Per taluni suoi avversari politici
Mazzini era, si sa, una specie d'Iddio onnipossente e maligno che,
ingelositosi delle fortune italiane, si fosse fitto in capo, per mala
sorte nostra, di contrastarle e spegnerle con ogni sua forza e
dovunque. Disfattista a Milano nel '48, pericoloso estremista a Roma
nel '49, e poi carnefice della migliore gioventú, complice de'
governi tirannici con quel suo continuo offrir loro nuovi motivi di
repressioni violente, diffamator del Piemonte «palladio delle
libertà italiane», vergogna dell'Italia all'estero.
Tutte le colpe eran sue.
Vollero adesso costoro che il
murattismo, del quale egli andava parlando come d'un grave imminente
pericolo, non fosse che una bolla di sapone da lui sapientemente
gonfiata per giustificare il suo intervento nelle cose di Napoli e
per riattirare al suo giuoco molti emigrati meridionali che da un
pezzo ne avevano abbastanza di lui.175 Chi mai, da Mazzini in
fuori, prendeva sul serio in Italia la fola Murat?
L'odio di parte annebbiava loro la
vista: fola, sí, ridevole per giunta, era stato il murattismo
fin quando Napoleone non s'era fatto padrone di Francia; da allora in
poi, stabilitosi il pretendente ufficioso (Luciano) a Torino qual
Ministro francese e poi salito ai sommi gradi massonici, s'era mutato
in un pericolo vero.176 Luciano infatti si era subito messo
attivamente al lavoro, stabilendo contatti sempre piú numerosi
nell'ambiente degli emigrati napoletani, sfruttando abilmente il
rimpianto che i piú vecchi tra loro nutrivano per re
Gioacchino: impareggiabile nell'arte di dire e non dire, attento a
non compromettersi troppo, Luciano era insinuante nelle lusinghe,
largo nelle promesse, regale addirittura nell'assumere impegni
politici; il suo regime, se mai si fondasse, sarebbe schiettamente
costituzionale, egli si porrebbe deciso alleato del Piemonte nella
crociata antiaustriaca, godrebbe l'amicizia, non mai la tutela di
Francia. Lui re, insomma, l'Italia sperimenterebbe finalmente
l'indipendenza, la prosperità e, chi sa, la grandezza!
Tale propaganda, autorizzata a Parigi
e, per amore o per forza, tollerata a Torino, aveva gradatamente
attecchito. Nel '50 e nell'anno seguente si era ancora ai «si
dice»; nel '52 avea già portato a misteriosissimi viaggi
di Guglielmo Pepe in persona a Nizza e a Genova, seguiti da
abboccamenti con Mezzacapo, Musolino, Carrano, Boldoni, Cosenz,
verosimilmente con Pisacane medesimo.177 Conversioni? Se ne
sapeva poco (solo piú tardi si venne a sapere di Mezzacapo),
ma Pepe era pure un gran nome e una gran garanzia, e se inclinava a
murattismo lui... Dal '52 al '55 la situazione francese si era andata
stabilizzando, quella napoletana aggravando: le azioni di Murat
automaticamente salivano. Ma fu proprio nel corso del '55 che fecero
un balzo in avanti: opuscoli-manifesti lanciati con chiasso a Torino
e a Parigi, dichiarazioni di Murat alla stampa, quotidiani passati al
suo servizio, un Saliceti, ex triumviro a Roma, stipendiato da lui,
Montanelli sostenitore aperto, voci abilmente messe in giro sul
filomurattismo di Cavour.178 Nei circoli diplomatici, che
ormai consideravano la situazione napoletana con assoluta «fluidità»
di vedute e assenza totale di solidarietà dinastica, molti
dicevano forte che una restaurazione Murat rappresentava il piú
pratico rimedio possibile. Se alcuno obiettava non doversi i mali
italiani curare con medicine di fuori, gli agenti del murattismo
replicavan vantando l'italianità dei Murat e sbandierando
l'antico proclama di Rimini. Il pericolo c'era!
Il 20 luglio '55 anche Pisacane, in
una vigorosissima lettera stampata sull'Italia e Popolo, lo
denunciò, ponendo in rilievo con mordente irrefragabile
argomentazione la bassezza, l'inutilità ai fini della
liberazione d'Italia, e soprattutto l'assoluta inattualità dei
disegni murattisti. Rincarò la dose il 22 settembre, sulla
stessa Italia e Popolo: era tempo di finirla con le poetiche
reminiscenze del re fucilato; chi era stato costui, in Italia, se non
un «seide» di Napoleone, un violatore d'istituti di
tradizioni d'aspirazioni italiane? Quale la sua gloria, in cosa mai
la prosperità del suo regno, che solo la gran distanza di
tempo indorava? Il giudizio della storia non era dubbio: la
dominazione francese a Napoli si era risolta in un vergognoso
disastro. E si sarebbe dovuto lottare e soffrire, e si sarebbe dovuto
esporre il paese ai rischi d'uno sconvolgimento per ripiombare,
volontariamente, nelle condizioni di allora?
Quattro giorni appresso, un reciso
comunicato alla stampa sarda: gli emigrati delle Due Sicilie
dichiarano «che siccome avversano l'attuale governo
(borbonico)... perché incompatibile con la nazionalità
italiana, per la ragione istessa avversano qualsiasi forma di governo
che potesse costituirsi col figlio di Gioacchino Murat, e tanto
maggiormente che in tal caso quel regno diverrebbe indirettamente una
provincia francese». Trenta firme: tra l'altre, quelle di
Pisacane, Cosenz, Boldoni, Pilo. Non molte, invero, nella gran massa
di emigrati meridionali! Murattista, dunque, la
maggioranza?179 Tutt'altro; ma diffidente de' mazziniani e
dei loro metodi e non disposta a mostrarsi in combutta con loro, sí
certo. La qual discordia fra i liberali napoletani giovava
immensamente, s'intende, anzi tutto ai borbonici, poi anche alla
frazione Murat.
Prima misura di guerra antiborbonica e
antimurattista era dunque, pei mazziniani, il procurare,
sottolineando la gravità del pericolo e temperando il proprio
programma, la formazione d'una provvisoria alleanza, d'un fronte
unico tra le varie correnti dell'emigrazione che non fossero passate
a Murat. Nell'autunno '55 non ebbero altro pensiero. Il blocco
riuscí, come sempre riescono quando a proporli si fa la
frazione estrema, la piú intransigente; in questo caso, poi,
si dimostraron negoziatori preziosi quei «militari di Genova»
che potevan ben dire: fummo anche noi contro Mazzini, ora ci uniamo a
lui perché agire bisogna; Mazzini comunque è in mano
nostra, niente farà senza che noi vogliamo. Nacque cosí
tra il cadere del '55 e i primi del '56, con sede a Torino, un Centro
politico avente per scopo dichiarato quello di controllare
unificare e finanziare eventuali iniziative (oltreché proporne
d'originali) volte ad agitare dinanzi all'opinione europea la
questione napoletana e a sollecitarne una soluzione impostata sulla
detronizzazione borbonica e sul veto a Murat.180
Membri del Centro gli emigrati delle Due Sicilie, senza distinzione
di confessione politica; componenti il Comitato d'agitazione
quattro o cinque costituzionali piemontesizzati tipo Scialoia e
Massari, quattro o cinque rivoluzionari repubblicani tipo Pisacane e
Cosenz.
Nei primi mesi tutto andò a
meraviglia: un diluviare di lettere da e per Napoli, da e per la
Sicilia, da e per Parigi e Londra; molte adunanze; intensa campagna
finanziaria; viaggi d'intesa in Italia e fuori d'Italia (Musolino, ad
esempio, fu a Londra «per delegazione dei nostri di Piemonte ed
in ispecie di Pisacane»).181 In che consisteva la
propaganda che si faceva? Ce lo dice una lettera, ch'io riassumo, di
Pisacane a Plutino, 30 dicembre '55, intesa a cavargli quattrini:
passato è il tempo delle discussioni teoriche, egli
argomentava; in sede teorica né i piemontesisti posson
convincer me che Vittorio Emanuele sia la fortuna d'Italia, né
io convincer loro che lo sia la repubblica. Piemontesisti e
repubblicani presumiamo tutti che i «fatti» ci daranno un
bel giorno ragione. È dunque nell'interesse di entrambe le
parti di promuovere «fatti» e rimetterci, pel bene del
paese, alla risposta dei fatti. Se il Piemonte ha davvero, come dice,
intenzione di agire per la causa italiana, essi gliene offriranno
l'occasione; se i repubblicani interpretano davvero la volontà
dei piú solo i fatti lo mostreranno. C'è poi il
pericolo murattista: pazienza quei che ne ridono e non voglion perciò
dar mano libera ai rivoluzionari, ma vi son altri che pur ritenendolo
grave vi si rassegnano supinamente perché supposto conforme
agl'incontrastabili interessi francesi. «Se otto milioni
d'italiani debbono sottostare necessariamente al governo che gli
potrà essere imposto da 20 a 30 mila francesi, allora con sí
poca coscienza delle nostre forze, ogni ulteriore ragionamento è
inutile, lasciamo ai nostri padroni di casa la cura di migliorare le
nostre condizioni ed ognuno pensi a sé».
