso e
sostenuto fino a farmi nemici, s'è raffreddato con me —
constata, non senza amarezza, Mazzini, — credo, perché
l'ho biasimato d'aver detto male di Garibaldi: poi per nozione
d'indipendenza personale proudhoniana e materialismo
teorico».143
Cattaneo, Ferrari, Franchi, Macchi,
queste le costellazioni piú luminose nel cielo pisacaniano
dopo il tramonto, che sembrava definitivo, dell'astro Mazzini: era il
gruppo dei federalisti, la cui produttività dottrinale
cresceva di pari passo con la sua impotenza e inattività
politica.
La corrispondenza tra Pisacane ed essi
corse fitta in quel tempo, e svariata: sulle cose d'Italia e
d'Europa, su libri, su uomini, su idee, su quel che era stato e su
quel che sarebbe.
Era logico che Pisacane studioso si
avvicinasse sempre di piú alla loro sonante officina
intellettuale: non che quei quattro andassero in tutto d'amore e
d'accordo, né che egli fosse disposto ad accettare come
infallibili oracoli le loro sentenze; tutt'altro. Ma c'era in essi
perenne novità d'idee, c'era fervore, c'era l'afflato di una
cultura sollecita di conservarsi aggiornata e sopranazionale; c'era
una spregiudicatezza totale di principii, e, in seno al gruppo,
nessuna necessità di disciplina. Chi poi contribuiva ad unirli
era... Mazzini: il quale, con i suoi seguaci, serviva da bersaglio
alle loro frecciate epistolari. C'era da sentirlo, ad esempio,
Cattaneo, quando gli pigliavan le furie per qualche nuovo colpo
inscenato da costoro! «Non s'accorgono — scriveva a
Pisacane dopo "le sterili sventure di Mantova" — non
s'accorgono che un intervallo di tre anni ha già mutato
totalmente le cose materiali, che qualunque siffatta impresa, se
potesse riescire, non sarebbe altro che una calamità. Ma essi
hanno la dottrina del martirio, stolta e scellerata, e sciupano
carte, che, giuocate a luogo e tempo, avrebbero potuto essere
preziose... Dicono: azione e silenzio. L'azione è un assurdo,
e il silenzio è un tradimento». E concludeva: «Dai
professori di rivoluzione non s'intende come le rivoluzioni e le
stagioni non sono al comando dell'individuo, e si pretende farle
nascere a forza».
Ferrari rincarava la dose; già
nell'autunno del '51 s'era dato un gran daffare per un iracondo
manifesto antimazziniano del gruppo federalista; nel gennaio
seguente, lamentando il colpo di Stato napoleonico, trovava ragione
di conforto nel fatto che Mazzini, addossandone la colpa alla
democrazia, si fosse una volta per sempre screditato agli occhi di
quella; nel maggio se l'era presa col buon Mauro Macchi (che
nell'Olimpo federalista rappresentava la divinità piú
mite e indulgente, ma insieme di minor forza creatrice) perché,
pur contrario a Mazzini, aveva osato difenderlo dalle accuse
grossolane dell'abate Gioberti.144
Il qual Ferrari era socialista, ma
aveva agli occhi di Pisacane, fra tanti meriti d'originalità e
d'ingegno, la colpa di veder tutto dal punto di vista francese e di
pretendere che Parigi fosse il cervello del mondo. Aveva scritto per
esempio a Cattaneo nel settembre '50, e ribadito l'anno di poi nella
sua Federazione repubblicana, doversi il concetto della
rivoluzione italiana trasformare in conformità delle nuove
ideologie rivoluzionarie prevalenti in Francia; farsi socialista,
cioè; dovere inoltre i rivoluzionari italiani contare
sull'intervento armato francese (o meglio proporsi di determinarlo)
come sull'unica probabilità seria di successo per la causa
loro. Pisacane, che pure ammirava devotamente come il Ferrari
scrittore, rara avis in Italia, camminasse «diritto alla
ricerca del vero», trasecolava: sarebbe stato dunque
inevitabile per l'Italia «il subire la dittatura francese»?
Neanche per sogno: «si supponga sgombro il suolo italiano dagli
stranieri, e si paragoni quale delle due nazioni, la Francia o
l'Italia, sia piú prossima alla rivoluzione sociale... Tanto
in Francia come in Italia la potenza è rappresentata dal
popolo, la resistenza dalla borghesia; ed egli è fuori dubbio
che il rapporto fra queste due forze mostra che l'Italia potrebbe
rompere l'equilibrio con maggiore facilità... La Francia non
avrà (dunque) bisogno d'inviare i suoi eserciti, perocché
le idee valicheranno le Alpi prima delle sue armi, e basteranno a
compiere la rivoluzione italiana».145 È vero,
soggiungeva piú tardi a Cattaneo, che nella corsa al progresso
civile un terribile svantaggio grava sull'Italia rispetto alla
Francia per l'inferiorità della sua cultura politica e
sociale; pure, fra le due nazioni, l'Italia si presenta indubbiamente
piú matura alla rivoluzione sociale se non altro per
l'inveterato distacco della popolazione dalle oligarchie di governo.
Tutt'altro che supina adesione alle
tesi del Ferrari, si vede, o a quelle consimili professate dal
Franchi, il quale non per nulla, lasciando con la tonaca il suo vero
cognome di Bonavino, s'era prescelto quello pseudonimo. Giusto era
però riconoscere a entrambi (contro ai mazziniani ortodossi
che non si davan neanche la pena di confutarli, parendo loro che a
liquidarli per sempre bastasse lo spargere ch'erano antiitaliani) il
grandissimo merito di mettere in circolazione, di «muovere»
delle idee.
Ma piú complesso e profondo e
concreto di Ferrari — grande in una parola — era
comunque, per Pisacane, Cattaneo. Voi — gli scriveva un giorno
— «siete disceso dalle nuvole ed avete iniziato sul
versante delle Alpi la scienza che speriamo irradierà un
giorno l'Italia!» Prezioso privilegio dunque quello di
carteggiare con lui sulle questioni del giorno, e di sorprendere nel
travaglio stesso della sua elaborazione, ancora incerto e indagante,
quel suo acuto pensiero che poi, negli scritti dati alle stampe, si
concretava sempre in espressioni cosí ammirevolmente chiare e
definitive. Prezioso privilegio quello di sottoporre a lui,
familiarmente, dubbi teoretici e questioni difficili: ad esempio,
come conciliare le opposte esigenze d'unità e insieme di
libertà federale, proprie a una nazione moderna? Se «la
centralizzazione è il dispotismo (e) la federazione è
la debolezza», come mai potrà salvarsi la libertà,
soffocata dall'una, compromessa dall'altra? (gennaio 1853). Cattaneo,
rispondendo, dava sempre l'impressione di un vento robusto che
liberasse il cielo dalle nebbie vaganti.
