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Nello Rosselli
Carlo Pisacane nel Risorgimento Italiano

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  • CARLO PISACANE NEL RISORGIMENTO ITALIANO
    • Capitolo ottavo Raccoglimento
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Capitolo ottavo
Raccoglimento

 

Spentasi l'eco clamorosa e meschina suscitata dalla pubblicazione del suo libro, Pisacane, un po' perché disgustato dalle polemichette astiose, dai malintesi e ripicchi, ma piú perché gli preme adesso di approfondire i gravi problemi che ha soltanto sfiorato nella sua Guerra combattuta, muta vita radicalmente. Va ad abitare in campagna (dove, fra l'altro, si spende assai meno), dirada i convegni con gli amici, riduce la sua corrispondenza, e legge, legge, legge. Fervore di vita interiore, quieta serena intimità con Enrichetta, in attesa che il turbine dell'azione — per ora sopito — lo riafferri. «Noi, scrive nel '52, viviamo in campagna ad un tiro di cannone dalla Superba. Amenissimo sito, una buona abitazione per poco ed il vantaggio che il padrone di casa mi ha completamente affidato una ricca libreria, per me risorsa grandissima». La casa sorgeva sul colle di Albaro, poco lungi da quella dei Cadolini, intimi di Pisacane, e dalla villetta «Paradisino» nella quale attorno ai fratelli Orlando solevan riunirsi a conversazione moltissimi loro amici emigrati.

Giudicato dal di fuori, da chi non sapeva capacitarsi che un uomo del '48 potesse trascorrere gli anni fra i libri, in una placida attesa, questo ritiro spirituale di Pisacane poté sembrare dal punto di vista politico indizio di raffreddamento, di rinunzia; e non era. Ogni temperamento ha le sue diverse esigenze. Mazzini, ad esempio, checché protestasse in contrario, non produceva, non era lui, non viveva insomma, se non lo circondava l'affannoso va e vieni degli amici esuli o di passaggio, o non lo elettrizzava il miraggio di un'azione imminente. L'atteggiamento pacato di Pisacane, di molti altri vicini a lui, non poteva perciò non indispettirlo. Li conosceva «italiani» ardenti al pari di lui; come dunque potevano badare ai propri spirituali o materiali interessi, chiudersi o quasi nel cerchio della loro vita individuale, in attesa dei comodi «tempi migliori»? Se l'Austria impiccava e il Borbone colmava le galere, come non sentivano essi l'irresistibile bisogno di balzare in piedi, di gettare il libro, la penna, gli affari, per agire, per gridare al mondo la loro esasperata protesta? «...Amici, concretiamo perdio!... Vogliamo lasciare a mezzo, a furia di discussioni, un duello a morte che abbiamo, con grande apparato di frasi e minaccie, intimato all'Austria e ai nostri padroni?» È vero, essi non condannavano a priori l'azione, anzi, a sentirli, non desideravano altro; ma le condizioni che ponevano alla loro collaborazione, le garanzie che esigevano erano tali e tante che con ciò solo rivelavano appieno la loro intima sfiducia e un crescente pessimismo. Mazzini ora li punge e li esalta, ora pretende di ignorarli e li taccia di imbelli e «neutrali», ora prorompe in disperate catastrofiche previsioni sull'avvenire delle cose italiane affidate a uomini di cosí fiacca tempra; salvo poi a riaccostarli, a lusingarli, a sottoporre loro un «ultimo» piano, una «ultima base» di intesa. Il perpetuo sfogo contro di loro fa per altro trasparire la convinzione radicata in lui che quel gruppetto di dissidenti, ove avesse davvero voluto, avrebbe fatto incommensurabilmente piú e meglio di mille altri rumorosissimi omuncoli che gli si tenevan d'intorno, invariabilmente disposti, loro, ad agire.

Pisacane che fa? Medici è morto? E Cosenz dov'è?131 E Mezzacapo e Gorini e Masi? Faccian di tutto, i fedeli, per smuoverli, pungendoli, «ma in modo amorevole di chi stima». «In tutta Italia v'è un certo fermento, e riescirebbe decisivo, se... i militari di Genova e Torino tornassero nei sensi; ma questo non sarà». Povero Mazzini! «Sono nauseatoscrive una volta — ... La classe media, la cospirazione ufficiale, è pessima... I militari graduati, i piú almeno, ostacoli potenti. Dieci di loro che dicessero di esser con me e per movere, spianerebbero le difficoltà... Non vogliono... Siamo frutti avvizziti, diventati marci prima di giungere a maturità. L'azione non è sentita. I migliori... son diventati codardi. Se han fatto belle cose nel '48 e nel '49, tanto peggio per essi ora; ora, sono codardi».

I quali «codardi», rassegnati alla gragnuola, parevan gente che a gran fatica fosse riuscita a sottrarsi a un'influenza potente che per anni avesse paralizzata la loro volontà; a giudicar dal loro contegno avresti anzi detto che temessero di ricaderci da un momento all'altro. Seguitavano a professar reverenza per Mazzini, ma avevan principiato a raffreddarsi con lui, col «tiranno» di Londra, fin dal momento che, radunandosi a Genova, s'eran persuasi dell'importanza cospicua che rivestiva ormai il loro gruppo e per contro della qualità innegabilmente scadente degli emissari ufficiali del mazzinianismo in Piemonte, buoni a nulla se non giungesse loro l'imbeccata di Londra.132 Di Londra, e perché mai? Forse che il legittimo comitato direttivo del moto italiano non risiedeva ormai di diritto fra Torino e Genova, fra le migliaia di rifugiati d'ogni regione che v'avean preso stanza? Fior d'italiani tutti costoro, esperti di carcere di guerra e d'esilio, provatamente all'altezza d'un compito direttivo, dunque. Mazzini, , era il migliore tra i veterani del patriottismo italiano, ma non era appunto un po' troppo un veterano, ostinato a imporre nel '50 sistemi d'organizzazione e mezzi di lotta escogitati con successo vent'anni prima ed ora sorpassati? Le istruzioni che spediva dall'Inghilterra non rivelavano forse l'inevitabile distacco suo dalla realtà italiana, un certo che di estraneo, di non commisurato alle necessità del luogo e del momento, di cosa giusta teoricamente, ma stonata, non pratica? Quante volte le sue assicurazioni sulla indubitabile maturità della situazione in questa o quella provincia non s'erano rivelate frutto d'inattendibili informazioni d'uno solo, contrastanti con mille segni palesi a tutti fuori che a lui! Eterno malinteso fra i rivoluzionari di fuori e quelli di dentro: inevitabili accuse incrociantesi d'inerzia a questi, d'imprudenza a quelli. «Questa questione della Direzione diventa esosa, protestava Mazzini. Io dichiaro pormi semplice ed ultimo subalterno sotto quella del primo caporale che sorge e mi dice: organizzo e fo io»; ma poi: «S'io corrispondo come centro, è perché tutti quelli che vorrebbero fare s'indirizzano a me». Non voleva intendere che il dissenso volgeva non solo sulla opportunità o meno di spostare il centro direttivo della cospirazione repubblicana, ma altresí, e anzi principalmente, sulla opportunità o meno di proseguire la sua tattica dell'azione a ogni costo e dovunque: nelle provincie «mature» e in quelle che dormivano, nelle prime perché vi arrideva la speranza del conclusivo successo, nelle seconde perché occorreva pure svegliarle.133 Avrebbe obbedito, , a un caporale qualunque, sottinteso però che questo avesse, dall'a alla zeta, le sue medesime idee... E invece questi militari di Genova condannavano aperto lo stillicidio dei piccoli moti da lui messi su, e da un pezzo ripetevano con aria d'importanza che si dovessero concentrare uomini e mezzi, e risparmiarli in attesa d'aver raggiunto un indiscutibile grado di preparazione e che si presentasse un'occasione eccezionalmente favorevole. Bella scoperta! Anche Mazzini diceva cosí, soltanto che loro non trovavano mai il momento opportuno, e a lui pareva che dieci volte l'anno lo si fosse lasciato sfuggire; per loro le forze non eran mai sufficienti e a lui, per meravigliosa illusione che i disinganni patiti non offuscavan neanche, parevan sempre imponenti. Differiva, insomma, la disposizione profonda dell'animo: se da Napoli, da Milano, dalla Sicilia, s'invocavano aiuti per un moto già stabilito, dovrei io rifiutarmi, domandava Mazzini, in nome della grande iniziativa avvenire? E non assumerei in tal modo la responsabilità del fallimento di quel moto? Rispondevano i dissidenti che a guardar bene si trattava sempre d'iniziativa sua, diretta o indiretta, di spinta originariamente data da lui e che a lui tornava, in seguito, sotto specie d'iniziativa locale; e perciò bisognava boicottarle tutte, queste pericolose proposte partenti dalle varie provincie, a meno che non fossero di tale importanza e non presentassero, già di per sé, tali elementi di probabile successo da rendere opportuna una mobilitazione generale delle riserve del partito. Il giudizio definitivo, comunque, fosse lasciato a loro, riuniti in Comitato militare, a loro esperti in materia.

Mazzini concludeva che se la rivoluzione italiana doveva attendere il beneplacito dei signori ufficiali, tant'era non pensarci piú, e acconciarsi una volta per sempre al giogo degli austriaci e del Borbone e del Papa.134

La dolorosa schermaglia si protrasse per anni. Da Londra partivan piani su piani, che i «militari» di Genova invariabilmente bocciavano. Già nel '50, verso la fine dell'anno, Pisacane lamentava che in essi si ripetessero «i passati errori fatali». Nel '51 Mazzini voleva agire in Sicilia: parere contrario. Nel '52 in Lombardia: ma Pisacane e Mezzacapo, pel Comitato, stavan studiando di far qualcosa di serio nelle Due Sicilie (come ben sapevano, del resto, le autorità napoletane).135 I processoni di Mantova, nel dicembre di quell'anno, e il fallimento dell'insurrezione milanese del febbraio '53 (sconsigliatissima, questa, dal gruppo di Genova) non potevano certo rinsaldare i rapporti già tesi tra Genova e «li incorreggibili di Londra», come in una lettera a Pisacane li bollava Cattaneo.136 Tutt'altro: «... Non credere che la fazione mazziniana sia del tutto spentascriveva Pisacane medesimo, il 31 di marzo, con freddo distacco, a un suo amico —: essa continua a pretendere il primato. È imminente la pubblicazione di un opuscolo del Mazzini, in giustifica del suo operato, in accusa dei tepidi e codardi, giusta la sua nuova fraseggiatura adottata. Tale fazione non sarà mai nulla, ma ci darà ancora molestia». Povero Mazzini!137

 

Se i Medici, i Cosenz, i Mezzacapo si erano staccati da lui per le accennate divergenze di natura politica, infastiditi altresí come liberi pensatori o tepidi cattolici dalla sua calda e persistente predicazione di nuovi valori religiosi138, un terzo motivo, anche piú grave, valse ad approfondire il dissenso con Pisacane: il diverso atteggiamento intorno alla questione sociale. Nell'affettuoso cenno piú tardi dedicato all'amico caduto, Mazzini francamente lo ammise: «Da Genova... ei mantenne corrispondenza con me: corrispondenza liberamente fraterna, come dovrebbe correre fra uomini che sentono la propria dignità, e onorano anzitutto il Vero... E noi dissentivamo su parecchi punti; sulle idee religiose...; sul cosí detto socialismo, che riducevasi a una mera questione di parole dacché i sistemi esclusivi, assurdi, immorali delle sètte francesi erano ad uno ad uno da lui respinti; e sulla vasta idea sociale... io andava forse piú in di lui».139

«Questione di parole»? Nella Guerra combattuta, è vero, l'argomento non era stato gran che approfondito; ma durante il soggiorno di Genova, né Mazzini poteva ignorarlo, l'evoluzione di Pisacane a sinistra era stata continua e decisa, come si rileva dalle sue lettere. Giustissimamente osservava Mazzini esser il socialismo espressione elastica sotto cui poteva celarsi, e si celò e confuse stranamente in quegli anni, la merce piú varia; ma era gratuito cacciar cosí nel folto mazzo degli pseudo-socialisti Pisacane, che alla palingenesi sociale rivoluzionariamente imposta dalle classi lavoratrici ai ceti privilegiati credeva davvero.