Murattismo a parte, si vede chiaro
come il Centro si fondasse assai piú sull'equivoco che
su un'intesa leale. Era facile infatti stendere un programma magari
anche insurrezionale, con impegno reciproco di assoluta astensione da
ogni propaganda di partito; ma nel fatto, come eseguirlo? Come
evitare che ognuna delle parti contraenti si limitasse a proporre
quelle sole iniziative che giudicasse convenienti al raggiungimento
dei propri fini e si opponesse ad ogni altra? Come annullare
gl'inevitabili sospetti reciproci di contribuire senza saperlo alla
vittoria dell'alleato d'oggi, sicuro avversario di domani? Sarà
vero o non vero (e a me non pare credibile) quel che scrisse il La
Farina che la costituzione del Comitato «era stata una
finta per allontanare la sorveglianza di Napoli da quelli che
realmente operarono» — e intendeva gli emissari del
governo piemontese —;182 certo è comunque che
quanti avvertivan davvero l'imperativo categorico di affrettare una
soluzione definitiva del problema napoletano, non stentarono a
rendersi conto qual sorta di cappa di piombo si fossero messi
addosso, assumendo l'impegno assoluto di neutralità di
bandiera; un Pisacane, che dichiarava di preferire l'assolutismo
borbonico al costituzionalismo piemontese non poteva continuare a
lungo a lavorare a fianco d'uno Scialoia, ad esempio, il quale dal
canto suo avrebbe preferito le mille volte di morire in esilio
piuttosto che veder la repubblica a Napoli!
Tramontata la breve luna di miele,
nuovamente pensosa ogni parte della propria responsabilità, il
primo scoglio che il Centro incontrò sulla sua rotta
bastò quindi a sfasciarne il fragilissimo scafo.183 Lo
scoglio fu la proposta formale avanzata dai repubblicani in seno al
Comitato d'una spedizione armata nel Sud, che ponendo gli
oppositori napoletani dinanzi al fatto compiuto e offrendo loro cosí
la prova della fattiva solidarietà del resto d'Italia, li
forzasse a tradurre finalmente in azione la fin qui inconcludente
querimonia verbale contro il regime borbonico.
Disperazione dei costituzionali, persuasi che si sarebbe in tal
modo irreparabilmente compromessa, precipitandola, una situazione,
come quella napoletana, promettentissima e tuttavia non ancora del
tutto matura; della quale immaturità, secondo essi, fornivano,
senza volerlo, la piú bella prova gli stessi repubblicani,
quando insistevano sulla inderogabile necessità preventiva
d'introdurre forze esterne nel regno, per farlo insorgere.
Ribattevano questi, chiedendo che mai, dunque, si dovesse fare per
Napoli. E giú i costituzionali a magnificare le campagne di
stampa in Piemonte e fuori, le pressioni sistematiche sulle
cancellerie europee, e nell'interno del regno non tanto insurrezioni,
buone a riempir le carceri, sibbene solenni, pacifiche dimostrazioni
popolari antiborboniche. Il guaio era che non si trovava mai
l'occasione per promuovere queste tranquille dimostrazioni. Era stata
sí lanciata una proposta Manin per indurre i napoletani a
rifiutar le imposte, ma si era finito col trovarla —
giustamente del resto — piú rivoluzionaria e piú
problematica di qualsivoglia spedizione armata.
Restò ciascuna delle parti,
come accade, della propria opinione: quei di sinistra anzi sempre piú
infervorati nel loro progetto e sospinti ad effettuarlo dalla
minaccia murattista; quei di destra sdegnati e deprecanti, a profetar
sciagure. Né valse che i primi promettessero di non dare alla
spedizione carattere repubblicano; gli altri ribattevano che il
progetto in sé era tutta una dichiarazion di
principii!184 Nel contrasto, s'è detto, il neonato
Centro politico chetamente cessò di vivere.
L'idea della spedizione era tutt'altro
che nuova (e del resto sorge sempre spontanea, irresistibile quasi,
tra i fuorusciti d'un paese tiranneggiato): si ricollegava a varie
proposte affacciate da Napoli, dalla Sicilia, da Londra; era un
tempo, quello, nel quale pareva anzi che i rivoluzionari italiani
avessero tutti la monomania delle imprese antiborboniche!
I rivoluzionari di Napoli avevano
costituito, sin dal '53, un Comitato insurrezionale repubblicano
delegato a dirigere il moto antiborbonico nelle provincie (dove si
erano fondate numerose sezioni) e a corrispondere con gli emigrati
repubblicani a Malta, a Genova, a Londra. Nicola Mignogna, Teodoro
Pateras, Giuseppe Fanelli, Luigi Dragone e qualche altro n'erano i
piú cospicui esponenti.185 In breve tempo il Comitato
era doventato il monopolista della propaganda rivoluzionaria nelle
regioni continentali del regno.
Sullo scorcio del '55, nonostante che
fosse stato arrestato, per venir poi bandito dal regno, il
Mignogna,186 factotum del Comitato, i suoi
colleghi erano giunti alla conclusione che la preparazione
rivoluzionaria del paese in genere, e l'efficienza del loro gruppo in
ispecie avessero raggiunto un punto cosí soddisfacente da
render consigliabile quel passaggio all'azione diretta, cui la
minaccia del murattismo, d'altronde, conferiva un carattere di
grandissima urgenza.
Preparazione rivoluzionaria, azione
diretta, cosa significavano queste solenni parole, senza dubbio
pronunciate e scritte in piena buona fede? Su quali dati poggiavano?
In qual misura esprimevano il pensiero di quel manipolo d'uomini che
sparsi nelle varie provincie rappresentavano lo strumento della
rivoluzione da farsi? Fino a qual punto tenevano conto del naturale
scarto che esiste sempre tra le intenzioni piú generose e la
loro attuazione? In base a quale criterio chi usava quelle parole
valutava le forze di resistenza del regime che si voleva rovesciare?
Tutto ciò era assai poco
chiaro, e v'eran ben poche idee concrete nella mente di Giuseppe
Fanelli (un giovanotto sui venticinque anni, che nel '48 e nel '49
aveva brillantemente assolto il dover suo battendosi in Lombardia e
alla difesa di Roma),187 quando, per incarico del Comitato,
egli comunicò ai dirigenti il movimento mazziniano
l'intenzione dei rivoluzionari napoletani di dar fuoco alle polveri,
e chiese loro appoggio di consigli e di mezzi. Il Comitato
voleva far qualcosa atto a «svegliare» il popolo, pensava
a una serie di grossi colpi terroristici e insurrezionali, che non
dessero tregua al governo e suscitassero sempre piú viva
l'impressione in Europa che alle falde del Vesuvio mugghiasse un
tremendo vulcano morale. Proposte generiche, tutte. Una sola
concreta: quella appunto d'una spedizione armata che avesse per scopo
di liberare un gruppo di prigionieri politici per poi sbarcarli,
armati, in un punto designato della costa napoletana, a iniziar la
rivoluzione.188
Un'idea molto simile, ma assai piú
limitata, l'aveva avuta Antonio Panizzi, esule a Londra, fin da
quando Settembrini e compagni eran stati rinchiusi nell'ergastolo
dell'isola di S. Stefano, in rivoltante promiscuità con
centinaia di condannati comuni (imperdonabile obbrobrio, a quei
tempi, per l'Europa civile!): farli fuggire.189 Il progetto,
piaciuto a moltissimi, italiani ed inglesi, pareva avviato sul
principio del '55 a sollecita esecuzione: avvisati e favorevoli gli
ergastolani, complici preziosi lo stesso ministro d'Inghilterra a
Napoli (William Temple190, fratello di Palmerston!) e il suo
collega a Torino; Garibaldi disposto a capitanare l'impresa, Bertani
impresario, danaro fin che se ne voleva. A Genova era il segreto di
Pulcinella.
Ma un primo tentativo d'esecuzione,
operato nell'autunno di quell'anno, fallí miseramente con un
naufragio nel mar d'Inghilterra. Ci si preparò per la
primavera seguente.