Eppure, per quanto Cattaneo intendesse
come pochi in Italia l'importanza capitale del fattore economico
nella storia, Pisacane non poteva non lamentare il suo disinteresse
quasi assoluto pel problema sociale, il disinteresse d'uno che si
sarebbe detto non ne avvertisse neanche la crescente influenza nel
mondo moderno. Stupenda ad esempio e azzeccata nelle sue previsioni
la lettera che aveva ricevuto da lui di commento al colpo di Stato
napoleonico, la quale terminava invitandolo a prepararsi a prossime
guerre. («Io sono quinquagenario e togato, e sto a vedere. Voi
siete giovane e soldato, se vi sono uova rotte dovete avere una mano
sulla frittata»); ma come poteva Cattaneo limitarsi a trarre da
quell'avvenimento illazioni meramente politiche, come mai non ne
scorgeva le sintomatiche premesse e derivazioni sociali? Pisacane, a
vero dire, non aveva occhi che per quelle, e non vedeva chiare che
quelle: «Credo che hai veduto col fatto, scriveva a
Dall'Ongaro, che le masse non si battono piú per servire
l'ambizione di pochi, le masse quindi si muoveranno spinte dal solo
miglioramento materiale, e che la sola rivoluzione possibile in
Europa, è la grande rivoluzione sociale; è la
spogliazione della borghesia, come fu quella della nobiltà
nell'89. Credi tu che in Lombardia le masse correrebbero alle armi
come vi corsero nel '48? Vane speranze; la bandiera che potrà
muoverle è solo quella dell'abolizione della proprietà...
Il popolo si muoverà solo quando vuole, quando le idee sono
mature, e non già quando gli altri vorranno».146
Aveva proprio la fissazione della rivoluzione sociale! Ma sul terreno
politico era miope lui quando, a Cattaneo che s'aspettava l'impero e
prossime crisi sul Reno e sul Po quali conseguenze inevitabili del 2
dicembre, opponeva esser Napoleone un omuncolo troppo inferiore a sí
gran compiti; ché se poi i fatti lo smentissero e nascesse per
davvero la guerra, «mi sentirete in campo... Vivo sempre di
questa speranza e attendo con pazienza».
Beato nel suo ritiro, assorto nelle
sue gravi letture (cui sempre seguivano copiosissimi appunti),
Pisacane faceva tuttavia frequenti gite in città, sia per
impartirvi quelle poche lezioni, sia per incontrarvi gli amici, sia
per fruire della possibilità, preziosa per lui che s'andava
facendo ormai scrittore di professione, di partecipare alle
manifestazioni della vita culturale cittadina. Non se ne sa gran che;
ma è probabile, ad esempio, che seguisse in qualche modo i
lavori di quella Accademia di filosofia italica,147 un
po' circolo di conferenze e conversazione, un po' anche casa
editrice, che il Mamiani aveva fondata intorno al '50 e della quale
era membro, col Bonghi, col Boccardo e con molti altri, il Conforti,
intimo di Pisacane; il quale forse da quell'ambiente studioso,
seppure politicamente moderato, trasse gusto e abitudine alle letture
di filosofia.
Nel '51 Ausonio Franchi, terminata la
sua Filosofia delle scuole italiane,148 sorta di
manifesto del razionalismo filosofico destinato a far chiasso e per
la novità della tesi e per il brio dello stile e per la
impeccabile stringatezza del ragionamento, la lesse a una cerchia
d'amici e simpatizzanti tra i quali era il Macchi: è
abbastanza probabile che Pisacane fosse del numero. Come anche che
s'adunasse piú volte con altri emigrati per leggere e
commentare quella Filosofia della rivoluzione del Ferrari, che
sotto il grave pondo e dello stile e della mole e nonostante
l'esposizione prolissa, serbava anche ai profani pagine suggestive e
piene d'interesse, specialmente laddove trattava del problema
sociale.
A Genova eran poi biblioteche e
giornali; e i giornali a quel tempo erano di solito, prima che fogli
stampati, salotti politici e letterari.
Ancora nel '51 si costituí un
Comitato dell'emigrazione italiana, indipendente da quello
ufficiale funzionante a Torino. Pisacane di certo se n'interessò,
tanto piú che aveva colore repubblicano anzi che no e che
v'avevano parte cospicua i due suoi amici Medici e
Conforti.149
Nel giugno-luglio '52 si trattenne per
qualche settimana a Genova il celebre rivoluzionario russo Alessandro
Herzen:150 era intimo di Medici, legato a molti altri
emigrati italiani da lui già conosciuti nel '49 in Isvizzera.
Vide assai spesso Pisacane col quale discusse a fondo della
situazione napoletana e, verosimilmente, del problema sociale.
Herzen, che tra gli amici italiani si trovava a tutto suo agio e che
ne ammirava sinceramente le istintive doti rivoluzionarie, scrisse
piú tardi in termini di vero entusiasmo per Pisacane. Ma chi
potrebbe precisare fino a qual punto i contatti con Herzen non
incoraggiassero l'evoluzione a sinistra del «romito» di
Albaro?
C'era insomma, vivendo alle porte di
Genova, di che riempire utilmente le proprie giornate, quand'anche i
politicanti frenetici tacciassero Pisacane d'inconcludente e
d'ozioso.
Sui primi del '53, una profonda
emozione (che da Napoli condivideva, affettuosa, l'unica sorella di
Pisacane, e con essa un suo figliastro professantesi ammiratore delle
di lui prodezze rivoluzionarie): Pisacane è doventato babbo; è
nata una piccola Silvia.151 Ma da quante ambasce non venne
turbata la gioia della paternità: tormento della cresciuta
penuria, ora che le bocche da sfamare eran tre e s'era dissipata la
speranza, da qualche tempo nutrita, di ottenere una cattedra nel
liceo di Lugano, auspice Cattaneo;152 meschinità
burocratiche per la registrazione di Silvia, figlia illegittima e
negata al battesimo: figurarsi, nel Piemonte cattolicissimo! Si
dovette ricorrere a un notaio che attestasse lui, per atto civile,
esser la bambina venuta alla luce. Ma Pisacane, fedele ai dettami di
quella scuola del libero pensiero razionalista la quale andava in
quegli anni combattendo in Italia le sue prime battaglie, si proclamò
orgoglioso di avere impedito che il piccolo essere ignaro ricevesse
il suggello d'una fede imposta. Sentiva d'averne difeso, lui padre,
la libertà.
