Mentre si approssimava la data per
l'esecuzione del tentativo, una crescente agitazione s'impadroniva di
quasi tutti gli organizzatori, sia che temessero per loro stessi, sia
che soltanto allora riuscissero a misurare qual sorta di
responsabilità si fossero assunti, sia finalmente che
l'ostinata contrarietà alla spedizione di molti fra i migliori
amici li rendesse proprio all'ultimo dubbiosi. Pisacane no. Era anzi
sempre piú calmo: piú affettuoso e indulgente nelle
lettere a Fanelli, meno concitato in quelle a Mazzini o a Fabrizi,
sereno e rasserenante nei colloqui coi «complici».
Nonostante l'imminente ciclone la sua normale attività
proseguiva imperturbabile.
Ed eccolo modestamente occupato a
impartire lezioni di matematica fino al giorno della partenza, eccolo
dissipare col franco sorriso i sospetti degli amici non a parte del
segreto, eccolo, nella corrispondenza coi conoscenti, distendersi a
ragionare del piú e del meno, come se nulla fosse.
Il 9 maggio '57, per esempio (quando
pare che la spedizione debba effettuarsi alla fine del mese), cosí
risponde a una lettera di Giovanni Cadolini, il quale gli ha offerto
un posto d'ingegnere nel suo studio a Oristano: «Il lavoro che
mi proponete mi sarebbe molto omogeneo, ed i patti accettabili,
perché proposti da amici in compagnia dei quali sarei
contentissimo di lavorare; ma per tutto questo mese e l'entrante
sono già impegnato e non potrò lasciar Genova,
quindi non posso che ringraziarvi di cuore della memoria che avete
conservato di me, sperando rivedervi in migliori occasioni. In
politica qui si vegeta... Al Parlamento subalpino si recita sempre,
non saprei se il dramma, commedia, o farsa. Quando finirà?
Spero... (sic) ed abbracciandovi sono».
17 di maggio, lettera a Cosenz: di
tutto un po'. D'una partita d'armi che è felicemente
arrivata,250 di certe medaglie fatte coniare in memoria di
Agesilao Milano, d'un libro del Carrano sul Pepe, della giornalista
inglese Jessie White.
Il 26 trasmette a un amico, a Milano,
informazioni minute su una partita di bachi e di «semi di
Calabria»;251 ma è una formola convenzionale per
annunziare il prossimo imbarco... Tutto fuoco di dentro ma
all'aspetto esteriore quieto e composto è Pisacane; né
solamente per deviare, col contegno, l'eventuale vigilanza della
polizia. Come mutato dal Pisacane di pochi anni innanzi (quello
descrittoci dal Dall'Ongaro), gesticolante, rumoroso, parolaio! Lo
conobbe in quelle ultime settimane un mazziniano fiorentino, Andrea
Giannelli, allora ospite a Genova di Costantino Mini, che abitava, a
un piano diverso, nella casa medesima di Pisacane (Via Colombo,
numero quattro).252 «Il Mini — racconta il
Giannelli — mi presentò al Pisacane, che rividi solo
qualche altra volta; e sebbene non mi spiegasse minutamente i suoi
disegni, pure capii che qualcosa di straordinario egli stava
preparando». Pisacane «lasciò in me un'indicibile
espressione (sic) d'uomo predestinato. Di carnagione candida,
barba e capelli rossi-biondicci, gli occhi celesti, di statura media
ed abbastanza complessa, il portamento composto, di non molte parole
e misurate tutte ed a proposito, rivelavano in lui, preso cosí
nell'assieme, un uomo superiore...»253
L'11 di maggio, con prodigiosa
disinvoltura sfidando le ricerche della polizia, Mazzini — via
Torino — ritorna a Genova. Il sapere che c'è, che è
fra loro, il poterlo qualche volta vedere, galvanizza i compagni.