Fu all'indomani di quel disastro che
giunsero a Genova e a Londra le proposte di Napoli:191 era
troppo naturale che si pensasse a coordinare i due piani. Il popolo
meridionale è un popolo sentimentale: quando avesse saputo che
i prigionieri politici, fuggiti dal carcere, levavan la bandiera
della rivolta, li avrebbe appassionatamente seguiti. Cosí
pensò Pisacane, cosí pensarono molti altri mazziniani
con lui. Non li sfiorava neanche il dubbio che forse gli ergastolani
avrebbero preferito ricuperar la loro libertà per vivere
quieti in paese straniero anziché compromettere con essa la
vita in una sommossa violenta. Nacque in tal modo il progetto dai
mazziniani caldeggiato, senza fortuna, in seno al Centro politico.
La nave liberatrice, raccolti gli ergastolani a S. Stefano, avrebbe
dovuto far scalo a Ventotene (ché tra le due isolette, l'una
un cupolotto roccioso, sormontato da un solo immenso edificio,
l'ergastolo, l'altra piú grande e piatta e popolata, non corre
che un brevissimo tratto di mare) per imbarcarvi i relegati politici
— i confinati cioè192; quindi, a un trenta
miglia da Ventotene, a Ponza: altri relegati da liberare; e
finalmente, armatili tutti, gettarli su qualche remoto tratto della
costa donde, col concorso d'altre forze, iniziare la marcia
insurrezionale sulla capitale.
Il piano era elettrizzante: di quelli
che, quando una volta ti si sono affacciati alla mente, ti metton la
febbre in corpo e ti vietano il sonno la notte.
Squagliatisi i «codini»
del Centro, bisognava adesso conquistare all'idea della
spedizione il gruppo Panizzi-Garibaldi-Bertani; nonché... gli
ergastolani. Si tentò all'uopo il tentabile: Mazzini in
persona si portò a Genova segretissimamente, nel giugno '56,
per «lavorare» ad uno ad uno i seguaci di Garibaldi, per
rinsaldare i rapporti con gli ex dissidenti.193
Per quanti anni non aveva sognato di
ritornare a casa! Ma la casa era chiusa, la santa madre riposava a
Staglieno. Mazzini visse quegli affannosi mesi di Genova mutando
frequentemente d'alloggio (ospite per un tempo anche dei Pisacane),
uscendo di rado e solamente di notte: «uno scoiattolo in
gabbia».
Da principio pareva che l'accordo
fosse facile a stringere: «Li ho veduti tutti», scriveva
Mazzini il 12 luglio, «siamo di bel nuovo d'accordo... Pisacane
è quello che mi dimostra la piú calda amicizia e a cui
parve fare il maggior piacere vedermi». Sul piú bello
invece andò tutto per aria: Garibaldi, Bertani, Medici (antico
beniamino di Mazzini), significarono seccamente che il progetto
Panizzi o si eseguiva tal quale o non se ne sarebbe fatto di nulla.
Gelosia per Mazzini?194 Contrarietà degli ergastolani?
Pressioni torinesi? Le tre cose insieme, probabilmente; ma piú
di tutto, io credo, l'aver Mazzini lasciato fin d'allora intendere
che alla spedizione e alla conseguente insurrezione nel Sud sarebbe
stato opportuno associare una serie di moti da scatenarsi nel resto
d'Italia a sostegno di quella; segnatamente, una rivolta a
Genova.195 Formidabile errore. Mazzini, deluso, infuriava
nella sua corrispondenza contro Medici e Bertani, che riteneva
responsabili primi del rifiuto di Garibaldi: stigmatizzava la loro
«inerzia assoluta», la loro «ostinazione» da
presuntuosi. Ma in questo caso non ci si poteva domandare: di chi la
colpa? Accadeva anche a Mazzini talvolta di sostenere disegni
manifestamente assurdi o rovinosi; non gli accadeva mai, questo era
il guaio, di trovare chi, pari per genio a lui, capace di resistere
alla sua sfavillante eloquenza, riuscisse a persuaderlo del suo
errore. Tra quei che lo ascoltavano, i piú finivano sempre per
stringersi a lui in un impeto di fede e d'ammirazione commossa, che
magari non presupponeva ragionato convincimento; i meno, che non gli
cedevano, passavano per ostinati solo perché i motivi pur
fondatissimi della loro opposizione, nel contraddittorio, si
spezzavano contro l'invincibile superiorità dialettica
spiegata da lui. Il genio può esser pericoloso.
La mancata cooperazione di Garibaldi e
dei suoi era un intoppo gravissimo, ma non poteva costituire per
Mazzini una ragione sufficiente per abbandonare i suoi piani. Se
Medici era «perduto», Pisacane, Pilo, Cosenz, Acerbi,
uomini di eccezionale valore, erano tutti suoi. Contando su di essi,
contando sui molti che subivano a Genova la loro influenza, contando
sul Fabrizi di Malta, contando sui fondi che si sarebbero potuti,
certo, racimolare all'estero, si poteva tranquillamente rispondere a
Napoli: la spedizione, come voi la volete, verrà
eseguita.196
Ai primi di novembre Mazzini tornò
in Inghilterra. Ma Pisacane continuava a sperare che all'ultimo
Garibaldi si sarebbe unito a loro: il progetto panizziano, infatti,
sconsigliato nell'agosto dal Temple in vista di una probabile
amnistia politica e poi danneggiato dall'improvvisa morte di quel
ministro avvenuta poco dopo, scivolava pian piano nel nulla.
Parimenti nel nulla, all'incirca nel medesimo tempo, finiva un altro
audace progetto, vagheggiato da emigrati meridionali (da Pisacane per
piú ragioni mal visto), quello cioè di far sbarcare in
Sicilia, per sollevarla, un contingente della Legione
anglo-italiana, di stanza a Malta.197
Pisacane tornava perciò
all'assalto col vecchio amico Bertani:198 perché
opporsi al progetto Mazzini, gli scriveva il 24 settembre, progetto
che rispondeva in tutto e per tutto alle richieste degli amici di
Napoli, e alla cui esecuzione era condizionato lo scoppio della
rivoluzione nelle Due Sicilie? Non sapeva Bertani che esso si sarebbe
in ogni modo eseguito? Mazzini non faceva question di bandiera:
arbitro «il paese che sollevasi»; né di persone,
che anzi Pisacane era autorizzato a delegare a Bertani la scelta dei
partecipanti alla spedizione. Quanto al comandante, nessun dubbio:
«non potrà essere che Garibaldi».
Che Bertani tenesse duro, non è
meraviglia: la lettera, tra le altre cose, non accennava neanche al
punto controverso delle insurrezioni di Genova e d'altri centri
italiani.199 Può stupire, piuttosto, l'improvviso
accesso di garibaldinismo di Pisacane stesso. Tanto mutato, dunque,
di fronte al suo antico e «riottoso» superiore di Roma
contro il quale, non eran trascorsi che pochissimi anni, avea
ritenuto suo preciso dovere scrivere e dire «tutta la verità»?
Affatto mutato (e lo dimostra una nota nel IV dei Saggi); solo
che Pisacane, il quale non aveva adesso altro pensiero che la
spedizione e la sua migliore riuscita, non poteva non riconoscere, e
sia pure con qualche amarezza, la straordinaria popolarità
goduta da Garibaldi in ogni regione d'Italia;200 non poteva
non riconoscere di quanto sarebbero aumentate le probabilità
di successo dell'impresa se ad essa fosse legato il suo nome ormai
leggendario (leggendario nel Mezzogiorno proprio in virtú
dell'episodio di Velletri, povero Pisacane!) Sacrificava perciò
le sue personali opinioni e si poneva senza esitare in sottordine a
Garibaldi; che si voleva di piú da lui?
Era un esempio altissimo che Pisacane
dava ai patrioti italiani: non avrebbe egli servito foss'anche il
diavolo in persona se in cosí fare avesse potuto aumentare
d'un ette le probabilità di successo della spedizione?
Poiché per scuotere i suoi
placidi connazionali e gettarli nella rivolta, Pisacane lo capiva
benissimo, non bastava fornir loro una propizia occasione e mezzi
adeguati (come avevano erroneamente supposto quei della Legione
Anglo-italiana); ma bisognava appunto colpire l'imaginazione popolare
ponendo a capo dell'impresa destinata a suscitar la rivolta un di
quei nomi di eroi che la plebe meridionale venera come santi e
rispetta come briganti; e insieme fare appello, clamorosamente, alla
innata generosità del sentimento popolare, notoriamente assai
piú incline alla pietà che all'odio, assai piú
largo di commiserazione alle vittime della tirannia che atto a
rovesciare il tiranno in nome della comune libertà conculcata.
