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Nello Rosselli
Carlo Pisacane nel Risorgimento Italiano

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  • CARLO PISACANE NEL RISORGIMENTO ITALIANO
    • Capitolo nono Questione borbonica
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Capitolo nono
Questione borbonica

 

Per taluni suoi avversari politici Mazzini era, si sa, una specie d'Iddio onnipossente e maligno che, ingelositosi delle fortune italiane, si fosse fitto in capo, per mala sorte nostra, di contrastarle e spegnerle con ogni sua forza e dovunque. Disfattista a Milano nel '48, pericoloso estremista a Roma nel '49, e poi carnefice della migliore gioventú, complice de' governi tirannici con quel suo continuo offrir loro nuovi motivi di repressioni violente, diffamator del Piemonte «palladio delle libertà italiane», vergogna dell'Italia all'estero. Tutte le colpe eran sue.

Vollero adesso costoro che il murattismo, del quale egli andava parlando come d'un grave imminente pericolo, non fosse che una bolla di sapone da lui sapientemente gonfiata per giustificare il suo intervento nelle cose di Napoli e per riattirare al suo giuoco molti emigrati meridionali che da un pezzo ne avevano abbastanza di lui.175 Chi mai, da Mazzini in fuori, prendeva sul serio in Italia la fola Murat?

L'odio di parte annebbiava loro la vista: fola, , ridevole per giunta, era stato il murattismo fin quando Napoleone non s'era fatto padrone di Francia; da allora in poi, stabilitosi il pretendente ufficioso (Luciano) a Torino qual Ministro francese e poi salito ai sommi gradi massonici, s'era mutato in un pericolo vero.176 Luciano infatti si era subito messo attivamente al lavoro, stabilendo contatti sempre piú numerosi nell'ambiente degli emigrati napoletani, sfruttando abilmente il rimpianto che i piú vecchi tra loro nutrivano per re Gioacchino: impareggiabile nell'arte di dire e non dire, attento a non compromettersi troppo, Luciano era insinuante nelle lusinghe, largo nelle promesse, regale addirittura nell'assumere impegni politici; il suo regime, se mai si fondasse, sarebbe schiettamente costituzionale, egli si porrebbe deciso alleato del Piemonte nella crociata antiaustriaca, godrebbe l'amicizia, non mai la tutela di Francia. Lui re, insomma, l'Italia sperimenterebbe finalmente l'indipendenza, la prosperità e, chi sa, la grandezza!

Tale propaganda, autorizzata a Parigi e, per amore o per forza, tollerata a Torino, aveva gradatamente attecchito. Nel '50 e nell'anno seguente si era ancora ai «si dice»; nel '52 avea già portato a misteriosissimi viaggi di Guglielmo Pepe in persona a Nizza e a Genova, seguiti da abboccamenti con Mezzacapo, Musolino, Carrano, Boldoni, Cosenz, verosimilmente con Pisacane medesimo.177 Conversioni? Se ne sapeva poco (solo piú tardi si venne a sapere di Mezzacapo), ma Pepe era pure un gran nome e una gran garanzia, e se inclinava a murattismo lui... Dal '52 al '55 la situazione francese si era andata stabilizzando, quella napoletana aggravando: le azioni di Murat automaticamente salivano. Ma fu proprio nel corso del '55 che fecero un balzo in avanti: opuscoli-manifesti lanciati con chiasso a Torino e a Parigi, dichiarazioni di Murat alla stampa, quotidiani passati al suo servizio, un Saliceti, ex triumviro a Roma, stipendiato da lui, Montanelli sostenitore aperto, voci abilmente messe in giro sul filomurattismo di Cavour.178 Nei circoli diplomatici, che ormai consideravano la situazione napoletana con assoluta «fluidità» di vedute e assenza totale di solidarietà dinastica, molti dicevano forte che una restaurazione Murat rappresentava il piú pratico rimedio possibile. Se alcuno obiettava non doversi i mali italiani curare con medicine di fuori, gli agenti del murattismo replicavan vantando l'italianità dei Murat e sbandierando l'antico proclama di Rimini. Il pericolo c'era!

Il 20 luglio '55 anche Pisacane, in una vigorosissima lettera stampata sull'Italia e Popolo, lo denunciò, ponendo in rilievo con mordente irrefragabile argomentazione la bassezza, l'inutilità ai fini della liberazione d'Italia, e soprattutto l'assoluta inattualità dei disegni murattisti. Rincarò la dose il 22 settembre, sulla stessa Italia e Popolo: era tempo di finirla con le poetiche reminiscenze del re fucilato; chi era stato costui, in Italia, se non un «seide» di Napoleone, un violatore d'istituti di tradizioni d'aspirazioni italiane? Quale la sua gloria, in cosa mai la prosperità del suo regno, che solo la gran distanza di tempo indorava? Il giudizio della storia non era dubbio: la dominazione francese a Napoli si era risolta in un vergognoso disastro. E si sarebbe dovuto lottare e soffrire, e si sarebbe dovuto esporre il paese ai rischi d'uno sconvolgimento per ripiombare, volontariamente, nelle condizioni di allora?

Quattro giorni appresso, un reciso comunicato alla stampa sarda: gli emigrati delle Due Sicilie dichiarano «che siccome avversano l'attuale governo (borbonico)... perché incompatibile con la nazionalità italiana, per la ragione istessa avversano qualsiasi forma di governo che potesse costituirsi col figlio di Gioacchino Murat, e tanto maggiormente che in tal caso quel regno diverrebbe indirettamente una provincia francese». Trenta firme: tra l'altre, quelle di Pisacane, Cosenz, Boldoni, Pilo. Non molte, invero, nella gran massa di emigrati meridionali! Murattista, dunque, la maggioranza?179 Tutt'altro; ma diffidente de' mazziniani e dei loro metodi e non disposta a mostrarsi in combutta con loro, certo. La qual discordia fra i liberali napoletani giovava immensamente, s'intende, anzi tutto ai borbonici, poi anche alla frazione Murat.

Prima misura di guerra antiborbonica e antimurattista era dunque, pei mazziniani, il procurare, sottolineando la gravità del pericolo e temperando il proprio programma, la formazione d'una provvisoria alleanza, d'un fronte unico tra le varie correnti dell'emigrazione che non fossero passate a Murat. Nell'autunno '55 non ebbero altro pensiero. Il blocco riuscí, come sempre riescono quando a proporli si fa la frazione estrema, la piú intransigente; in questo caso, poi, si dimostraron negoziatori preziosi quei «militari di Genova» che potevan ben dire: fummo anche noi contro Mazzini, ora ci uniamo a lui perché agire bisogna; Mazzini comunque è in mano nostra, niente farà senza che noi vogliamo. Nacque cosí tra il cadere del '55 e i primi del '56, con sede a Torino, un Centro politico avente per scopo dichiarato quello di controllare unificare e finanziare eventuali iniziative (oltreché proporne d'originali) volte ad agitare dinanzi all'opinione europea la questione napoletana e a sollecitarne una soluzione impostata sulla detronizzazione borbonica e sul veto a Murat.180 Membri del Centro gli emigrati delle Due Sicilie, senza distinzione di confessione politica; componenti il Comitato d'agitazione quattro o cinque costituzionali piemontesizzati tipo Scialoia e Massari, quattro o cinque rivoluzionari repubblicani tipo Pisacane e Cosenz.

Nei primi mesi tutto andò a meraviglia: un diluviare di lettere da e per Napoli, da e per la Sicilia, da e per Parigi e Londra; molte adunanze; intensa campagna finanziaria; viaggi d'intesa in Italia e fuori d'Italia (Musolino, ad esempio, fu a Londra «per delegazione dei nostri di Piemonte ed in ispecie di Pisacane»).181 In che consisteva la propaganda che si faceva? Ce lo dice una lettera, ch'io riassumo, di Pisacane a Plutino, 30 dicembre '55, intesa a cavargli quattrini: passato è il tempo delle discussioni teoriche, egli argomentava; in sede teorica né i piemontesisti posson convincer me che Vittorio Emanuele sia la fortuna d'Italia, né io convincer loro che lo sia la repubblica. Piemontesisti e repubblicani presumiamo tutti che i «fatti» ci daranno un bel giorno ragione. È dunque nell'interesse di entrambe le parti di promuovere «fatti» e rimetterci, pel bene del paese, alla risposta dei fatti. Se il Piemonte ha davvero, come dice, intenzione di agire per la causa italiana, essi gliene offriranno l'occasione; se i repubblicani interpretano davvero la volontà dei piú solo i fatti lo mostreranno. C'è poi il pericolo murattista: pazienza quei che ne ridono e non voglion perciò dar mano libera ai rivoluzionari, ma vi son altri che pur ritenendolo grave vi si rassegnano supinamente perché supposto conforme agl'incontrastabili interessi francesi. «Se otto milioni d'italiani debbono sottostare necessariamente al governo che gli potrà essere imposto da 20 a 30 mila francesi, allora con poca coscienza delle nostre forze, ogni ulteriore ragionamento è inutile, lasciamo ai nostri padroni di casa la cura di migliorare le nostre condizioni ed ognuno pensi a sé».

Murattismo a parte, si vede chiaro come il Centro si fondasse assai piú sull'equivoco che su un'intesa leale. Era facile infatti stendere un programma magari anche insurrezionale, con impegno reciproco di assoluta astensione da ogni propaganda di partito; ma nel fatto, come eseguirlo? Come evitare che ognuna delle parti contraenti si limitasse a proporre quelle sole iniziative che giudicasse convenienti al raggiungimento dei propri fini e si opponesse ad ogni altra? Come annullare gl'inevitabili sospetti reciproci di contribuire senza saperlo alla vittoria dell'alleato d'oggi, sicuro avversario di domani? Sarà vero o non vero (e a me non pare credibile) quel che scrisse il La Farina che la costituzione del Comitato «era stata una finta per allontanare la sorveglianza di Napoli da quelli che realmente operarono» — e intendeva gli emissari del governo piemontese —;182 certo è comunque che quanti avvertivan davvero l'imperativo categorico di affrettare una soluzione definitiva del problema napoletano, non stentarono a rendersi conto qual sorta di cappa di piombo si fossero messi addosso, assumendo l'impegno assoluto di neutralità di bandiera; un Pisacane, che dichiarava di preferire l'assolutismo borbonico al costituzionalismo piemontese non poteva continuare a lungo a lavorare a fianco d'uno Scialoia, ad esempio, il quale dal canto suo avrebbe preferito le mille volte di morire in esilio piuttosto che veder la repubblica a Napoli!

Tramontata la breve luna di miele, nuovamente pensosa ogni parte della propria responsabilità, il primo scoglio che il Centro incontrò sulla sua rotta bastò quindi a sfasciarne il fragilissimo scafo.183 Lo scoglio fu la proposta formale avanzata dai repubblicani in seno al Comitato d'una spedizione armata nel Sud, che ponendo gli oppositori napoletani dinanzi al fatto compiuto e offrendo loro cosí la prova della fattiva solidarietà del resto d'Italia, li forzasse a tradurre finalmente in azione la fin qui inconcludente querimonia verbale contro il regime borbonico.

Disperazione dei costituzionali, persuasi che si sarebbe in tal modo irreparabilmente compromessa, precipitandola, una situazione, come quella napoletana, promettentissima e tuttavia non ancora del tutto matura; della quale immaturità, secondo essi, fornivano, senza volerlo, la piú bella prova gli stessi repubblicani, quando insistevano sulla inderogabile necessità preventiva d'introdurre forze esterne nel regno, per farlo insorgere. Ribattevano questi, chiedendo che mai, dunque, si dovesse fare per Napoli. E giú i costituzionali a magnificare le campagne di stampa in Piemonte e fuori, le pressioni sistematiche sulle cancellerie europee, e nell'interno del regno non tanto insurrezioni, buone a riempir le carceri, sibbene solenni, pacifiche dimostrazioni popolari antiborboniche. Il guaio era che non si trovava mai l'occasione per promuovere queste tranquille dimostrazioni. Era stata lanciata una proposta Manin per indurre i napoletani a rifiutar le imposte, ma si era finito col trovarlagiustamente del restopiú rivoluzionaria e piú problematica di qualsivoglia spedizione armata.

Restò ciascuna delle parti, come accade, della propria opinione: quei di sinistra anzi sempre piú infervorati nel loro progetto e sospinti ad effettuarlo dalla minaccia murattista; quei di destra sdegnati e deprecanti, a profetar sciagure. Né valse che i primi promettessero di non dare alla spedizione carattere repubblicano; gli altri ribattevano che il progetto in sé era tutta una dichiarazion di principii!184 Nel contrasto, s'è detto, il neonato Centro politico chetamente cessò di vivere.

 

L'idea della spedizione era tutt'altro che nuova (e del resto sorge sempre spontanea, irresistibile quasi, tra i fuorusciti d'un paese tiranneggiato): si ricollegava a varie proposte affacciate da Napoli, dalla Sicilia, da Londra; era un tempo, quello, nel quale pareva anzi che i rivoluzionari italiani avessero tutti la monomania delle imprese antiborboniche!

I rivoluzionari di Napoli avevano costituito, sin dal '53, un Comitato insurrezionale repubblicano delegato a dirigere il moto antiborbonico nelle provincie (dove si erano fondate numerose sezioni) e a corrispondere con gli emigrati repubblicani a Malta, a Genova, a Londra. Nicola Mignogna, Teodoro Pateras, Giuseppe Fanelli, Luigi Dragone e qualche altro n'erano i piú cospicui esponenti.185 In breve tempo il Comitato era doventato il monopolista della propaganda rivoluzionaria nelle regioni continentali del regno.

Sullo scorcio del '55, nonostante che fosse stato arrestato, per venir poi bandito dal regno, il Mignogna,186 factotum del Comitato, i suoi colleghi erano giunti alla conclusione che la preparazione rivoluzionaria del paese in genere, e l'efficienza del loro gruppo in ispecie avessero raggiunto un punto cosí soddisfacente da render consigliabile quel passaggio all'azione diretta, cui la minaccia del murattismo, d'altronde, conferiva un carattere di grandissima urgenza.

Preparazione rivoluzionaria, azione diretta, cosa significavano queste solenni parole, senza dubbio pronunciate e scritte in piena buona fede? Su quali dati poggiavano? In qual misura esprimevano il pensiero di quel manipolo d'uomini che sparsi nelle varie provincie rappresentavano lo strumento della rivoluzione da farsi? Fino a qual punto tenevano conto del naturale scarto che esiste sempre tra le intenzioni piú generose e la loro attuazione? In base a quale criterio chi usava quelle parole valutava le forze di resistenza del regime che si voleva rovesciare?