«Sulla vasta idea sociale io andava piú in di lui». Era esatto? Non troppo: Mazzini, si sa, era un riformista temperato; pur sostenendo la necessità di un profondo mutamento nell'assetto sociale, non lo concepiva altrimenti che come frutto d'un lento processo evoluzionista imperniato sul cooperativismo operaio e sulla diffusione del credito; secondo lui, non si trattava tanto di distruggere i fondamenti della società borghese quanto di soppiantarli in progresso di tempo, creando e incoraggiando la formazione di nuovi aggregati sociali, di nuove forme di proprietà che in un futuro piú o meno remoto sarebbero state le sole ad avere esistenza legale. Egli contava sull'appoggio della borghesia per l'emancipazione dei lavoratori, non aveva idee intorno al problema del proletariato agricolo, non considerava le conseguenze sociali della nascente grande industria: quando diceva lavoratori intendeva artigiani; protestava contro ogni sistema che portasse attentato alla libertà individuale.140

Pisacanebasta per questo leggere la Guerra combattutavedeva le cose in modo radicalmente diverso: negava la collaborazione di classe, concepiva il rinnovamento sociale unicamente come portato d'uno sforzo violento, intransigente, integrale del proletariato contro la ferrea cornice della società borghese. L'evoluzione pacifica era per lui una furba invenzione della borghesia timorosa d'esser detronizzata.

Cosicché se Pisacane diffidava, in terreno sociale, del pacifismo mazziniano, Mazzini, piú vecchio, e che conosceva da vicino la storia di molti estremisti, sinceramente credeva, a conti fatti, d'esser piú socialista lui, che da dieci anni additava ai lavoratori quel suo programma moderato e immediato, corrispondente alle loro effettive condizioni morali e materiali, che non il suo bollente amico e tutti gli apostoli del socialismo integrale, i quali, agitando miti estremisti e propinando assurde illusioni alle masse, le inducevano a perdere i concreti benefici dell'oggi per le nebulose fantasie del domani.

Il dissenso era grave, ma forse sarebbe rimasto in sordina ove Mazzini non avesse, proprio nel '51, avvertito la necessità di reagire contro la moda del socialismo, imperversante sul continente. Quanti non la pretendevano a socialisti che poi, se avessero davvero veduto scatenarsi la guerra di classe, prender piede gli scioperi o anche soltanto tentarsi qualche esperimento cooperativo su larga scala avrebbero mostrato d'urgenza sotto la maschera progressista il ceffo conservatore! Bisognava bucare questa vescica, pericolosa, per le sorti della democrazia europea, la quale, disperdendosi in cerca di pretesi ideali assoluti, finiva, come sempre accade, col trascurare gli immediati urgenti doveri che le incombevano.

In due manifesti lanciati rispettivamente a nome del Comitato centrale democratico europeo ( giugno) e del Comitato nazionale italiano (30 settembre), Mazzini s'affrettò dunque a precisare fino a qual punto socialismo e democrazia fossero termini compatibili, quale potesse essere in altre parole il programma massimo d'un democratico in terreno sociale. Riverniciate, le vecchie sue formole suonavan nuove (abolizione della miseria, eguaglianza economica e via discorrendo), ma in ultima analisi eran sempre le stesse, d'un moderato che non crede ai miracoli: piú eque relazioni fra contadini e proprietari, fra operai e capitalisti, imposta unica sul reddito, incoraggiamento alle associazioni operaie, scuola di Stato, semplificazione dell'organismo giudiziario. Chi uscisse di , chi predicasse sovvertimento delle condizioni sociali, adozione di sistemi violenti ed esclusivisti, tradiva la democrazia. Un'aggiunta, per gli italiani; appena compiuta la rivoluzione politica, ci si affrettasse a dar fuori provvedimenti di sollievo per le classi piú povere, che il popolo realizzasse subito «che la rivoluzione s'inizia per esso».

A Pisacane, che non sognava allora se non rivoluzione sociale e non vedeva intorno a sé che inique ingiustizie da vendicare («Qui, aveva scritto a un amico in febbraio, si sono date feste che hanno costato 18 000 franchi, mentre tanti muoiono di fame; sono cose che fanno venir la febbre»), a Pisacane il programma mazziniano parve naturalmente un palliativo ridicolo. Si sfogò con Dall'Ongaro: «il dire piú eque le condizioni fra contadino e proprietario, fra capitalisti e operai non ammette che due casi: o P.(ippo) crede possibile risolvere il problema sociale senza abolire la proprietà, ed allora non ha studiato a fondo la società presente; o P. parla cosí per non intimidire i proprietari, e allora simula; ciò non è da rivoluzionario... Ho studiato con assiduità (e non ho ancora terminato) tutti gli economisti e i socialisti e ti assicuro che per ottenere ciò che vuol P. non ci è mezzo termine; gli strumenti del lavoro debbono essere in comune. Perché temere di parlar chiaro, perché non fare tra le masse una propaganda di questo genere, la quale è facilissima

Mazzini avrebbe potuto domandare a Pisacane perché mai non la iniziasse lui, tale propaganda, se gli pareva utile. Pisacane avrebbe probabilmente risposto che nel momento era tutto assorto nell'esame teorico della questione, nella lettura di opere d'economia, di storia, di filosofia, da Vico a Pagano, da Filangieri a Galluppi, da Beccaria a Romagnosi fino a Leroux, a Blanc, a Proudhon, ma che era ben deciso, una volta ferratosi nelle sue convinzioni, a rilanciarsi nell'agone politico. Comunista o collettivista, proudhoniano o d'altra scuola ancora, d'una cosa era certo: che le mezze misure non conducono a nulla e che il mondo, per progredire, ha bisogno di scosse.

L'urto fra i due in materia di politica sociale s'inasprí ancora nel seguito: nel '51 Mazzini era pur sempre, per Pisacane, il vecchio amico Pippo; dal '52 in poi non lo fu piú. Pareva adesso che un vero furore antisocialista si fosse impadronito di Mazzini, folgorante scomuniche ai novissimi eretici. Quando mai aveva trovato accenti tanto vibranti e sdegnosi nella sua carriera rivoluzionaria? Mazzini alleato della reazione, Mazzini «dall'altra parte»: era uno spettacolo doloroso davvero.

Il nuovo manifesto del Comitato nazionale italiano (gennaio '52) e poi il vivacissimo scritto Doveri della democrazia (marzo) erano infatti requisitorie spietate. Onta ai socialisti per aver preteso ridurre «alle proporzioni di un problema economico... l'immenso moto delle generazioni anelanti unità di progresso, d'educazione, di fede»; onta a loro per aver spenta nel popolo ogni idea di dovere, ogni virtú di sacrificio; per avere identificato il «nome santo» di repubblica col concetto e la pratica della guerra di classe, con un impossibile annientamento della borghesia; onta ai socialisti francesi responsabili della vergognosa acquiescenza del «popolo iniziatore» alle baionette napoleoniche; onta e rimorso per avere, nell'epoca sacra alla ricostituzione delle nazionalità, infiacchito, per quanto potevano, ovunque, l'amore di patria. Sono essi che, ponendo come fine alla vita anziché il compimento d'una missione la bruta ricerca della felicità, che sospingendo l'operaio all'egoismo borghese, hanno tradito con la Francia il moto di rinnovamento europeo.

Manifesti e scritti se non in tutto equanimi, certo tra i piú ispirati commossi e impetuosi che Mazzini avesse mai dettato:141 corsero in un baleno l'Europa, suscitando infiniti commenti, aspre risposte polemiche, goffe adesioni.142 Rabbiosa, s'intende, la reazione dello stato maggior socialista esule a Londra contro l'antico compagno di lotta, rivelatosi in quel triste frangentedicevanostrumento e complice delle vendette borghesi. Perfino Ledru-Rollin, suo braccio destro nel Comitato europeo, trovò inescusabile che Mazzini avesse atteso la tragica dispersione della democrazia francese per assalirla a quel modo. Tra i radicali italiani, grande emozione, battaglia accanita d'opinioni discordi: a Parigi i piú giurano che Mazzini è ammattito, a Torino, a Genova non si discorre d'altro; la madre del grande proscritto teme piú adesso per l'incolumità di suo figlio che non mai per l'innanzi! Quanto a Mazzini, egli soffre piuttosto per le interessate lodi di certa stampa che non pel cumulo d'ingiurie che gli piovon sul capo. Ha la coscienza tranquilla: amare le verità che ha detto, amarissimo il dirle, ma avrebbe mancato al suo dovere tacendo. Bisognava pure che i lavoratori d'Europa sapessero che mentre il tiranno francese legava la nazione per le mani e per i piedi, la democrazia socialista seguitava a cianciare di giustizia sociale e gli operai imperturbabili a occuparsi di questioni salariali: a tanto, al dispotismo cioè, conduceva senza fallo una dottrina che predicava l'indifferenza per le sorti della lotta politica.

Stesse del resto la Francia, da tempo imbarbarita e corrotta, contenta del suo stato; l'essenziale era che l'esperienza sua (dalla repubblica sociale alla reazione militare) non servisse di comodo pretesto ai ceti conservatori di tutta EuropaMazzini naturalmente pensava soprattutto all'Italia — per riprendere su vasta scala le note speculazioni sulle «inevitabili» degenerazioni dei regimi liberi. Questione di vita o di morte, dunque, per la democrazia, una volta isolato il caso francese e diagnosticatone il male, segnalarne agli altri popoli, perché potessero combatterli, i germi epidemici.

Pisacane dissentiva toto cœlo: ma a che pro polemizzar con Mazzini? A che pro farsi avanti a dimostrare ad esempio, contro di lui, doversi i guai di Francia, anziché al dilagare del socialismo, alla debolezza di quel movimento in un paese dalla borghesia strapotente? A che pro? Era ormai cosí lontano da lui in tutte le questioni importanti, cosí diversamente orientato! Gli pareva che Mazzini, nuovo Giosuè, pretendesse fermare il corso del sole: il sole, avanzando, avrebbe folgorato, nonché Mazzini, tutti coloro che credevano di potere inchiodare l'umanità a ideali e valori sorpassati, incapaci di guardare innanzi, incapaci d'intendere le esigenze e le aspirazioni delle nuove generazioni. Meglio era dunque lasciare che i «vecchi» (Mazzini era sulla breccia dal '30!) sfogassero la loro vana stizza perché i giovani li disertavano, e impiegare il proprio tempo a studiar le vie del domani: radicare le proprie convinzioni nel profondo terreno del passato per acquistar la certezza di saperle poi, quando scoccasse l'ora d'agire, adattare alla tempra degl'italiani, e anche per cercarvi la conferma di certe nuove intuizioni sul meccanismo sociale balenategli nell'osservare la vita moderna.

Nessun desiderio di polemica, molto di solitudine e di raccoglimento. Il naturale distacco dalle cose dell'oggi che prende chi abbia d'un tratto scoperto l'immensità delle cose che furono. E anche quando lo riafferra il giuoco della politica attuale, gli piace intrattenersene con uomini che siano anch'essi un po' distanti dalle meschinità della lotta, al di sopra della mischia, differenti insomma da questi «insopportabili mazziniani» che pretendono occuparsi di tutto, dettar legge a tutti e che vivono nella certezza che niente accada in Italia se non voluto e predisposto da loro.

«Pisacane, che ho promosso e sostenuto fino a farmi nemici, s'è raffreddato con me — constata, non senza amarezza, Mazzini, — credo, perché l'ho biasimato d'aver detto male di Garibaldi: poi per nozione d'indipendenza personale proudhoniana e materialismo teorico».143

 

Cattaneo, Ferrari, Franchi, Macchi, queste le costellazioni piú luminose nel cielo pisacaniano dopo il tramonto, che sembrava definitivo, dell'astro Mazzini: era il gruppo dei federalisti, la cui produttività dottrinale cresceva di pari passo con la sua impotenza e inattività politica.

La corrispondenza tra Pisacane ed essi corse fitta in quel tempo, e svariata: sulle cose d'Italia e d'Europa, su libri, su uomini, su idee, su quel che era stato e su quel che sarebbe.