La marcia degli ergastolani su Napoli, capeggiata da Garibaldi, era
stupendamente calcolata per esasperare fino all'esplosione il senso
di giustizia dei napoletani, offeso giorno per giorno, in una lunga
serie di anni, da imperdonabili enormità giudiziarie. (Come
remoti, astratti e dottrinari, al confronto, i pensieri sulla
rivoluzione già svolti nei Saggi! Ma Pisacane si era
adesso buttato al fare, e lo servivano meglio ormai certe azzeccate
intuizioni di psicologia della folla che non i rigidi postulati della
sociologia e della scienza economica).
Da quell'estate del '56 Pisacane, si
può dire, non ebbe piú un giorno, non ebbe piú
un'ora che non fosse dedicata a concretare il progetto di spedizione,
a perfezionarne la tecnica dell'esecuzione, a studiar nuove forme di
propaganda nel Sud. Cosenz e Pilo gli eran validi collaboratori. Da
principio, pur cominciando a esaltarsi, egli esigeva formali garanzie
da Mazzini che l'impresa si sarebbe compiuta solo nel caso che si
potesse disporre di larghissimi mezzi e d'uno scelto contingente di
uomini.201 Pian piano però, e quasi
impercettibilmente, le sue esigenze si ridussero, si fecero
condizionate, finirono con l'annullarsi. Il successo d'una
rivoluzione non poteva, che diamine, dipendere da cosí poco.
Si dovea fare? E si sarebbe fatto, a costo di partire con quattro
seguaci e due pistole a testa!
Buona parte dell'attività
pisacaniana fu spesa altresí nella redazione d'un periodico
clandestino, destinato a «tener su» gli animi nelle
«provincie schiave». Mazzini non ne voleva sapere:
fremeva a sentir ciarlare di stamperia quando gli pareva che fosse
tempo di «vendere l'orologio e fare côute qui côute
in Sicilia, in Lunigiana, in Rocca Cannuccia, al diavolo, qualche
cosa». Ma quando ebbe letto i primi numeri della Libera
Parola (venuta alla luce in agosto per opera oltre che di
Pisacane, di Quadrio, Pilo, Savi, Cadolini) e poté constatarne
gli effetti nelle Due Sicilie, mutò radicalmente parere.
Di piccolo formato, tirata su carta
sottilissima, recante da principio la falsa indicazione di Malta, poi
quella d'Italia, la Libera Parola veniva spedita a migliaia di
copie dappertutto nella penisola; durò fino all'aprile
seguente, un po' settimanale, un po' quindicinale e mensile; morí
non tanto per la cronica scarsezza dei fondi quanto per la paura de'
tipografi.202
Il programma era volutamente generico
o almeno pretendeva di esserlo: «Noi vogliamo la nostra patria
grande e felice. Vogliamo dunque la rivoluzione, altro mezzo non vi
ha. Rivendicarsi in libertà per acquistare l'indipendenza e
quindi costituire la grande unità italica è
l'esplicamento naturale di questa maestosa e terribile forza che deve
dare alla patria figura ed essere di nazione. Qual italiano potrebbe
rifiutare il suo concorso? Questa della rivoluzione è bandiera
unificatrice. Possono schierarsi sotto con tranquilla coscienza tutti
i patriotti... Si combatta e si vinca. Al giorno del trionfo le
discussioni sull'assetto politico... Fedeli al principio della
conciliazione dei partiti sul terreno comune della rivoluzione,
vigorosamente combatteremo le pretensioni di monopolio dinastico che
qua e là potessero scaturire a danno e vergogna nostra...»
Che era come dire: vedete, non parliam
di repubblica; sia chiaro però che di monarchia non ne vogliam
sapere...
Il punto di vista rivoluzionario
veniva energicamente ribadito in un secondo articolo (Dove siamo?
che faremo?) di evidente paternità pisacaniana, concluso a
mo' di un ordine del giorno:
«Considerando che la rivoluzione italiana è
generalmente riconosciuta probabile e vicina; che la diplomazia non
crea i fatti, ma li sancisce; che nello stesso tempo in cui teme lo
scoppio d'un moto italiano, e si ingegna allontanarlo con ripiego di
riforme, è pur pronta a transigere coi fatti compiuti; che il
Piemonte è vincolato alla diplomazia per antichi e recenti
trattati; che è quindi contro ogni verosimiglianza poter
giammai la monarchia sarda iniziare l'insurrezione italiana,
inimicandosi cosí tutti i governi d'Europa ed esponendosi ai
pericoli d'una rivoluzione. Risulta che tanto i monarchici quanto i
repubblicani devono, con tutti i mezzi di cui dispongono, spingere le
popolazioni italiane delle provincie oppresse; i repubblicani, perché
han fede soltanto nella insurrezione nazionale; i monarchici,
nell'intendimento di creare al principato sardo un'occasione
d'intervento».
Dopo i primissimi numeri il pensiero
degli scrittori s'andò chiarendo e rinforzando in senso
estremista (di pari passo con l'aggravarsi del dissidio tra il gruppo
mazziniano e quello garibaldino): l'èra della inconcludente
resistenza passiva, delle proteste platoniche contro i regimi
dispotici aveva ormai fatto il suo tempo; urgeva adesso passare a una
decisa azione rivoluzionaria in tutta Italia; il punto morto, e cioè
il reverenziale timore che il popolo, ignaro della sua immensa
energia potenziale, nutriva per le baionette dei tiranni, andava
superato con la violenza, d'un balzo solo. La penisola era tutta
percorsa da una «striscia di polvere»: trovare chi le
appiccasse il fuoco, ecco il problema immediato, risolto il quale il
piú era fatto.
L'accento cadeva naturalmente sulla
situazione di Napoli, giudicata rivoluzionaria per eccellenza; e
quindi, per contrasto, sul murattismo: diffidassero i napoletani
degli aiuti stranieri! Si persuadessero esser preferibile le mille
volte il dispotismo domestico «che almeno ha certi limiti»
e «considera lo Stato come suo patrimonio» alla libertà
concessa da un regime straniero. La libertà è una
conquista attiva; libertà donata è un bisticcio di
parole. Peggiori dei borbonici, piú antiitaliani degli stessi
austriaci, i fautori di Murat, che pretendevano insegnar l'odio al
tiranno, non alla tirannia.203 Se mai un giorno l'Italia sarà
libera, essa potrà dimenticare «che molti, costretti
dall'imperiosa necessità e dalla forza delle circostanze
saranno stati costretti a servire i caduti governi, ma nei murattini
non vedrà che uomini i quali per una bassa ambizione, o per
cupidigia... tentavano arrestare e distruggere parte di quel lento ed
angoscioso lavoro, volto alla conquista della nazionalità, che
tanti martiri costa alla nostra patria».
Scuola di coraggio, d'italianità,
di fiducia nelle proprie forze, dunque, questa Libera Parola,
che investiva il lettore col prorompente entusiasmo dei suoi
redattori: perfino i succinti commenti dedicati alla cronaca politica
parevano scritti con la febbre a quaranta!
Bellissimo, trascinante, fra i tanti,
l'articolo Esempi all'Italia. Se la coscienza della loro forza
e le memorie del '48 non bastano a convincer gli italiani «che
l'Austria e i principi suoi satelliti possono essere abbattuti e
vinti; se l'ambizione di emulare gli studenti alemanni i quali al
canto degli inni di Körner iniziarono nel 1813 la gloriosa lotta
dell'indipendenza, non sorride alla gioventú delle Università
d'Italia...; se qualche ignoto Wallace italiano non sente
l'ispirazione di tentare con dieci uomini, come l'eroe scozzese,
l'animo della sua nazione...; se i patrioti italiani d'ogni località
non sono cosí santamente compresi del dovere d'insorgere, e
non dànno il segnale, sicuri di essere seguiti da tutta la
penisola... se invece preferiscono far mostra della loro mezza
scienza, contando con la carta geografica alla mano, le difficoltà
politiche e militari da vincersi; se nel paese classico di Fra
Diavolo, di Rinaldini, del Passatore e dei Lazzarini... non sorge
nell'anima di alcuni strenui giovani il generoso pensiero di farsi i
Fra Diavolo e Lazzarini della libertà, di
tentare e soffrire per l'indipendenza d'Italia quanto Gasparone,
De-Cesaris e migliaia dei loro simili hanno tentato e tentano
tutt'oggi per un pugno d'oro; se a questi giovani non sorride l'idea
di levare la sacra bandiera nazionale, di combattere all'aperto, di
collina in collina, di valle in valle..., di raccogliere intorno a
loro la popolazione pugnace... o infine di cadere combattendo,
colpiti nel petto, guardando il nemico in viso, rendendo percossa per
percossa... oh allora, ogni parola è inutile. I minatori di
Carrara scaveranno marmi, i canapini bolognesi flagelleranno le
canape, i montanari bresciani faran carbone... ma l'Italia sarà
schiava! Vogliono questo gli Italiani?»