Tutto ciò era assai poco chiaro, e v'eran ben poche idee concrete nella mente di Giuseppe Fanelli (un giovanotto sui venticinque anni, che nel '48 e nel '49 aveva brillantemente assolto il dover suo battendosi in Lombardia e alla difesa di Roma),187 quando, per incarico del Comitato, egli comunicò ai dirigenti il movimento mazziniano l'intenzione dei rivoluzionari napoletani di dar fuoco alle polveri, e chiese loro appoggio di consigli e di mezzi. Il Comitato voleva far qualcosa atto a «svegliare» il popolo, pensava a una serie di grossi colpi terroristici e insurrezionali, che non dessero tregua al governo e suscitassero sempre piú viva l'impressione in Europa che alle falde del Vesuvio mugghiasse un tremendo vulcano morale. Proposte generiche, tutte. Una sola concreta: quella appunto d'una spedizione armata che avesse per scopo di liberare un gruppo di prigionieri politici per poi sbarcarli, armati, in un punto designato della costa napoletana, a iniziar la rivoluzione.188

Un'idea molto simile, ma assai piú limitata, l'aveva avuta Antonio Panizzi, esule a Londra, fin da quando Settembrini e compagni eran stati rinchiusi nell'ergastolo dell'isola di S. Stefano, in rivoltante promiscuità con centinaia di condannati comuni (imperdonabile obbrobrio, a quei tempi, per l'Europa civile!): farli fuggire.189 Il progetto, piaciuto a moltissimi, italiani ed inglesi, pareva avviato sul principio del '55 a sollecita esecuzione: avvisati e favorevoli gli ergastolani, complici preziosi lo stesso ministro d'Inghilterra a Napoli (William Temple190, fratello di Palmerston!) e il suo collega a Torino; Garibaldi disposto a capitanare l'impresa, Bertani impresario, danaro fin che se ne voleva. A Genova era il segreto di Pulcinella.

Ma un primo tentativo d'esecuzione, operato nell'autunno di quell'anno, fallí miseramente con un naufragio nel mar d'Inghilterra. Ci si preparò per la primavera seguente.

Fu all'indomani di quel disastro che giunsero a Genova e a Londra le proposte di Napoli:191 era troppo naturale che si pensasse a coordinare i due piani. Il popolo meridionale è un popolo sentimentale: quando avesse saputo che i prigionieri politici, fuggiti dal carcere, levavan la bandiera della rivolta, li avrebbe appassionatamente seguiti. Cosí pensò Pisacane, cosí pensarono molti altri mazziniani con lui. Non li sfiorava neanche il dubbio che forse gli ergastolani avrebbero preferito ricuperar la loro libertà per vivere quieti in paese straniero anziché compromettere con essa la vita in una sommossa violenta. Nacque in tal modo il progetto dai mazziniani caldeggiato, senza fortuna, in seno al Centro politico. La nave liberatrice, raccolti gli ergastolani a S. Stefano, avrebbe dovuto far scalo a Ventotene (ché tra le due isolette, l'una un cupolotto roccioso, sormontato da un solo immenso edificio, l'ergastolo, l'altra piú grande e piatta e popolata, non corre che un brevissimo tratto di mare) per imbarcarvi i relegati politici — i confinati cioè192; quindi, a un trenta miglia da Ventotene, a Ponza: altri relegati da liberare; e finalmente, armatili tutti, gettarli su qualche remoto tratto della costa donde, col concorso d'altre forze, iniziare la marcia insurrezionale sulla capitale.

Il piano era elettrizzante: di quelli che, quando una volta ti si sono affacciati alla mente, ti metton la febbre in corpo e ti vietano il sonno la notte.

Squagliatisi i «codini» del Centro, bisognava adesso conquistare all'idea della spedizione il gruppo Panizzi-Garibaldi-Bertani; nonché... gli ergastolani. Si tentò all'uopo il tentabile: Mazzini in persona si portò a Genova segretissimamente, nel giugno '56, per «lavorare» ad uno ad uno i seguaci di Garibaldi, per rinsaldare i rapporti con gli ex dissidenti.193

Per quanti anni non aveva sognato di ritornare a casa! Ma la casa era chiusa, la santa madre riposava a Staglieno. Mazzini visse quegli affannosi mesi di Genova mutando frequentemente d'alloggio (ospite per un tempo anche dei Pisacane), uscendo di rado e solamente di notte: «uno scoiattolo in gabbia».

Da principio pareva che l'accordo fosse facile a stringere: «Li ho veduti tutti», scriveva Mazzini il 12 luglio, «siamo di bel nuovo d'accordo... Pisacane è quello che mi dimostra la piú calda amicizia e a cui parve fare il maggior piacere vedermi». Sul piú bello invece andò tutto per aria: Garibaldi, Bertani, Medici (antico beniamino di Mazzini), significarono seccamente che il progetto Panizzi o si eseguiva tal quale o non se ne sarebbe fatto di nulla. Gelosia per Mazzini?194 Contrarietà degli ergastolani? Pressioni torinesi? Le tre cose insieme, probabilmente; ma piú di tutto, io credo, l'aver Mazzini lasciato fin d'allora intendere che alla spedizione e alla conseguente insurrezione nel Sud sarebbe stato opportuno associare una serie di moti da scatenarsi nel resto d'Italia a sostegno di quella; segnatamente, una rivolta a Genova.195 Formidabile errore. Mazzini, deluso, infuriava nella sua corrispondenza contro Medici e Bertani, che riteneva responsabili primi del rifiuto di Garibaldi: stigmatizzava la loro «inerzia assoluta», la loro «ostinazione» da presuntuosi. Ma in questo caso non ci si poteva domandare: di chi la colpa? Accadeva anche a Mazzini talvolta di sostenere disegni manifestamente assurdi o rovinosi; non gli accadeva mai, questo era il guaio, di trovare chi, pari per genio a lui, capace di resistere alla sua sfavillante eloquenza, riuscisse a persuaderlo del suo errore. Tra quei che lo ascoltavano, i piú finivano sempre per stringersi a lui in un impeto di fede e d'ammirazione commossa, che magari non presupponeva ragionato convincimento; i meno, che non gli cedevano, passavano per ostinati solo perché i motivi pur fondatissimi della loro opposizione, nel contraddittorio, si spezzavano contro l'invincibile superiorità dialettica spiegata da lui. Il genio può esser pericoloso.

La mancata cooperazione di Garibaldi e dei suoi era un intoppo gravissimo, ma non poteva costituire per Mazzini una ragione sufficiente per abbandonare i suoi piani. Se Medici era «perduto», Pisacane, Pilo, Cosenz, Acerbi, uomini di eccezionale valore, erano tutti suoi. Contando su di essi, contando sui molti che subivano a Genova la loro influenza, contando sul Fabrizi di Malta, contando sui fondi che si sarebbero potuti, certo, racimolare all'estero, si poteva tranquillamente rispondere a Napoli: la spedizione, come voi la volete, verrà eseguita.196

Ai primi di novembre Mazzini tornò in Inghilterra. Ma Pisacane continuava a sperare che all'ultimo Garibaldi si sarebbe unito a loro: il progetto panizziano, infatti, sconsigliato nell'agosto dal Temple in vista di una probabile amnistia politica e poi danneggiato dall'improvvisa morte di quel ministro avvenuta poco dopo, scivolava pian piano nel nulla. Parimenti nel nulla, all'incirca nel medesimo tempo, finiva un altro audace progetto, vagheggiato da emigrati meridionali (da Pisacane per piú ragioni mal visto), quello cioè di far sbarcare in Sicilia, per sollevarla, un contingente della Legione anglo-italiana, di stanza a Malta.197

Pisacane tornava perciò all'assalto col vecchio amico Bertani:198 perché opporsi al progetto Mazzini, gli scriveva il 24 settembre, progetto che rispondeva in tutto e per tutto alle richieste degli amici di Napoli, e alla cui esecuzione era condizionato lo scoppio della rivoluzione nelle Due Sicilie? Non sapeva Bertani che esso si sarebbe in ogni modo eseguito? Mazzini non faceva question di bandiera: arbitro «il paese che sollevasi»; né di persone, che anzi Pisacane era autorizzato a delegare a Bertani la scelta dei partecipanti alla spedizione. Quanto al comandante, nessun dubbio: «non potrà essere che Garibaldi».

Che Bertani tenesse duro, non è meraviglia: la lettera, tra le altre cose, non accennava neanche al punto controverso delle insurrezioni di Genova e d'altri centri italiani.199 Può stupire, piuttosto, l'improvviso accesso di garibaldinismo di Pisacane stesso. Tanto mutato, dunque, di fronte al suo antico e «riottoso» superiore di Roma contro il quale, non eran trascorsi che pochissimi anni, avea ritenuto suo preciso dovere scrivere e dire «tutta la verità»? Affatto mutato (e lo dimostra una nota nel IV dei Saggi); solo che Pisacane, il quale non aveva adesso altro pensiero che la spedizione e la sua migliore riuscita, non poteva non riconoscere, e sia pure con qualche amarezza, la straordinaria popolarità goduta da Garibaldi in ogni regione d'Italia;200 non poteva non riconoscere di quanto sarebbero aumentate le probabilità di successo dell'impresa se ad essa fosse legato il suo nome ormai leggendario (leggendario nel Mezzogiorno proprio in virtú dell'episodio di Velletri, povero Pisacane!) Sacrificava perciò le sue personali opinioni e si poneva senza esitare in sottordine a Garibaldi; che si voleva di piú da lui?

Era un esempio altissimo che Pisacane dava ai patrioti italiani: non avrebbe egli servito foss'anche il diavolo in persona se in cosí fare avesse potuto aumentare d'un ette le probabilità di successo della spedizione?

Poiché per scuotere i suoi placidi connazionali e gettarli nella rivolta, Pisacane lo capiva benissimo, non bastava fornir loro una propizia occasione e mezzi adeguati (come avevano erroneamente supposto quei della Legione Anglo-italiana); ma bisognava appunto colpire l'imaginazione popolare ponendo a capo dell'impresa destinata a suscitar la rivolta un di quei nomi di eroi che la plebe meridionale venera come santi e rispetta come briganti; e insieme fare appello, clamorosamente, alla innata generosità del sentimento popolare, notoriamente assai piú incline alla pietà che all'odio, assai piú largo di commiserazione alle vittime della tirannia che atto a rovesciare il tiranno in nome della comune libertà conculcata. La marcia degli ergastolani su Napoli, capeggiata da Garibaldi, era stupendamente calcolata per esasperare fino all'esplosione il senso di giustizia dei napoletani, offeso giorno per giorno, in una lunga serie di anni, da imperdonabili enormità giudiziarie. (Come remoti, astratti e dottrinari, al confronto, i pensieri sulla rivoluzione già svolti nei Saggi! Ma Pisacane si era adesso buttato al fare, e lo servivano meglio ormai certe azzeccate intuizioni di psicologia della folla che non i rigidi postulati della sociologia e della scienza economica).

 

Da quell'estate del '56 Pisacane, si può dire, non ebbe piú un giorno, non ebbe piú un'ora che non fosse dedicata a concretare il progetto di spedizione, a perfezionarne la tecnica dell'esecuzione, a studiar nuove forme di propaganda nel Sud. Cosenz e Pilo gli eran validi collaboratori. Da principio, pur cominciando a esaltarsi, egli esigeva formali garanzie da Mazzini che l'impresa si sarebbe compiuta solo nel caso che si potesse disporre di larghissimi mezzi e d'uno scelto contingente di uomini.201 Pian piano però, e quasi impercettibilmente, le sue esigenze si ridussero, si fecero condizionate, finirono con l'annullarsi. Il successo d'una rivoluzione non poteva, che diamine, dipendere da cosí poco. Si dovea fare? E si sarebbe fatto, a costo di partire con quattro seguaci e due pistole a testa!

Buona parte dell'attività pisacaniana fu spesa altresí nella redazione d'un periodico clandestino, destinato a «tener su» gli animi nelle «provincie schiave». Mazzini non ne voleva sapere: fremeva a sentir ciarlare di stamperia quando gli pareva che fosse tempo di «vendere l'orologio e fare côute qui côute in Sicilia, in Lunigiana, in Rocca Cannuccia, al diavolo, qualche cosa». Ma quando ebbe letto i primi numeri della Libera Parola (venuta alla luce in agosto per opera oltre che di Pisacane, di Quadrio, Pilo, Savi, Cadolini) e poté constatarne gli effetti nelle Due Sicilie, mutò radicalmente parere.

Di piccolo formato, tirata su carta sottilissima, recante da principio la falsa indicazione di Malta, poi quella d'Italia, la Libera Parola veniva spedita a migliaia di copie dappertutto nella penisola; durò fino all'aprile seguente, un po' settimanale, un po' quindicinale e mensile; morí non tanto per la cronica scarsezza dei fondi quanto per la paura de' tipografi.202

Il programma era volutamente generico o almeno pretendeva di esserlo: «Noi vogliamo la nostra patria grande e felice. Vogliamo dunque la rivoluzione, altro mezzo non vi ha. Rivendicarsi in libertà per acquistare l'indipendenza e quindi costituire la grande unità italica è l'esplicamento naturale di questa maestosa e terribile forza che deve dare alla patria figura ed essere di nazione. Qual italiano potrebbe rifiutare il suo concorso? Questa della rivoluzione è bandiera unificatrice. Possono schierarsi sotto con tranquilla coscienza tutti i patriotti... Si combatta e si vinca. Al giorno del trionfo le discussioni sull'assetto politico... Fedeli al principio della conciliazione dei partiti sul terreno comune della rivoluzione, vigorosamente combatteremo le pretensioni di monopolio dinastico che qua e potessero scaturire a danno e vergogna nostra...»

Che era come dire: vedete, non parliam di repubblica; sia chiaro però che di monarchia non ne vogliam sapere...

Il punto di vista rivoluzionario veniva energicamente ribadito in un secondo articolo (Dove siamo? che faremo?) di evidente paternità pisacaniana, concluso a mo' di un ordine del giorno:

«Considerando che la rivoluzione italiana è generalmente riconosciuta probabile e vicina; che la diplomazia non crea i fatti, ma li sancisce; che nello stesso tempo in cui teme lo scoppio d'un moto italiano, e si ingegna allontanarlo con ripiego di riforme, è pur pronta a transigere coi fatti compiuti; che il Piemonte è vincolato alla diplomazia per antichi e recenti trattati; che è quindi contro ogni verosimiglianza poter giammai la monarchia sarda iniziare l'insurrezione italiana, inimicandosi cosí tutti i governi d'Europa ed esponendosi ai pericoli d'una rivoluzione. Risulta che tanto i monarchici quanto i repubblicani devono, con tutti i mezzi di cui dispongono, spingere le popolazioni italiane delle provincie oppresse; i repubblicani, perché han fede soltanto nella insurrezione nazionale; i monarchici, nell'intendimento di creare al principato sardo un'occasione d'intervento».