Ahimè, poca salute fin da
principio, povera Silvia, delicata creatura votata a una grigia vita
di dolore e di rinunzia. E se non era il Bertani amico dei Pisacane,
gran patriota e piú gran medico, a prenderne cura, la malattia
gravissima che presto la colse e ne minacciò l'esistenza per
quasi sei mesi se la portava via di sicuro.153 Sei mesi di
angoscia per Enrichetta, sei mesi di doppia ansietà per
Pisacane: commossa riconoscenza d'entrambi, a guarigione avvenuta,
per l'amico salvatore.
Agli affanni domestici si
aggiungevano, non meno preoccupanti, quelli politici: la tempesta
furiosa scatenatasi, in conseguenza dei moti milanesi del 6 febbraio,
contro gli emigrati in Piemonte. Espulsioni a bizzeffe, tra gli altri
del buon amico Macchi, del Crispi, del Maestri; molte altre
minacciate e tenute in sospeso; ingiunzione a piú d'uno fra i
nullatenenti d'andarsene, e sia pure col viaggio pagato, in America;
verifica severa dei permessi di soggiorno, e finalmente la
proibizione generale odiosissima, che convertiva l'ospitalità
in confino, di allontanarsi per qualsivoglia motivo dal comune di
residenza.154 Un'ira di Dio: per fortuna durò poco.
Sta bene che bisognava pur dare qualche soddisfazione all'Austria la
quale pretendeva che il 6 febbraio fosse stato preparato entro i
compiacenti confini sabaudi; ma il governo di Torino uscí
giustamente malconcio, nonché dalle censure degli emigrati
(estranei i piú o, se consapevoli, contrari all'ultima impresa
mazziniana) da quelle, indignate ed unanimi, della democrazia
piemontese.
Tanta tempesta non impediva affatto
che gli emigrati di Genova, simili in questo ai loro colleghi d'ogni
tempo e paese, si dividessero in gruppi e gruppetti antagonistici, un
po' per varietà di programmi politici, un po' anche per piú
meschine ragioni: qualche volta pareva che stessero là non
tanto perché impegnati a condurre la lotta contro i governi
che li avevano espulsi, sibbene contro i loro propri compagni di
causa! Il guaio era che avevano tutti molto tempo da perdere e poco o
niente da fare.
Nel '53, ad esempio, levò
clamore e suscitò polemiche senza fine un libercolo stampato
dal general Roselli a propria difesa intorno alla Spedizione e
combattimento di Velletri. Dallo scrittore in fuori nessuno che
fosse nominato in quelle Memorie se la cavava con meno di un'acida
nota: bistrattato, s'intende, anche Pisacane, suo ex capo di Stato
Maggiore.155 Pisacane, che del resto non aveva lusingato il
Roselli nella sua Guerra combattuta, sferrò d'urgenza
il contrattacco con un precisissimo articolo pubblicato in tre numeri
della Voce della Libertà di Torino156. Seguí,
sullo stesso giornale, una violenta stroncatura di Pisacane a firma
d'un tal Massimino Trusiani.157 Ma la testa di turco del
Roselli era l'eroe di Velletri, Garibaldi, contro il quale le parole
usate eran grosse. Inde irae, battibecchi personali, un
finimondo nella stampa democratica. Il 4 agosto 1854, sull'Italia
e Popolo, uno sprezzante comunicato di Garibaldi; il 15 una
contro dichiarazione di «alcuni ufficiali della repubblica
romana» (Pisacane?); il 20 Roselli, senza peli sulla lingua,
rincara la dose: la condotta di Garibaldi a Velletri fu «un
delitto... certamente piú complicato e peggiore di quello del
generar Ramorino in Piemonte». Garibaldi infuriato lo manda a
sfidare, Roselli... non accetta; e quando gli dànno del
vigliacco e bugiardo, senza scomporsi risponde che coi rodomonti a
corto di ragioni è inutile battersi.158
Se i pezzi grossi trascendevan cosí,
figurarsi la truppa minuta. E tutto ciò con la presunzione
sincera di giovare alla causa italiana, tutto ciò nonostante
che non scarseggiassero soggetti di grave e giustificata
preoccupazione collettiva. Il '54, infatti, fu l'anno del colèra:
un colèra tremendo che infuriò nell'estate e mieté
vittime a migliaia dappertutto in Europa, ma a Genova con particolare
violenza, assottigliando paurosamente le fila degli
emigrati.159 Straordinari servigi rese in quell'occorrenza
un'associazione di soccorso gratuito ai colpiti che subito si
costituí tra gli emigrati medesimi, offrendosi molti o come
medici o come infermieri. Cessato il morbo, l'associazione non venne
disciolta, ma trasformata (nel novembre del '54) col nome augurale di
Solidarietà nel bene, in un circolo permanente
d'assistenza ritrovo e lettura. Centotrentatre gli invitati alle
prime adunanze, e Pisacane e molti amici suoi naturalmente tra
quelli; ma socio effettivo Pisacane non divenne mai «unicamente
perché essendo povero non si sentiva di potersi obbligare alla
modesta tangente».
Al colèra si aggiunse la
minaccia imminente di una guerra europea. Precipitava infatti la
crisi orientale, Russia contro Turchia, e poi Francia e Inghilterra
contro la Russia; Austria ondeggiante: febbrile ansietà negli
ambienti politici. Una bufera di quella sorta poteva sconvolgere la
carta d'Europa!
Febbraio '55, la guerra per davvero.
8 marzo, Cattaneo a Pisacane: «Ne
capite qualche cosa?... Vi par possibile che questo vortice di tutti
i venti passi rasente l'Italia, senza toccarla? E se la tocca, dove
sarà? e dove, e quando, e come sarà?... Dopo il turbine
chi resterà in piedi?... Il talento è inutile... e li
occhiali sono un impaccio, se ogni volta che si ha maggior voglia di
vedere dove il diavolo ci porta è proprio quello il momento
che si deve rimanere a occhi chiusi».