Stupende parole ch'io non saprei
attribuire se non a Mazzini o a quello tra i suoi seguaci che fin
d'allora si preparava coscientemente a tradurle in azione, facendosi,
alla lettera, il Fra Diavolo del risorgimento italiano.
Il crescente isolamento delle Due
Sicilie in Europa (autunno '56, rottura delle relazioni diplomatiche
con Inghilterra e con Francia, disinteresse austriaco; Russia, la
sola potenza filoborbonica, poco ascoltata e comunque troppo lontana;
gennaio '57, Palmerston che parlando di Napoli conferma in pieno la
tradizionale politica inglese del non intervento) veniva intanto
largamente sfruttato dai mazziniani, che ne interpretavano talune
manifestazioni come un lasciar «via libera» a loro e un
invito a far presto;204 uguale incoraggiamento ne cavavan
però, dal canto loro, i murattiani, che negli ultimi mesi
avevano visibilmente guadagnato terreno e dei quali si diceva da bene
informati che andassero compiendo preparativi militari;205 sí
che ad esempio se ai mazziniani riuscivan preziose le cortesie dei
consolati inglesi (senza le quali le comunicazioni con Napoli
sarebbero state pressoché impossibili) chi mai sapeva fino a
qual punto non si giovassero gli avversari di quelle de' consolati
francesi?206 Il pericolo di vedersi scavalcati dai murattiani
rendeva dunque sempre piú rabbiosa e frenetica l'attività
dei mazziniani. I loro corrispondenti di Sicilia e di Napoli venivan
continuamente incalzati perché, in attesa della spedizione,
facessero: gesti individuali, dimostrazioni, rivolte locali, non
monta, purché facessero e arroventassero l'ambiente e
disponessero il terreno all'imminente sforzo finale. Fu, negli ultimi
del '56 e sull'inizio del '57, una tempesta spaventosa e cruenta,
tanto piú che molte altre iniziative terroristiche si
svolgevano autonome, senza controllo di partito.
Il barone Bentivegna alzava nel
novembre del '56 la bandiera dell'insurrezione nella Sicilia
occidentale; in altri luoghi dell'isola seguivano moti e tumulti.
Sorpresa dei mazziniani in Piemonte dai quali si era pur concertata
quell'impresa, ma pel gennaio del '57. Pisacane a Fanelli: «...
quello che fece era colui che aveva moltissimo cooperato al lavoro;
erasi avvisata Messina di attendere il piano, l'eroe temendo la cosa
si scoprisse, e che le mire erano su di lui, senza avvisare
anticipò... Noi dopo che avemmo l'accordo per la paccottiglia,
ricevemmo inaspettato avviso del fatto ed assicurazione della
risposta di Palermo, poi non piú nuove...» Comunque,
poiché le prime informazioni inducevano a bene sperare, una
ventina di emigrati napoletani, riunitisi immediatamente a
Genova,207 risolvettero di provocare un'agitazione, ed anche,
ove ciò fosse possibile, un movimento insurrezionale nelle
provincie di terra ferma del regno di Napoli. Pisacane, De Lieto e
Salomone, incaricati di diriger l'azione, si posero senz'altro al
lavoro;208 Rosolino Pilo partí per la Sicilia; e già
si pensava di precipitare la spedizione che s'andava faticosamente
organizzando, quando Bentivegna e compagni venivan disfatti dalle
forze borboniche; Bentivegna, catturato, mandato a morte!209
L'8 dicembre, a Napoli, il soldato
calabrese Agesilao Milano attentava alla vita del re.210
Processato e condannato alla forca sublimava, con le dichiarazioni
rese nel dibattimento, la sua figura di tirannicida: «... vi
prego di far giungere ai piedi del Sovrano l'umile preghiera di
visitare le sue provincie, per vedere a che son ridotti i suoi
sudditi».211 Si dette invano la caccia ai suoi supposti
complici: tra gli altri giunse a sottrarsi all'arresto, fuggendo, un
giovane, Falcone, suo conterraneo e compagno di studi, il piú
indiziato di tutti;212 il quale, riparato a Malta, si portò
poi a Genova, a tempo per fraternizzare in extremis con
Pisacane.
In tutto il regno, dopo l'8 dicembre,
si ordinarono (è la parola e corrisponde del resto a
consuetudine invalsa) memorabili feste per celebrare la salvezza del
re; ma un diplomatico dalla politica piuttosto obliqua, il ministro
del re sabaudo a Napoli, «cercava invano lo scoppio di
quell'entusiasmo spontaneo e sincero, che credeva poter attendersi
dalla popolazione napoletana»; e mentre egli ne inferiva con
mal celata soddisfazione «che parziali moti sediziosi possono
da un momento all'altro verificarsi», nel suo Piemonte
bonariamente il governo chiudeva un occhio, o tutti e due, sulle
clamorose manifestazioni indette dagli emigrati per esaltar la
memoria di Agesilao Milano!213
In quello stesso mese di dicembre, un
altro colpo: lo scoppio della polveriera di Napoli; e il 4 di gennaio
saltava in aria una fregata rigurgitante di truppe. Disgrazie? Pare
di sí; ma tali non parvero, sul momento, né a palazzo
reale, né al grosso della popolazione turbata, né ai
residenti stranieri.214 «L'allarme della corte —
scriveva infatti al suo ammiraglio il comandante di una nave da
guerra inglese stazionante a Napoli — è giunto
all'estremo, e il re si è improvvisamente ritirato a
Caserta»;215 fioccano gli arresti, la polizia sembra
impazzita. E il console inglese: «La paura e l'eccitamento
generali sono grandissimi. Il terrore regna a Palazzo».
In febbraio, brutte notizie dalla
Sicilia: conflitto verificatosi il 6 di quel mese tra la pubblica
forza e un gruppo di rivoltosi latitanti della banda Bentivegna;
processo e fucilazione (16 marzo) di Salvatore Spinuzza.216
Le autorità siciliane vivevano sotto il terrore continuo di
uno sbarco di fuorusciti!
A Napoli le truppe di terra e di mare
venivano eccitate alla ribellione con manifestini incendiari
inneggianti ad Agesilao Milano; altri proclami, che bollavano lo
spergiuro del re nel '48, si trovavano affissi per le strade o
venivan temerariamente lanciati nei pubblici ritrovi.217
Ed eran rivolte o attentati o
manifestazioni che, nel mentre rendevan furente la polizia borbonica,
si ripercuotevano in tutto il regno in ondate di commozione e di
paura, e queste alla lor volta in una isterica attesa ahimè
passiva di novità sempre piú gravi. Lo stesso accadeva
fuori del regno, se non peggio ancora, gonfiate come venivan quelle
notizie, sistematicamente, dalla stampa democratica, che ne rilevava
il nesso con altri avvenimenti significativi taciuti dal governo e
dai giornali napoletani.218 Sí che pian piano si
persuadevano tutti che lo scontento di quel popolo fosse giunto
all'estremo ed accennasse ormai a tradursi in una di quelle generali
e definitive proteste, che mentre nascono dalla sensazione diffusa
della impossibilità di star peggio, conducon d'un tratto a
sincronizzare gesti isolati e a far fruttare al cento per uno
sacrifici individuali o di pochi, fin allora giudicati di nessun
rendimento.
Eran loro medesimi che le inscenavano;
pure, ogniqualvolta giungesse ai mazziniani fuori del regno notizia
di «novità» ivi scoppiate, la loro volontà
rivoluzionaria si tendeva fino allo spasimo. Febbrile era
principalmente l'opera spiegata da Mazzini a Londra, Fabrizi a Malta,
Pisacane a Genova, in connessione col Fanelli di Napoli, come ben
s'intende leggendo la Cronaca del Comitato segreto di
Napoli (stampata venti anni piú tardi),219 che
raccoglie il carteggio scambiato fra costoro dal principio del '57 al
fatalissimo luglio del medesimo anno220. Fra centinaia di
lettere non una che non si riveli vergata sotto l'assillo della
massima urgenza, non un rigo che non si riferisca al grande soggetto;
in tutte, quell'ardore quasi maniaco, quella concisione, che pare
precipiti al dramma, imposta dalle difficoltà della scrittura
criptografica. Documento dunque, quel libro, di eccezionale valore,
seppure piú psicologico che storico. Fra intese e malintesi,
entusiasmi e depressioni, crisi di debolezza e parossismi di
disperata energia, vi si disegna nettissimo uno dei piú
tragici conflitti d'anime che sia dato ricostruire: dissonanza di
strumenti uno per uno perfetti e purissimi, che non riuscivano a
intonarsi a concerto.