Dopo i primissimi numeri il pensiero degli scrittori s'andò chiarendo e rinforzando in senso estremista (di pari passo con l'aggravarsi del dissidio tra il gruppo mazziniano e quello garibaldino): l'èra della inconcludente resistenza passiva, delle proteste platoniche contro i regimi dispotici aveva ormai fatto il suo tempo; urgeva adesso passare a una decisa azione rivoluzionaria in tutta Italia; il punto morto, e cioè il reverenziale timore che il popolo, ignaro della sua immensa energia potenziale, nutriva per le baionette dei tiranni, andava superato con la violenza, d'un balzo solo. La penisola era tutta percorsa da una «striscia di polvere»: trovare chi le appiccasse il fuoco, ecco il problema immediato, risolto il quale il piú era fatto.

L'accento cadeva naturalmente sulla situazione di Napoli, giudicata rivoluzionaria per eccellenza; e quindi, per contrasto, sul murattismo: diffidassero i napoletani degli aiuti stranieri! Si persuadessero esser preferibile le mille volte il dispotismo domestico «che almeno ha certi limiti» e «considera lo Stato come suo patrimonio» alla libertà concessa da un regime straniero. La libertà è una conquista attiva; libertà donata è un bisticcio di parole. Peggiori dei borbonici, piú antiitaliani degli stessi austriaci, i fautori di Murat, che pretendevano insegnar l'odio al tiranno, non alla tirannia.203 Se mai un giorno l'Italia sarà libera, essa potrà dimenticare «che molti, costretti dall'imperiosa necessità e dalla forza delle circostanze saranno stati costretti a servire i caduti governi, ma nei murattini non vedrà che uomini i quali per una bassa ambizione, o per cupidigia... tentavano arrestare e distruggere parte di quel lento ed angoscioso lavoro, volto alla conquista della nazionalità, che tanti martiri costa alla nostra patria».

Scuola di coraggio, d'italianità, di fiducia nelle proprie forze, dunque, questa Libera Parola, che investiva il lettore col prorompente entusiasmo dei suoi redattori: perfino i succinti commenti dedicati alla cronaca politica parevano scritti con la febbre a quaranta!

Bellissimo, trascinante, fra i tanti, l'articolo Esempi all'Italia. Se la coscienza della loro forza e le memorie del '48 non bastano a convincer gli italiani «che l'Austria e i principi suoi satelliti possono essere abbattuti e vinti; se l'ambizione di emulare gli studenti alemanni i quali al canto degli inni di Körner iniziarono nel 1813 la gloriosa lotta dell'indipendenza, non sorride alla gioventú delle Università d'Italia...; se qualche ignoto Wallace italiano non sente l'ispirazione di tentare con dieci uomini, come l'eroe scozzese, l'animo della sua nazione...; se i patrioti italiani d'ogni località non sono cosí santamente compresi del dovere d'insorgere, e non dànno il segnale, sicuri di essere seguiti da tutta la penisola... se invece preferiscono far mostra della loro mezza scienza, contando con la carta geografica alla mano, le difficoltà politiche e militari da vincersi; se nel paese classico di Fra Diavolo, di Rinaldini, del Passatore e dei Lazzarini... non sorge nell'anima di alcuni strenui giovani il generoso pensiero di farsi i Fra Diavolo e Lazzarini della libertà, di tentare e soffrire per l'indipendenza d'Italia quanto Gasparone, De-Cesaris e migliaia dei loro simili hanno tentato e tentano tutt'oggi per un pugno d'oro; se a questi giovani non sorride l'idea di levare la sacra bandiera nazionale, di combattere all'aperto, di collina in collina, di valle in valle..., di raccogliere intorno a loro la popolazione pugnace... o infine di cadere combattendo, colpiti nel petto, guardando il nemico in viso, rendendo percossa per percossa... oh allora, ogni parola è inutile. I minatori di Carrara scaveranno marmi, i canapini bolognesi flagelleranno le canape, i montanari bresciani faran carbone... ma l'Italia sarà schiava! Vogliono questo gli Italiani

Stupende parole ch'io non saprei attribuire se non a Mazzini o a quello tra i suoi seguaci che fin d'allora si preparava coscientemente a tradurle in azione, facendosi, alla lettera, il Fra Diavolo del risorgimento italiano.

 

Il crescente isolamento delle Due Sicilie in Europa (autunno '56, rottura delle relazioni diplomatiche con Inghilterra e con Francia, disinteresse austriaco; Russia, la sola potenza filoborbonica, poco ascoltata e comunque troppo lontana; gennaio '57, Palmerston che parlando di Napoli conferma in pieno la tradizionale politica inglese del non intervento) veniva intanto largamente sfruttato dai mazziniani, che ne interpretavano talune manifestazioni come un lasciar «via libera» a loro e un invito a far presto;204 uguale incoraggiamento ne cavavan però, dal canto loro, i murattiani, che negli ultimi mesi avevano visibilmente guadagnato terreno e dei quali si diceva da bene informati che andassero compiendo preparativi militari;205 che ad esempio se ai mazziniani riuscivan preziose le cortesie dei consolati inglesi (senza le quali le comunicazioni con Napoli sarebbero state pressoché impossibili) chi mai sapeva fino a qual punto non si giovassero gli avversari di quelle de' consolati francesi?206 Il pericolo di vedersi scavalcati dai murattiani rendeva dunque sempre piú rabbiosa e frenetica l'attività dei mazziniani. I loro corrispondenti di Sicilia e di Napoli venivan continuamente incalzati perché, in attesa della spedizione, facessero: gesti individuali, dimostrazioni, rivolte locali, non monta, purché facessero e arroventassero l'ambiente e disponessero il terreno all'imminente sforzo finale. Fu, negli ultimi del '56 e sull'inizio del '57, una tempesta spaventosa e cruenta, tanto piú che molte altre iniziative terroristiche si svolgevano autonome, senza controllo di partito.

Il barone Bentivegna alzava nel novembre del '56 la bandiera dell'insurrezione nella Sicilia occidentale; in altri luoghi dell'isola seguivano moti e tumulti. Sorpresa dei mazziniani in Piemonte dai quali si era pur concertata quell'impresa, ma pel gennaio del '57. Pisacane a Fanelli: «... quello che fece era colui che aveva moltissimo cooperato al lavoro; erasi avvisata Messina di attendere il piano, l'eroe temendo la cosa si scoprisse, e che le mire erano su di lui, senza avvisare anticipò... Noi dopo che avemmo l'accordo per la paccottiglia, ricevemmo inaspettato avviso del fatto ed assicurazione della risposta di Palermo, poi non piú nuove...» Comunque, poiché le prime informazioni inducevano a bene sperare, una ventina di emigrati napoletani, riunitisi immediatamente a Genova,207 risolvettero di provocare un'agitazione, ed anche, ove ciò fosse possibile, un movimento insurrezionale nelle provincie di terra ferma del regno di Napoli. Pisacane, De Lieto e Salomone, incaricati di diriger l'azione, si posero senz'altro al lavoro;208 Rosolino Pilo partí per la Sicilia; e già si pensava di precipitare la spedizione che s'andava faticosamente organizzando, quando Bentivegna e compagni venivan disfatti dalle forze borboniche; Bentivegna, catturato, mandato a morte!209

L'8 dicembre, a Napoli, il soldato calabrese Agesilao Milano attentava alla vita del re.210 Processato e condannato alla forca sublimava, con le dichiarazioni rese nel dibattimento, la sua figura di tirannicida: «... vi prego di far giungere ai piedi del Sovrano l'umile preghiera di visitare le sue provincie, per vedere a che son ridotti i suoi sudditi».211 Si dette invano la caccia ai suoi supposti complici: tra gli altri giunse a sottrarsi all'arresto, fuggendo, un giovane, Falcone, suo conterraneo e compagno di studi, il piú indiziato di tutti;212 il quale, riparato a Malta, si portò poi a Genova, a tempo per fraternizzare in extremis con Pisacane.

In tutto il regno, dopo l'8 dicembre, si ordinarono (è la parola e corrisponde del resto a consuetudine invalsa) memorabili feste per celebrare la salvezza del re; ma un diplomatico dalla politica piuttosto obliqua, il ministro del re sabaudo a Napoli, «cercava invano lo scoppio di quell'entusiasmo spontaneo e sincero, che credeva poter attendersi dalla popolazione napoletana»; e mentre egli ne inferiva con mal celata soddisfazione «che parziali moti sediziosi possono da un momento all'altro verificarsi», nel suo Piemonte bonariamente il governo chiudeva un occhio, o tutti e due, sulle clamorose manifestazioni indette dagli emigrati per esaltar la memoria di Agesilao Milano!213

In quello stesso mese di dicembre, un altro colpo: lo scoppio della polveriera di Napoli; e il 4 di gennaio saltava in aria una fregata rigurgitante di truppe. Disgrazie? Pare di ; ma tali non parvero, sul momento, né a palazzo reale, né al grosso della popolazione turbata, né ai residenti stranieri.214 «L'allarme della cortescriveva infatti al suo ammiraglio il comandante di una nave da guerra inglese stazionante a Napoli — è giunto all'estremo, e il re si è improvvisamente ritirato a Caserta»;215 fioccano gli arresti, la polizia sembra impazzita. E il console inglese: «La paura e l'eccitamento generali sono grandissimi. Il terrore regna a Palazzo».

In febbraio, brutte notizie dalla Sicilia: conflitto verificatosi il 6 di quel mese tra la pubblica forza e un gruppo di rivoltosi latitanti della banda Bentivegna; processo e fucilazione (16 marzo) di Salvatore Spinuzza.216 Le autorità siciliane vivevano sotto il terrore continuo di uno sbarco di fuorusciti!

A Napoli le truppe di terra e di mare venivano eccitate alla ribellione con manifestini incendiari inneggianti ad Agesilao Milano; altri proclami, che bollavano lo spergiuro del re nel '48, si trovavano affissi per le strade o venivan temerariamente lanciati nei pubblici ritrovi.217

Ed eran rivolte o attentati o manifestazioni che, nel mentre rendevan furente la polizia borbonica, si ripercuotevano in tutto il regno in ondate di commozione e di paura, e queste alla lor volta in una isterica attesa ahimè passiva di novità sempre piú gravi. Lo stesso accadeva fuori del regno, se non peggio ancora, gonfiate come venivan quelle notizie, sistematicamente, dalla stampa democratica, che ne rilevava il nesso con altri avvenimenti significativi taciuti dal governo e dai giornali napoletani.218 che pian piano si persuadevano tutti che lo scontento di quel popolo fosse giunto all'estremo ed accennasse ormai a tradursi in una di quelle generali e definitive proteste, che mentre nascono dalla sensazione diffusa della impossibilità di star peggio, conducon d'un tratto a sincronizzare gesti isolati e a far fruttare al cento per uno sacrifici individuali o di pochi, fin allora giudicati di nessun rendimento.

 

Eran loro medesimi che le inscenavano; pure, ogniqualvolta giungesse ai mazziniani fuori del regno notizia di «novità» ivi scoppiate, la loro volontà rivoluzionaria si tendeva fino allo spasimo. Febbrile era principalmente l'opera spiegata da Mazzini a Londra, Fabrizi a Malta, Pisacane a Genova, in connessione col Fanelli di Napoli, come ben s'intende leggendo la Cronaca del Comitato segreto di Napoli (stampata venti anni piú tardi),219 che raccoglie il carteggio scambiato fra costoro dal principio del '57 al fatalissimo luglio del medesimo anno220. Fra centinaia di lettere non una che non si riveli vergata sotto l'assillo della massima urgenza, non un rigo che non si riferisca al grande soggetto; in tutte, quell'ardore quasi maniaco, quella concisione, che pare precipiti al dramma, imposta dalle difficoltà della scrittura criptografica. Documento dunque, quel libro, di eccezionale valore, seppure piú psicologico che storico. Fra intese e malintesi, entusiasmi e depressioni, crisi di debolezza e parossismi di disperata energia, vi si disegna nettissimo uno dei piú tragici conflitti d'anime che sia dato ricostruire: dissonanza di strumenti uno per uno perfetti e purissimi, che non riuscivano a intonarsi a concerto.

Colpisce a tutta prima il contrasto netto di tempra fra quelli che si possono dire i due protagonisti dell'epistolario: Pisacane e Fanelli.

Fin dall'estate del '56 Pisacane, s'è detto, è doventato «l'uomo della spedizione», il massimo esponente delle speranze ad essa legate; tanto che mentre egli, modestamente, conta sempre su Garibaldi quale grande riserva da reclutarsi all'ultimo, Mazzini vuole invece che i napoletani guardino a lui con piena fiducia, non soltanto per la direzione dell'impresa, ma anche per eventuali altissimi incarichi post-rivoluzionari: cerca insomma, con ogni mezzo, di accreditare il «mito» di Pisacane.221 Pisacane ne è degno: le sue lettere a Fanelli, precise, sicure, animatrici, denunziano infatti uno stato d'animo di perfetta calma interiore; egli ne balza fuori, se confrontato col Pisacane del primo periodo rivoluzionario, come piú maturo, piú solido, piú disinteressato; le sue vedute sono semplici e rettilinee, la volontà, meglio che ferrea, implacabile. «Se nessuno si muove?... Creperemo», scrive tranquillamente una volta.222

Varia esperienza, molteplicità un po' dispersa d'interessi spirituali, certa saccente superficialità di cultura sembra che s'equilibrino, ora, nello sforzo, per confluire in quel solo fermissimo volere, tutto teso a uno scopo. Dinanzi alla sua dichiarata certezza (e insisto sull'aggettivo) ogni dubbio finisce col cadere, ogni contrasto si spiana; la penna pesante dei Saggi ci si rivela d'un tratto capace di scrivere con una robusta asciuttezza e un rigor logico davvero insospettati. Le sue lettere si rovesciano su Fanelli con tanta precipitosa irruenza che solo un freddo indifferente o un altro Pisacane potrebbero salvarsi dall'esserne travolti.

Fanelli, si sa, non era né questo né quello: ma un entusiasta e un debole. D'aperta intelligenza, mazziniano convinto, gran volontà di fare, ; ma anche un carattere morbidamente incerto, impressionabile, a scatti: nei momenti piú critici, quando soprattutto importa di conservare la calma, egli si perdeva invece in esaltate crisi d'entusiasmo o di terrore, sotto l'incubo di sproporzionati fantasmi.223 Fisicamente incapace, dunque, nel suo squilibrio, di assumere o sostenere responsabilità, ché anzi la sola prospettiva che gliene venissero addossate bastava a paralizzarlo; e insieme, per generosità e per ingegno, uomo nato di prima fila!