Ma se Cattaneo era al buio, figurarsi
Pisacane; il quale una cosa sola allora capiva, che cioè
quella guerra, in sé e per sé estranea affatto
agl'interessi italiani, avrebbe forse potuto fornire un'occasione
preziosa per la soluzione italiana della questione italiana:
distraendo l'attenzione di Francia e d'Austria dal famoso equilibrio
nella penisola, cosí caro ad entrambe, e soprattutto
decongestionando l'Europa di truppe. Non aveva egli scritto
quattr'anni innanzi che, supposta l'Italia sgombra dagli stranieri,
non era poi tanto difficile di provocarvi lo scoppio della
rivoluzione integrale? Perciò a Cattaneo che lo incitava a
partir per la guerra «poco importava se coi Turchi o coi Russi,
purché potesse acquistarvi esperienza delle guerre grandi e
reputazione», egli rispose di no: quello era un momento da non
lasciare l'Italia.160
Né egli solo la pensava cosí:
era presentimento abbastanza diffuso, seppure indeterminato, che da
quel conflitto anche a noi sarebbe derivato qualcosa. Ridda di
vaticini; ma certo eran pochi quelli che s'aspettavano la mossa del
ministro Cavour, partecipazione cioè del Piemonte alla guerra
a fianco delle potenze occidentali. Colpo di genio che la parte
democratica, in blocco, fraintese, scagliando contro di esso il
furore appassionato delle sue proteste. Lo sconfitto del '49 alleato
dell'Austria? Era dunque la diserzione definitiva dall'impresa
italiana ed antiaustriaca! Al punto che, quando l'intervento sardo
venne irrevocabilmente deciso (con soli trentun voti di maggioranza
alla Camera e venticinque al Senato), e s'apprestò il corpo di
spedizione, né Mazzini né la maggior parte dei
repubblicani piemontesi o emigrati dubitaron di gridare al tradimento
e di sobillare i soldati perché gettassero i
fucili:161 «Quindicimila fra voi stanno per essere
deportati in Crimea. Non uno forse tra voi rivedrà la propria
famiglia... Morrete senza gloria... L'ossa vostre biancheggeranno,
calpestate dal cavallo del cosacco, su terre lontane né alcuno
dei vostri potrà raccoglierle e piangervi sopra...»
Ingiustificabile eccesso, d'accordo; non era da Mazzini l'appello
alla paura! Ma, d'altra parte, non lasciava tanto furore comprendere
come, nonostante l'antipiemontesismo ufficiale, i rivoluzionari
contassero ancora, per risolvere la questione italiana, sull'esercito
sardo? Protestavano perché, mentre l'Italia era in ceppi, si
mandassero quegli uomini a servire una causa lontana: non era
questa una confessione preziosa? Se costoro fossero stati
repubblicani al cento per cento, non avrebbero salutato con gioia,
dopo l'impegnarsi dell'Austria in quella guerra lontana, l'impegnarsi
anche dell'«altro nemico»?
Partito il contingente sardo,
comunque, la via da seguirsi per i rivoluzionari parve chiaramente
tracciata: profittare della situazione per riprendere in pieno, con
disperata energia, il bombardamento d'insurrezioni in Italia. Per
l'ennesima volta ecco Mazzini ripetere il suo ora o mai;
furono in molti, anche fra i dissidenti di ieri, anche fra i
«militari di Genova» che finalmente risposero: siamo con
voi. Ma nessuno dimostrò, nel riaccostarsi a Mazzini, piú
lieto slancio di Pisacane.
Dopo tanto blaterare contro il
«tiranno di Londra» gli ex dissidenti eran dunque già
tutti a Canossa?
Niente Canossa, nessuna rinuncia
ideale, né di qua né di là: le profonde
divergenze dottrinali e di metodo che avevano scisso il movimento
repubblicano d'azione sussistevano ancora; e i dissidenti stringevan
la mano non a Mazzini individuo, ma al capo responsabile d'un grande
partito politico. Alla necessità di una tregua, anzi di una
azione comune s'era giunti da ambo le parti dopo un coscienziosissimo
esame della situazione italiana quale si era venuta sostanzialmente
modificando negli ultimi tempi.162
E infatti qual era sempre stato il
postulato fondamentale comune ai due gruppi? Quello che esigeva, si
sa, una soluzione rivoluzionaria e unitaria del problema italiano.
Orbene la consultazione anche superficiale del barometro politico
nell'anno '55 indicava invece una tendenza chiarissima verso
soluzioni di compromesso per giungere a un sistema di monarchie
costituzionali piú o meno federate. Bastava, per constatarlo,
osservare cosa stesse accadendo in quelle tre regioni della penisola
nelle quali lo statu-quo si era costantemente mostrato piú
instabile e che perciò erano state sempre considerate come
probabili focolai d'una crisi rivoluzionaria: il Lombardo-Veneto, gli
Stati Romani, le Due Sicilie.
Nel Lombardo-Veneto, un po' per la
migliorata situazione diplomatica dell'Austria, un po' per la
diminuita tensione dei suoi rapporti col regno sabaudo (alleanza
antirussa), lo statu-quo appariva evidentemente piú
incrollabile che mai; l'unica lontana possibilità d'un suo
mutamento era legata a un accordo europeo, in base al quale l'Austria
si fosse piegata a una cessione totale o parziale dei suoi dominii
italiani al Piemonte, in cambio di compensi territoriali in altre
regioni. Comunque, niente da fare per il partito rivoluzionario nella
pianura del Po.
Negli Stati Romani, retti da un
governo sempre piú screditato e inceppato nel suo
funzionamento, lo statu-quo era solidamente assicurato dalle
baionette francesi; anche qui, dunque, nessuna speranza.
Nelle Due Sicilie, che il cronico malcontento dei ceti medi, la
ridda dei processi politici, l'infortunio Gladstone, l'isolamento
diplomatico se non proprio l'abbandono delle potenze, designavano
come l'epicentro probabile d'un eventuale terremoto rivoluzionario,
principiava a prender piede e a raccogliere larghe adesioni una
soluzione antirivoluzionaria (seppur violenta) appoggiata, cosí
pareva, a Parigi e a Torino: la restaurazione della dinastia dei
Murat.