Colpisce a tutta prima il contrasto
netto di tempra fra quelli che si possono dire i due protagonisti
dell'epistolario: Pisacane e Fanelli.
Fin dall'estate del '56 Pisacane, s'è
detto, è doventato «l'uomo della spedizione», il
massimo esponente delle speranze ad essa legate; tanto che mentre
egli, modestamente, conta sempre su Garibaldi quale grande riserva da
reclutarsi all'ultimo, Mazzini vuole invece che i napoletani guardino
a lui con piena fiducia, non soltanto per la direzione dell'impresa,
ma anche per eventuali altissimi incarichi post-rivoluzionari: cerca
insomma, con ogni mezzo, di accreditare il «mito» di
Pisacane.221 Pisacane ne è degno: le sue lettere a
Fanelli, precise, sicure, animatrici, denunziano infatti uno stato
d'animo di perfetta calma interiore; egli ne balza fuori, se
confrontato col Pisacane del primo periodo rivoluzionario, come piú
maturo, piú solido, piú disinteressato; le sue vedute
sono semplici e rettilinee, la volontà, meglio che ferrea,
implacabile. «Se nessuno si muove?... Creperemo», scrive
tranquillamente una volta.222
Varia esperienza, molteplicità
un po' dispersa d'interessi spirituali, certa saccente superficialità
di cultura sembra che s'equilibrino, ora, nello sforzo, per confluire
in quel solo fermissimo volere, tutto teso a uno scopo. Dinanzi alla
sua dichiarata certezza (e insisto sull'aggettivo) ogni dubbio
finisce col cadere, ogni contrasto si spiana; la penna pesante dei
Saggi ci si rivela d'un tratto capace di scrivere con una
robusta asciuttezza e un rigor logico davvero insospettati. Le sue
lettere si rovesciano su Fanelli con tanta precipitosa irruenza che
solo un freddo indifferente o un altro Pisacane potrebbero salvarsi
dall'esserne travolti.
Fanelli, si sa, non era né
questo né quello: ma un entusiasta e un debole. D'aperta
intelligenza, mazziniano convinto, gran volontà di fare, sí;
ma anche un carattere morbidamente incerto, impressionabile, a
scatti: nei momenti piú critici, quando soprattutto importa di
conservare la calma, egli si perdeva invece in esaltate crisi
d'entusiasmo o di terrore, sotto l'incubo di sproporzionati
fantasmi.223 Fisicamente incapace, dunque, nel suo
squilibrio, di assumere o sostenere responsabilità, ché
anzi la sola prospettiva che gliene venissero addossate bastava a
paralizzarlo; e insieme, per generosità e per ingegno, uomo
nato di prima fila!
Tale il disgraziato corrispondente di
Pisacane e Mazzini a Napoli, che avrebbe senza dubbio lasciato di sé
migliore ricordo, se il Comitato di Napoli avesse seguitato ancora,
dopo il '56, a disporre le pedine per la grande partita
rivoluzionaria da giuocarsi in un lontano avvenire. Fanelli, non
sapeva neanche lui com'era andata, si trovò invece, sui primi
del '57, impegnato a fondo nella partita «bella», quando
del giuoco ignorava affatto (e a lui pareva sinceramente d'averne
avvertiti gli amici) le regole e perfino le mosse. Nel comprensibile
affanno finí col perder di vista il bersaglio medesimo, tanto
che giunse al finale persuaso, diresti, che la minaccia di scacco gli
venisse non già dal regime borbonico, ma proprio e unicamente
da quel dannato binomio: Pisacane-Mazzini.
Né questa può dirsi
un'imagine sforzata del vero. Bisognerebbe, per convincersene
appieno, leggere ad una ad una le sue missive, povero Fanelli, cosí
vaghe, ineguali e contradittorie, dalle prime che parevano
addirittura ordinanze o richieste d'un comandante in capo, alle
ultime somiglianti piuttosto a timide giustificazioni del subordinato
cui, col rimprovero solenne, sia stato impartito l'ordine di condurre
senza piú discutere il suo reparto all'assalto.224
Ma basteran qui pochi esempi.
Siamo nel febbraio '57. Son già
vari mesi che Fanelli ha scritto a Genova e a Londra: la rivoluzione
è matura nelle Due Sicilie; a farla esplodere occorre solo una
scintilla esterna; sia questa una spedizione armata. Adesso, nuove
insistenze.
2 febbraio, Fanelli a Mazzini e a
Pisacane: «Io adunque ricorro a voi in nome del paese infelice,
e vi domando consiglio ed aiuto... Noi abbiamo un lavoro che mi
sembra bastevole elemento per una iniziativa imponente e decisiva...
Manchiamo di direzione interna proporzionale all'opera da iniziarsi,
manchiamo d'armi e danaro: voi potete coadiuvare in ciò che a
noi manca?»
10, 16 febbraio, risponde Pisacane:
Fanelli conti pure su appoggio illimitato di consigli, di danari, di
uomini. Non ad altri che a lui spetta però l'esporre il piano
d'azione, studiato in accordo con le possibilità locali. La
spedizione concordata partirebbe, e presto, da un porto da
destinarsi: quali la rotta, lo scalo, il punto di sbarco migliori?
Fanelli, 25 febbraio: gli sembra che
la spedizione possa seguire il primitivo piano, scalo a Ponza cioè
per liberarvi i deportati politici, e poi sbarco con essi in qualche
punto della costa a mezzogiorno di Napoli.225 Ma non
vorrebbe, per carità, che ci si rimettesse unicamente a lui in
cosa di tanta importanza: «Ammetto che sul luogo soltanto si è
giudice competente... però non credo che io solo possa essere
questo giudice...»
Pisacane lo tranquillizza il 10 di
marzo: intenda bene Fanelli, la responsabilità di risolvere o
contromandare la spedizione non spetta affatto a lui, ma tutta allo
scrivente e a Mazzini. Egli non ha che a precisare, una volta per
sempre, in qual misura un contingente armato che sbarchi sulla
costiera napoletana possa contare su appoggi locali.226
Accettata la rotta proposta da lui, il punto d'approdo verrà
scelto sulla costa del Cilento (fra Sapri e Salerno, cioè); il
momento dell'azione? Vicino, probabilmente; perciò si tengano
pronti, Comitato e sezioni.
Stupore di Fanelli; il quale, come se
nulla fosse, vien fuori il 19 di marzo con la notizia fino allora chi
sa perché gelosamente taciuta esser le fila della cospirazione
in Cilento quasi completamente disperse. L'affare, scrive adunque con
imperturbabile calma, «mi sembra che debba pigliare un po' per
le lunghe». Furia santissima di Pisacane, che comincia a
conoscere il suo uomo. Vedo, gli risponde il 31, che il «vostro
termometro segnava varii gradi sotto il zero, mentre il giorno
antecedente... aveva ricevuta una (lettera) da Mazzini che sembrava
alla temperatura dell'acqua bollente. Io amo meglio bollire che
gelare; in luogo di farla da moderatore ho risposto con temperatura
anche piú elevata». Il Cilento è sconsigliabile?
«In nome di Dio abolite i condizionali, io dico Cilento perché
cosí mi hanno suggerito le notizie da voi fornite; ma tale
scelta è assolutamente subordinata alla vostra volontà;
voi avreste dovuto dirmi: no Cilento non vale, bisogna attenersi a
Basilicata ed indicarmi la spiaggia... avreste potuto scrivermelo
recisamente». Bando agl'indugi, Fanelli scelga immediatamente e
definitivamente il luogo opportuno per lo sbarco; e in quel luogo, al
momento dato, si faccia trovare egli stesso con i gruppi d'azione, e
a Ponza una persona fidata pensi a organizzare la rivolta da
suscitarsi all'arrivo del vapore.227 L'epoca della spedizione
resta fin d'ora stabilita per la fine di aprile o primi di maggio.
Dallo stupore Fanelli, nel buscar la
strigliata, precipita addirittura in una crisi di disperazione:
l'organizzazione non è a punto! Mancano danari e armi! Manca
la «direzione interna»! Si crede forse ch'egli sia «Padre
eterno»? prorompe il 2 d'aprile.228 Chiede un mese, un
mese solo di proroga. Ma nella chiusa si contraddice: «... Se
Mazzini e voi giudicate... si possa dal fatto di Ponza avere il
resultato dovuto, io allora essendo fuori dei miei calcoli di
probabilità... sarò non ostante l'individuo di cui
potrete disporre come v'aggrada, e soldato che non manca al suo
posto...»