Era logico che Pisacane studioso si avvicinasse sempre di piú alla loro sonante officina intellettuale: non che quei quattro andassero in tutto d'amore e d'accordo, né che egli fosse disposto ad accettare come infallibili oracoli le loro sentenze; tutt'altro. Ma c'era in essi perenne novità d'idee, c'era fervore, c'era l'afflato di una cultura sollecita di conservarsi aggiornata e sopranazionale; c'era una spregiudicatezza totale di principii, e, in seno al gruppo, nessuna necessità di disciplina. Chi poi contribuiva ad unirli era... Mazzini: il quale, con i suoi seguaci, serviva da bersaglio alle loro frecciate epistolari. C'era da sentirlo, ad esempio, Cattaneo, quando gli pigliavan le furie per qualche nuovo colpo inscenato da costoro! «Non s'accorgonoscriveva a Pisacane dopo "le sterili sventure di Mantova" — non s'accorgono che un intervallo di tre anni ha già mutato totalmente le cose materiali, che qualunque siffatta impresa, se potesse riescire, non sarebbe altro che una calamità. Ma essi hanno la dottrina del martirio, stolta e scellerata, e sciupano carte, che, giuocate a luogo e tempo, avrebbero potuto essere preziose... Dicono: azione e silenzio. L'azione è un assurdo, e il silenzio è un tradimento». E concludeva: «Dai professori di rivoluzione non s'intende come le rivoluzioni e le stagioni non sono al comando dell'individuo, e si pretende farle nascere a forza».

Ferrari rincarava la dose; già nell'autunno del '51 s'era dato un gran daffare per un iracondo manifesto antimazziniano del gruppo federalista; nel gennaio seguente, lamentando il colpo di Stato napoleonico, trovava ragione di conforto nel fatto che Mazzini, addossandone la colpa alla democrazia, si fosse una volta per sempre screditato agli occhi di quella; nel maggio se l'era presa col buon Mauro Macchi (che nell'Olimpo federalista rappresentava la divinità piú mite e indulgente, ma insieme di minor forza creatrice) perché, pur contrario a Mazzini, aveva osato difenderlo dalle accuse grossolane dell'abate Gioberti.144

Il qual Ferrari era socialista, ma aveva agli occhi di Pisacane, fra tanti meriti d'originalità e d'ingegno, la colpa di veder tutto dal punto di vista francese e di pretendere che Parigi fosse il cervello del mondo. Aveva scritto per esempio a Cattaneo nel settembre '50, e ribadito l'anno di poi nella sua Federazione repubblicana, doversi il concetto della rivoluzione italiana trasformare in conformità delle nuove ideologie rivoluzionarie prevalenti in Francia; farsi socialista, cioè; dovere inoltre i rivoluzionari italiani contare sull'intervento armato francese (o meglio proporsi di determinarlo) come sull'unica probabilità seria di successo per la causa loro. Pisacane, che pure ammirava devotamente come il Ferrari scrittore, rara avis in Italia, camminasse «diritto alla ricerca del vero», trasecolava: sarebbe stato dunque inevitabile per l'Italia «il subire la dittatura francese»? Neanche per sogno: «si supponga sgombro il suolo italiano dagli stranieri, e si paragoni quale delle due nazioni, la Francia o l'Italia, sia piú prossima alla rivoluzione sociale... Tanto in Francia come in Italia la potenza è rappresentata dal popolo, la resistenza dalla borghesia; ed egli è fuori dubbio che il rapporto fra queste due forze mostra che l'Italia potrebbe rompere l'equilibrio con maggiore facilità... La Francia non avrà (dunque) bisogno d'inviare i suoi eserciti, perocché le idee valicheranno le Alpi prima delle sue armi, e basteranno a compiere la rivoluzione italiana».145 È vero, soggiungeva piú tardi a Cattaneo, che nella corsa al progresso civile un terribile svantaggio grava sull'Italia rispetto alla Francia per l'inferiorità della sua cultura politica e sociale; pure, fra le due nazioni, l'Italia si presenta indubbiamente piú matura alla rivoluzione sociale se non altro per l'inveterato distacco della popolazione dalle oligarchie di governo.

Tutt'altro che supina adesione alle tesi del Ferrari, si vede, o a quelle consimili professate dal Franchi, il quale non per nulla, lasciando con la tonaca il suo vero cognome di Bonavino, s'era prescelto quello pseudonimo. Giusto era però riconoscere a entrambi (contro ai mazziniani ortodossi che non si davan neanche la pena di confutarli, parendo loro che a liquidarli per sempre bastasse lo spargere ch'erano antiitaliani) il grandissimo merito di mettere in circolazione, di «muovere» delle idee.

Ma piú complesso e profondo e concreto di Ferrarigrande in una parolaera comunque, per Pisacane, Cattaneo. Voi — gli scriveva un giorno — «siete disceso dalle nuvole ed avete iniziato sul versante delle Alpi la scienza che speriamo irradierà un giorno l'ItaliaPrezioso privilegio dunque quello di carteggiare con lui sulle questioni del giorno, e di sorprendere nel travaglio stesso della sua elaborazione, ancora incerto e indagante, quel suo acuto pensiero che poi, negli scritti dati alle stampe, si concretava sempre in espressioni cosí ammirevolmente chiare e definitive. Prezioso privilegio quello di sottoporre a lui, familiarmente, dubbi teoretici e questioni difficili: ad esempio, come conciliare le opposte esigenze d'unità e insieme di libertà federale, proprie a una nazione moderna? Se «la centralizzazione è il dispotismo (e) la federazione è la debolezza», come mai potrà salvarsi la libertà, soffocata dall'una, compromessa dall'altra? (gennaio 1853). Cattaneo, rispondendo, dava sempre l'impressione di un vento robusto che liberasse il cielo dalle nebbie vaganti.

Eppure, per quanto Cattaneo intendesse come pochi in Italia l'importanza capitale del fattore economico nella storia, Pisacane non poteva non lamentare il suo disinteresse quasi assoluto pel problema sociale, il disinteresse d'uno che si sarebbe detto non ne avvertisse neanche la crescente influenza nel mondo moderno. Stupenda ad esempio e azzeccata nelle sue previsioni la lettera che aveva ricevuto da lui di commento al colpo di Stato napoleonico, la quale terminava invitandolo a prepararsi a prossime guerre. («Io sono quinquagenario e togato, e sto a vedere. Voi siete giovane e soldato, se vi sono uova rotte dovete avere una mano sulla frittata»); ma come poteva Cattaneo limitarsi a trarre da quell'avvenimento illazioni meramente politiche, come mai non ne scorgeva le sintomatiche premesse e derivazioni sociali? Pisacane, a vero dire, non aveva occhi che per quelle, e non vedeva chiare che quelle: «Credo che hai veduto col fatto, scriveva a Dall'Ongaro, che le masse non si battono piú per servire l'ambizione di pochi, le masse quindi si muoveranno spinte dal solo miglioramento materiale, e che la sola rivoluzione possibile in Europa, è la grande rivoluzione sociale; è la spogliazione della borghesia, come fu quella della nobiltà nell'89. Credi tu che in Lombardia le masse correrebbero alle armi come vi corsero nel '48? Vane speranze; la bandiera che potrà muoverle è solo quella dell'abolizione della proprietà... Il popolo si muoverà solo quando vuole, quando le idee sono mature, e non già quando gli altri vorranno».146 Aveva proprio la fissazione della rivoluzione sociale! Ma sul terreno politico era miope lui quando, a Cattaneo che s'aspettava l'impero e prossime crisi sul Reno e sul Po quali conseguenze inevitabili del 2 dicembre, opponeva esser Napoleone un omuncolo troppo inferiore a gran compiti; ché se poi i fatti lo smentissero e nascesse per davvero la guerra, «mi sentirete in campo... Vivo sempre di questa speranza e attendo con pazienza».

 

Beato nel suo ritiro, assorto nelle sue gravi letture (cui sempre seguivano copiosissimi appunti), Pisacane faceva tuttavia frequenti gite in città, sia per impartirvi quelle poche lezioni, sia per incontrarvi gli amici, sia per fruire della possibilità, preziosa per lui che s'andava facendo ormai scrittore di professione, di partecipare alle manifestazioni della vita culturale cittadina. Non se ne sa gran che; ma è probabile, ad esempio, che seguisse in qualche modo i lavori di quella Accademia di filosofia italica,147 un po' circolo di conferenze e conversazione, un po' anche casa editrice, che il Mamiani aveva fondata intorno al '50 e della quale era membro, col Bonghi, col Boccardo e con molti altri, il Conforti, intimo di Pisacane; il quale forse da quell'ambiente studioso, seppure politicamente moderato, trasse gusto e abitudine alle letture di filosofia.

Nel '51 Ausonio Franchi, terminata la sua Filosofia delle scuole italiane,148 sorta di manifesto del razionalismo filosofico destinato a far chiasso e per la novità della tesi e per il brio dello stile e per la impeccabile stringatezza del ragionamento, la lesse a una cerchia d'amici e simpatizzanti tra i quali era il Macchi: è abbastanza probabile che Pisacane fosse del numero. Come anche che s'adunasse piú volte con altri emigrati per leggere e commentare quella Filosofia della rivoluzione del Ferrari, che sotto il grave pondo e dello stile e della mole e nonostante l'esposizione prolissa, serbava anche ai profani pagine suggestive e piene d'interesse, specialmente laddove trattava del problema sociale.

A Genova eran poi biblioteche e giornali; e i giornali a quel tempo erano di solito, prima che fogli stampati, salotti politici e letterari.

Ancora nel '51 si costituí un Comitato dell'emigrazione italiana, indipendente da quello ufficiale funzionante a Torino. Pisacane di certo se n'interessò, tanto piú che aveva colore repubblicano anzi che no e che v'avevano parte cospicua i due suoi amici Medici e Conforti.149

Nel giugno-luglio '52 si trattenne per qualche settimana a Genova il celebre rivoluzionario russo Alessandro Herzen:150 era intimo di Medici, legato a molti altri emigrati italiani da lui già conosciuti nel '49 in Isvizzera. Vide assai spesso Pisacane col quale discusse a fondo della situazione napoletana e, verosimilmente, del problema sociale. Herzen, che tra gli amici italiani si trovava a tutto suo agio e che ne ammirava sinceramente le istintive doti rivoluzionarie, scrisse piú tardi in termini di vero entusiasmo per Pisacane. Ma chi potrebbe precisare fino a qual punto i contatti con Herzen non incoraggiassero l'evoluzione a sinistra del «romito» di Albaro?

C'era insomma, vivendo alle porte di Genova, di che riempire utilmente le proprie giornate, quand'anche i politicanti frenetici tacciassero Pisacane d'inconcludente e d'ozioso.

 

Sui primi del '53, una profonda emozione (che da Napoli condivideva, affettuosa, l'unica sorella di Pisacane, e con essa un suo figliastro professantesi ammiratore delle di lui prodezze rivoluzionarie): Pisacane è doventato babbo; è nata una piccola Silvia.151 Ma da quante ambasce non venne turbata la gioia della paternità: tormento della cresciuta penuria, ora che le bocche da sfamare eran tre e s'era dissipata la speranza, da qualche tempo nutrita, di ottenere una cattedra nel liceo di Lugano, auspice Cattaneo;152 meschinità burocratiche per la registrazione di Silvia, figlia illegittima e negata al battesimo: figurarsi, nel Piemonte cattolicissimo! Si dovette ricorrere a un notaio che attestasse lui, per atto civile, esser la bambina venuta alla luce. Ma Pisacane, fedele ai dettami di quella scuola del libero pensiero razionalista la quale andava in quegli anni combattendo in Italia le sue prime battaglie, si proclamò orgoglioso di avere impedito che il piccolo essere ignaro ricevesse il suggello d'una fede imposta. Sentiva d'averne difeso, lui padre, la libertà.

Ahimè, poca salute fin da principio, povera Silvia, delicata creatura votata a una grigia vita di dolore e di rinunzia. E se non era il Bertani amico dei Pisacane, gran patriota e piú gran medico, a prenderne cura, la malattia gravissima che presto la colse e ne minacciò l'esistenza per quasi sei mesi se la portava via di sicuro.153 Sei mesi di angoscia per Enrichetta, sei mesi di doppia ansietà per Pisacane: commossa riconoscenza d'entrambi, a guarigione avvenuta, per l'amico salvatore.

Agli affanni domestici si aggiungevano, non meno preoccupanti, quelli politici: la tempesta furiosa scatenatasi, in conseguenza dei moti milanesi del 6 febbraio, contro gli emigrati in Piemonte. Espulsioni a bizzeffe, tra gli altri del buon amico Macchi, del Crispi, del Maestri; molte altre minacciate e tenute in sospeso; ingiunzione a piú d'uno fra i nullatenenti d'andarsene, e sia pure col viaggio pagato, in America; verifica severa dei permessi di soggiorno, e finalmente la proibizione generale odiosissima, che convertiva l'ospitalità in confino, di allontanarsi per qualsivoglia motivo dal comune di residenza.154 Un'ira di Dio: per fortuna durò poco. Sta bene che bisognava pur dare qualche soddisfazione all'Austria la quale pretendeva che il 6 febbraio fosse stato preparato entro i compiacenti confini sabaudi; ma il governo di Torino uscí giustamente malconcio, nonché dalle censure degli emigrati (estranei i piú o, se consapevoli, contrari all'ultima impresa mazziniana) da quelle, indignate ed unanimi, della democrazia piemontese.