Tale il disgraziato corrispondente di Pisacane e Mazzini a Napoli, che avrebbe senza dubbio lasciato di sé migliore ricordo, se il Comitato di Napoli avesse seguitato ancora, dopo il '56, a disporre le pedine per la grande partita rivoluzionaria da giuocarsi in un lontano avvenire. Fanelli, non sapeva neanche lui com'era andata, si trovò invece, sui primi del '57, impegnato a fondo nella partita «bella», quando del giuoco ignorava affatto (e a lui pareva sinceramente d'averne avvertiti gli amici) le regole e perfino le mosse. Nel comprensibile affanno finí col perder di vista il bersaglio medesimo, tanto che giunse al finale persuaso, diresti, che la minaccia di scacco gli venisse non già dal regime borbonico, ma proprio e unicamente da quel dannato binomio: Pisacane-Mazzini.

Né questa può dirsi un'imagine sforzata del vero. Bisognerebbe, per convincersene appieno, leggere ad una ad una le sue missive, povero Fanelli, cosí vaghe, ineguali e contradittorie, dalle prime che parevano addirittura ordinanze o richieste d'un comandante in capo, alle ultime somiglianti piuttosto a timide giustificazioni del subordinato cui, col rimprovero solenne, sia stato impartito l'ordine di condurre senza piú discutere il suo reparto all'assalto.224

Ma basteran qui pochi esempi.

Siamo nel febbraio '57. Son già vari mesi che Fanelli ha scritto a Genova e a Londra: la rivoluzione è matura nelle Due Sicilie; a farla esplodere occorre solo una scintilla esterna; sia questa una spedizione armata. Adesso, nuove insistenze.

2 febbraio, Fanelli a Mazzini e a Pisacane: «Io adunque ricorro a voi in nome del paese infelice, e vi domando consiglio ed aiuto... Noi abbiamo un lavoro che mi sembra bastevole elemento per una iniziativa imponente e decisiva... Manchiamo di direzione interna proporzionale all'opera da iniziarsi, manchiamo d'armi e danaro: voi potete coadiuvare in ciò che a noi manca

10, 16 febbraio, risponde Pisacane: Fanelli conti pure su appoggio illimitato di consigli, di danari, di uomini. Non ad altri che a lui spetta però l'esporre il piano d'azione, studiato in accordo con le possibilità locali. La spedizione concordata partirebbe, e presto, da un porto da destinarsi: quali la rotta, lo scalo, il punto di sbarco migliori?

Fanelli, 25 febbraio: gli sembra che la spedizione possa seguire il primitivo piano, scalo a Ponza cioè per liberarvi i deportati politici, e poi sbarco con essi in qualche punto della costa a mezzogiorno di Napoli.225 Ma non vorrebbe, per carità, che ci si rimettesse unicamente a lui in cosa di tanta importanza: «Ammetto che sul luogo soltanto si è giudice competente... però non credo che io solo possa essere questo giudice...»

Pisacane lo tranquillizza il 10 di marzo: intenda bene Fanelli, la responsabilità di risolvere o contromandare la spedizione non spetta affatto a lui, ma tutta allo scrivente e a Mazzini. Egli non ha che a precisare, una volta per sempre, in qual misura un contingente armato che sbarchi sulla costiera napoletana possa contare su appoggi locali.226 Accettata la rotta proposta da lui, il punto d'approdo verrà scelto sulla costa del Cilento (fra Sapri e Salerno, cioè); il momento dell'azione? Vicino, probabilmente; perciò si tengano pronti, Comitato e sezioni.

Stupore di Fanelli; il quale, come se nulla fosse, vien fuori il 19 di marzo con la notizia fino allora chi sa perché gelosamente taciuta esser le fila della cospirazione in Cilento quasi completamente disperse. L'affare, scrive adunque con imperturbabile calma, «mi sembra che debba pigliare un po' per le lunghe». Furia santissima di Pisacane, che comincia a conoscere il suo uomo. Vedo, gli risponde il 31, che il «vostro termometro segnava varii gradi sotto il zero, mentre il giorno antecedente... aveva ricevuta una (lettera) da Mazzini che sembrava alla temperatura dell'acqua bollente. Io amo meglio bollire che gelare; in luogo di farla da moderatore ho risposto con temperatura anche piú elevata». Il Cilento è sconsigliabile? «In nome di Dio abolite i condizionali, io dico Cilento perché cosí mi hanno suggerito le notizie da voi fornite; ma tale scelta è assolutamente subordinata alla vostra volontà; voi avreste dovuto dirmi: no Cilento non vale, bisogna attenersi a Basilicata ed indicarmi la spiaggia... avreste potuto scrivermelo recisamente». Bando agl'indugi, Fanelli scelga immediatamente e definitivamente il luogo opportuno per lo sbarco; e in quel luogo, al momento dato, si faccia trovare egli stesso con i gruppi d'azione, e a Ponza una persona fidata pensi a organizzare la rivolta da suscitarsi all'arrivo del vapore.227 L'epoca della spedizione resta fin d'ora stabilita per la fine di aprile o primi di maggio.

Dallo stupore Fanelli, nel buscar la strigliata, precipita addirittura in una crisi di disperazione: l'organizzazione non è a punto! Mancano danari e armi! Manca la «direzione interna»! Si crede forse ch'egli sia «Padre eterno»? prorompe il 2 d'aprile.228 Chiede un mese, un mese solo di proroga. Ma nella chiusa si contraddice: «... Se Mazzini e voi giudicate... si possa dal fatto di Ponza avere il resultato dovuto, io allora essendo fuori dei miei calcoli di probabilità... sarò non ostante l'individuo di cui potrete disporre come v'aggrada, e soldato che non manca al suo posto...»

Invocato a chiarire il malinteso, interviene Fabrizi scrivendo a Mazzini perché non precipiti, a Fanelli perché abbandoni una buona volta l'idea di poter perfezionare a tutto suo agio i preparativi, necessariamente febbrili, di un'insurrezione.

Pisacane è piú esplicito: «Voi... pensate costituirvi promotori di rivoluzione, e fate dipendere dalla vostra personale cooperazione il risultamento buono o tristo... Mazzini ed io siamo convinti che rivoluzione è nel cuore..., e vogliamo mandare ad effetto una congiura ristretta, rapida... Vista la cosa sotto questo lato, importa sommamente non far precedere il fatto d'armi da nulla che possa dar sospetti al governo...» E poi, appassionatamente: «amico caro, unito a voi ho cercato a far rivolgere Mazzini verso il Sud;229 ho superato tutte le difficoltà prevedibili prima, ho offerto me stesso, vi ho scritto le mie ragioni e le cose che mi sono indispensabili, le quali non richiedono tempo lungo; se poi si rimanda alle calende greche... comincio a vederci nero; tali cose, quando si spandono troppo, si prolungano... finiscono per abortire, spero che rimarrò bugiardo».

Per non restar bugiardo e per tagliar corto ai fanelliani tentennamenti, s'induce, se mai, ad affrettare ancora: e il 5 d'aprile ecco una lettera al malcapitato suo corrispondente, per informarlo che la spedizione si farà, senz'altro, alla fine del mese; si accetteranno da lui osservazioni e consigli sul modo, non una parola sul tempo. «Noi non pretendiamo da voi l'assicurazione che tutti insorgano, tutt'altro... noi desideriamo che Isola (Ponza) accetti dal luogo, e quando ci dite Isola accetta tutto è fatto».

Mazzini, con solenni parole, rincalza: «Noi individui, qualunque sia la nostra attività, non possiamo creare l'insurrezione d'un popolo: noi non possiamo che crearne l'occasione. O il popolo fa; e sta bene; o non fa, e non siamo mallevadori che davanti a Dio e alla nostra coscienza. Unico debito che ci corre è quello di studiare coscienziosamente l'opportunità del momento: coglierlo, e offrire con una mossa audace l'iniziativa alla nazione, è il genio rivoluzionario. Per me, per noi, il momento è giunto».230

Prevedibile la risposta dell'atterrito Fanelli (16 aprile), che disperatamente s'abbranca all'unica leva lasciatagli in mano: «Nell'isola di Ponza non abbiamo relazione»; sei settimane di tempo sono il minimo indispensabile per stabilir dei contatti.

Perché non dirlo prima? Perché aver perduto mesi preziosi? Perché ridursi alla vigilia dell'azione per confessare che organizzazione non c'è? Tali le accorate e sdegnose recriminazioni di Pisacane a Fanelli; al che questi, già rimbrottato dall'amico Fabrizi: ma «l'affare delle isole fu da me proposto quasi ad esempio... mentre molti altri avrei potuto proporvene». L'indulgenza di Pisacane ha questa volta un limite: «Voi — cosí lo fulmina il 12 di maggio — volete sciogliervi da ogni responsabilità, e fate bene, io per parte mia ve ne ho sciolto completamente...; ma dire che il negozio isola era un'idea, un esempio, perdonate ciò è un voler spingere la cosa troppo oltre...»231

Il drammatico colloquio si prolunga cosí; da un lato disperati sforzi per rimandare, il sollevare ogni giorno nuovi e piú gravi ostacoli all'azione imminente; dall'altro la risoluta volontà di concludere (meglio concluder male che rinunciare), che risponde con l'isolare e travolgere ad una ad una le rinascenti difficoltà, qualche volta, mezzo piú spicciativo, col non considerarle neanche. Se il rimandare, cosí ragiona Pisacane, avesse almeno contribuito a far avanzare di un pollice l'organizzazione! Ma no; col trascorrer del tempo, come sempre accade, le energie si sono afflosciate, son cresciuti i timori, diminuiti gli adepti, rimaste le difficoltà tali e quali. O non lo sente perfino Fanelli e nel suo perpetuo ondeggiare non avverte egli stesso il bisogno di scrivere agli amici (il 30 d'aprile): «Il generale volere è per un cangiamento e sia qualunque... La rivoluzione è indispensabile... veggo chiaro essere impossibile o almeno lunghissimo il tempo per ottenersi de' grandi preparativi... Nel Sud dovrebbe farsi al piú presto la rivoluzione... Ma non ostante, se v'è tempo...» ecc. ecc.?

Come regolarsi con un nevropatico di questa forza, che, soverchiato da cose piú grandi di lui, anziché cedere ad altri la direzione del moto, si contenta di sfogarsi in deplorazioni puerili: «Com'è dura la condizione di chi ha anima che ribolle oltre il confine, di chi è tenuto generalmente, ed è forse il piú eccitato in tutto il partito del Sud e deve per dovere parlar parola di ghiaccio!!»? Non resta, evidentemente, poiché è troppo tardi ormai per sostituirlo, che esautorarlo di fatto, limitandosi a trasmettergli ordini, istruzioni, incitamenti e rimbrotti, cestinando senza pietà le sue geremiadi inutili.

Cosí, ai primi di maggio, gli si comunicava seccamente la nuova data «definitiva»: il 25 del mese. Tanto meglio se ci si potesse accordare coi deportati nell'isola; in caso diverso, nessun rinvio: la spedizione avrebbe puntato direttamente alla costa.

E mentre Fanelli, al quale Mazzini e Pisacane dovevano sembrare geni furiosi e implacabili, esprimeva il dubbio che a Genova si facesse «la burletta per divagarsi dalle gravi preoccupazioni», o lamentava che lo si facesse «morir di palpiti, parlandomi sempre di otto in otto giorni e al piú da un mese all'altro per l'insurrezione», Mazzini, fulminandogli l'«adesso o piú mai per forse dieci anni», gli dava ordini minuti e precisi, in tono di chi non ammetta repliche: vedere il tale a Napoli, dir questo, chieder quello, minacciare cosí e cosí, recarsi qua o , preparar queste e queste manifestazioni, scriver questi proclami; eseguire insomma, e appuntino, le istruzioni di Pisacane.232 Pur non cessando dal protestare, dal declinare ogni e qualsiasi responsabilità, Fanelli finalmente chinò il capo; si perse meno in lettere e si mise a fare di piú, tentando di ripigliare il molto tempo sprecato: allacciò rapporti con gli esponenti delle varie opposizioni di Napoli,233 mandò avvisi alle isole, alle sezioni tutte, agli amici residenti in località litoranee, tentò il tentabile per scuoter le provincie, facendo coi suoi corrispondenti — ma troppo tardi! — quella parte di animatore gagliardo e risoluto, insofferente degli altrui indugi e dubbiezze, che Pisacane aveva fatto con lui; con la differenza che mentre per Pisacane era quello l'atteggiamento spontaneo corrispondente al fuoco interiore, per Fanelli non era che una parte male appresa e goffamente recitata sotto gli occhi minacciosi e severi del suggeritore. Chi mai poteva subire la sua suggestione?

 

A Genova, intanto, il piano della spedizione si delinea senza incertezze, se pure con successivi spostamenti di date (dalla fine di aprile si va alla fine di maggio, e poi al 10 di giugno): resta inteso che Pisacane, Cosenz e Pilo, a capo di una trentina di volontari (reclutati, questi, da un Barbieri di Lerici, uomo di mare) s'imbarcheranno sul postale bimensile Genova-Cagliari-Tunisi; Fabrizi procurerà per alcuni di essi una falsa richiesta di lavoro, datata da Tunisi.234 Una goletta, da tempo acquistata, caricherà in precedenza una provvista d'armi, recandosi poi a incontrare il vapore in un punto fissato della sua rotta normale. Giunta in vista la goletta, quei del vapore daranno il segnale per l'ammutinamento; riuscito il quale, e trasbordate le armi, lo dirigeranno su Ponza; , sorpresa la guarnigione, imbarcheranno quanti piú relegati sarà possibile; indi, ripetuto o no il tentativo, a seconda delle ultime informazioni che perverranno, a S. Stefano e a Ventotene, fileranno verso la costa a sud di Salerno (nell'aprile si decide per Sapri):235 ivi avran luogo lo sbarco generale, la riunione con le squadre rivoluzionarie dell'interno, l'inizio della marcia su Napoli. Nel frattempo, giunta a Genova notizia telegrafica dell'avvenuto sbarco, immantinente vi scoppierà, e scoppierà anche a Livorno, la sommossa da tempo disposta. La scintilla da Sapri si propagherà cosí nell'Italia settentrionale e centrale; e se non altro l'esser padroni di quei due porti metterà in grado gli amici di Pisacane di soccorrer d'urgenza la sua spedizione con l'invio, su navi requisite, di uomini, d'armi e di quant'altro mai possa occorrere.