Non ha un momento di requie; tre
distinte gigantesche imprese da condurre a punto e sincronizzare:
Sapri, Livorno e Genova! E, insieme, amici sicuri da raffermare,
incerti da scuotere, tepidi da neutralizzare, nemici da tenere a
bada; proclami e manifesti da dettare e passare alla stamperia
clandestina; cento dettagli da stabilire per le imbarcazioni, per le
armi; intese da precisare; e in piú sviare i sospetti delle
autorità: un inferno!
Il giorno 12 Mazzini si abbocca con
Pisacane; poi, quasi tutte le notti, sono convegni segreti e di
decisiva importanza. Pochi giorni dopo, ecco a Genova Jessie White,
mazziniana esaltata, ben nota per una serie di clamorose conferenze
sull'Italia tenute in Inghilterra, venuta adesso in Italia per
assicurare al Daily News, nell'imminenza dei moti
insurrezionali, corrispondenze tali da guadagnare ad essi la simpatia
del pubblico inglese.254 L'arrivo di questa rumorosa e
imprudente reporter (imprudente al punto da discorrere a voce
spiegata di quel che sta per succedere, in una stanza d'albergo, a
Torino)255 è particolarmente importante in quanto è
proprio per mezzo di lei che gli organizzatori della spedizione fanno
un ultimo tentativo per ottenere la cooperazione di Garibaldi. Già
nel febbraio di quell'anno, a ripetute pressioni della White in
proposito, il generale ha risposto: «Se io fossi sicuro d'esser
seguito da un numero ragguardevole presentandomi con una bandiera
sulla scena d'azione del mio paese e soltanto con piccola probabilità
di successo — dubitereste voi ch'io mi lancerei con gioia
febbrile al conseguimento di quell'idea di tutta la vita, abbenché
mi si presentasse, per compenso, il martirio piú atroce?... Se
non mi lancio a capitanare un movimento — è perché
non vedo probabilità di riuscita... non dirò
agl'Italiani — Sorgete! per far ridere la
canaglia...»256 La White non si dà per vinta.
Agli ultimi di maggio combina un ritrovo a Torino fra Garibaldi e
Pisacane, presenti lei medesima e Nicotera, allora giovane di studio
del Mancini. Ma Pisacane, munito dei piani della spedizione e della
corrispondenza col Comitato di Napoli, spiega invano la sua
appassionata eloquenza: Garibaldi, appoggiato a Genova da Bertani e
Medici, è fermissimo nel diniego, ben persuaso che senza
l'appoggio del governo sardo sia impossibile ormai raggiungere in
Italia per via d'insurrezioni alcun resultato
apprezzabile.257 A Nicotera invece sembran piú che
esaurienti le documentate assicurazioni di Pisacane esser tutto
«disposto nel Regno, e che soltanto vi bisognava
un'iniziativa»: tanto piú che gli consta che Pisacane
s'è rifiutato di prender parte in passato ad altri movimenti
insurrezionali da lui considerati immaturi. L'acquisto di Nicotera,
intellettuale di fegato, popolare nella nativa Calabria, è
incoraggiante e importante.258
Piú tardi, il 22 o il 23 di
giugno, trovandosi Garibaldi in Genova, Pisacane s'abboccherà
un'ultima volta con lui, ma senza frutto.259
Mazzini spedisce intanto a Fanelli le
istruzioni definitive sull'azione da svolgersi a Napoli a sbarco
avvenuto. Bisogna che Napoli insorga. Si badi bene però:
«astenersi da manifestazioni esclusive», affermare fin da
principio il carattere nazionale del movimento, stroncare
inesorabilmente ogni deviazione murattista. Sfruttare senza
esitazione il primo fermento che la notizia dello sbarco produrrà
nella popolazione, non lasciarsi «sedurre dalla tendenza cosí
facile e funestissima ad aspettare che lo sviluppo del moto
provinciale assuma proporzioni imponenti». Si tenti subito un
colpo d'audacia, per esempio impadronirsi di sorpresa d'uno dei forti
che circondano Napoli; nel tempo stesso, non prima, si spargano tra i
militari e i borghesi proclami insurrezionali e si faccian sparire
«per fatto individuale» gli alti gradi dell'esercito.