Il partito rivoluzionario si vedeva
cosí minacciato nelle sue finalità dal pericolo che,
ovunque in Italia, la prepotente aspirazione degl'italiani coscienti
a un ordine nuovo, anziché servir di lievito a un risorgimento
integrale, venisse cloroformizzata e spenta per mezzo delle cosí
dette transazioni realistiche, di baratti, di pateracchi
principeschi. Era la missione d'Italia che in tal modo si smarriva,
era il sogno unitario che crollava forse per sempre, erano
gl'italiani sottratti alla dura formativa scuola del sacrificio. Di
fronte al moltiplicarsi delle iniziative dall'alto e al crescer del
loro prestigio, cadeva dunque, necessariamente, ogni dissenso tra i
rivoluzionari sul fare o non fare immediato; c'era il caso, se si
aspettava troppo, di trovarsi un bel giorno innanzi a irrimediabili
fatti compiuti, venissero questi da un Napoleone o da un Cavour o da
un Murat o da un convegno di Ministri degli Esteri. Occorreva quindi
reagir prontamente, precipitando uno scoppio rivoluzionario in quel
Mezzogiorno che, nonostante tutto, si presentava ancora come l'unica
terra italiana nella quale gli agitatori potessero riporre un filo di
speranza; per fortuna la soluzione Murat non era affatto sentita in
Sicilia. Ma non c'era tempo da perdere: se alla caldaia napoletana si
lasciavano applicare valvole di sicurezza Murat, la partita era
definitivamente perduta.
Di tutto ciò Mazzini si rese
conto con perfetta lucidità tra il cadere del '54 e il
principio del '55; fu allora che, abbandonando la speranza lungamente
nutrita di suscitare la rivoluzione italiana coll'istigare i lombardi
a rinnovare il conflitto con l'Austria, diramò l'ordine di
concentrare il fuoco sulla Sicilia e su Napoli. I «militari di
Genova», e con essi molti altri rivoluzionari piú o meno
antimazziniani fin qui, che avevan sempre sconsigliato
l'insurrezionismo a ripetizione nell'alta Italia, si posero
senz'altro a sua disposizione.
E cosí i successi della
politica europea del Piemonte, atteggiantesi ormai a potenza
rappresentativa d'Italia, e nel Piemonte stesso e in tutta Italia la
crescente popolarità del partito nazionale che
incondizionatamente appoggiava quella politica, e nel Mezzogiorno i
progressi del murattismo, tutto ciò inquadrato in una
valutazione forse eccessivamente severa delle cose italiane, resero
l'unità e l'energia al movimento mazziniano; lo salvaron cioè
da una bancarotta morale che nel '54, all'indomani di due gravi
sconfitte (Milano '53 e Sarzana '54), appariva per molti segni e
probabile e prossima. La ripresa fu infatti straordinariamente
vivace; si sarebbe detto che una scarica elettrica avesse percosse le
torpide membra del partito: dissidenti che rientravan nei ranghi,
«tepidi» che si rianimavano, affluir di nuove reclute, e
intorno al partito quell'alone di consensi, di anonimi
incoraggiamenti, quel fioccar di proposte, che da tempo eran venuti a
mancare, sintomi tutti della vitalità d'un movimento politico.
Mazzini stesso, rendendosi conto che
la battaglia suprema s'approssimava, pareva pervaso da uno slancio
nuovo, da un rifiorito ottimismo; le delusioni passate non erano,
ancora una volta, che fuggevoli ombre; il suo stile ritrovava il tono
ispirato e profetico: «V'è tal momento, scriveva in
gennaio, in cui una insurrezione importante non suscita un popolo;
tal altro in cui una sorpresa audacemente eseguita, una bandiera
inalzata da un pugno d'intrepidi, una banda sull'Appennino, è
la scintilla che dà moto all'incendio. Credo che il nostro
momento sia questo». Che lo fosse, sentiron tutti, d'un tratto,
i rivoluzionari repubblicani, e chi non l'ebbe a sentire, voleva dir
proprio che tale non era e non sarebbe stato piú mai.
Stretta la prima intesa generica,
Mazzini si preoccupò di perfezionarla, e a tal uopo
accortamente si serví della intelligente sua amica, e amica
insieme di Pisacane, Emilia Hawkes: questa fu a Genova per quasi sei
mesi, dal gennaio al maggio del '55. Le donne riescon talvolta
mediatrici abilissime: molte cose che Mazzini avrebbe voluto dire
agli ex dissidenti, e non sapeva come per l'antica ruggine, scriveva
invece a lei ed essa con femminile garbo comunicava a loro,
eliminando ogni sorgente di possibile attrito, scegliendo il momento
opportuno per battere ora quel tasto ed ora quell'altro. Era ancora
l'Emilia che convogliava a Londra le notizie di Genova, e anche
questo faceva con conoscenza perfetta dell'amico di lassú,
delle sue debolezze e dei suoi punti sensibili, animata sempre dal
desiderio vivissimo che quella tregua s'avesse ben presto a tramutare
in una pace definitiva. Il suo soggiorno coincise infatti con la
progressiva ripresa dei rapporti cordiali d'un tempo fra i due gruppi
avversari; né diminuisce affatto il suo merito la
considerazione che forse a facilitare l'intesa contribuí anche
la prospettiva, grata ai militari di Genova, che il mutamento di
fronte del partito avrebbe inevitabilmente portato a un trasloco del
quartier generale rivoluzionario da Londra a Genova, testa di ponte
obbligata per qualunque movimento antiborbonico.
A partir dal febbraio, il nome di
Pisacane ricompare con frequenza nell'epistolario mazziniano; nel
marzo il «proudhoniano» è già qualificato
«tra i migliori», e nello stesso periodo colui che solo
due anni innanzi aveva scritto della «fazione» mazziniana
che purtroppo non era per anco del tutto spenta, poteva arricchire le
sue povere entrate accettando — su invito della direzione —
di collaborare a quell'Italia e Popolo, che era appunto
l'organo ufficiale del mazzinianismo in Italia. Era stata, questa,
un'idea di Mazzini, un po' per riconquistare l'amico, un po' per
rinsanguare con l'ardore di lui l'assai fiacco giornale. «Come
siete con Pisacane? (aveva chiesto a uno della redazione). Parmi
strano, se non siete nemici, che non abbiate avuto ricorso a lui per
qualche articolo sulla guerra attuale di tempo in tempo. È
capace assai».