La cosa piú urgente dunque, verso la fine di aprile, è l'allacciare rapporti diretti con S. Stefano e con Ventotene: Fanelli, che è finalmente entrato in relazione con Ponza, a questo non è ancora riuscito; ed è abbastanza importante sapere se gli interessati gradiscono d'esser liberati e spediti in guerra contro Napoli! È Pisacane che si assume l'incarico: scrive a un Pisani in Ventotene, a Filippo Agresti in S. Stefano. Della prima lettera è notevole l'esordio drammaticamente conciso: «Amico. Noi siamo un'antica conoscenza, i vostri principî mi son noti, i miei sono anche noti a voi, ma io non vengo a discorrere di principî; da molti anni si discute e si ciancia, senza ottenere il minimo frutto. L'opinione pubblica europea che prima ci era favorevole, ora si rivolge contro di noi, vedendo che un popolo che si sopporta tale tirannia e non fa altro che svelarne le infamie al mondo per eccitarne la compassione come quei mendicanti che pongono in mostra le piaghe di cui è coverto il loro corpo è un popolo degradato. Noi sentiamo ogni giorno mormorare a voce sommessa siffatte ingiurie, premiamo l'affanno del cuore nella speranza di splendide condizioni. L'opportunità ci si offre, mi diriggo a voi».236 Prosegue la lettera esponendo in breve il piano di sbarco nell'isola. Accetta il Pisani di dar man forte all'impresa? E quanti con lui?

L'interpellato dovette risponder favorevolmente se Fanelli, il 30 di maggio, lo avvertiva di tenersi pronto per l'11-13 giugno e lo pregava di fornirgli al piú presto le indicazioni opportune per eseguire nel miglior modo la sorpresa sull'isola.

Con l'Agresti fu diverso. Rispose dapprima in modo generico;237 otto giorni dopo (ma , c'era un regolare servizio di posta... clandestina tra S. Stefano e la terra ferma, povero re Ferdinando!), pur professandosi favorevole all'esecuzione del progetto, nobilmente avvertí l'obbligo d'informare gli amici che gli ergastolani politici eran e no una cinquantina, dieci de' quali o per età o per acciacchi inamovibili; si correva dunque il gravissimo rischio di liberar dei delinquenti veri in gran numero e pochi patrioti (avessero quei di Ponza dato lo stesso avviso!).238 Ma la terza sua letteraispirata, sembra, dallo Spaventa suo compagno di pena, mal prevenuto contro Mazzini e le sue iniziativedovette contenere un risoluto invito a non occuparsi di S. Stefano;239 imbarazzato e preoccupato, Fanelli gli rispondeva infatti il 29 maggio, cosí: «spero far arrivare il protesto vostro al traente prima di quest'epoca (la data della partenza da Genova), ma è bene che voi facciate ogni sforzo per apparecchiarvi almeno per un acconto pel possibile caso che il protesto non arrivasse in tempo al suo destino». Fatto sta che allo scalo a S. Stefano si finí col rinunciare affatto, fissando invece come obiettivo principale Ponza, e accessorio e subordinato alle circostanze, Ventotene.

Alle difficoltà derivanti dalle deficienze di Fanelli e dalle ritardate comunicazioni si aggiungevano naturalmente quelle dovute alla mancanza di fondi.240 Ventimila lire, versate da Adriano Lemmi, qualche altra oblazione, sta bene. Ma si dovevano spedire migliaia di lire a Napoli, di abbondante danaro doveva esser fornito il capo della spedizione, e bisognava acquistare intere casse di armi! Mazzini non aveva requie: sollecitava gli amici e gli amici degli amici, caricava d'ipoteche il suo minuscolo patrimonio. È doloroso, scriveva, «ch'io debba arrossire mendicando qua e lire sterline agli inglesi che le dànno a un po' d'influenza personale, ma inarcando le ciglia, e dicendomi: dove diavolo è il Partito fra voi?»241 Procurarsi daghe, fucili, pistole, d'altronde: non era agevole ottenerli neanche a pronti contanti, e tanto meno trasportarli, una volta acquistatili. Un certo stock, a quanto sembra, venne fornito dagli Orlando di Genova; altri giunsero a Genova, celatamente, da Torino. Pisacane a Cosenz, 17 maggio: «Avrai ricevuto la mia ultima in cui ti annunziavo l'arrivo di 116 (cifrario: armi), collocati in luogo sicuro ed opportuno pel resto da farsi... L'italianissimo Cavour ha fatto inviare da Torino una circolare a tutti i carabinieri onde visitare i carri sullo stradale, per fortuna il nostro arrivò quasi 24 ore prima di quello che avevamo calcolato, altrimenti chi sa che cosa sarebbe avvenuto...»

Notizie vaghe su questo tramestio d'armi trapelavano alle autorità genovesi e ai consoli stranieri, specie a quello toscano e napoletano. S'incrociavano dispacci allarmati accennanti a un supposto deposito di fucili nell'isola di Capraia, o a una imminente spedizione armata nel Sud, o semplicemente a misteriosi imbarchi di misteriose casse su vapori in partenza da Genova.

Pisacane contava massimamente, pel successo della sua impresa, nel segreto.242 Ma ! Già nel dicembre '56 il governo francese era informato di una macchinazione mazziniana in Genova; e nel gennaio '57 quello napoletano sapeva della sospetta azione svolta da un sedicente inglese, di nome Charles, in connessione con gli oppositori in Sicilia (Charles era il nome di guerra di Pisacane!); e nel febbraio perfino il Times di Londra arrischiava supposizioni in proposito, ripetendo quel nome;243 il 4 d'aprile la polizia toscana veniva informata essere «stati noleggiati nel porto di Genova per rilevante prezzo due bastimenti da servire a segrete speculazioni che dovevano aver luogo sulle coste della bassa Italia»;244 il 30 dello stesso mese Fanelli avvertiva gli amici che «un vapore da guerra costeggia la Calabria per evitare un... presuntivo sbarco di murattisti»;245 il 21 maggio l'Intendente di Genova, chiamato a render ragione delle supposte spedizioni d'armi da quel porto, non poteva recisamente smentire i rumori corsi in proposito, ammetteva comunque «che armi vecchie d'ogni sorta sono state comperate in città e spedite all'estero»;246 il 29 dello stesso mese agl'Intendenti di tutte le provincie litoranee delle Due Sicilie si spedivan da Napoli istruzioni d'intensificare la vigilanza costiera, e speciali raccomandazioni venivano fatte all'Intendente di Salerno, sotto la cui giurisdizione cadeva appunto la costiera di Sapri!247 E finalmente, il 13 giugno, la polizia genovese accertava che il postale Cagliari della linea Sardegna-Tunisi compiva carichi d'armi abbastanza inspiegabili.248

Altro che segreto! I preparativi della spedizione venivano seguiti, passo per passo, dalle polizie di tutta Italia; e se il progetto poté, dopo tutto, eseguirsi, ciò si dovette proprio al fatto che, a forza di gridare per mesi e mesi al lupo, i rapporti di polizia finirono per lasciare increduli i rispettivi governi. Non quello di Torino, è vero; ma su i molti e coscienti peccati di debolezza da esso commessi verso i rivoluzionari napoletani (i quali, va detto, non ne ebbero, per parte loro, che un assai vago sospetto), sembra superfluo anzi che no l'insistere; poco se ne sa, piú s'intuisce; la verità vera, forse, non la sapremo mai.249






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175 Scriveva l'Ambasciatore napoletano a Londra al suo Ministro degli Esteri, 10 febbraio 1852: «Mazzini nel chiarirsi ostile a tali progetti (quelli murattiani), li fomenta sotto mano... Quello ch'egli se ne ripromette è aprir la via a disordini, a convulsioni nel nostro Reame, qualunque si fossero, per trarne profitto ai suoi chimerici sogni»... (GAVOTTI, 48).

Da molti rivoluzionari si rimproverava a Mazzini il disinteresse per la questione napoletana. Mazzini protestava contro l'ingiusta accusa, pur ammettendo che, dal '49 in poi, «Napoli — e fu grave danno — si raggruppò in sé, si riconcentrò, temo, soverchiamente nei suoi dolori, e fu troppo poca la comunione che tenne con noi tutti quanti siamo figli delle altre province» (a Fabrizi, 15 agosto 1854).



176 Sugli appoggi ottenuti da L. Murat dalla Massoneria, cfr. LUZIO, La Massoneria nel Ris. Ital., Bologna, 1925, I, 253, 255.

Già nel gennaio '50 Mazzini dava la sveglia contro il pericolo murattista (a Fabrizi). — Il 12 febbraio dello stesso anno Il Risorgimento pubblicava una protesta di emigrati napoletani stabiliti in Piemonte contro una insinuazione, stampata dal National, su pretese loro pratiche in pro di Murat.



177 Sulle gite di Pepe a Genova, cfr. GAVOTTI, 66; CHIALA, Lettere di Cavour, II, 480. — Quanto a Cosenz, egli era cosí contrario a Murat che — scriveva il Console napoletano in Genova al Ministro degli Esteri in Napoli — tanto lui che il Musto avean dichiarato che «in caso d'invasione del regno da parte della Francia... avrebbero rimesso sul loro petto il giglio dei Borboni e si sarebbero battuti contro i Francesi». GAVOTTI, 61.



178 Nel settembre '55 usciva a Parigi La question italienne, Murat et les Bourbons, di SALICETI; l'emigrato napoletano F. TRINCHERA stampava a Torino nello stesso anno La quistione napoletana. Ferdinando Borbone e Luciano Murat (entrambi murattisti). Rispondeva DE SANCTIS nel Diritto, n. 237, e l'anno di poi LA FARINA, con Murat e l'unione italiana. Replicavano i murattisti con L'unità italiana e L. Murat re di Napoli (Torino, 1856).

Sul Times scriveva Murat il 24 settembre 1855: «Dichiari il Piemonte di inalberare la bandiera della indipendenza e libertà d'Italia ed io mi obbligo non solo a non preparare ostacoli, ma anche a dargli tutto il mio aiuto»...

Vennero tentati, dai murattisti, perfino gli ergastolani politici di S. Stefano, di Montesarchio ecc. Ma le risposte che n'ebbero dovettero far arrossire gl'incauti proponenti almeno quanto c'inorgogliscono, oggi. Ed eran risposte che volevan dire: alla libertà per mano vostra preferiamo ancora la galera! (MAZZIOTTI, 350; SETTEMBRINI, Epistolario; PANIZZI, Lettere).

Del MONTANELLI si veda Il partito nazionale italiano, Torino, 1856. — Anche SIRTORI (La questione napoletana. Metodo di soluzione), con l'isolare il problema napoletano da quello generale italiano, spianava in pratica il terreno a Murat.

Cavour, è un fatto, dava a credere di non veder quelle trame troppo di mal occhio. Il 10 aprile 1856, infatti, nell'informare Rattazzi di un colloquio che avrebbe prossimamente avuto con Clarendon, Ministro degli Esteri inglese, gli diceva testualmente: «Credo potergli parlare di gettare in aria il Bomba. Che direbbe di mandare a Napoli il Principe di Carignano? O se a Napoli volessero Murat di mandarlo a Palermo?» Il 16 settembre '55 La Farina assicurava il Torrearsa, e il 31 ottobre il Ricciardi, che si era alla vigilia di una restaurazione murattista. «Ritenete queste mie parole non come notizie di giornali e come supposizioni, ma come un fatto positivo, stava quasi per dire un fatto compiuto». (La Farina, si sa, aveva le sue entrate in Piazza Castello). Pallavicino, a séguito di colloqui avuti coi ministri sardi, confermava (7 agosto '56): «Il governo piemontese non favorisce i... murattisti, ma non li avversa». Gli è che Cavour non si credeva né in diritto, né in grado di opporsi a una rivoluzione napoletana in favore di Murat. La sua politica fu quella di non avversare le ambizioni francesi, ma piuttosto di suscitare contro di esse le gelosie inglesi. A Corti, Incaricato a Londra, 5 settembre '56: informi Clarendon che il partito murattista guadagna giornalmente terreno e «qu'il agit désormais à découvert, ce qui ferait supposer un appui formel de la part de la France. En présence de tels faits, nous nous trouvons placés dans une situation extrémement pénible. Il est évident que nous ne pouvons nous disposer à combattre Murat... surtout si nous ignorons l'opinion... du cabinet Britannique sur cette question». Allo stesso, 17 settembre: «vous aurez soin... de vous montrer très préoccupé des efforts de ce parti. Vous tâcherez de... faire comprendre que l'inertie de l'Angleterre fait sa force; et que son succès est à peu près certain si le cabinet britannique, après avoir ténu un langage hautain et provocateur envers Bomba, s'absténait d'exercer une pression efficace à son égard» (CHIALA, II, 390, 395). Cavour batteva, cosí facendo, la via giusta. Anche Ruggero Settimo, per minare la propaganda murattista, scriveva a Palmerston (AVARNA, Ruggero Settimo, Bari, 1928, 225).



179 Il giorno appresso altri dieci emigrati aggiungevano le loro firme alla protesta antimurattista (tra gli altri, cospicui, i nomi di De Sanctis, Nicotera, La Cecilia, Plutino).



180 Le finalità del Centro politico obbedivano a quell'imperativo d'azione che allora era universalmente sentito. Anche Silvio Spaventa, tutt'altro che un esaltato, scriveva allora: «il punto che piú importa è di operare» (CROCE, 217). E, non molti mesi dopo, il Guerrazzi, pur nemico acerrimo dei mazziniani «La Italia ha bisogno di ferocissimi che sappiano morire ed uccidere; se questi non sorgono..., allora bisogna che aspetti salute da una invasione di barbari che le rinnovino il sangue» (Lettere, Livorno, 1880, II, 321; 6 giugno '57).



181 È Musolino stesso, che in una lettera a Ricciardi, 11 luglio '57, parla della sua gita a Londra.



182 L'asserzione di La Farina in lettera a Settimo, 13 maggio '56 (AVARNA, 220).



183 Sul Centro politico cfr. Pallavicino a Manin, 26 giugno '56 (MAINERI, Manin e Pallavicino. Milano, 1877).



184 «So che si vorrebbe fare insorgere Napoli senza la parola d'ordine: Vitt. Eman. re d'Italiascriveva ancora Pallavicino a Manin, il 17 giugno '56 —; queste pratiche sono evidentemente un maneggio mazziniano; ho quindi ricusato di prendervi parte».



185 Altri membri del Comitato di Napoli (Capitale e provincie); V. Padula, i fratelli Magnone, G. Matina, G. B. Matera, i fratelli Albini, F. e G. Salomone, G. Lazzaro, P. Lacava, S. Verratti, G. Libertini, L. Fittipaldi ecc. (BILOTTI, 66).



186 Mignogna si era rifugiato a Genova; quivi raddoppiando, naturalmente, di attività. Si dimostrò collaboratore prezioso di P. nella preparazione dell'impresa di Sapri.