 

Tanta tempesta non impediva affatto che gli emigrati di Genova, simili in questo ai loro colleghi d'ogni tempo e paese, si dividessero in gruppi e gruppetti antagonistici, un po' per varietà di programmi politici, un po' anche per piú meschine ragioni: qualche volta pareva che stessero non tanto perché impegnati a condurre la lotta contro i governi che li avevano espulsi, sibbene contro i loro propri compagni di causa! Il guaio era che avevano tutti molto tempo da perdere e poco o niente da fare.

Nel '53, ad esempio, levò clamore e suscitò polemiche senza fine un libercolo stampato dal general Roselli a propria difesa intorno alla Spedizione e combattimento di Velletri. Dallo scrittore in fuori nessuno che fosse nominato in quelle Memorie se la cavava con meno di un'acida nota: bistrattato, s'intende, anche Pisacane, suo ex capo di Stato Maggiore.155 Pisacane, che del resto non aveva lusingato il Roselli nella sua Guerra combattuta, sferrò d'urgenza il contrattacco con un precisissimo articolo pubblicato in tre numeri della Voce della Libertà di Torino156. Seguí, sullo stesso giornale, una violenta stroncatura di Pisacane a firma d'un tal Massimino Trusiani.157 Ma la testa di turco del Roselli era l'eroe di Velletri, Garibaldi, contro il quale le parole usate eran grosse. Inde irae, battibecchi personali, un finimondo nella stampa democratica. Il 4 agosto 1854, sull'Italia e Popolo, uno sprezzante comunicato di Garibaldi; il 15 una contro dichiarazione di «alcuni ufficiali della repubblica romana» (Pisacane?); il 20 Roselli, senza peli sulla lingua, rincara la dose: la condotta di Garibaldi a Velletri fu «un delitto... certamente piú complicato e peggiore di quello del generar Ramorino in Piemonte». Garibaldi infuriato lo manda a sfidare, Roselli... non accetta; e quando gli dànno del vigliacco e bugiardo, senza scomporsi risponde che coi rodomonti a corto di ragioni è inutile battersi.158

Se i pezzi grossi trascendevan cosí, figurarsi la truppa minuta. E tutto ciò con la presunzione sincera di giovare alla causa italiana, tutto ciò nonostante che non scarseggiassero soggetti di grave e giustificata preoccupazione collettiva. Il '54, infatti, fu l'anno del colèra: un colèra tremendo che infuriò nell'estate e mieté vittime a migliaia dappertutto in Europa, ma a Genova con particolare violenza, assottigliando paurosamente le fila degli emigrati.159 Straordinari servigi rese in quell'occorrenza un'associazione di soccorso gratuito ai colpiti che subito si costituí tra gli emigrati medesimi, offrendosi molti o come medici o come infermieri. Cessato il morbo, l'associazione non venne disciolta, ma trasformata (nel novembre del '54) col nome augurale di Solidarietà nel bene, in un circolo permanente d'assistenza ritrovo e lettura. Centotrentatre gli invitati alle prime adunanze, e Pisacane e molti amici suoi naturalmente tra quelli; ma socio effettivo Pisacane non divenne mai «unicamente perché essendo povero non si sentiva di potersi obbligare alla modesta tangente».

Al colèra si aggiunse la minaccia imminente di una guerra europea. Precipitava infatti la crisi orientale, Russia contro Turchia, e poi Francia e Inghilterra contro la Russia; Austria ondeggiante: febbrile ansietà negli ambienti politici. Una bufera di quella sorta poteva sconvolgere la carta d'Europa!

Febbraio '55, la guerra per davvero.

8 marzo, Cattaneo a Pisacane: «Ne capite qualche cosa?... Vi par possibile che questo vortice di tutti i venti passi rasente l'Italia, senza toccarla? E se la tocca, dove sarà? e dove, e quando, e come sarà?... Dopo il turbine chi resterà in piedi?... Il talento è inutile... e li occhiali sono un impaccio, se ogni volta che si ha maggior voglia di vedere dove il diavolo ci porta è proprio quello il momento che si deve rimanere a occhi chiusi».

Ma se Cattaneo era al buio, figurarsi Pisacane; il quale una cosa sola allora capiva, che cioè quella guerra, in sé e per sé estranea affatto agl'interessi italiani, avrebbe forse potuto fornire un'occasione preziosa per la soluzione italiana della questione italiana: distraendo l'attenzione di Francia e d'Austria dal famoso equilibrio nella penisola, cosí caro ad entrambe, e soprattutto decongestionando l'Europa di truppe. Non aveva egli scritto quattr'anni innanzi che, supposta l'Italia sgombra dagli stranieri, non era poi tanto difficile di provocarvi lo scoppio della rivoluzione integrale? Perciò a Cattaneo che lo incitava a partir per la guerra «poco importava se coi Turchi o coi Russi, purché potesse acquistarvi esperienza delle guerre grandi e reputazione», egli rispose di no: quello era un momento da non lasciare l'Italia.160

Né egli solo la pensava cosí: era presentimento abbastanza diffuso, seppure indeterminato, che da quel conflitto anche a noi sarebbe derivato qualcosa. Ridda di vaticini; ma certo eran pochi quelli che s'aspettavano la mossa del ministro Cavour, partecipazione cioè del Piemonte alla guerra a fianco delle potenze occidentali. Colpo di genio che la parte democratica, in blocco, fraintese, scagliando contro di esso il furore appassionato delle sue proteste. Lo sconfitto del '49 alleato dell'Austria? Era dunque la diserzione definitiva dall'impresa italiana ed antiaustriaca! Al punto che, quando l'intervento sardo venne irrevocabilmente deciso (con soli trentun voti di maggioranza alla Camera e venticinque al Senato), e s'apprestò il corpo di spedizione, né Mazzini né la maggior parte dei repubblicani piemontesi o emigrati dubitaron di gridare al tradimento e di sobillare i soldati perché gettassero i fucili:161 «Quindicimila fra voi stanno per essere deportati in Crimea. Non uno forse tra voi rivedrà la propria famiglia... Morrete senza gloria... L'ossa vostre biancheggeranno, calpestate dal cavallo del cosacco, su terre lontane né alcuno dei vostri potrà raccoglierle e piangervi sopra...» Ingiustificabile eccesso, d'accordo; non era da Mazzini l'appello alla paura! Ma, d'altra parte, non lasciava tanto furore comprendere come, nonostante l'antipiemontesismo ufficiale, i rivoluzionari contassero ancora, per risolvere la questione italiana, sull'esercito sardo? Protestavano perché, mentre l'Italia era in ceppi, si mandassero quegli uomini a servire una causa lontana: non era questa una confessione preziosa? Se costoro fossero stati repubblicani al cento per cento, non avrebbero salutato con gioia, dopo l'impegnarsi dell'Austria in quella guerra lontana, l'impegnarsi anche dell'«altro nemico»?

Partito il contingente sardo, comunque, la via da seguirsi per i rivoluzionari parve chiaramente tracciata: profittare della situazione per riprendere in pieno, con disperata energia, il bombardamento d'insurrezioni in Italia. Per l'ennesima volta ecco Mazzini ripetere il suo ora o mai; furono in molti, anche fra i dissidenti di ieri, anche fra i «militari di Genova» che finalmente risposero: siamo con voi. Ma nessuno dimostrò, nel riaccostarsi a Mazzini, piú lieto slancio di Pisacane.

 

Dopo tanto blaterare contro il «tiranno di Londra» gli ex dissidenti eran dunque già tutti a Canossa?

Niente Canossa, nessuna rinuncia ideale, né di qua né di : le profonde divergenze dottrinali e di metodo che avevano scisso il movimento repubblicano d'azione sussistevano ancora; e i dissidenti stringevan la mano non a Mazzini individuo, ma al capo responsabile d'un grande partito politico. Alla necessità di una tregua, anzi di una azione comune s'era giunti da ambo le parti dopo un coscienziosissimo esame della situazione italiana quale si era venuta sostanzialmente modificando negli ultimi tempi.162

E infatti qual era sempre stato il postulato fondamentale comune ai due gruppi? Quello che esigeva, si sa, una soluzione rivoluzionaria e unitaria del problema italiano. Orbene la consultazione anche superficiale del barometro politico nell'anno '55 indicava invece una tendenza chiarissima verso soluzioni di compromesso per giungere a un sistema di monarchie costituzionali piú o meno federate. Bastava, per constatarlo, osservare cosa stesse accadendo in quelle tre regioni della penisola nelle quali lo statu-quo si era costantemente mostrato piú instabile e che perciò erano state sempre considerate come probabili focolai d'una crisi rivoluzionaria: il Lombardo-Veneto, gli Stati Romani, le Due Sicilie.

Nel Lombardo-Veneto, un po' per la migliorata situazione diplomatica dell'Austria, un po' per la diminuita tensione dei suoi rapporti col regno sabaudo (alleanza antirussa), lo statu-quo appariva evidentemente piú incrollabile che mai; l'unica lontana possibilità d'un suo mutamento era legata a un accordo europeo, in base al quale l'Austria si fosse piegata a una cessione totale o parziale dei suoi dominii italiani al Piemonte, in cambio di compensi territoriali in altre regioni. Comunque, niente da fare per il partito rivoluzionario nella pianura del Po.

Negli Stati Romani, retti da un governo sempre piú screditato e inceppato nel suo funzionamento, lo statu-quo era solidamente assicurato dalle baionette francesi; anche qui, dunque, nessuna speranza.

Nelle Due Sicilie, che il cronico malcontento dei ceti medi, la ridda dei processi politici, l'infortunio Gladstone, l'isolamento diplomatico se non proprio l'abbandono delle potenze, designavano come l'epicentro probabile d'un eventuale terremoto rivoluzionario, principiava a prender piede e a raccogliere larghe adesioni una soluzione antirivoluzionaria (seppur violenta) appoggiata, cosí pareva, a Parigi e a Torino: la restaurazione della dinastia dei Murat.

Il partito rivoluzionario si vedeva cosí minacciato nelle sue finalità dal pericolo che, ovunque in Italia, la prepotente aspirazione degl'italiani coscienti a un ordine nuovo, anziché servir di lievito a un risorgimento integrale, venisse cloroformizzata e spenta per mezzo delle cosí dette transazioni realistiche, di baratti, di pateracchi principeschi. Era la missione d'Italia che in tal modo si smarriva, era il sogno unitario che crollava forse per sempre, erano gl'italiani sottratti alla dura formativa scuola del sacrificio. Di fronte al moltiplicarsi delle iniziative dall'alto e al crescer del loro prestigio, cadeva dunque, necessariamente, ogni dissenso tra i rivoluzionari sul fare o non fare immediato; c'era il caso, se si aspettava troppo, di trovarsi un bel giorno innanzi a irrimediabili fatti compiuti, venissero questi da un Napoleone o da un Cavour o da un Murat o da un convegno di Ministri degli Esteri. Occorreva quindi reagir prontamente, precipitando uno scoppio rivoluzionario in quel Mezzogiorno che, nonostante tutto, si presentava ancora come l'unica terra italiana nella quale gli agitatori potessero riporre un filo di speranza; per fortuna la soluzione Murat non era affatto sentita in Sicilia. Ma non c'era tempo da perdere: se alla caldaia napoletana si lasciavano applicare valvole di sicurezza Murat, la partita era definitivamente perduta.

Di tutto ciò Mazzini si rese conto con perfetta lucidità tra il cadere del '54 e il principio del '55; fu allora che, abbandonando la speranza lungamente nutrita di suscitare la rivoluzione italiana coll'istigare i lombardi a rinnovare il conflitto con l'Austria, diramò l'ordine di concentrare il fuoco sulla Sicilia e su Napoli. I «militari di Genova», e con essi molti altri rivoluzionari piú o meno antimazziniani fin qui, che avevan sempre sconsigliato l'insurrezionismo a ripetizione nell'alta Italia, si posero senz'altro a sua disposizione.