Invocato a chiarire il malinteso,
interviene Fabrizi scrivendo a Mazzini perché non precipiti, a
Fanelli perché abbandoni una buona volta l'idea di poter
perfezionare a tutto suo agio i preparativi, necessariamente
febbrili, di un'insurrezione.
Pisacane è piú
esplicito: «Voi... pensate costituirvi promotori di
rivoluzione, e fate dipendere dalla vostra personale cooperazione il
risultamento buono o tristo... Mazzini ed io siamo convinti che
rivoluzione è nel cuore..., e vogliamo mandare ad effetto una
congiura ristretta, rapida... Vista la cosa sotto questo lato,
importa sommamente non far precedere il fatto d'armi da nulla che
possa dar sospetti al governo...» E poi, appassionatamente:
«amico caro, unito a voi ho cercato a far rivolgere Mazzini
verso il Sud;229 ho superato tutte le difficoltà
prevedibili prima, ho offerto me stesso, vi ho scritto le mie ragioni
e le cose che mi sono indispensabili, le quali non richiedono tempo
lungo; se poi si rimanda alle calende greche... comincio a vederci
nero; tali cose, quando si spandono troppo, si prolungano...
finiscono per abortire, spero che rimarrò bugiardo».
Per non restar bugiardo e per tagliar
corto ai fanelliani tentennamenti, s'induce, se mai, ad affrettare
ancora: e il 5 d'aprile ecco una lettera al malcapitato suo
corrispondente, per informarlo che la spedizione si farà,
senz'altro, alla fine del mese; si accetteranno da lui osservazioni e
consigli sul modo, non una parola sul tempo. «Noi
non pretendiamo da voi l'assicurazione che tutti insorgano,
tutt'altro... noi desideriamo che Isola (Ponza) accetti dal luogo,
e quando ci dite Isola accetta tutto è fatto».
Mazzini, con solenni parole, rincalza:
«Noi individui, qualunque sia la nostra attività, non
possiamo creare l'insurrezione d'un popolo: noi non possiamo che
crearne l'occasione. O il popolo fa; e sta bene; o non fa, e non
siamo mallevadori che davanti a Dio e alla nostra coscienza. Unico
debito che ci corre è quello di studiare coscienziosamente
l'opportunità del momento: coglierlo, e offrire con una mossa
audace l'iniziativa alla nazione, è il genio rivoluzionario.
Per me, per noi, il momento è giunto».230
Prevedibile la risposta dell'atterrito
Fanelli (16 aprile), che disperatamente s'abbranca all'unica leva
lasciatagli in mano: «Nell'isola di Ponza non abbiamo
relazione»; sei settimane di tempo sono il minimo
indispensabile per stabilir dei contatti.
Perché non dirlo prima? Perché
aver perduto mesi preziosi? Perché ridursi alla vigilia
dell'azione per confessare che organizzazione non c'è? Tali le
accorate e sdegnose recriminazioni di Pisacane a Fanelli; al che
questi, già rimbrottato dall'amico Fabrizi: ma «l'affare
delle isole fu da me proposto quasi ad esempio... mentre molti altri
avrei potuto proporvene». L'indulgenza di Pisacane ha questa
volta un limite: «Voi — cosí lo fulmina il 12 di
maggio — volete sciogliervi da ogni responsabilità, e
fate bene, io per parte mia ve ne ho sciolto completamente...; ma
dire che il negozio isola era un'idea, un esempio, perdonate ciò
è un voler spingere la cosa troppo oltre...»231
Il drammatico colloquio si prolunga
cosí; da un lato disperati sforzi per rimandare, il sollevare
ogni giorno nuovi e piú gravi ostacoli all'azione imminente;
dall'altro la risoluta volontà di concludere (meglio concluder
male che rinunciare), che risponde con l'isolare e travolgere ad una
ad una le rinascenti difficoltà, qualche volta, mezzo piú
spicciativo, col non considerarle neanche. Se il rimandare, cosí
ragiona Pisacane, avesse almeno contribuito a far avanzare di un
pollice l'organizzazione! Ma no; col trascorrer del tempo, come
sempre accade, le energie si sono afflosciate, son cresciuti i
timori, diminuiti gli adepti, rimaste le difficoltà tali e
quali. O non lo sente perfino Fanelli e nel suo perpetuo ondeggiare
non avverte egli stesso il bisogno di scrivere agli amici (il 30
d'aprile): «Il generale volere è per un cangiamento e
sia qualunque... La rivoluzione è indispensabile... veggo
chiaro essere impossibile o almeno lunghissimo il tempo per ottenersi
de' grandi preparativi... Nel Sud dovrebbe farsi al piú
presto la rivoluzione... Ma non ostante, se v'è tempo...»
ecc. ecc.?
Come regolarsi con un nevropatico di questa forza, che,
soverchiato da cose piú grandi di lui, anziché cedere
ad altri la direzione del moto, si contenta di sfogarsi in
deplorazioni puerili: «Com'è dura la condizione di chi
ha anima che ribolle oltre il confine, di chi è tenuto
generalmente, ed è forse il piú eccitato in tutto il
partito del Sud e deve per dovere parlar parola di ghiaccio!!»?
Non resta, evidentemente, poiché è troppo tardi ormai
per sostituirlo, che esautorarlo di fatto, limitandosi a
trasmettergli ordini, istruzioni, incitamenti e rimbrotti, cestinando
senza pietà le sue geremiadi inutili.
Cosí, ai primi di maggio, gli
si comunicava seccamente la nuova data «definitiva»: il
25 del mese. Tanto meglio se ci si potesse accordare coi deportati
nell'isola; in caso diverso, nessun rinvio: la spedizione avrebbe
puntato direttamente alla costa.
E mentre Fanelli, al quale Mazzini e
Pisacane dovevano sembrare geni furiosi e implacabili, esprimeva il
dubbio che a Genova si facesse «la burletta per divagarsi dalle
gravi preoccupazioni», o lamentava che lo si facesse «morir
di palpiti, parlandomi sempre di otto in otto giorni e al piú
da un mese all'altro per l'insurrezione», Mazzini,
fulminandogli l'«adesso o piú mai per forse dieci anni»,
gli dava ordini minuti e precisi, in tono di chi non ammetta
repliche: vedere il tale a Napoli, dir questo, chieder quello,
minacciare cosí e cosí, recarsi qua o là,
preparar queste e queste manifestazioni, scriver questi proclami;
eseguire insomma, e appuntino, le istruzioni di Pisacane.232
Pur non cessando dal protestare, dal declinare ogni e qualsiasi
responsabilità, Fanelli finalmente chinò il capo; si
perse meno in lettere e si mise a fare di piú, tentando di
ripigliare il molto tempo sprecato: allacciò rapporti con gli
esponenti delle varie opposizioni di Napoli,233 mandò
avvisi alle isole, alle sezioni tutte, agli amici residenti in
località litoranee, tentò il tentabile per scuoter le
provincie, facendo coi suoi corrispondenti — ma troppo tardi! —
quella parte di animatore gagliardo e risoluto, insofferente degli
altrui indugi e dubbiezze, che Pisacane aveva fatto con lui; con la
differenza che mentre per Pisacane era quello l'atteggiamento
spontaneo corrispondente al fuoco interiore, per Fanelli non era che
una parte male appresa e goffamente recitata sotto gli occhi
minacciosi e severi del suggeritore. Chi mai poteva subire la sua
suggestione?
A Genova, intanto, il piano della
spedizione si delinea senza incertezze, se pure con successivi
spostamenti di date (dalla fine di aprile si va alla fine di maggio,
e poi al 10 di giugno): resta inteso che Pisacane, Cosenz e Pilo, a
capo di una trentina di volontari (reclutati, questi, da un Barbieri
di Lerici, uomo di mare) s'imbarcheranno sul postale bimensile
Genova-Cagliari-Tunisi; Fabrizi procurerà per alcuni di essi
una falsa richiesta di lavoro, datata da Tunisi.234 Una
goletta, da tempo acquistata, caricherà in precedenza una
provvista d'armi, recandosi poi a incontrare il vapore in un punto
fissato della sua rotta normale. Giunta in vista la goletta, quei del
vapore daranno il segnale per l'ammutinamento; riuscito il quale, e
trasbordate le armi, lo dirigeranno su Ponza; là, sorpresa la
guarnigione, imbarcheranno quanti piú relegati sarà
possibile; indi, ripetuto o no il tentativo, a seconda delle ultime
informazioni che perverranno, a S. Stefano e a Ventotene, fileranno
verso la costa a sud di Salerno (nell'aprile si decide per
Sapri):235 ivi avran luogo lo sbarco generale, la riunione
con le squadre rivoluzionarie dell'interno, l'inizio della marcia su
Napoli. Nel frattempo, giunta a Genova notizia telegrafica
dell'avvenuto sbarco, immantinente vi scoppierà, e scoppierà
anche a Livorno, la sommossa da tempo disposta. La scintilla da Sapri
si propagherà cosí nell'Italia settentrionale e
centrale; e se non altro l'esser padroni di quei due porti metterà
in grado gli amici di Pisacane di soccorrer d'urgenza la sua
spedizione con l'invio, su navi requisite, di uomini, d'armi e di
quant'altro mai possa occorrere.