187 Dopo aver combattuto in Lombardia nel '48, Fanelli si era unito alla compagnia Medici con la quale aveva raggiunto, l'anno di poi, Roma. Quivi combatté al Vascello e venne promosso ufficiale. Caduta la repubblica, emigrò dapprima in Corsica, indi a Malta; e finalmente fece ritorno a Napoli. Su di lui v. anche PUPINO-CARBONELLI, 126.



188 Sulla progettata spedizione per liberare gli ergastolani cfr. CAPASSO, I tentativi per far evadere L. Settembrini dall'ergastolo di S. Stefano, in Il Risorgimento italiano, 1908, 22-65; e MARIO, Birth, 255-56. — Settembrini si trovava a S. Stefano dal 1850; cosí l'Agresti. Silvio Spaventa, invece, dal 1852.



189 Il progetto Panizzi non divenne realizzabile che nel '55, in seguito a fortunati spostamenti di cella dei detenuti politici (cfr. anche CROCE, Dal 48 al 61, Bari, Laterza, 1911, 200 sg.).

Il 14 giugno 1855 Pilo informava Fabrizi aver Pisacane aderito con entusiasmo all'«affare che Garibaldi dovrebbe capitanare» (v. anche MARIO, Bertani, I, 222).



190 La polizia borbonica si era avveduta per tempo di questa attività extra diplomatica del ministro Temple; anzi re Ferdinando in persona aveva ordinato si «mettessero guardie presso l'abitazione del T. per notare quei che con la legazione inglese avessero rapporti» (NISCO, 336). Per altre fonti ci sono note le simpatie del T. per la causa liberale e i suoi generosi contatti con le famiglie dei condannati politici. Quanto al suo tollerare che la corrispondenza settaria da e per Napoli godesse della franchigia e della immunità diplomatica, ogni dubbio si elimina esaminando i documenti delle indagini ordinate al proposito dal Clarendon, nel '57 (Record Office, Londra, F. O., 70 | 288, 290; e C. O., 158 | 184-186). Il Console inglese a Napoli, Barbar, a Clarendon, 25 ott. 1857 (dispaccio in cifra): «Il sig. Fagan — ex attaché alla legazione inglese di Napoliasserisce... che sir W. Temple permise a varie famiglie di Napoli di mandar lettere ai loro congiunti rifugiati a Malta, e di riceverne, attraverso la missione inglese». Lo stesso a sir Hammond, 10 ott. 1857: il commissionario della legazione ammette che da circa sei anni sir Tempie riceveva al suo nome corrispondenza da e per Genova e Malta, da e per quel tale Dragone ex membro del Comitato segreto di Napoli! Morto il Temple, e poi interrottesi le relazioni diplomatiche fra le due Sicilie e l'Inghilterra, s'incaricò di trasmettere la corrispondenza settaria il consolato inglese di Napoli. Scriveva infatti il Governatore di Malta al Ministro delle Colonie, 26 giugno 1858 (confidenziale): Son venuto a sapere che «for some time» il segretario capo del governatorato ha accettato dai rifugiati politici napoletani le loro lettere, le quali, suggellate come corrispondenza ufficiale e chiuse nel «Government bag» venivan trasmesse al consolato a Napoli. Ho ordinato la cessazione immediata di tale pratica. — Il Ministro delle Colonie ritenne suo obbligo in tale emergenza di chieder spiegazioni all'ex segretario del Governatorato maltese; questi si giustificava (in data 4 luglio 1858) ammettendo che il privilegio della corrispondenza in tal modo sottratta alla censura napoletana era stato concesso soltanto a tre o quattro persone ben note da molti anni al Governatorato; e s'intende che le lettere loro eran «di natura strettamente privata». Al Ministro non restò che esprimere la speranza «che questa pratica si smettesse in avvenire», essendo inammissibile «che il governo inglese si facesse lo agente di una corrispondenza clandestina a danno di Stati amici» (6 luglio 1858).



191 Che la prima idea della spedizione fosse partita da Napoli attestano innumerevoli fonti e conferma Mazzini (La situazione, nel vol. IX dei suoi Scritti, ed. Daelli, 292) «a rimprovero di chi doveva far altro, e non fece».

Evidentemente da Napoli si era informato Mazzini (il quale trasmetteva la notizia al Mordini, 17 agosto 1856) che in quella capitale «con centomila franchi si compra l'azione di un nucleo militare, intorno al quale si raggrupperebbero i nostri elementi».



192 Di questi «confinati», si parlava spesso nella stampa liberale europea nei termini della piú grande commiserazione. Si veda ad es. la notizia stampata dalla Concordia, di Torino, il 17 ott. 1850, delle battiture inflitte a quelli di Ponza, rei d'aver gridato un evviva alla Costituzione: «È noto che questi sono coloro i quali valorosamente combatterono in Venezia, e che gli Austriaci consegnarono nelle mani del Borbone. Uno di questi infelici spirò non ha guari in conseguenza delle sofferte battiture». — A uno stampato clandestino da essi dedicato ai deportati nelle isole e diffuso nel Mezzogiorno (1857) accennano ripetutamente nella loro corrispondenza P. e Pilo. Nei primi mesi del '57 vennero relegati a Ponza anche i supposti complici di Agesilao Milano (CADOLINI, 272).



193 Leggendo i Ricordi di Mazzini su P.Esaminata la proposta, P. l'approvò, e me ne scrisse, sollecitandomi, s'io pure approvassi, a recarmi ov'esso era. Esaminai, approvai..., mi affrettai a recarmi a Genova... La spedizione in Ponza doveva aver luogo il 10 giugno...»), si potrebbe dedurre che Mazzini fosse stato informato del progetto solo nel 1857 (ché qui egli allude evidentemente alla sua seconda gita a Genova, compiuta appunto in quell'anno). Ma nessun dubbio è possibile: l'intero epistolario di Mazzini nella seconda metà del '56 smentisce appieno l'ipotesi. Bisogna tener presente che i Ricordi furon vergati da Mazzini nel '58, quando egli aveva ancora delle buone ragioni per non parlare del suo viaggio in Italia del '56.

Il soggiorno di Mazzini a Genova si prolungò da giugno a novembre 1856. Come sfuggí alle ricerche della polizia? Questa sapeva benissimo dove il temuto cospiratore si trovasse (Pilo a Fabrizi, 29 luglio: «Il Governo ha saputo l'esistenza di Pippo in questa, e lo ha ricercato, ma non è riuscitoriuscirà a sapere dove si trova domiciliato»; Mazzini allo stesso, 16 settembre: «Il Governo sa benissimo ch'io son nello Stato. E non me ne importa»). Sta bene che Mazzini rimaneva solo e celato tutto il giorno, ricevendo gli amici o recandosi a colloqui soltanto di notte; sta bene che egli mutava frequentemente d'alloggio. Ma bisogna per forza ammettere che le ricerche della polizia non fossero troppo zelanti (non vide egli perfino la sua sorella?)!

Nel settembre '56 Emilia Hawkes fu a Genova per qualche giorno; vide naturalmente Mazzini, vide molto i Pisacane con i quali rinsaldò l'antica amicizia (MAZZINI, S.E.I., LVII, 79, 103).



194 Lo stato d'animo di Garibaldi verso Mazzini in quel periodo ci è chiarito dall'atteggiamento dei suoi piú fidi. Medici a Garibaldi, 26 sett.: «Come vedi siamo alla vigilia di vedere altra pazzia mazziniana, la quale, riesca o no, finirà come le altre in modo ridicolo... Quell'uomo rovina ogni cosa». Iddio ci liberi da quelle «piattole» dei mazziniani, esclamava Pallavicino il 4 ottobre. Garibaldi medesimo, c'informa Foresti, s'andava augurando allora d'avere almeno una volta «sotto le unghie per Dio» quel guastafeste del Mazzini! — Quanto a Bertani, Saffi assicura (Cenni ecc. a proemio degli Scritti di Mazzini, ed. Daelli, IX, 130) che egli «insistette indarno per tentare la prova con mezzi maggiori, guardando alla liberazione de' prigionieri e del paese ad un tempo: ma non se ne fece altro»; e anche la MARIO (Bertani, I, 222) dice che nell'agosto '56 il B. avrebbe informato il Panizzi «di altri progetti a cui egli teneva mano, sollecitandolo ad ottenergli dagli amici inglesi il permesso di unire il danaro loro a quanto si poteva raccogliere in Italia per tentare la liberazione di tutti i prigionieri, poi tentare la rivoluzione nel Regno».



195 In un primo tempo (Pisacane a Fanelli, 16 febbr. 1857) Mazzini insisteva perché la spedizione venisse preceduta dalle insurrezioni di Genova e Livorno «per poi correre con una parte dei mezzi al Sud». Ma P. e Fanelli riuscirono a persuaderlo dell'opportunità di rovesciare il piano, per non subordinare la spedizione al dubbio successo delle sommosse e comprometterne l'esito con la «sveglia» che queste avrebbero dato al governo napoletano (DE MONTE, XXXV). Come è noto, Mazzini si giovò (o sperava giovarsi) per l'insurrezione di Genova del vivissimo malcontento ivi regnante in seguito al trasferimento dell'arsenale alla Spezia e all'aumento del dazio sui generi di prima necessità. «V'era per me un problema militare e un problema politico da scioglierespiegò piú tardi Mazzini —; il primo dovea sciogliersi in Napoli, il secondo in Piemonte. Bisognava e bisognerà sempre avere una base all'insurrezione nazionale; e bisognava e bisognerà sempre impedire alla monarchia di Piemonte di prendere la direzione del moto e tradirlo. Quindi il moto di Genova» (a Medici e Bertani, 27 nov. '57).



196 Una lettera di Mazzini a Mordini, agosto '56 (« a Pisacane che va aumentando il materiale in modo da imprendere non solamente sorprese, ma attacchi») sembra alludere a un viaggio di P. a Nizza in quel tempo: ché Mordini risulta, dall'indirizzo della lettera, residente appunto a Nizza in quei giorni. La cosa è possibile, per quanto strano sia che non ci consti anche da altre fonti; o forse l'indirizzo (scritto da Mazzini? o aggiunto, per chiarezza, dagli editori della lettera?) è sbagliato. Ma quel che escludo senz'altro è che P., nell'agosto, si recasse a Malta per conferir col Fabrizi, come sostiene il Menghini semplicemente perché, in una sua a Fabrizi, del 19 agosto, Mazzini allude a un C. che si reca appunto nell'isola. Menghini non ha dubbi nel risolvere C. in Carlo e Carlo in Pisacane; io ne ho moltissimi. Di piú: foss'anche Pisacane costui, non potrebbe darsi che una gita progettata fosse poi andata a monte (come andò, l'anno di poi, quella di Londra)? Un viaggio a Malta non era una bazzecola allora, ed è impossibile ammettere che P. l'abbia compiuto senza lasciarne ricordo che in questo frettoloso accenno di Mazzini.

Durante il suo soggiorno a Genova Mazzini lanciò la famosa sottoscrizione per i 10.000 fucili. Nella decima lista di sottoscrittoripubblicata dall'Italia e Popolo, 21 nov. 1856figuran tra gli altri i nomi di P., Cosenz, Bertani ecc.

Un primo malinteso fra Mazzini e Cosenz (primo d'una lunga serie) s'ebbe fin dal settembre '56 (MAZZINI, S.E.I., LVII, 107).



197 La Legione anglo-italiana era, si sa, un corpo di volontari che l'Inghilterra aveva reclutato in Piemonte nella seconda metà del '55 per la guerra d'Oriente. Fra gli emigrati piú poveri, molti eran stati quelli che vi s'erano arruolati; ma i piú, e i migliori (P. fra quelli), contrari a che forze italiane si allontanassero da un possibile teatro di guerra nostrano, non solo avean rifiutato di assumervi grado e stipendio, ma s'eran dati a contrastarne il reclutamento. Senonché era sorta nel frattempo in taluni l'idea di profittare della traversata che la legione avrebbe dovuto compiere da Genova a Malta per forzar l'equipaggio a sbarcarla in qualche punto della costa italiana, a dar fuoco alle polveri. Ma la partenza venne ritardata fino al marzo '56 (a guerra finita!) ed eseguita a scaglioni. Nel giugno, disciolta la legione in Malta, 700 uomini vennero diretti in Inghilterra: fu per l'appunto durante la traversata che il luogotenente Angherà, siciliano, vanamente e a suo danno incitò i compagni ad eseguire il progetto, sbarcando in Sicilia. (RAULICH, Giudizi di un esule, 462). Pisacane era stato informato del progetto dal Musolino, il quale accerta che P., mutata opinione, «non solo si fece ad incoraggiare il reclutamento anglo-italiano, ma dié opera a guadagnare ufiziali» (a Ricciardi, 11 luglio 1857). Nel che è assai probabilmente qualche esagerazione: non s'intenderebbe infatti perché mai P. non avrebbe cominciato, more solito, col dar l'esempio agli altri, arruolandosi per primo nella Legione.

L'Angherà, scampato al carcere della Vicaria di Napoli, era riparato (nel '50) a Genova, indi a Torino e Malta. P. lo conosceva di certo; nella Libera Parola, n. 6, sett. '56, il suo gesto sfortunato veniva ampiamente elogiato. Su di esso e sulle insistenze di Mazzini perché lo sbarco dei legionari si eseguisse in Toscana, v. Mazzini a Fabrizi, 12 agosto '56.



198 Le insistenze di P. verso Bertani si spiegan non solo con la vivissima stima che egli nutriva per lui; ma anche col fatto che in mano a B. erano i fondi destinati alla liberazione degli ergastolani... Panizzi scrisse decisamente al B. essere escluso di poterli utilizzare per altre e diverse imprese (MARIO, Bertani, I, 223).



199 La lettera a Bertani (di mano di P., ma firmata anche da Pilo) in MARIO, Bertani, I, 225-226. In essa era detto: «Il battello c'è». Si alludeva probabilmente al Ligure, piccolo piroscafo, che i fratelli Orlando avevano messo in un primo tempo a disposizione dell'impresa, da essi piú tardi sconsigliata. Il Ligure era affidato al Kirckiner «il quale, intimo di P., alloggiava con lui» (ITALICO, 106. Sul K. cfr. anche PAOLUCCI, 212).

Bertani, pur contrario alla spedizione e soprattutto al proposto moto di Genova, non escludeva che Garibaldi, se interpellato all'ultimo, alla vigilia della esecuzione, avrebbe finito coll'accettare di farne parte (MARIO, Bertani, I, 42).



200 Sulla popolarità di Garibaldi scriveva Mazzini (fonte non sospetta...): «Il nome di G. è onnipotente tra i Napoletani, dopo l'affare romano di Velletri. Voglio mandarlo in Sicilia, dove sono maturi per l'insurrezione e lo invocano come condottiero» (a Taylor, 16 febbr. 1854).