Fatto sta che da mezzo febbraio a
tutto aprile comparvero sull'Italia e Popolo frequenti e
notevoli articoli di commento militare alle cose d'Oriente. Tutti di
Pisacane? Difficile dirlo, ché i collaboratori di quel
giornale, Mazzini eccettuato, non firmavano mai. Di Pisacane era
certo quello dal titolo audacemente ironico Viva il trattato
(il trattato di adesione del Piemonte all'alleanza delle potenze
occidentali), stampato il 21 di febbraio: lo si sa da una
lettera.163 Altri articoli che direi suoi, a giudicar dallo
stile e conoscendo le idee generali e le passate esperienze di guerra
di Pisacane e i testi militari cui egli soleva ricorrere, sono
Previsioni sulla guerra di Crimea (18 febbraio),
Considerazioni sulla guerra d'Oriente (14, 15, 17 marzo), La
capacità militare di L. Napoleone (27 marzo), La
disciplina degli eserciti e l'ubbidienza passiva (30 marzo), Le
condizioni degli alleati in Crimea (4 aprile). Lo scrittore si
mostrava scettico sulla possibilità di successi dell'esercito
collegato, non credeva alla caduta di Sebastopoli, trovava che il
comando alleato era inferiore al suo compito; dalla critica di
dettaglio saliva alla dimostrazione della superiorità degli
eserciti volontari su quelli stanziali; lodava l'infelice indirizzo
di Mazzini alle truppe sarde; stroncava la comoda tesi alleata segnar
quella guerra l'urto tra le democrazie d'occidente e l'autocratismo
russo; analizzava spietatamente tali pretese democrazie e affermava
poter solo l'Europa libera, l'Europa dei popoli associati, atterrare
definitivamente i regimi assolutisti. «Chiunque non adagiasi
ne' presenti mali, non ha altro faro, né altra speranza che il
vessillo della rivoluzione». Aveva dunque tutte le idee di
Pisacane; e in piú lo stesso gusto suo per le anticipazioni
storiche, la stessa sua complessità di vedute e di
ragionamento, l'identica specialità dei bruschi passaggi dalla
storia alla politica, dalla scienza militare alla psicologia dei
popoli.
Di Pisacane o no, questi articoli una cosa dimostrano a luce
solare: quanto larga, cioè, o meglio illimitata, fosse la
libertà di stampa che il governo di Torino, perfino in tempo
di guerra, credeva suo debito e suo pro di liberalmente osservare.
La politica è un'infida distesa
di sabbie mobili: finché te ne tieni lontano, stupisci che
quei che vi son capitati in mezzo non riescano a sottrarvisi piú,
e gestiscano e gridino come gente invasata. Ma se per caso ti ci
avventuri anche tu, presto ti accorgi che l'uscirne è
pressoché impossibile: vi affondi lentissimamente, ma senza
mercé.
Pisacane v'era caduto, proprio per
caso, nel '47; nel '51, riuscitogli di sollevarsi un poco, s'era
illuso di poterla scampare; quattro anni piú tardi
s'inabissava anche piú irrimediabilmente di prima. Qualche
lettera a Mazzini, quei pochi articoli sull'Italia e Popolo,
nient'altro di concreto aveva fin'allora concesso alla politica
attiva; ma era il piede dell'insabbiato, era il rovesciamento totale
delle sue posizioni, era la fine del periodo di pace operosa, era
l'addio al ritiro di Albaro. Lo aveva tradito, ancora una volta, la
tempra esuberante e impulsiva: quando mai gli era riuscito di far le
cose a mezzo? Distrattosi, rotto l'incantesimo, non trovò piú
il verso, per voglioso che fosse, d'inchiodarsi al suo tavolo, al
lavoro paziente di tutti i giorni. Giunto dopo anni di dispersione a
realizzare che doveva pur qualcosa, oltre che al genere umano, alla
famiglia e a sé, avviatosi appena sulla via banale d'una
occupazione fissa e retribuita, ecco che retrocedeva d'un tratto, per
ricadere nei generosi eccessi di ieri.
Concorso a Oristano, in Sardegna, per
l'ufficio d'ingegnere municipale; Pisacane lo vince, ma in Oristano
non va: allontanarsi tanto in tempi calamitosi?
Un posto d'addetto alle nuove
costruzioni ferroviarie (erano in studio o in corso la Mondoví-Ceva,
la Bra-Mondoví);164 Pisacane lo accetta, si reca a
Mondoví, ma è cosa che dura non piú di qualche
settimana: non è egli, che diamine, uomo da stipendio mensile,
né ha le attitudini dell'impiegato. Maiora premunt: c'è
da fare nel Sud. E allora Enrichetta e Silvia son costrette a
lasciare Albaro, a installarsi con lui proprio nel cuore di Genova;
di nuovo s'ingolfano tutti nelle alterne grandezze e miserie (questa
assoluta e quella assai relativa) che il mestiere d'insegnante
privato conduce invariabilmente con sé.
Ma in quel periodo di pace operosa che
la nostalgia dell'azione e il conseguente riavvicinamento a Mazzini
eran venuti a concludere cosí bruscamente, Pisacane non aveva
soltanto riflettuto parecchio e letto una filza di libri e dettato
quei quattro o cinque articoli. Il frutto piú cospicuo del suo
lavoro era un voluminoso manoscritto che adesso egli riponeva nel suo
cassetto, nella vana lusinga di condurlo a compimento un dí o
l'altro. Era il manoscritto di quei Saggi
storici-politici-militari sull'Italia che rappresentano il punto
terminale della sua faticosa evoluzione teorica.
L'opera gli si era venuta componendo
pian piano e quasi insensibilmente, fuor dalla congerie di appunti e
osservazioni che egli aveva tratto via via dalle sue
letture.165 In un primo tempo Pisacane aveva lavorato
esclusivamente per sé, assillato dall'esigenza di «formarsi
un convincimento che, essendo norma delle sue azioni, fra il
continuo mutare degli uomini e delle cose, lo avesse mantenuto
sempre nel medesimo proposito». Non voleva, ecco, che la sua
politica fosse mera improvvisazione governata dall'intuizione o dal
caso. Soltanto piú tardi, parendogli di aver raggiunto una
visione sintetica di qualche importanza, s'era persuaso
dell'opportunità di comunicare al pubblico italiano le sue
conclusioni.166 Ma il destino gli negò di vedere i
suoi Saggi stampati. Furon gli amici infatti che, morto lui,
ne curarono la pubblicazione, in quattro volumi, 700 pagine e piú
(I, Cenni storici; II, Cenni storici militari; III, La
rivoluzione; IV, Ordinamento dell'esercito
italiano).167
Qual è il valore dei Saggi?