E cosí i successi della politica europea del Piemonte, atteggiantesi ormai a potenza rappresentativa d'Italia, e nel Piemonte stesso e in tutta Italia la crescente popolarità del partito nazionale che incondizionatamente appoggiava quella politica, e nel Mezzogiorno i progressi del murattismo, tutto ciò inquadrato in una valutazione forse eccessivamente severa delle cose italiane, resero l'unità e l'energia al movimento mazziniano; lo salvaron cioè da una bancarotta morale che nel '54, all'indomani di due gravi sconfitte (Milano '53 e Sarzana '54), appariva per molti segni e probabile e prossima. La ripresa fu infatti straordinariamente vivace; si sarebbe detto che una scarica elettrica avesse percosse le torpide membra del partito: dissidenti che rientravan nei ranghi, «tepidi» che si rianimavano, affluir di nuove reclute, e intorno al partito quell'alone di consensi, di anonimi incoraggiamenti, quel fioccar di proposte, che da tempo eran venuti a mancare, sintomi tutti della vitalità d'un movimento politico.

Mazzini stesso, rendendosi conto che la battaglia suprema s'approssimava, pareva pervaso da uno slancio nuovo, da un rifiorito ottimismo; le delusioni passate non erano, ancora una volta, che fuggevoli ombre; il suo stile ritrovava il tono ispirato e profetico: «V'è tal momento, scriveva in gennaio, in cui una insurrezione importante non suscita un popolo; tal altro in cui una sorpresa audacemente eseguita, una bandiera inalzata da un pugno d'intrepidi, una banda sull'Appennino, è la scintilla che moto all'incendio. Credo che il nostro momento sia questo». Che lo fosse, sentiron tutti, d'un tratto, i rivoluzionari repubblicani, e chi non l'ebbe a sentire, voleva dir proprio che tale non era e non sarebbe stato piú mai.

 

Stretta la prima intesa generica, Mazzini si preoccupò di perfezionarla, e a tal uopo accortamente si serví della intelligente sua amica, e amica insieme di Pisacane, Emilia Hawkes: questa fu a Genova per quasi sei mesi, dal gennaio al maggio del '55. Le donne riescon talvolta mediatrici abilissime: molte cose che Mazzini avrebbe voluto dire agli ex dissidenti, e non sapeva come per l'antica ruggine, scriveva invece a lei ed essa con femminile garbo comunicava a loro, eliminando ogni sorgente di possibile attrito, scegliendo il momento opportuno per battere ora quel tasto ed ora quell'altro. Era ancora l'Emilia che convogliava a Londra le notizie di Genova, e anche questo faceva con conoscenza perfetta dell'amico di lassú, delle sue debolezze e dei suoi punti sensibili, animata sempre dal desiderio vivissimo che quella tregua s'avesse ben presto a tramutare in una pace definitiva. Il suo soggiorno coincise infatti con la progressiva ripresa dei rapporti cordiali d'un tempo fra i due gruppi avversari; né diminuisce affatto il suo merito la considerazione che forse a facilitare l'intesa contribuí anche la prospettiva, grata ai militari di Genova, che il mutamento di fronte del partito avrebbe inevitabilmente portato a un trasloco del quartier generale rivoluzionario da Londra a Genova, testa di ponte obbligata per qualunque movimento antiborbonico.

A partir dal febbraio, il nome di Pisacane ricompare con frequenza nell'epistolario mazziniano; nel marzo il «proudhoniano» è già qualificato «tra i migliori», e nello stesso periodo colui che solo due anni innanzi aveva scritto della «fazione» mazziniana che purtroppo non era per anco del tutto spenta, poteva arricchire le sue povere entrate accettando — su invito della direzione — di collaborare a quell'Italia e Popolo, che era appunto l'organo ufficiale del mazzinianismo in Italia. Era stata, questa, un'idea di Mazzini, un po' per riconquistare l'amico, un po' per rinsanguare con l'ardore di lui l'assai fiacco giornale. «Come siete con Pisacane? (aveva chiesto a uno della redazione). Parmi strano, se non siete nemici, che non abbiate avuto ricorso a lui per qualche articolo sulla guerra attuale di tempo in tempo. È capace assai».

Fatto sta che da mezzo febbraio a tutto aprile comparvero sull'Italia e Popolo frequenti e notevoli articoli di commento militare alle cose d'Oriente. Tutti di Pisacane? Difficile dirlo, ché i collaboratori di quel giornale, Mazzini eccettuato, non firmavano mai. Di Pisacane era certo quello dal titolo audacemente ironico Viva il trattato (il trattato di adesione del Piemonte all'alleanza delle potenze occidentali), stampato il 21 di febbraio: lo si sa da una lettera.163 Altri articoli che direi suoi, a giudicar dallo stile e conoscendo le idee generali e le passate esperienze di guerra di Pisacane e i testi militari cui egli soleva ricorrere, sono Previsioni sulla guerra di Crimea (18 febbraio), Considerazioni sulla guerra d'Oriente (14, 15, 17 marzo), La capacità militare di L. Napoleone (27 marzo), La disciplina degli eserciti e l'ubbidienza passiva (30 marzo), Le condizioni degli alleati in Crimea (4 aprile). Lo scrittore si mostrava scettico sulla possibilità di successi dell'esercito collegato, non credeva alla caduta di Sebastopoli, trovava che il comando alleato era inferiore al suo compito; dalla critica di dettaglio saliva alla dimostrazione della superiorità degli eserciti volontari su quelli stanziali; lodava l'infelice indirizzo di Mazzini alle truppe sarde; stroncava la comoda tesi alleata segnar quella guerra l'urto tra le democrazie d'occidente e l'autocratismo russo; analizzava spietatamente tali pretese democrazie e affermava poter solo l'Europa libera, l'Europa dei popoli associati, atterrare definitivamente i regimi assolutisti. «Chiunque non adagiasi ne' presenti mali, non ha altro faro, né altra speranza che il vessillo della rivoluzione». Aveva dunque tutte le idee di Pisacane; e in piú lo stesso gusto suo per le anticipazioni storiche, la stessa sua complessità di vedute e di ragionamento, l'identica specialità dei bruschi passaggi dalla storia alla politica, dalla scienza militare alla psicologia dei popoli.

Di Pisacane o no, questi articoli una cosa dimostrano a luce solare: quanto larga, cioè, o meglio illimitata, fosse la libertà di stampa che il governo di Torino, perfino in tempo di guerra, credeva suo debito e suo pro di liberalmente osservare.

 

La politica è un'infida distesa di sabbie mobili: finché te ne tieni lontano, stupisci che quei che vi son capitati in mezzo non riescano a sottrarvisi piú, e gestiscano e gridino come gente invasata. Ma se per caso ti ci avventuri anche tu, presto ti accorgi che l'uscirne è pressoché impossibile: vi affondi lentissimamente, ma senza mercé.

Pisacane v'era caduto, proprio per caso, nel '47; nel '51, riuscitogli di sollevarsi un poco, s'era illuso di poterla scampare; quattro anni piú tardi s'inabissava anche piú irrimediabilmente di prima. Qualche lettera a Mazzini, quei pochi articoli sull'Italia e Popolo, nient'altro di concreto aveva fin'allora concesso alla politica attiva; ma era il piede dell'insabbiato, era il rovesciamento totale delle sue posizioni, era la fine del periodo di pace operosa, era l'addio al ritiro di Albaro. Lo aveva tradito, ancora una volta, la tempra esuberante e impulsiva: quando mai gli era riuscito di far le cose a mezzo? Distrattosi, rotto l'incantesimo, non trovò piú il verso, per voglioso che fosse, d'inchiodarsi al suo tavolo, al lavoro paziente di tutti i giorni. Giunto dopo anni di dispersione a realizzare che doveva pur qualcosa, oltre che al genere umano, alla famiglia e a sé, avviatosi appena sulla via banale d'una occupazione fissa e retribuita, ecco che retrocedeva d'un tratto, per ricadere nei generosi eccessi di ieri.

Concorso a Oristano, in Sardegna, per l'ufficio d'ingegnere municipale; Pisacane lo vince, ma in Oristano non va: allontanarsi tanto in tempi calamitosi?

Un posto d'addetto alle nuove costruzioni ferroviarie (erano in studio o in corso la Mondoví-Ceva, la Bra-Mondoví);164 Pisacane lo accetta, si reca a Mondoví, ma è cosa che dura non piú di qualche settimana: non è egli, che diamine, uomo da stipendio mensile, né ha le attitudini dell'impiegato. Maiora premunt: c'è da fare nel Sud. E allora Enrichetta e Silvia son costrette a lasciare Albaro, a installarsi con lui proprio nel cuore di Genova; di nuovo s'ingolfano tutti nelle alterne grandezze e miserie (questa assoluta e quella assai relativa) che il mestiere d'insegnante privato conduce invariabilmente con sé.

 

Ma in quel periodo di pace operosa che la nostalgia dell'azione e il conseguente riavvicinamento a Mazzini eran venuti a concludere cosí bruscamente, Pisacane non aveva soltanto riflettuto parecchio e letto una filza di libri e dettato quei quattro o cinque articoli. Il frutto piú cospicuo del suo lavoro era un voluminoso manoscritto che adesso egli riponeva nel suo cassetto, nella vana lusinga di condurlo a compimento un o l'altro. Era il manoscritto di quei Saggi storici-politici-militari sull'Italia che rappresentano il punto terminale della sua faticosa evoluzione teorica.

L'opera gli si era venuta componendo pian piano e quasi insensibilmente, fuor dalla congerie di appunti e osservazioni che egli aveva tratto via via dalle sue letture.165 In un primo tempo Pisacane aveva lavorato esclusivamente per sé, assillato dall'esigenza di «formarsi un convincimento che, essendo norma delle sue azioni, fra il continuo mutare degli uomini e delle cose, lo avesse mantenuto sempre nel medesimo proposito». Non voleva, ecco, che la sua politica fosse mera improvvisazione governata dall'intuizione o dal caso. Soltanto piú tardi, parendogli di aver raggiunto una visione sintetica di qualche importanza, s'era persuaso dell'opportunità di comunicare al pubblico italiano le sue conclusioni.166 Ma il destino gli negò di vedere i suoi Saggi stampati. Furon gli amici infatti che, morto lui, ne curarono la pubblicazione, in quattro volumi, 700 pagine e piú (I, Cenni storici; II, Cenni storici militari; III, La rivoluzione; IV, Ordinamento dell'esercito italiano).167

Qual è il valore dei Saggi? Ultimamente lo si è piuttosto esagerato, probabilmente per reazione all'ingiusto dispregio in cui furono tenuti nei loro primi trenta o quarant'anni di vita. Il libro presenta infatti gravi difetti di costruzione, è sproporzionato e prolisso, generalmente mal scritto, di rado originale, pesante ovunque di faticata erudizione. All'ambiziosissimo intento: «determinare l'avvenire d'Italia studiandone il passato» mal corrispondeva la preparazione dell'autore, digiuno o quasi di cultura giuridica e storica (relativamente piú dotto, se mai, in quella che allora si diceva «filosofia civile»). Molte le sue letture, , ma frettolose e troppo immediatamente sfruttate; le sue fonti — gli scrittori politici napoletani del '700, s'è detto, da Vico a Pagano, piú Romagnosi, Ferrari e i socialisti francesi del tempo suo, capofila Proudhonaffiorano, nei Saggi, continuamente: Pisacane non ha saputo farne sangue del suo sangue, convertire cioè l'erudizione in cultura.

Di storia d'Italia, dall'antichità preromana su su fino al secolo decimonono, ce n'è forse anche troppa nel primo Saggio; ma dove non ti si rivela meramente manualistica, ben t'avvedi che Pisacane la conosce solo attraverso le interpretazioni dei suoi economisti e filosofi. Né d'altronde questa minutissima indagine sulla fortuna e la decadenza dei successivi regimi politici-sociali gli serve gran che per determinare l'avvenire d'Italia: tra la molteplice esperienza del passato e le vie del domani la discontinuità, il distacco sono evidenti. Difetta a Pisacane il rigor logico delle deduzioni; le sue profezie risultano perciò il piú delle volte arbitrarie.

Maestro egli si rivela, è vero, tanto nel tracciare la storia dell'arte bellica (nel qual campo orgogliosamente e abilmente rivendica la superiorità italiana) quanto nel disegno di una radicale e originale riforma degli ordinamenti militari (sostituzione della nazione armata agli eserciti stanziali);168 ma questa parte, che riempie interamente i Saggi e , viola l'armonica economia del lavoro con la sua successiva lunghezza e minuzia.