Stia tranquillo, Fanelli: poco prima
del «fatto» giungerà a Napoli, per assisterlo, un
Commissario politico (il Quadrio); fors'anche un tecnico militare (il
Cosenz). Mazzini intanto gli acclude due abbozzi di proclami, rivolti
ai cittadini e ai soldati: concitati, trascinanti, generici;
mazziniani, nell'intonazione, al cento per cento.
Tutto ciò il 24 di maggio. Il
1° di giugno parte per Napoli un altro proclama ancora: a Genova
evidentemente si teme che Fanelli non sappia, nel giro di poche
righe, riepilogare le cause dell'insurrezione e scuotere l'animo
dell'anonima folla. Il nuovo proclama è scritto di pugno di
Pisacane, Mazzini non ha fatto che correggerlo qua e là.260
Che differenza fra questo e i due precedenti! In quelli ricorrono le
parole dovere, missione, patria, sacrificio, onore; questo non è
che un contratto proposto ai napoletani dagli iniziatori del moto:
seguiteci e noi vi daremo, sul terreno politico, suffragio
universale, libertà di associazione, di parola e di stampa,
educazione nazionale, libertà dei comuni, unità
nazionale; su quello economico, assistenza obbligatoria ai
nullatenenti infermi e vecchi, abolizione dei dazi e delle imposte
indirette, tassa unica sul reddito con esenzione dei redditi minimi,
imprendimento d'immensi lavori pubblici per sovvenire alla
disoccupazione, larghissimi crediti alle associazioni di lavoro,
sfollamento della burocrazia.
Tutte riforme che Mazzini bandisce da
un pezzo, ma quando mai ha egli fatto leva cosí esplicitamente
su di esse per trascinare le masse all'insurrezione? Il proclama è
dunque un tipico frutto della collaborazione tra il suo dogmatismo
morale e il pragmatismo di Pisacane. Pisacane concede un fuggitivo
accenno introduttivo alla tradizionale formola Dio e
Popolo261 e acconsente a ridurre a poche ricette d'un
blando riformismo il vasto suo programma sociale; Mazzini si rassegna
per parte sua a che l'appello alla rivoluzione politica venga
contaminato da una serie di materialistici do ut des. Pisacane
sa fin troppo che la stragrande maggioranza della popolazione non
avverte gl'imperativi di libertà se non in funzione del
problema economico; Mazzini si affretta a mettere in chiaro,
scrivendo a Fanelli, come «le promesse contenute in questo
scritto possano verificarsi tutte senza sovversioni di diritti
acquisiti, senza sconvolgimenti sociali».
Non mancano gli accenni alla questione militare, e questi son
tutti di pretta marca pisacaniana: esercito nazionale, gli ufficiali
eletti a suffragio indiretto dalla truppa medesima; non appena
raggiunta l'unità italiana, organizzazione della nazione
armata. In un proclama speciale dedicato all'esercito, l'invito
all'insurrezione è accompagnato naturalmente dalla promessa di
promozioni speciali a quelli tra i militari che v'aderiranno piú
presto.