Ultimamente lo si è piuttosto esagerato, probabilmente per
reazione all'ingiusto dispregio in cui furono tenuti nei loro primi
trenta o quarant'anni di vita. Il libro presenta infatti gravi
difetti di costruzione, è sproporzionato e prolisso,
generalmente mal scritto, di rado originale, pesante ovunque di
faticata erudizione. All'ambiziosissimo intento: «determinare
l'avvenire d'Italia studiandone il passato» mal corrispondeva
la preparazione dell'autore, digiuno o quasi di cultura giuridica e
storica (relativamente piú dotto, se mai, in quella che allora
si diceva «filosofia civile»). Molte le sue letture, sí,
ma frettolose e troppo immediatamente sfruttate; le sue fonti —
gli scrittori politici napoletani del '700, s'è detto, da Vico
a Pagano, piú Romagnosi, Ferrari e i socialisti francesi del
tempo suo, capofila Proudhon — affiorano, nei Saggi,
continuamente: Pisacane non ha saputo farne sangue del suo sangue,
convertire cioè l'erudizione in cultura.
Di storia d'Italia, dall'antichità
preromana su su fino al secolo decimonono, ce n'è forse anche
troppa nel primo Saggio; ma dove non ti si rivela meramente
manualistica, ben t'avvedi che Pisacane la conosce solo attraverso le
interpretazioni dei suoi economisti e filosofi. Né d'altronde
questa minutissima indagine sulla fortuna e la decadenza dei
successivi regimi politici-sociali gli serve gran che per determinare
l'avvenire d'Italia: tra la molteplice esperienza del passato e le
vie del domani la discontinuità, il distacco sono evidenti.
Difetta a Pisacane il rigor logico delle deduzioni; le sue profezie
risultano perciò il piú delle volte arbitrarie.
Maestro egli si rivela, è vero,
tanto nel tracciare la storia dell'arte bellica (nel qual campo
orgogliosamente e abilmente rivendica la superiorità italiana)
quanto nel disegno di una radicale e originale riforma degli
ordinamenti militari (sostituzione della nazione armata agli eserciti
stanziali);168 ma questa parte, che riempie interamente i
Saggi 2° e 4°, viola l'armonica economia del lavoro
con la sua successiva lunghezza e minuzia.
Opera mancata, dunque? Nel suo
insieme, e in relazione all'intento assegnatole, direi senz'altro di
sí. Probabilmente lo stesso Pisacane, se avesse potuto
riprenderla in mano qualche anno dopo la prima laboriosa stesura,
avrebbe constatato che i Saggi non erano che il materiale dal
quale un libro buonissimo e utilissimo avrebbe potuto cavarsi, a
condizione che quel materiale venisse vagliato, ordinato,
padroneggiato. Egli si era, invero, cimentato un po' leggermente con
un assunto, diciamolo schietto, piú grande di lui. Si veda ad
esempio, sempre nel primo volume, la sua argomentazione, molto piú
brillante che solida, doversi la decadenza dei cicli di civiltà
imputar sempre all'ineguale distribuzione delle ricchezze: coi dati
stessi da lui fornitici (nonostante che siano di scelta piú
che arbitraria) non si sentirebbe chiunque di sostenere dieci tesi
diverse dalla sua, seppure altrettanto partigiane e fragili? E per
esempio quella che il declinare del mondo romano sia seguito non
tanto alla crescente sperequazione economica quanto alla
degenerazione del sistema militare?
Col che non vuol negarsi affatto che
nei Saggi non siano pagine belle (anche stilisticamente) e,
quel che piú importa, pensieri e intuizioni di notevole
acutezza e importanza. Tutt'altro: chi riducesse i quattro Saggi
alla mole d'un solo farebbe d'uno zibaldone indigesto un'antologia
storica e critica leggibilissima, e utilmente leggibile. Ma per
venire a quel che piú c'interessa conviene sottolineare che i
Saggi costituiscono la prima applicazione in Italia (rozza e
approssimativa fin che si voglia) di quel metodo economico-storico
che nella Guerra combattuta era stato appena annunciato: il
metodo poi definito del materialismo storico. «Scorgeremo come
un importantissimo fatto o legge di economia pubblica trovasi, con le
medesime conseguenze, ripetuto in tutte le antiche società, e
quindi sarà indubitato che, esistendo fra noi, dovrà
produrre l'effetto medesimo». Cosí fin dalle prime
pagine dei Saggi: questo fatto o legge Pisacane ravvisa,
risalendo di causa in causa, nell'istituto della proprietà
privata, corruttore d'ogni assetto sociale, ispiratore di pessime
costituzioni, fonte prima d'ogni nequizia umana. L'uomo, volto alla
ricerca dell'utile, non è, per questo benthamiano
integrale, buono o cattivo in sé: sono le leggi sociali che,
facendo coincidere o meno il suo utile privato con quello della
collettività, gli dànno o gli tolgono l'apparenza della
virtú; è l'istituto della proprietà privata che
fa l'uomo homini lupus; rimossolo e resane impossibile la
ricostituzione, la società umana potrà finalmente
trovare un assestamento duraturo e migliore. La disamina del
meccanismo sociale si fa qui penetrante: la storia ha già
mostrato a Pisacane l'inevitabile tendenza delle ricchezze
all'accumulazione, di conseguenza l'accentrarsi del potere politico
in un ceto sempre piú ristretto, causa prima di decadenza.
Studiando la civiltà capitalistica egli fa un passo innanzi:
quanto piú crescono le ricchezze sociali — e il mondo ne
produce in assai maggior copia che non nei secoli andati —
tanto piú la classe lavoratrice s'immiserisce.169 «Le
macchine e la divisione del lavoro hanno accresciuto il prodotto
netto e nello stesso tempo ribassato grandemente il salario».
La traiettoria fatale delle civiltà sarebbe dunque nuovamente
al suo termine (che Pisacane ravvisa nel dispotismo militare);
senonché l'enormità stessa dei mali che affliggono la
società moderna porta in sé il suo rimedio definitivo:
la rivoluzione sociale, la rivolta degli sfruttati cioè,
mirante appunto all'abolizione integrale della proprietà
privata. Sulla fatalità di questa benefica catastrofe Pisacane
non nutre dubbi di sorta; di piú: nega esplicitamente che essa
si possa incanalare, ritardare o affrettare. I riformatori sociali
non fanno che antivederla: le loro profezie sul suo svolgimento sono
esercitazioni intellettualistiche utili solo per dimostrare ai
conservatori impenitenti che un assetto sociale diverso in tutto da
quello esistente è pensabile.