Opera mancata, dunque? Nel suo insieme, e in relazione all'intento assegnatole, direi senz'altro di . Probabilmente lo stesso Pisacane, se avesse potuto riprenderla in mano qualche anno dopo la prima laboriosa stesura, avrebbe constatato che i Saggi non erano che il materiale dal quale un libro buonissimo e utilissimo avrebbe potuto cavarsi, a condizione che quel materiale venisse vagliato, ordinato, padroneggiato. Egli si era, invero, cimentato un po' leggermente con un assunto, diciamolo schietto, piú grande di lui. Si veda ad esempio, sempre nel primo volume, la sua argomentazione, molto piú brillante che solida, doversi la decadenza dei cicli di civiltà imputar sempre all'ineguale distribuzione delle ricchezze: coi dati stessi da lui fornitici (nonostante che siano di scelta piú che arbitraria) non si sentirebbe chiunque di sostenere dieci tesi diverse dalla sua, seppure altrettanto partigiane e fragili? E per esempio quella che il declinare del mondo romano sia seguito non tanto alla crescente sperequazione economica quanto alla degenerazione del sistema militare?

Col che non vuol negarsi affatto che nei Saggi non siano pagine belle (anche stilisticamente) e, quel che piú importa, pensieri e intuizioni di notevole acutezza e importanza. Tutt'altro: chi riducesse i quattro Saggi alla mole d'un solo farebbe d'uno zibaldone indigesto un'antologia storica e critica leggibilissima, e utilmente leggibile. Ma per venire a quel che piú c'interessa conviene sottolineare che i Saggi costituiscono la prima applicazione in Italia (rozza e approssimativa fin che si voglia) di quel metodo economico-storico che nella Guerra combattuta era stato appena annunciato: il metodo poi definito del materialismo storico. «Scorgeremo come un importantissimo fatto o legge di economia pubblica trovasi, con le medesime conseguenze, ripetuto in tutte le antiche società, e quindi sarà indubitato che, esistendo fra noi, dovrà produrre l'effetto medesimo». Cosí fin dalle prime pagine dei Saggi: questo fatto o legge Pisacane ravvisa, risalendo di causa in causa, nell'istituto della proprietà privata, corruttore d'ogni assetto sociale, ispiratore di pessime costituzioni, fonte prima d'ogni nequizia umana. L'uomo, volto alla ricerca dell'utile, non è, per questo benthamiano integrale, buono o cattivo in sé: sono le leggi sociali che, facendo coincidere o meno il suo utile privato con quello della collettività, gli dànno o gli tolgono l'apparenza della virtú; è l'istituto della proprietà privata che fa l'uomo homini lupus; rimossolo e resane impossibile la ricostituzione, la società umana potrà finalmente trovare un assestamento duraturo e migliore. La disamina del meccanismo sociale si fa qui penetrante: la storia ha già mostrato a Pisacane l'inevitabile tendenza delle ricchezze all'accumulazione, di conseguenza l'accentrarsi del potere politico in un ceto sempre piú ristretto, causa prima di decadenza. Studiando la civiltà capitalistica egli fa un passo innanzi: quanto piú crescono le ricchezze sociali — e il mondo ne produce in assai maggior copia che non nei secoli andati — tanto piú la classe lavoratrice s'immiserisce.169 «Le macchine e la divisione del lavoro hanno accresciuto il prodotto netto e nello stesso tempo ribassato grandemente il salario». La traiettoria fatale delle civiltà sarebbe dunque nuovamente al suo termine (che Pisacane ravvisa nel dispotismo militare); senonché l'enormità stessa dei mali che affliggono la società moderna porta in sé il suo rimedio definitivo: la rivoluzione sociale, la rivolta degli sfruttati cioè, mirante appunto all'abolizione integrale della proprietà privata. Sulla fatalità di questa benefica catastrofe Pisacane non nutre dubbi di sorta; di piú: nega esplicitamente che essa si possa incanalare, ritardare o affrettare. I riformatori sociali non fanno che antivederla: le loro profezie sul suo svolgimento sono esercitazioni intellettualistiche utili solo per dimostrare ai conservatori impenitenti che un assetto sociale diverso in tutto da quello esistente è pensabile.

Come socialista, Pisacane sfugge alle classificazioni consuete: anarchico federalista nel battere in breccia ogni rudimento di governo centrale (superbe, vibranti queste sue pagine sulla libertà!) e nella dinamica del processo rivoluzionario, ti si rivela comunista autoritario laddove prevede che nella società post-rivoluzionaria ogni forma di attività farà capo e verrà disciplinata da due grandi, onnipossenti Associazioni monopolistiche, di lavoro agricolo e di lavoro industriale, all'una delle quali ogni cittadino verrà obbligato ad iscriversi e alle quali verranno devolute tutte le forme di proprietà.170 Né il suo socialismo ha alcun carattere internazionale; concepito soprattutto in funzione e presentato qual soluzione della crisi italiana, esso non solo non implica superamento del patriottismo, ma anzi intensificazione, sviluppo massimo dei caratteri distintivi d'ogni nazione.171 L'Italia socialista di Pisacane non vuol essere, insomma, nel mondo, la grande proletaria e basta: d'idealità pacifiste non è parola nei Saggi, anzi si discorre anche troppo di quel che potrà essere l'ordinamento militare piú efficiente e piú adatto alla sua importanza avvenire. Gli è che nonostante che la sua utopia lo porti a vagheggiare la trasformazione della società in un eden per tutti, imperniato sulla solidarietà degli interessi (Libertà ed Associazione è la sua formola preferita), il suo temperamento lo costringe nel contempo a conservare l'istintiva visione della vita come aspra continua lotta d'individui e collettività e a considerare il perfezionamento morale e materiale degli istituti e degli uomini come condizionato appunto al perpetuo rinnovarsi di quella lotta (e cioè della concorrenza).

Ma quali che siano le contradizioni del suo socialismo (principalissima appunto la contradizione fra il fondamento liberale della rivoluzione sociale e quello illiberale, antiindividualistico, costrittivo che informa la sua concezione del novus ordo post-rivoluzionario) la sua importanza nella storia del nostro pensiero politico, e insieme ai suoi limiti, risiedon di certo nella saldatura che esso presenta tra rivoluzione sociale e scioglimento del problema nazionale italiano. Sul qual punto, del resto, i Saggi non fanno che approfondire e stringere le considerazioni già abbozzate nella Guerra combattuta: per vincere la battaglia politica che deve dar vita all'Italia libera, una sola forza è veramente efficiente, quella costituita dagli italiani tutti che ravvisino nella vittoria il conseguimento di un beneficio comune.

Se poi, chiusi i quattro volumi dei Saggi e distolto lo sguardo dalle questioni speciali in essi trattate, si domandasse in che mai consista, nonostante ogni loro difetto, l'attrazione che ancor oggi indiscutibilmente essi esercitano, credo sarebbe giusto rispondere che essa deriva in gran parte dalla personalità dell'autore. Commovente e nuovo è vedere quest'uomo di media cultura, non nato agli studi, ma ansioso di contribuire con tutto se stesso al risorgimento della sua patria, sobbarcarsi a una fatica cosí gigantesca come quella di andar ricercando nel passato d'Italia il riposto perché delle sue condizioni presenti e i sintomi e il senso probabile della sua ripresa imminente, e d'anticipare le vie che la sua patria ricostituita a nazione dovrebbe proporsi di battere.

I Saggi non sono, in conclusione, un gran libro e Pisacane, non appena deposta la penna, si dimostrò ben poco fedele allo spirito loro e ai postulati teorici che v'avea svolti. Ma quale mirabile esempio, nella stessa loro insufficienza, non offrivano essi agli italiani!172

 

Gli amici federalisti, che conoscevano il Pisacane dei Saggi, non intendevano come colui che aveva scritto in testa a un suo libro: «le rivoluzioni materiali si compiono allorché l'idea motrice è già divenuta popolare», colui che aveva ripetutamente bollato l'inutilità e la fragilità di una rivoluzione puramente politica, potesse da un giorno all'altro far marcia indietro e tornare all'insurrezionismo di Giuseppe Mazzini.173 Ma Pisacane non li ascolta piú, quegli amici, o gli par che sragionino; serba in pieno le sue concezioni sociali e le sue riserve politiche, ma in sede teorica. E che, dovrebbe dunque, mentre le cose precipitano, mentre di giorno in giorno si corre il pericolo di veder Murat a Napoli, meriggiar quietamente sulla dolce riviera ligure, in attesa che lo spirito santo faccia germogliare nel cuore e nel cervello d'ogni italiano idee e volontà smarrite da secoli? No, queste idee, queste volontà, la fiducia nella propria energia e lo spirito di sacrificio, vanno suscitati e incoraggiati d'urgenza. Il processo di combustione interna italiana minaccia di risolversi, anziché in un gigantesco incendio purificatore, in una gaia luminaria di festeggiamenti a monarchi ambiziosi e fortunati: non spetta dunque agl'italiani del suo stampo di correr tutti, col tizzo acceso in mano, ad appiccare il fuoco? Se poi nella fretta accadrà di strafare o far male, vuol dire che il mal fatto si correggerà in appresso. Tutto fuorché l'adattarsi ai ripieghi e ai mezzi termini.

Né s'avvede, Pisacane, o non vuole far mostra d'avvedersi, della contradizione in cui si dibatte. Precipita all'azione perché terrorizzato dalla possibilità che le cose italiane trovino una via d'uscita arivoluzionaria, ma intanto prosegue imperturbabile a proclamare che non può darsi soluzione definitiva se non nel senso propriamente rivoluzionario; pensa a una spedizione nel Sud in parte come contro-mina a Murat, ma intanto affetta non temere minimamente costui; nega che mai i Savoja possano farsi liberatori d'Italia, ma agisce esattamente come chi piú li paventa.

Contradizione che è tutto un angoscioso dramma di coscienza: l'eterno dissidio, che ci tormenta tutti, tra esigenze di ragion pura e esigenze e richiami di ragion pratica. Ma in questo caso la contradizione non si spiega compiutamente, ahimè, se non ammettendo che l'esaltazione entusiastica della intelligenza, del valore, del carattere degl'italiani cui egli si è abbandonato nei Saggi (una specie di «Primato» in bocca a un socialista!) dichiarando di derivarne la certezza d'una soluzione integralmente rivoluzionaria della crisi italiana, corrisponda assai poco alle sue convinzioni profonde; e forse non sia che un accorgimento politico abilmente usato da chi, inclinando a pessimismo, voglia ciò non pertanto incitare i suoi connazionali all'osare. Poiché accade talvolta che i poltroni impenitenti si scuotano piuttosto a immeritate lodi che a giusti rimproveri.174






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131 Cosenz era assai stimolato da Mazzini che, in una lettera alla Hawkes, 2 dic. 1850, lo aveva definito «un repubblicano perfetto ed alieno da quello spirito intrigante ed ambizioso di quasi tutti i militari».



132 Sulla inopportunità che il movimento rivoluzionario repubblicano avesse ad esser diretto da fuorusciti scrisse ripetutamente anche il Medici (CADOLINI, Memorie, 240). ORSINI piú tardi ripeté nelle sue Memorie le stesse osservazioni (p. 135-136 dell'ed. Franchi). Cfr. anche Mordini (ROSI, 117).



133 Nei Ricordi su P., Mazzini, dimenticando questi dissensi, attribuirà a P. pensieri e vedute non suoi; e per es. affermerà che P. «ripeteva spesso... con me che, o le nostre moltitudini non erano preparate alla lotta suprema, e bisognava educarle con forti fatti, o lo erano, e bisognava guidarle. A questo dilemma non abbiamo mai, né egli né io, trovato risposta chiara da quei che dissentono». Dove Mazzini scordava che proprio su questo punto, per piú anni, P. aveva seguitato a dargli una risposta chiarissima.



134 L'ORSINI nelle sue Memorie, cit., 121, scrive che i mazziniani di Londra chiamavan partito militare gli ufficiali repubblicani di Genova; «ossia quel partito, che sino a che non abbia centomila soldati organizzati e disciplinati, non vede speranza di riuscita nella rivoluzione».

Le lettere di Mazzini cit. nel testo sono, nell'ordine: a Mordini, 3 sett. 1853; a N. Ferrari, 9 gennaio 1854; alla Hawkes, 31 luglio 1854; a Fabrizi, 4 ott. 1854; e poi ancora a Mordini, lettera cit.; a Medici, 16 luglio 1853. Si veda anche la lettera a Fabrizi 14 dic. 1853, contenente la supplica, tutta mazziniana: «ricospira per un mese...»