201 Musolino (a Ricciardi, 11 luglio 1857) accerta che nel '56 P. «conveniva completamente su queste mie vedute » (sulla necessità cioè di non dar corso alla spedizione se non nel caso che si fossero raccolti mezzi imponenti).



202 Anche Cadolini collaborava alla Libera Parola; ed è lui che attesta (Mem., 213) che P. fu il direttore del giornaletto. — Copie della Libera Parola (divenute rarissime) si trovano oggi negli archivi Cadolini e Mordini, nonché nella Biblioteca Nazionale di Firenze (legate insieme all'Italia e Popolo). — Sulla diffusione della L. P. in Lombardia, molti documenti si trovano appunto nell'Archivio Cadolini (Museo del Risorgimento, Milano): agente per la diffusione era Ernesto Cairoli; per la diffusione nell'Italia meridionale e centrale, oltre alle notizie contenute nell'Epistolario di Mazzini, in DE MONTE, in PALAMENGHI CRISPI, varie notizie si trovano in una lettera di Pilo a Fabrizi, 17 febbr. '57, che si conserva nell'Archivio garibaldino del Museo del Risorgimento in Milano, cartella 792. — Stampata dapprima in una tipografia regolare, la L. P. dovette poi tirarsi alla meglio in un locale offerto dagli Orlando nella loro officina. — La crisi finale della L. P. coincise con quella dell'Italia e Popolo che, per contrasti col tipografo Moretti, dové cessare le pubblicazioni, per riprenderle poi, indipendente, con il titolo leggermente modificato di Italia del Popolo. — Della L. P. uscirono in tutto, pare, 12 numeri (9 maggio '57, P. a Cadolini: «La L. P. è morta poi resuscitata, e poi credo, sotterrata per sempre»).



203 Le citazioni della L. P. riprodotte nel testo son ricavate in ispecie dai primi 6 numeri. Di articoli contro Murat ne comparvero parecchi nella L. P.; quello Murat e i Borboni era di P. (come l'altro su A. Milano). Fin dal numero si leggeva in proposito: «Alla rivoluzione dunque intenda tutta la operosità dei patriotti delle Due Sicile. Solo in caso di invasione straniera soprasiedano; concorrano anzi a respingerla. Conseguita la vittoria ripiglino l'impresa contro la tirannide domestica».



204 Pisacane, Mazzini, Fanelli, Fabrizi seguivano con intenso interesse lo svolgersi della politica generale europea, attenti soprattutto alla Francia e all'Inghilterra. Il loro carteggio formicola di notizie, di induzioni, di profezie piú o meno azzeccate sull'azione di Palmerston, di Clarendon, di Napoleone III ecc. Cercavano di regolare i loro movimenti in conformità: il minimo accenno a crisi europea li riempiva di speranze. Sulla fine del '56, ad es., si ebbe un ennesimo riacutizzarsi della questione svizzera (tensione fra l'Austria e la Svizzera). P., il gennaio '57, scrisse all'amico Cosenz che, caso mai si arrivasse a guerra austro-svizzera, egli si sentiva di andare a combattere contro l'Austria con una legione italiana, a meno che «tutti facessero proponimento di farsi ammazzare individualmente, anche senza legione, per la povera Italia» (FALCO, 265).



205 A proposito degli armamenti di Murat, correva voce allora che egli avrebbe potuto disporre della disciolta legione polacco-ungherese e che avrebbe organizzato altresí una legione franco-italiana. — Per combatter Murat i mazziniani ricorrevano a tutti i mezzi (P. a Fabrizi, 11 marzo '57: «Cercheremo di stampare un proclama murattista, facendo la caricatura di quello che ci han spedito»).



206 Sono arcinote le simpatie che, dal 1811 in poi, la Sicilia antiborbonica nutrí per l'Inghilterra; ed è anche noto che, in fondo a ogni insurrezione antiborbonica in Sicilia, il governo napoletano credé poter ravvisare la segreta influenza della politica inglese. Il moto del Bentivegna non andò esente da tale sospetto, tanto piú che, essendo interrotti i rapporti diplomatici con l'Inghilterra, le crociere navali inglesi intorno alla Sicilia, compiute all'incirca in quel tempo, non parevano a Napoli potersi spiegare senza reconditi motivi. Interessante a questo proposito una lettera di G. Bonomo, marchese di Castania, a lord Clarendon, da Londra, 27 febbraio 1857. Il B. sollecitava un passaporto per Genova, ma si diffondeva a ragionare delle «calde simpatie ormai sempre sentite dai Siciliani per la nazione Inglese», assicurando che proprio esse avevan dato luogo «in novembre 1856 a diverse vicende in taluni punti della Sicilia, ed in particolar modo vicino a Palermo», vicende cui egli stesso aveva preso parte. (Record Office, F. O., 70 | 292). — Il governo napoletano, per parte sua, favorí in quel tempo, specialmente in Sicilia, la diffusione di un opuscolo stampato a Genova che accusava di perfidia e di riposte mire la politica inglese nel Mediterraneo. Ne davan notizia, concordemente, il Console inglese a Palermo (Goodwin) a lord Clarendon, 3 gennaio '57; e il comandante la corvetta Wanderer all'ammiragliato in Malta, da Malta, 9 marzo '57 (Ivi, 70 | 291, 292). Si trattava probabilmente dell'opuscolo Situation politique de l'Angleterre et sa conduite machiavélique à l'égard des puissances éuropéennes et en particulier de la France (Gènes, 1856). Che i sospetti napoletani avessero, allora, qualche fondamento dimostra assai chiaramente un passo del dispaccio 13 gennaio '57 del suddetto Console Goodwin al Clarendon, nel quale egli prendeva atto della «approvazione» trasmessagli dal Clarendon «per non avere incoraggiato l'ultima rivolta in quest'isola!» (Ivi, 70 | 291). Dalla medesima fonte apprendeva il Clarendon che il governo napoletano piú di una volta aveva segnalato alle dipendenti autorità in Sicilia il presunto arrivo di viaggiatori inglesi, incaricati di recar denaro e messaggi da parte di Mazzini ai rivoluzionari isolani (Ivi, dispacci 24 gennaio, 4 febbraio 1857).



207 Della riunione di Genova dette notizia il VISALLI, De Lieto, 38 sg.



208 Al lavoro compiuto in comune in questo periodo si riferisce probabilmente la letterina di P. al De Lieto, da Genova 7 febbraio '57 (con la quale gli fissava un appuntamento), che si conserva a Roma nel Museo d. Risorgimento. (Mss., Busta 175, n. 14).



209 La Libera Parola dedicò quasi un intero numero al resoconto del processo Bentivegna (P. a Fabrizi, 3 marzo 1857).



210 La stampa napoletana esaltò, in occasione dell'attentato, il sangue freddo dimostrato dal re; né sembra che avesse torto. Ma d'altra opinione era il Console inglese a Napoli, che nei suoi dispacci lo dipingeva come un codardo. «Si è tentato di fare del re un eroescriveva egli l'11 gennaio al suo Ministro degli Esteri —. Ma la verità è ben diversa. L'attentato del soldato Milano fu cosí improvviso e fallí cosí immediatamente, che il re non ebbe il tempo di spaventarsi; e come può chiamarsi un eroe, quando vediamo gente innocua arrestata nei caffè, un gran ballo rinviato sine-die, i teatri chiusi, l'illuminazione a gas sospesa», tutto ciò per ordine suo? (Record Off., F. O., 70 | 289).



211 Le ultime parole di A. Milano in DE CESARE, III, 65.



212 Falcone era stato compagno di Milano in collegio; si rividero poi a Napoli, dove ebbero frequenti riunioni politiche. Assai drammatica fu la fuga di Falcone da Napoli a Malta (DE CESARE, I, 204-207, 212 sg.).



213 Sulla Libera Parola e poi su L'Italia e Popolo, 11 gennaio '57, comparve un infiammato art. di esaltazione di Agesilao Milano rivelante, s'è detto, la penna di P.

Stupiva, il Gropello, della freddezza dimostrata dal popolo napoletano di fronte al re dopo l'attentato (DE CESARE, III, 57).

Abbondarono in Piemonte le pubblicazioni di carmi apologetici di Agesilao Milano (che la polizia fece mostra, in pochi casi, di sequestrare), furon coniate medaglie in suo onore, gran voga ebbero i suoi ritratti. L'Italia e Popolo, 19 gennaio '57, proclamava essere egli «il miglior figlio d'Italia». Una settimana prima, a Torino, gli emigrati siciliani avevano solennemente celebrato, in chiesa, un rito funebre in suffragio di Bentivegna.



214 Sicuramente doloso era stato, pel Console inglese a Napoli, lo scoppio del Carlo III. «Questa — egli scriveva al Clarendon il 6 gennaio '57 — è una situazione spaventosa, milord, che cagiona a tutti molta paura e ansietà»; e suggeriva che, a rinforzo del Malacca già ancorato a Napoli, vi s'inviasse altra nave da guerra, a protezione dei residenti inglesi. Il qual desiderio, avallato dal comandante il Malacca, venne prontamente soddisfatto, coll'invio, da Malta, dell'Osprey. (Record Office, F. O., 70 | 289, 292).



215 La lettera del cap. Farguliar (com. il Malacca) all'ammiraglio Stopford era del 14 gennaio '57.



216 Fu in occasione del processo Spinuzza che il Console inglese a Palermo mandò al suo governo gli atroci particolari sulla procedura giudiziaria borbonica, accludendo fra l'altro il disegno di quella «cuffia del silenzio» che, assicurava, era stata adoperata in istruttoria per estorcere confessioni. Donde grida di indignazione della stampa inglese, furiose smentite napoletane, risolute conferme del Console (rimaste, queste, naturalmente sepolte negli archivi inglesi, ché non si volle dir mai da che parte giungessero a Londra tali notizie). Record Office, F. O., 70 | 291, disp. 14 marzo, 8, 14 aprile, 5 maggio '57.



217 Rapporto del com. la corvetta Wanderer al suo ammiraglio (da Malta, 16 maggio '57) intorno al giro della Sicilia pur mo compiuto, con fermate nei vari porti per aver dai Consoli notizie sulla situazione. A Catania «circolava la voce che gran numero di rifugiati in armi stavano per sbarcare in qualche punto della costa in quei dintorni. Il governo, di conseguenza, sorvegliava accuratamente l'intera costiera sudoccidentale». E il Console inglese a Palermo (a Clarendon, 24 gennaio): il governo ha messo in guardia le autorità locali contro un temuto sbarco di fuorusciti da Genova e da Malta «sotto la vantata protezione di una forza straniera». (Record Off., F. O., 70 | 291. 292).



218 Il governo borbonicoera logica difesa — s'appigliava alla dimostrata futilità degli isolati tentativi rivoluzionari per magnificare, in una circolare diretta ai suoi rappresentanti all'estero (27 dicembre), la fondamentale tranquillità dello Stato e l'attaccamento della popolazione alla dinastia regnante.



219 L'opera del DE MONTE, non sempre esattissima e comunque incompleta, va integrata con gli scritti cit. di PALAMENGHI CRISPI.



220 La corrispondenza settaria si svolgeva, oltreché con la complicità dei consolati inglesi, con l'aiuto di camerieri di bordo dei vapori Genova-Napoli. Il sistema piú usato per celare le lettere era quello di cacciarle tra la fodera e la sottofodera di certe spazzole, delle quali ci si serviva anche per scambiare la corrispondenza in provincia (Resoconto, cit., 74; Fanelli a P., 29 maggio '57). Né solo a trasmettere lettere si prestavano questi camerieri, né essi appartenevano solo a linee italiane. Difendendosi infatti dall'accusa, insinuata dalla polizia napoletana, che il Malacca avesse introdotto a Napoli armi e munizioni, il suo comandante scriveva all'ammiraglio Stopford, da Palermo, 5 marzo '57: «Il facente funzione di Console inglese a Napoli mi ha informato... che il cameriere di un vapore mercantile inglese è stato arrestato mentre recava su di sé, nascoste, delle rivoltelle che la polizia ha sequestrate». (Record Office, F. O., 70 | 292).



221 Mazzini a Fanelli, 21 nov. '56, a proposito della eventuale costituzione, a rivoluzione avvenuta, di un governo insurrezionale; «Non tocca a me proporvi nomi; soltanto vi dico che tra i vostri a me noti da lungo Carlo Pisacane congiunge forse meglio d'ogni altro al coraggio, al patriottismo, all'onestà il concetto strategico della guerra nazionale. Se mai gli eventi mi portassero a rappresentare nel governo d'insurrezione un'altra provincia italiana che insorgerà, avrei in lui tutta fiducia».



222 Il 30 dic. '56 P. scrive a Fabrizi: «Ora, secondo me... è d'uopo tentare anche a costo di essere schiacciati».

La calma conservata da P. in questo periodo è magnificamente documentata anche dalla lunga e meticolosa recensione che, sull'Italia del Popolo del 7 marzo '57, egli dedicava a uno scritto di VINCENZO ORSINI (Lettera di V. O. all'anonimo autore delle Memorie storico-critiche della rivoluzione avvenuta in Sicilia nel 1848). Come poteva, fra tanti e cosí gravi pensieri, addentrarsi nell'esame critico delle operazioni condotte dal governo e dall'esercito siciliani, nove anni innanzi? P. lodava assaissimo l'amico Orsini (antico compagno della Nunziatella) per quanto aveva compiuto in quel tempo, ritorcendo contro il La Farina le accuse di debolezza e peggio da questi rivoltegli (lo lodava altresí perché, «dopo aver sofferto, durante la rivoluzione, molte amare delusioni, e dopo dieci anni di esilio, egli professa i medesimi principii che allora professava, pregio grandissimo fra il continuo altalenare delle opinioni, oggi divenuto costume»). Tecnicamente e politicamente, l'articolo di P. era la logica continuazione e dell'altro pubblicato sette anni innanzi su L'Italia del Popolo, a Lugano, e della Guerra combattuta, laddove si occupava della Sicilia. Ma quel che importava a P. (e forse la sola ragione del suo scritto) si era la possibilità che tal recensione gli offriva di battere a palle infuocate ancora una volta contro la tesi lafariniana: la tesi secondo la quale la Sicilia non avrebbe avuto salute che in una rivoluzione compiuta nel nome del re di Sardegna: «È inutile dimostrare — egli scriveva — che il governo sardo non vuole né può abbandonare la colleganza dei potentati d'Europa e farsi il sostegno di una provincia in rivolta contro la legittimità ed il diritto divino, che sono i principî su cui esso governo è basato; questa verità è confermata dalla storia... Il governo sardo, se avvi sollevazione nelle provincie italiane sue limitrofe interverrà senza dubbio, ma interverrà per soffocare la rivoluzione, o padroneggiandola come fece in Lombardia nel '48, o combattendola a forza aperta, come tentò di fare in Toscana, e come fece a Genova, e come fa sempre ogni qual volta un tentativo minaccia di turbare la quiete in Italia, sperando cosí che le altre potenze lascino ingrandire i suoi possedimenti, in grazia dei servizi prestati alla causa dell'ordine. — L'11 aprile '57, nuovo scritto di P. sull'Italia del Popolo, per prender atto di qualche rettifica che Ignazio Calona aveva creduto di addurre alla narrazione militare di Orsini, e quindi anche alla sua recensione (sul Calona, v. il Dizionario del Risorgimento, cit.). Con questi due scritti si concludeva l'attività giornalistica di P.