Come socialista, Pisacane sfugge alle
classificazioni consuete: anarchico federalista nel battere in
breccia ogni rudimento di governo centrale (superbe, vibranti queste
sue pagine sulla libertà!) e nella dinamica del processo
rivoluzionario, ti si rivela comunista autoritario laddove prevede
che nella società post-rivoluzionaria ogni forma di attività
farà capo e verrà disciplinata da due grandi,
onnipossenti Associazioni monopolistiche, di lavoro agricolo e di
lavoro industriale, all'una delle quali ogni cittadino verrà
obbligato ad iscriversi e alle quali verranno devolute tutte le forme
di proprietà.170 Né il suo socialismo ha alcun
carattere internazionale; concepito soprattutto in funzione e
presentato qual soluzione della crisi italiana, esso non solo non
implica superamento del patriottismo, ma anzi intensificazione,
sviluppo massimo dei caratteri distintivi d'ogni nazione.171
L'Italia socialista di Pisacane non vuol essere, insomma, nel mondo,
la grande proletaria e basta: d'idealità pacifiste non è
parola nei Saggi, anzi si discorre anche troppo di quel che
potrà essere l'ordinamento militare piú efficiente e
piú adatto alla sua importanza avvenire. Gli è che
nonostante che la sua utopia lo porti a vagheggiare la trasformazione
della società in un eden per tutti, imperniato sulla
solidarietà degli interessi (Libertà ed Associazione
è la sua formola preferita), il suo temperamento lo costringe
nel contempo a conservare l'istintiva visione della vita come aspra
continua lotta d'individui e collettività e a considerare il
perfezionamento morale e materiale degli istituti e degli uomini come
condizionato appunto al perpetuo rinnovarsi di quella lotta (e cioè
della concorrenza).
Ma quali che siano le contradizioni
del suo socialismo (principalissima appunto la contradizione fra il
fondamento liberale della rivoluzione sociale e quello illiberale,
antiindividualistico, costrittivo che informa la sua concezione del
novus ordo post-rivoluzionario) la sua importanza nella storia
del nostro pensiero politico, e insieme ai suoi limiti, risiedon di
certo nella saldatura che esso presenta tra rivoluzione sociale e
scioglimento del problema nazionale italiano. Sul qual punto, del
resto, i Saggi non fanno che approfondire e stringere le
considerazioni già abbozzate nella Guerra combattuta:
per vincere la battaglia politica che deve dar vita all'Italia
libera, una sola forza è veramente efficiente, quella
costituita dagli italiani tutti che ravvisino nella vittoria il
conseguimento di un beneficio comune.
Se poi, chiusi i quattro volumi dei
Saggi e distolto lo sguardo dalle questioni speciali in essi
trattate, si domandasse in che mai consista, nonostante ogni loro
difetto, l'attrazione che ancor oggi indiscutibilmente essi
esercitano, credo sarebbe giusto rispondere che essa deriva in gran
parte dalla personalità dell'autore. Commovente e nuovo è
vedere quest'uomo di media cultura, non nato agli studi, ma ansioso
di contribuire con tutto se stesso al risorgimento della sua patria,
sobbarcarsi a una fatica cosí gigantesca come quella di andar
ricercando nel passato d'Italia il riposto perché delle sue
condizioni presenti e i sintomi e il senso probabile della sua
ripresa imminente, e d'anticipare le vie che la sua patria
ricostituita a nazione dovrebbe proporsi di battere.
I Saggi non sono, in
conclusione, un gran libro e Pisacane, non appena deposta la penna,
si dimostrò ben poco fedele allo spirito loro e ai postulati
teorici che v'avea svolti. Ma quale mirabile esempio, nella stessa
loro insufficienza, non offrivano essi agli italiani!172
Gli amici federalisti, che conoscevano
il Pisacane dei Saggi, non intendevano come colui che aveva
scritto in testa a un suo libro: «le rivoluzioni materiali si
compiono allorché l'idea motrice è già divenuta
popolare», colui che aveva ripetutamente bollato l'inutilità
e la fragilità di una rivoluzione puramente politica, potesse
da un giorno all'altro far marcia indietro e tornare
all'insurrezionismo di Giuseppe Mazzini.173 Ma Pisacane non
li ascolta piú, quegli amici, o gli par che sragionino; serba
in pieno le sue concezioni sociali e le sue riserve politiche, ma in
sede teorica. E che, dovrebbe dunque, mentre le cose precipitano,
mentre di giorno in giorno si corre il pericolo di veder Murat a
Napoli, meriggiar quietamente sulla dolce riviera ligure, in attesa
che lo spirito santo faccia germogliare nel cuore e nel cervello
d'ogni italiano idee e volontà smarrite da secoli? No, queste
idee, queste volontà, la fiducia nella propria energia e lo
spirito di sacrificio, vanno suscitati e incoraggiati d'urgenza. Il
processo di combustione interna italiana minaccia di risolversi,
anziché in un gigantesco incendio purificatore, in una gaia
luminaria di festeggiamenti a monarchi ambiziosi e fortunati: non
spetta dunque agl'italiani del suo stampo di correr tutti, col tizzo
acceso in mano, ad appiccare il fuoco? Se poi nella fretta accadrà
di strafare o far male, vuol dire che il mal fatto si correggerà
in appresso. Tutto fuorché l'adattarsi ai ripieghi e ai mezzi
termini.
Né s'avvede, Pisacane, o non
vuole far mostra d'avvedersi, della contradizione in cui si dibatte.
Precipita all'azione perché terrorizzato dalla possibilità
che le cose italiane trovino una via d'uscita arivoluzionaria, ma
intanto prosegue imperturbabile a proclamare che non può darsi
soluzione definitiva se non nel senso propriamente rivoluzionario;
pensa a una spedizione nel Sud in parte come contro-mina a Murat, ma
intanto affetta non temere minimamente costui; nega che mai i Savoja
possano farsi liberatori d'Italia, ma agisce esattamente come chi piú
li paventa.
Contradizione che è tutto un
angoscioso dramma di coscienza: l'eterno dissidio, che ci tormenta
tutti, tra esigenze di ragion pura e esigenze e richiami di ragion
pratica. Ma in questo caso la contradizione non si spiega
compiutamente, ahimè, se non ammettendo che l'esaltazione
entusiastica della intelligenza, del valore, del carattere
degl'italiani cui egli si è abbandonato nei Saggi (una
specie di «Primato» in bocca a un socialista!)
dichiarando di derivarne la certezza d'una soluzione integralmente
rivoluzionaria della crisi italiana, corrisponda assai poco alle sue
convinzioni profonde; e forse non sia che un accorgimento politico
abilmente usato da chi, inclinando a pessimismo, voglia ciò
non pertanto incitare i suoi connazionali all'osare. Poiché
accade talvolta che i poltroni impenitenti si scuotano piuttosto a
immeritate lodi che a giusti rimproveri.174
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