135 Sulle trame di P. per promuovere un movimento nelle Due Sicilie nel '52, cfr. ROSI, Mazzini e le critiche, ecc., cit., 976. P. scriveva in proposito al Mordini in Nizza il 3 di luglio, chiedendogli l'indirizzo di tre ufficiali napoletani suoi conoscenti (Balzani, Bosco e Sanzio) nonché l'assicurazione che eventuali lettere a loro dirette «saranno consegnate nelle loro proprie mani». Il Ministro degli Esteri napoletano (che stipendiava un nugolo di spie in Piemonte e in Genova particolarmente) sapeva benissimo che il piano di insurrezione nelle Due Sicilie era stato tracciato da «due ufficiali napoletani disertori: Luigi Mezzacapo e C. P.» (GAVOTTI, 56). Altre notizie sullo spionaggio napoletano fra gli emigrati a Genova nel cit. art. di POGGI.



136 Di netta condanna fu il giudizio di P. sugli avvenimenti del 6 febbraio: «Tristi avvenimenti» egli li definiva nei Saggi, I, 102. I rapporti con Mazzini peggiorarono decisamente dopo di allora, mentre pochi giorni innanzi (il 25 gennaio) Mazzini invitava ancora il suo Cironi, che si trovava a Genova, a valersi del «consiglio d'un militare di fiducia, che può essere P.» per le istruzioni insurrezionistiche da spedirsi in Toscana. Nel '54, invece, Mazzini non fece che lamentare l'atteggiamento dei militari di Genova, nei quali, scrivendo al Sirtori (6 aprile), riconosceva «dopo noi, l'unica potenza».



137 La lettera di P. sulla «fazione» mazziniana in PESCI, 46 (era diretta a C. Mezzacapo).

Esagerato senso d'indipendenza di P. o intransigenza effettiva di Mazzini? P., ancora nel '52, accennando al «Maestro», aveva scritto: ... «noi (italiani) siamo sempre cattolici e papisti, anzi gesuiti; la discussione, la critica sono per gli italiani bestemmia, i nostri apostoli gridano: silenzio ed obbedienza, come i capi d'una compagnia religiosa».



138 Anche P. era infastidito della predicazione religiosa di Mazzini. «Perché parlarne? perché sempre cadere nel mistico?», domandava a Dall'Ongaro. Nel III dei Saggi dedicò un ampio esame critico alle idee religiose di Mazzini. P., si sa, era un ateo perfetto.



139 Altrove Mazzini fu piú esplicito (La situazione, 1857, in Scritti, ed. Daelli, vol. IX, 290-291): «Voi sapete che su questioni sociali, ed altre, correva dissenso tra P. e me; ma quando pensavamo d'Italia,... l'anime nostre s'immedesimavano in un solo palpito d'opere concordi e d'azione».



140 Le idee sociali di Mazzini eran già perfettamente e definitivamente chiarite nel 1840. Fino da allora egli propugnava per l'Italia una rivoluzione che fosse insieme politica e sociale, affermando che dai moti puramente politici il popolo faceva bene a tenersi lontano, perché non ne ricavava se non delusioni. – Già il 21 novembre 1855, scrivendo a Remorino dell'Italia e Popolo, Mazzini gli raccomandava di non accomunar mai, negli elogi, repubblicani e socialisti sistematici; e precisava: «noi... apparteniamo al socialismo tendenza,... mentr'essi vogliono impiantare e organizzare l'associazione per decreto, noi la vogliamo aiutar volontaria».



141 Tra gli scritti antisocialisti di Mazzini di questo periodo si veda anche il Discorso agli amici d'Italia, febbraio '52.



142 Scriveva Macchi a Cattaneo, 13 maggio '52: «Anche ai piú fervidi apostoli di Mazzini spiacquero oltremodo le superbe accuse da lui mosse ultimamente ai socialisti francesi». — Mordini scriveva da Nizza, nell'aprile, che da quegli attacchi si sentivan colpiti anche i democratici italiani per la maggioranza dei quali «rivoluzione e socialismo erano diventati una sola identica cosa» (ROSI).

La prima risposta pubblica a Mazzini fu quella del Consiglio democratico francese-spagnuolo-italiano, rivendicante la nobiltà del socialismo federalista. Tra i redattori della risposta figura il Montanelli; notevole che essa venisse elogiata dal giornale Il Progresso, di Torino (S.E.I. di MAZZINI, XLVI, p. XCVII sg.). La risposta di Blanc, Cabet ecc. ai Doveri della democrazia può leggersi in (S.E.I., XLVI, p. XLVIII sg.).

HERZEN, nelle sue Memorie (III, 112) scrive che Mazzini il quale «era stato socialista nei giorni precedenti al socialismo, divenne il suo nemico non appena questo da generica tendenza si tramutò in una nuova forza rivoluzionaria», perché non gli sapeva perdonare di essere stato formulato fuori del suo Circolo e della sua influenza!

Bertani, nel '53, pensava di costituire un nuovo partito repubblicano assolutamente indispensabile da Mazzini! (S.E.I., XLIX, 259).



143 Il passo di Mazzini su P. in lettera a Fabrizi, 4 ottobre 1854.



144 Sull'attività antimazziniana di Ferrari, v. MONTI, Un dramma, 102, 121. — Contro gli eccessi antimazziniani di Ferrari nobilmente protestava il Macchi (a Cattaneo, 27 maggio 1852).



145 Le osservazioni di P. sul libro di Ferrari in un'appendice della Guerra comb. Su questo punto P. non faceva del resto che ricalcare le orme di Mazzini, che al Ferrari aveva eloquentemente rimproverato piú volte tal concezione.



146 Il 24 gennaio '51 — sull'album di Pateras, cit. — P. scriveva: «La nostra cara patria spezzerà le sue catene quando al culto dell'individuo succederà il culto delle idee. Quando ogni Cesare troverà il suo Bruto».



147 Sull'Accademia di filosofia cfr. COLLETTI, 173; MAZZIOTTI, 318.

Gran camminatore, P. amava anche le passeggiate in aperta campagna. A Dall'Ongaro, 30 ott. '51, scriveva ad es. di essersi «esercitato a girare tutte le posizioni ove Massena diede tanti combattimenti».



148 Sul Franchi e la sua Filosofia, COLLETTI, 104.



149 Sulle associazioni fra emigrati politici in Piemonte in questo periodo cfr. l'articolo del POGGI, l'op. cit. di LOERO, e inoltre MAZZINI, S.E.I., XLII, 210, 237. — È LOERO, 35, che afferma non aver potuto P. appartenere alla Solidarietà per ragioni economiche. — Sulla Solidarietà v. ROMANO-CATANIA, 99; MAZZIOTTI, 321.



150 Herzen venne espulso da Nizza nel giugno del '51.



151 La precisa data di nascita di Silvia è incerta, per quanto generalmente attribuita ai primi del '53. La MARIO (Bertani, I, 245), parla invece del 9 novembre 1852.



152 Sulla cattedra di Lugano v. Cattaneo a P., 4 agosto '52 (NERI, Una lettera di C. a P., in Il Ris. ital., 1909, 306-307). Si trattava della cattedra di matematica e meccanica; ma i concorrenti eran numerosissimi.



153 Il carteggio fra P. e Bertani relativo alla malattia di Silvia in MARIO, Bertani, I, 200.



154 Fu probabilmente in questo periodo che P. ebbe a raccomandarsi a Carlo Mezzacapo perché procurasse la liberazione dell'amico Vincenzo Carbonelli, arrestato quale sospetto agente mazziniano. (PESCI, 50). — L'America e del sud e del nord s'aveva un po' in conto di penitenziario dalle potenze europee in quel tempo! L'Austria, il Borbone e il Papa, per non dir d'altri, vi spedivano, o promettevano di farlo, i loro troppo numerosi ergastolani politici; il Piemonte gli emigrati piú incomodi!



155 Scriveva il ROSELLI, 133: «l'accusa poi datami a torto, di falli seguiti per la mia debolezza, poteva forse giovare ad ogni altro, ma giammai al mio capo di Stato maggiore; perché accusando me di debolezza, veniva insieme ad accusar se stesso di errore; onde per trarre qualche opinione piú favorevole a sé dal pubblico, miglior consiglio sarebbe stato piuttosto dirmi invece uomo ostinato e caparbio, e che non aderii ai suoi salutari avvisi...» Con particolare cura ribatteva poi il R. l'accusa pisacaniana d'aver egli inopportunamente affidato il comando della sortita del 10 di giugno 1849 a Garibaldi e d'aver rifiutato la proposta (fatta da P. il 3 di luglio) di chiudersi con le truppe nella città Leonina per sostenere un secondo assedio.



156 Nella sua risposta al Roselli, cit., P. affermava che la Guerra comb., in complesso, aveva giovato anziché nuocere al generale. «Stimando il generale, credendolo amantissimo di libertà, tollerante perciò dell'altrui opinione, amante di critica, era sicuro che avesse con piacere visto il mio lavoro; e tant'era profonda la mia convinzione a questo proposito che m'affrettai ad inviargli un esemplare della mia opera. Ma... il generale è offeso ch'io l'abbia detto debole, e la sua debolezza causa d'errori. Sperava egli forse da me la sua apologia?» E concludeva: «Lasciamo agli animi servili lo stizzirsi, come donnicciuole, ad una semplice osservazione, ed accettiamo con animo pacato la discussione. Grandeggiano, è vero, nei brevi rivolgimenti, uomini non degni, altri onestissimi vengono calunniati; ma il tempo fa giustizia di tutti... Consoliamoci ad ogni critico che sorge; le pleiadi di questi scrittori precedono sempre il risorgimento delle nazioni. Né potrà mai un popolo conquistare la libertà, se prima non conosca gli errori che lo condussero alla disfatta».



157 Dell'articolo cit. del TRUSIANI non merita conto dire gran che: era una smaccata apologia di Roselli e un'acidissima stroncatura di P., ricolma di insinuazioni e mezze calunnie, espresse, per prudenza, in forma dubitativa. A proposito degli avvenimenti romani della notte fra il 2 e il 3 di luglio, ad es., scriveva il T.: «Sarebbe lecito credere quello che asserivano alcuni, cioè che il colonnello in quella notte se ne fosse ito a dormire a casa? Noi, rispettando il patriottismo di lui, nol crediamo; tuttavia potrebbe egli querelarsi di noi se lo credessimo?» Altrove il T. affermava che era stato destino del Roselli di venir sempre calunniato da parte di «uffizialetti imbecilli e soldati codardi». Pisacane, nella polemica, si dimostrò invece invariabilmente misurato e corretto.



158 Sulla polemica Roselli-Garibaldi si conservano numerosi documenti nell'Archivio garibaldino del Museo del Risorgimento in Milano, cart. 814; tra gli altri una lettera di Roselli al Vecchi, 23 settembre 1854, e una Narrazione intorno ad un invito di sfida ecc. di mano dello stesso Roselli.



159 Sul colèra del '54 cfr. CADOLINI, Memorie, 210. A Genova, su 5.000 casi circa, si verificarono 2.600 decessi! In quell'anno appunto, infuriando il colèra, accadde che a Genova, nell'albergo della Vittoria, il Vecchi e sua moglie invitassero a cena una sera Pisacane e la sua compagna con alcuni altri amici fra i quali il gen. Masi e il magg. Fontana. Una subitanea indisposizione della Signora Vecchi obbligò per altro i convitati ad andarsene; la povera Signora morí poche ore piú tardi, vittima di un fulmineo attacco di colèra. Il figlio del Vecchi, l'illustre scrittore JACK LA BOLINA, decano dei letterati italiani — allora un fanciulloricorda benissimo la triste scena, che ha narrato in Al servizio del mare italiano, 41. La figura di P.biondo, stempiato, occhi celesti, tipo tutt'altro che napoletano — gli è rimasta tenacemente impressa nella memoria.



160 L'incitamento di Cattaneo a P. perché partecipasse alla guerra venne rievocato da Cattaneo stesso in una lettera a Bertani, 24 febbraio 1859, nella quale concludeva che «forse in suo cuore (P.) avrà sprezzato il mio consiglio, perché troppo fuori della linea retta...»