La cosa piú urgente dunque,
verso la fine di aprile, è l'allacciare rapporti diretti con
S. Stefano e con Ventotene: Fanelli, che è finalmente entrato
in relazione con Ponza, a questo non è ancora riuscito; ed è
abbastanza importante sapere se gli interessati gradiscono d'esser
liberati e spediti in guerra contro Napoli! È Pisacane che si
assume l'incarico: scrive a un Pisani in Ventotene, a Filippo Agresti
in S. Stefano. Della prima lettera è notevole l'esordio
drammaticamente conciso: «Amico. Noi siamo un'antica
conoscenza, i vostri principî mi son noti, i miei sono anche
noti a voi, ma io non vengo a discorrere di principî; da molti
anni si discute e si ciancia, senza ottenere il minimo frutto.
L'opinione pubblica europea che prima ci era favorevole, ora si
rivolge contro di noi, vedendo che un popolo che si sopporta tale
tirannia e non fa altro che svelarne le infamie al mondo per
eccitarne la compassione come quei mendicanti che pongono in mostra
le piaghe di cui è coverto il loro corpo è un popolo
degradato. Noi sentiamo ogni giorno mormorare a voce sommessa
siffatte ingiurie, premiamo l'affanno del cuore nella speranza di
splendide condizioni. L'opportunità ci si offre, mi diriggo a
voi».236 Prosegue la lettera esponendo in breve il
piano di sbarco nell'isola. Accetta il Pisani di dar man forte
all'impresa? E quanti con lui?
L'interpellato dovette risponder
favorevolmente se Fanelli, il 30 di maggio, lo avvertiva di tenersi
pronto per l'11-13 giugno e lo pregava di fornirgli al piú
presto le indicazioni opportune per eseguire nel miglior modo la
sorpresa sull'isola.
Con l'Agresti fu diverso. Rispose
dapprima in modo generico;237 otto giorni dopo (ma sí,
c'era un regolare servizio di posta... clandestina tra S. Stefano e
la terra ferma, povero re Ferdinando!), pur professandosi favorevole
all'esecuzione del progetto, nobilmente avvertí l'obbligo
d'informare gli amici che gli ergastolani politici eran sí e
no una cinquantina, dieci de' quali o per età o per acciacchi
inamovibili; si correva dunque il gravissimo rischio di liberar dei
delinquenti veri in gran numero e pochi patrioti (avessero quei di
Ponza dato lo stesso avviso!).238 Ma la terza sua lettera —
ispirata, sembra, dallo Spaventa suo compagno di pena, mal prevenuto
contro Mazzini e le sue iniziative — dovette contenere un
risoluto invito a non occuparsi di S. Stefano;239 imbarazzato
e preoccupato, Fanelli gli rispondeva infatti il 29 maggio, cosí:
«spero far arrivare il protesto vostro al traente
prima di quest'epoca (la data della partenza da Genova), ma è
bene che voi facciate ogni sforzo per apparecchiarvi almeno per un
acconto pel possibile caso che il protesto non arrivasse in tempo al
suo destino». Fatto sta che allo scalo a S. Stefano si finí
col rinunciare affatto, fissando invece come obiettivo principale
Ponza, e accessorio e subordinato alle circostanze, Ventotene.
Alle difficoltà derivanti dalle
deficienze di Fanelli e dalle ritardate comunicazioni si aggiungevano
naturalmente quelle dovute alla mancanza di fondi.240
Ventimila lire, versate da Adriano Lemmi, qualche altra oblazione,
sta bene. Ma si dovevano spedire migliaia di lire a Napoli, di
abbondante danaro doveva esser fornito il capo della spedizione, e
bisognava acquistare intere casse di armi! Mazzini non aveva requie:
sollecitava gli amici e gli amici degli amici, caricava d'ipoteche il
suo minuscolo patrimonio. È doloroso, scriveva, «ch'io
debba arrossire mendicando qua e là lire sterline agli inglesi
che le dànno a un po' d'influenza personale, ma inarcando le
ciglia, e dicendomi: dove diavolo è il Partito fra
voi?»241 Procurarsi daghe, fucili, pistole, d'altronde:
non era agevole ottenerli neanche a pronti contanti, e tanto meno
trasportarli, una volta acquistatili. Un certo stock, a quanto
sembra, venne fornito dagli Orlando di Genova; altri giunsero a
Genova, celatamente, da Torino. Pisacane a Cosenz, 17 maggio: «Avrai
ricevuto la mia ultima in cui ti annunziavo l'arrivo di 116
(cifrario: armi), collocati in luogo sicuro ed opportuno pel
resto da farsi... L'italianissimo Cavour ha fatto inviare da Torino
una circolare a tutti i carabinieri onde visitare i carri sullo
stradale, per fortuna il nostro arrivò quasi 24 ore prima di
quello che avevamo calcolato, altrimenti chi sa che cosa sarebbe
avvenuto...»
Notizie vaghe su questo tramestio
d'armi trapelavano alle autorità genovesi e ai consoli
stranieri, specie a quello toscano e napoletano. S'incrociavano
dispacci allarmati accennanti a un supposto deposito di fucili
nell'isola di Capraia, o a una imminente spedizione armata nel Sud, o
semplicemente a misteriosi imbarchi di misteriose casse su vapori in
partenza da Genova.
Pisacane contava massimamente, pel
successo della sua impresa, nel segreto.242 Ma sí! Già
nel dicembre '56 il governo francese era informato di una
macchinazione mazziniana in Genova; e nel gennaio '57 quello
napoletano sapeva della sospetta azione svolta da un sedicente
inglese, di nome Charles, in connessione con gli oppositori in
Sicilia (Charles era il nome di guerra di Pisacane!); e nel
febbraio perfino il Times di Londra arrischiava supposizioni
in proposito, ripetendo quel nome;243 il 4 d'aprile la
polizia toscana veniva informata essere «stati noleggiati nel
porto di Genova per rilevante prezzo due bastimenti da servire a
segrete speculazioni che dovevano aver luogo sulle coste della bassa
Italia»;244 il 30 dello stesso mese Fanelli avvertiva
gli amici che «un vapore da guerra costeggia la Calabria per
evitare un... presuntivo sbarco di murattisti»;245 il
21 maggio l'Intendente di Genova, chiamato a render ragione delle
supposte spedizioni d'armi da quel porto, non poteva recisamente
smentire i rumori corsi in proposito, ammetteva comunque «che
armi vecchie d'ogni sorta sono state comperate in città e
spedite all'estero»;246 il 29 dello stesso mese
agl'Intendenti di tutte le provincie litoranee delle Due Sicilie si
spedivan da Napoli istruzioni d'intensificare la vigilanza costiera,
e speciali raccomandazioni venivano fatte all'Intendente di Salerno,
sotto la cui giurisdizione cadeva appunto la costiera di
Sapri!247 E finalmente, il 13 giugno, la polizia genovese
accertava che il postale Cagliari della linea Sardegna-Tunisi
compiva carichi d'armi abbastanza inspiegabili.248
Altro che segreto! I preparativi della
spedizione venivano seguiti, passo per passo, dalle polizie di tutta
Italia; e se il progetto poté, dopo tutto, eseguirsi, ciò
si dovette proprio al fatto che, a forza di gridare per mesi e mesi
al lupo, i rapporti di polizia finirono per lasciare increduli i
rispettivi governi. Non quello di Torino, è vero; ma su i
molti e coscienti peccati di debolezza da esso commessi verso i
rivoluzionari napoletani (i quali, va detto, non ne ebbero, per parte
loro, che un assai vago sospetto), sembra superfluo anzi che no
l'insistere; poco se ne sa, piú s'intuisce; la verità
vera, forse, non la sapremo mai.249
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