223 Una conferma tipica del disgraziato carattere di Fanelli si ebbe assai piú tardi, quando — legatosi egli nel '65 col rivoluzionario russo Bakunin — venne da questi incaricato di un importante giro di propaganda socialista in Ispagna. Le sue lettere di sembrano calcate su quelle napoletane: perpetuamente dominato da una volontà piú forte della sua, e nel contempo ribelle contro di essa, F. trovò dapprima il suo tormento in P., di poi nel Bakunin. Vittima sempre! (Sul viaggio in Ispagna, 1868, v. NETTLAU, 151).



224 Giusto è per altro osservare che alla radice di molti ondeggiamenti di Fanelli stavano le informazioni contraddittorie che gli pervenivano dalla provincia. Le lettere pubblicate da DE MONTE son piú che bastevoli a dimostrare che se Fanelli non era al suo posto, ancor meno di lui lo erano i suoi immediati collaboratori. Come conciliare ad es. le infiammate dichiarazioni di un Nicola Albini, 6 marzo '57 («Siate certi che all'apparire degli ufficiali insorgeranno pure le gatte»), o di suo fratello Giacinto, 7 marzo («... Si è pronti, prontissimi a insorgere... il fuoco è celato e divamperà in modo sorprendente... »), col contegno tenuto poi alla prova dei fatti dai nuclei rivoluzionari da essi controllati?



225 Nel febbraio il disegno preferito era quello di far partire 20 uomini armati su di un vapore salpante da Londra; nelle acque di Pianosa esso avrebbe dovuto incontrarsi con una goletta proveniente da Genova, con a bordo altri 15 uomini e carico d'armi; indi proseguire per Ponza.



226 «Per la cooperazione io conto piú sulla disposizione morale che sugli accordi — aveva già scritto P. a Fanelli, il 16 marzo. — Tutto ciò che mi verrà da voi sarà utilissimo, preziosissimo, ma il puro necessario v'è». — Si tenga presente che P. partiva sempre dalla premessa che il movimento nel napoletano non avrebbe dovuto essere che un episodio, sia pure essenziale, di un sistema insurrezionale pan-italiano. Genova e Livorno, si sa; ma anche si ricevevan grandi promesse dalla Sicilia e dalla Toscana (Lunigiana segnatamente).



227 P. ordinava a Fanelli di trovarsi a Sapri; ma Fabrizi lo consigliò invece di trattenersi fino all'ultimo a Napoli: chi altri che lui avrebbe potuto infiammare la popolazione napoletana quando fosse giunta notizia dell'avvenuto sbarco? (a F., 15 aprile).



228 Lo stesso 2 d'aprile Fanelli si sfoga in termini ancora piú pietosi col Fabrizi.



229 Ancora nel gennaio '57 Mazzini nutriva dei dubbi sulla possibilità e l'utilità di agire nel sud: fu P. a travolgerli (Mazzini a P., 26 gennaio: «Amico, intendetemi bene: darei il sangue perché si facesse nel Sud, ma non voglio sprecare gli ultimi elementi che posso mettere in moto sull'incerto»).



230 Mazzini rincarava la dose con Fanelli sei giorni appresso («Le minorità non fanno rivoluzioni; le provocano: la minorità che provocò le giornate di marzo in Milano, se avesse esatto, prima della scintilla produttrice, cifra uguale all'impresa, non avrebbe tentato mai»).



231 Offeso da tanti rimproveri, rispondeva il 20 maggio F., fieramente vantando gli elogi in altri tempi prodigatigli da Mazzini come a uomo non certo indegno di assumere responsabilità.



232 Di P., nella lettera 24 maggio, Mazzini tracciava questo magnifico elogio: «Migliore uomo non potreste avere ad ispiratore: principio radicatissimo, assenza d'ambizione di potere, pericolosa nell'avvenire, concetto strategico della Guerra d'Insurrezione, energia nell'esecuzione. Troverete tutto in lui. Non posso abbastanza raccomandarlo a voi e ai vostri».



233 Sullo stato d'animo dei «costituzionali» napoletani, coi quali Fanelli allora si poneva in contatto, getta un fascio di luce il dispaccio del Console inglese a Napoli a lord Clarendon, 23 aprile '57, nel quale è il resoconto di un colloquio da lui avuto con uno dei loro capi. Questi ha dichiarato che la popolazione aspira a un governo costituzionale; che i fautori di Murat sono pochi, ma che se questi riuscisse a sbalzare il Borbone, il partito costituzionale lo appoggerebbe, pur di cambiare in meglio. I capi del movimento costituzionale «guardavano da tempo all'Inghilterra, nella speranza che qualche circostanza facesse trasparire le vedute del governo inglese rispetto al regime che esso preferirebbe veder stabilito a Napoli, e il partito desiderava quanto mai di regolare i propri movimenti in modo da incontrare i disegni del governo inglese, al quale naturalmente guardava come a governo costituzionale». Alle quali dichiarazioni il Console ha evasivamente risposto, trincerandosi dietro il carattere puramente commerciale (?!) della sua missione e concludendo nel senso che «non poteva offrire la sua opinioneincoraggiare o dissuadere il partito costituzionale dall'aderire a qualsiasi movimento di tendenza rivoluzionaria» (Rec. Off., F. O., 70 | 289). Il Clarendon, 30 aprile, sanzionava la condotta del suo saggio dipendente (Ivi, 70 | 288). — Ma se i rivoluzionari napoletani di tutte le sfumature cercavano contatti col governo inglese, non da meno si mostrava il governo napoletano, naturalmente in via non ufficiale. Il Bianchini, Direttore generale di polizia, venuto un giorno a discorrer di politica col Barbar, lo assicurava infatti che, quanto a lui, non risparmiava sforzi per indurre il re a volgersi verso l'Inghilterra, l'unico paese della cui amicizia ci si poteva fidare. L'Inghilterra si era lasciata trascinare da quel «parvenu» di Napoleone III alla contesa con Napoli, ma ormai cominciava ad accorgersi che la Francia perseguiva esclusivamente i suoi propri interessi. L'Inghilterra non voleva affatto la caduta dei Borbone, ma solo la supremazia nel Mediterraneo; era dunque sperabile che accettasse le aperture che il governo napoletano aveva di recente fatte a Londra. Il Barbar si limitò ad ascoltare e a prendere atto delle assicurazioni essere falso che Napoli fosse caduta sotto la tutela austriaca. (Ivi, 70 | 289).



234 Sulle intese per la falsa richiesta di lavoratori da Tunisi e per il nolo della goletta, v. P. a Fabrizi, 22 aprile '57.

Nell'aprile '57, P. avrebbe dovuto fare una gita a Londra per perfezionare le intese; ma poi la cosa andò a monte (Mazzini alla Biggs, 19 aprile '57; DE MONTE, LIII).



235 Della decisione di eseguire lo sbarco a Sapri venne subito e misteriosamente a conoscenza la polizia napoletana. Deposizione Ajossa al processo della Gazzetta d'Italia (Firenze, 1876): «... nei primi giorni dell'aprile 1857, epoca in cui occupavo il posto d'Intendente della Provincia di Salerno, venne a trovarmi un individuo del quale non posso declinare il nome, manifestandomi che dal Comitato rivoluzionario di Napoli... si era progettato uno sbarco a Sapri». (Resoconto, 274).



236 L'autografo di questa lettera di P. è stata pubblicata, senza indicazioni di data o di destinatario, sul Risorgimento Italiano, 1914, 123-124. Ma che si tratti proprio della lettera a Pisani della fine di aprile '57 appare chiaro a chi la confronti col carteggio P.-Fanelli e colle circostanze a noi note riguardanti il fratello del Pisani relegato, Enrico, che prese poi parte alla prima spedizione mancata dell'8 giugno.



237 La prima lettera spedita dall'Agresti — che conteneva indicazioni topografiche su S. Stefano — venne poi rinvenuta sul cadavere di P. (Resoconto, 453).



238 Le informazioni date dall'Agresti il 20 maggio, e chi sa perché tenute in non cale, eran precisissime: «In Ponza vi sono pochissimi relegati politici... in Ventotene vi sono circa una cinquantina... In S. Stefano siamo tra condannati a' ferri ed all'ergastolo trenta, e circa 800 condannati comuni» (lettera pubblicata sul Ris. Ital., 1914, 779).



239 Che l'Agresti fosse stato persuaso dallo Spaventa a sconsigliare P. dall'impresa su S. Stefano asserisce NISCO, 367. Anche Settembrini dichiarò nettamente che non si sarebbe mosso dall'ergastolo in compagnia dei condannati comuni. (TORRACA, Settembrini. Notizie. Napoli, 1877, 45).



240 Cfr. in MAINERI, 397-403, le lettere di Cosenz a Pallavicino (1856) per ottenere contributi finanziari. Nel dicembre Pallavicino, pregato anche da Mordini e Varè, elargí 7000 lire per l'acquisto di fucili (Ivi, 249). Ma ad ulteriori pressioni — e alludendo a quanto, per incoraggiarlo, gli aveva scritto Cosenz, che l'Inghilterra cioè non vedesse di mal occhio l'impresa, — Pallavicino rispondeva: «Ma se l'Inghilterra è realmente disposta ad assistervi, come avviene che abbiate difetto del danaro occorrente ad iniziare l'impresa?... Io non ci vedo chiaro». Alla ricerca di fondi si dette anche, prima in Inghilterra e poi in Piemonte, la WHITE (In memoria di Nicotera, 4).



241 Le sdegnose espressioni di Mazzini sulla questione finanziaria in lettera a Mordini, 29 febbraio '57.



242 P. teneva talmente al segreto che, il 22 aprile, scriveva a Fabrizi: «Io poi protesto, che se a forza di voler preparare, si darà la sveglia al (Governo) e si comincerà a parlare della faccenda, siccome sono responsabile non di me stesso, ma di molti, che vengono per fiducia in me, avrò il coraggio di rifiutarmi».



243 Fino dall'8 agosto '56 l'Intendente di Genova scriveva al Ministro dell'Interno: «... Altri poi dicono con tutta certezza imminente un moto, ma questo verrebbe iniziato a Firenze, Livorno e Napoli, e si estenderebbe in tutta la Toscana e nei Ducati» (Archivio di Stato, Torino, Materie politiche interne in genere, mazzo 18). — Il 4 dicembre Villamarina (Ambasciatore a Parigi) assicurava Cavour essere l'Imperatore informato di un imminente scoppio insurrezionale in Italia e particolarmente nel territorio sardo. — Il Console inglese a Palermo citava in un dispaccio a Clarendon 24 gennaio '57 il testo delle circolari spedite da Napoli alle autorità siciliane per porle in guardia contro sbarchi di fuorusciti (Rec. Off., F. O., 70 | 291).

La citazione del Times in lettera di P. a Fanelli, 16 febbraio. — Il 4 febbraio il cit. Console a Palermo informava che «la polizia marittima ha ricevuto l'ordine di ricercare un tal Giorgio Glassford accusato di essere un emissario di Mazzini, mandato con denaro in Italia e in Sicilia a fini rivoluzionari. Questo personaggio non è apparso finora in nessun luogo dell'isola». (Rec. Off., F. O., 70 | 291).



244 Sulle informazioni del governo toscano, cfr. Monitore Toscano, Firenze, 11 maggio 1857.



245 La lettera di Fanelli 30 aprile era diretta a Mazzini; le stesse cose F. scriveva il 14 maggio a P.



246 Le informazioni dell'Intendente di Genova nell'Archivio di Torino, 1. c., mazzo 17. Era stato il Ministro Rattazzi che il 18 di maggio aveva messo in guardia l'Intendente contro possibili trame dei mazziniani. (CHIALA, II, CCXXV). Questi comunque assicurava che le spedizioni di armi «se si dovesse prestare fede alle dichiarazioni fatte in dogana, tutte sarebbero seguite per Tunisi».



247 Il 13 giugno l'Intendente di Salerno assicurava le superiori autorità d'aver già dato tutte le disposizioni opportune (Archivio di Stato, Napoli, Ministero di polizia, fascio 551).



248 Nel suo dispaccio 10 giugno, l'Intendente di Genova precisava che sul Cagliari in partenza per Tunisi sarebbero stati imbarcati 75 fucili, 250 canne da fucile, 128 platine. Nello stesso dispaccio affermava non sussistergli che fossero state spedite delle casse sospette a Capraia. Questa informazione era stata richiesta dall'Incaricato d'affari toscano a Torino, cui il Ministro Lenzoni aveva scritto «che un tal Cuneo, di Genova, si è impegnato a depositare casse di carabine in Capraia, a disposizione del Comitato rivoluzionario di Genova. Queste casse sarebbero dichiarate come contenenti lastre di piombo» (Archivio di Stato, Torino, 1. c., mazzo 17).



249 Sul contegno ambiguo del governo piemontese di fronte ai rivoluzionari disposti ad agire nel resto d'Italia, cfr. lettera di Mazzini a Pallavicino, 2 agosto '56. Il governo lasciava o prometteva di lasciar mano libera soprattutto in Toscana, ché se vi fossero scoppiati movimenti insurrezionali si sarebbe potuto invocare il principio del non intervento. Altre notizie sul «contatto indiretto» fra Mazzini e il Ministero sardo in quel tempo, in lettera a Taylor, 8 agosto. Sulla politica che «a molti fa l'effetto di essere a doppio fondo» del gabinetto torinese, cfr. D'Azeglío a Sforza Cesarini, 2 gennaio '58 (CHIALA, II, CCXLV). Sul contegno di Rattazzi, Ministro dell'Interno, nella crisi del giugno-luglio 1857 e sulle accuse che da molte parti gli piovvero d'aver chiuso consapevolmente gli occhi sulle trame mazziniane, salvo a reprimerle poi quando irrimediabilmente fallite, cfr., oltre alle sue biografie e ai suoi discorsi parlamentari, CHIALA, II, CCXXV, CCXXXII.

 

Capitolo X.





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