161 Esempio tipico della incomprensione dei democratici per le conseguenze dirette e indirette dell'intervento sardo in Crimea le sdegnose parole del Macchi nel suo vol. La Pace (Genova, 1856, 42): «E per poca cosa (qualche memoria presentata ai ministri alleati e qualche lor buona parola al Piemonte) la stampa d'Europa si commosse in modo, che molti furono indotti a credere il Piemonte disposto a rompere quando che sia le ostilità contro l'Austria con una terza ripresa... I nostri figli avranno a durare non lieve fatica per convincersi che ai nostri giorni si trovava ancora tale e tanta dabbenaggine nei politicanti di questo vecchio continente». Medici scriveva a Fabrizi, 18 dic. 1855 che «Quanto alla guerra d'Oriente il meglio per noi è che vincano oggi i russi, domani gli alleati, e cosí via finché non ne rimanga uno...»



162 Il 15 nov. '54, Mazzini esultante informava Fabrizi di aver ricevuto «un bigliettino da Cosenz, che dichiara l'opportunità per fare venuta, e dice essersi scritto in questo senso dai suoi amici».

Sulla fine del '54 la febbre di agire per via insurrezionale s'impadronisce di tutti i patrioti, epidemicamente. Garibaldi scriveva al Vecchi, il 6 dicembre (lettera in mio possesso): «Andiamo! Mettete d'accordo, tutta sta Italiana famiglia — a qualunque costo — e veder se facciamo una menata di mani, anche noi, passato il Verno; oggi o domani non serviremo piú che a magramente ingrassarla questa terra». E Sirtori a Mazzini: «... Siamo d'accordo che è urgente di preparare le armi ecc. — Siamo d'accordo che s'ha da prevenire la guerra regia e imperiale coll'insurrezione nazionale... Riservando la mia azione politica, obbligo la mia azione militare a chiunque faccia, purché non sia una follia». (SAFFI, Cenni ecc. a proemio del vol. IX degli Scritti di Mazzini ed. Daelli, 120-121). Anche il colonnello Pasi si riavvicinò in questo periodo a Mazzini.



163 È una lettera di N. Ferrari a Cironi che attesta esser di P. l'articolo Viva il trattato (MAZZINI, S.E.I., LIV, 52). — Mazzini alla Hawkes, 28 febbraio '55: «Sono lieto che P. e Cosenz scrivano...»



164 Secondo D'AYALA, VENOSTA e gli anonimi autori dei Cenni premessi ai Saggi si trattava della ferrovia da Mondoví a Ceva («Ed ancora i Monregalesi conservano di lui dolce memoria» — Cenni). Secondo Macchi, del tronco da Bra a Mondoví. Falco ha fatto in proposito infruttuose indagini.



165 Dal Disegno dell'opera: «Questi miei studi, che per quasi cinque anni mi hanno rimosso dall'ozio». Nel Testamento politico, invece, P. afferma che i Saggi son «frutto di circa sei anni di studio».



166 P. si adoperò in ogni modo per trovare un editore ai Saggi, ma invano: evidentemente l'esperienza della Guerra combattuta non era fatta per incoraggiare... PESCI, 50, menziona sue lettere a Mezzacapo per sollecitarne la pubblicazione nelle appendici del giornale Il Diritto. Si vedrà in appresso come l'Italia e Popolo ne pubblicasse alcuni estratti, di argomento militare.



167 Gli amici che si occuparono della pubblicazione dei Saggi furon Cosenz, Carrano, e Mezzacapo. I due primi voll. vennero stampati a Genova; indi la pubblicazione venne interrotta per venir ripresa solo nel 1860, a Milano, a cura dell'avv. Enrico Rosmini «amicissimo del martire e della famiglia», secondo c'informa il VENOSTA, C. P. e G. Nicotera. (cfr. anche MAZZINI, S.E.I., LX, 137, n.).

Alberto Tucci — uno dei primi seguaci napoletani di Bakuninnarrò al Nettlau che Nicotera avrebbe «soppresso certi manoscritti socialisti di P.» (NETTLAU, Bakunin e l'Internazionale in Italia. Ginevra, 1928, 56-57). La cosa non sembra molto probabile: ché Nicotera non uscí di galera se non nel 1860, quando già il socialismo di P. era stato consacrato dalla pubblicazione integrale dei Saggi. Piú probabile invece che eventuali mss. inediti di P., posseduti da Silvia, venissero distrutti dalla sorella di Nicotera, dopo la morte del fratello e di Silvia; s'è già detto infatti come costei, mossa da scrupoli religiosi, desse alle fiamme l'epistolario d'amore Carlo-Enrichetta. Alla pretesa distruzione di opere di P. accenna anche G. PISELLI ne La Rivendicazione, di Forlí, 12 luglio 1890, prendendone lo spunto per un parallelo abbastanza ardito fra P. e Dante! Quel che par certo si è che dei 4 voll. dei Saggi non circolarono che ben poche copie; le altre, si dice, finirono al macero in obbedienza agli scrupoli di timide coscienze antisocialiste (La Rivendicazione, 27 agosto 1887). Corse anche, avvalorata da Mazzini, la voce che gli editori dei Saggi si fossero permessi di sopprimere, nel ms., notevoli passaggi giudicati troppo audaci. Ma Mario Menghini, che ha in mano il ms. originale con tutte le correzioni e le soppressioni introdotte dagli editori, mi assicura che queste non riguardano che mende stilistiche o ripetizioni di nessun conto.

Il II Saggio, che è tutto di storia militare, si apre con una pungente stroncatura del pacifismo. Non che P. rifiuti di credere a un avvenire in cui la guerra verrà considerata un'assurda pazzia, ma a lui par certo che la conquista della pace definitiva non potrà esser portata che da una gran guerra, lunga e terribile. D'altronde, egli osserva, la guerra è forse ancora necessaria per rendere il mondo piú giusto. «Finché in Europa la decima parte degli abitanti vive... nell'opulenza, mentre nove decimi vivono producendo nella miseria, parlare di pace perpetua... è inutile ipocrisia».

CROCE, nella sua fondamentale Storia della Storiografia, II, ii, non riserva ai Saggi di P. che una semplice menzione. Io non son portato davvero a esagerare i meriti di P. storiografo, ma non posso non augurarmi che il C., successivamente, voglia dedicare al P. un esame piú approfondito.



168 L'idea della nazione armata trovò allora, oltre P., parecchi calorosi sostenitori. Tra gli altri il gen. ALLEMANDI (Il soldato cittadino, 1850; e Del sistema militare svizzero applicabile al popolo italiano, 1850) e il D'AYALA (Degli eserciti nazionali, 1850). — Sul valore di P. quale storico e teorico militare si veda quel che dice un competente, il VAIRO, art. cit. Secondo il quale P. fu «un avvenirista ardito e dotto, e tale da porlo all'avanguardia di tutti i moderni sostenitori delle milizie cittadine». Il Saggio IV «come concezione, indirizzo e metodo, appare assai piú fresco di tanti scritti dovuti ad autori a noi contemporanei». «Il giorno in cui vorremo dare alle nostre istituzioni militari forma e sapore nazionale, forse potremo trarre qualche cosa di assai utile da questo libro».



169 Da buon socialista, P. non ha che parole di sdegno e di irrisione per il liberismo dottrina economica, e il liberalismo dottrina politica.

La libertà fu comunque la vera e unica religione di P.; intorno ad essa, il suo concetto, i suoi limiti, la sua conquista ecc. egli scrisse pagine davvero non periture: quelle pagine appunto che conferiscono ancora oggi alla sua opera tanta freschezza e tanta attualità. «Rinunziare alla propria libertà per accrescere quella della patria, è lo stesso che mutilarla, per renderla intera; è un assurdo», scrive nel III Saggio, 155. E altrove (I, 35): «Non è già nel modo di concedere il suffragio e nella universalità di esso che consiste la libertà; ma bensí nelle istituzioni volte a limitare l'autorità». E ancora: «Agli Italiani è mestieri di educarsi a libertà... la libertà non può apprendersi... Per educarsi a libertà bisogna vivere, per quanto possiamo, liberamente; in tal guisa ognuno, educando se medesimo, educa tutti, e tutti compiono l'educazione di ognuno» (III, 155). E finalmente (III, 140): «Non parliamo di coloro che sotto il despotismo pretendono che il popolo si educhi a libertà per poi esserne degno; tanto vale dire ad un uomo legato: prima di scioglierti è d'uopo che impari a correre».

«Il secolo XIX — scrive P. (III, 101) — sarà famoso nei fasti dell'umanità... perché in tal epoca il socialismo, d'aspirazione fattosi sentimento, ebbe partito, ed avrà attuazione».



170 Pur negando la necessità teorica e pratica di un governo centrale, P. ammetteva che nella società riformata socialisticamente si sarebbe dovuto organizzare una specie di consiglio nazionale, revocabile e sindacabile, cui devolvere la trattazione degli affari comuni.

Il socialismo autoritario di P., si è detto, è in piena contraddizione col di lui innato, prepotente individualismo libertario. Si veda ad es. con quanta foga P. si scagli contro l'opinione volgare secondo cui sarebbe da ritenersi disgrazia che «l'energia arricchisca l'Italia di tanti diversi concetti per quanti uomini pensanti essa conta» (III, 116).



171 «Sono umanitarioscrive P. (III, 186) —; ma innanzi tutto italiano, e come in una nazione non può costituirsi il nuovo patto fra i cittadini, se ognuno di essi non acquisti piena ed intera la sua individualità, cosí non vi sarà fratellanza, o meglio associazione di popoli, se prima ogni popolo non ottenga la sua completa autonomia; e come è impossibile sorgere a libertà prima che ognuno senta ed operi liberamente, del pari il primo passo che dobbiamo fare noi Italiani... è quello di sentirci e di costituirci esclusivamente Italiani».

Scriveva molti anni or sono PAOLO ORANO (I patriarchi, cit., 136): «Importa poco a noi... che le sgrammaticature socialiste di P. non abbiano trovato il loro posto... nei manuali ufficiali del bel regno. Dinanzi al socialismo contemporaneo, dinanzi a noi, per quelle sgrammaticature — e non per il tragico gesto di Sapri — il buon senso italiano è salvo e P. non muore».



172 Il mio esame dei Saggi essendo forzatamente sommario, non tutto quel che converrebbe in essi sottolineare ho potuto mettere nel debito rilievo. Assai importanti sono, per citare un es., certi passi nei quali P. si dichiara in favore del federalismo piú avanzato (I, 101).

P. socialista ebbe ben poca influenza sul successivo sviluppo del movimento in Italia, se non altro perché i suoi scritti restaron sconosciuti, o quasi, per piú e piú anni dopo la sua morte. Ma si deve ciò non per tanto rilevare che Fanelli, suo principale collaboratore nella impresa di Sapri, si dimostrò poi socialista convinto e attivissimo, ed è lecito supporre che fosse il P. o a convertirlo o a radicarlo in quella sua fede. Bakunin, giunto in Italia nel 1864 con le idee non ancora ben ferme in merito alla questione sociale, attinse, pare, assai largamente dalle opere di P. segnalategli appunto dal Fanelli (DOMANICO, op. cit., XXIV). Le analogie fra il pensiero del rivoluzionario russo e quello del suo predecessore napoletano son certo assai cospicue.

Anche Carlo Cafiero, il notissimo agitatore pugliese, studiò profondamente i Saggi pisacaniani «Eureka! ho trovato gli scritti di Pisacane», avrebbe egli esclamato quando, ultimato il suo compendio del Capitale di MARX, poté constatare che alcune delle idee di Marx eran state anticipate dal dimenticato martire di Sapri (FABBRI, op. cit., 14); tanto che se la pazzia non l'avesse colto, ci viene assicurato che C. avrebbe dedicato uno studio completo alle «idee rivoluzionarie, razionaliste, socialiste e libertarie di C. P.».



173 Critico severo del révirement pisacaniano, seppur sempre amico devoto, si mostrò il Macchi, ad es. (op. cit., 34-39). Quanto ai moventi della determinazione di P. di capitanare l'audacissima impresa, il M. misteriosamente insinuava: «Tempo non è ancora di rimuovere dinanzi al Pubblico il velo dell'infausto mistero».



174 Assai pessimista sulle conseguenze sociali e politiche della propaganda cattolica, P. — è chiarorimprovera nei suoi Saggi agli italiani d'essersene lasciati «rammollire» e fiaccare, troppo proni a codesto ideale di rinunzia e di rassegnazione. Tanto che in un passo quasi nascosto del IV Saggio egli si lascia sfuggire la disperata definizione degli italiani: «un popolo avvezzo a servitú, che tende sempre a crearsi nuovi padroni» (153).

 

Capitolo IX





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