La notte del 4 di giugno, in Genova,
gli organizzatori e i fautori della spedizione si riuniscono
segretamente per prendere gli ultimi accordi, rivedere punto per
punto il progetto e valutarne definitivamente le probabilità
di successo. Salvo Castelli, meridionali tutti: Pilo, Pisacane,
Nicotera, Cosenz, Carbonelli, Mignogna, Falcone, portavoce di
Fabrizi, di fresco giunto da Malta.262
All'ora designata, con quel tanto di
mistero e di rischio che vale a dare il batticuore agli astanti, ecco
Mazzini. Sebbene particolarmente ottimista in quei giorni, Mazzini
era tuttavia molto perplesso. Lasciamo andare Fanelli che con le sue
crisi alterne di disperazione e di esaltazione avrebbe fatto dubitar
della fede un dei dodici apostoli; ma sconcertavan Mazzini la
contrarietà d'un Saffi e d'un Crispi all'impresa di Genova, il
pessimismo d'un Musolino, l'atteggiamento intransigente
dell'equilibrato Bertani che perfino evitava d'incontrare gli amici
per non saper da loro a che punto ne fossero 263(onde
Pisacane: «Pare impossibile! cosí entusiasta l'anno
passato, ora cosí irremovibile»). Per di piú
mancavano ancora notizie precise su Ventotene e su Ponza; di Sapri
non si sapeva che quello che ne dicevano le carte geografiche, e non
ci si fondava che su presunzioni generiche quanto allo stato d'animo
dei gruppi di opposizione nel napoletano: in quali e quanti paesi la
notizia dello sbarco avrebbe determinato l'insurrezione? Fino a che
punto si poteva contare sull'affluire di compagni armati sul lido di
Sapri? Mistero, mistero. Ed eran sei mesi abbondanti che non ci si
occupava di altro!
Ragionevole dunque che a Mazzini
tremassero i polsi nell'atto di dar fuoco alle polveri: fuor che
Mignogna non eran tutti ragazzi, appetto a lui cinquantenne, gli otto
adunati? Tremenda la responsabilità che per l'ennesima volta
in sua vita gli gravava le spalle, insopportabile la ricorrente
tempesta del dubbio. Su tutti pesava, quella notte, come un oscuro
presagio, l'ombra di Bentivegna; perfino Nicotera, un vulcano di
solito, si diceva poco persuaso della maturità rivoluzionaria
del suo Mezzogiorno.
Ma come un improvviso raggio di sole
disperde una densa cortina di nuvole, cosí la sicurezza
pacata, il logico ragionare, la voce insieme ferma e appassionata di
Pisacane valsero a dissipare ogni esitazione con tale facilità,
con tale prontezza che alle postume riflessioni di coscienze turbate
il miracolo dovette sembrare spiegabile solo qual frutto di una vera
suggestione collettiva. Perché mai tormentarsi di dubbi?
Troppi segni accusavano ormai l'esistenza di una situazione
tipicamente pre-rivoluzionaria nelle Due Sicilie, troppe scintille
eran sprizzate qua e là perché si potesse mettere in
forse l'imminenza e la gravità dell'incendio. La cronaca degli
ultimi mesi non era stata che una lunga teoria di sedizioni, rivolte,
attentati, collettive proteste: falliti tutti, tragicamente scontati,
è vero, ma non forse esclusivamente perché quegli
episodi si erano svolti indipendenti e isolati l'uno dall'altro né
alcuno di essi si era rivelato di tanta importanza da costituire
seria minaccia per la conservazione del regime borbonico? Non piú
si trattava dunque di star lí a soppesare le disposizioni del
popolo napoletano, fin troppo chiare: o che si voleva, che esso
insorgesse d'un tratto, tutto insieme, inerme di fronte alle
baionette tiranniche? Era tempo di offrirgli un'occasione
irresistibile, una base d'appoggio se si voleva che osasse: la
spedizione, precisamente, la marcia dei prigionieri armati.
Inadeguata la preparazione? E poco risoluti sembravano i
rivoluzionari, laggiú? Ben naturale: quante volte, dietro
precise promesse di aiuto esterno, pochi audaci si erano mossi per
cadere da soli! La dolorosa esperienza rendeva diffidenti adesso
anche i piú generosi. Ma se mai un giorno essi avessero veduto
le vecchie promesse tradursi in realtà e la troppo decantata
solidarietà italiana manifestarsi davvero attraverso altri
moti scoppiati in altre regioni della penisola, chi mai li
tratterrebbe piú? Il ricordo dei compagni caduti
centuplicherebbe la loro energia, e il mondo, anche troppo disposto
sin qui a deplorare l'inerzia dei napoletani, stupirebbe del numero e
della foga degli antiborbonici. Se gli animi, nella fase della
preparazione, oltre che intimidirsi, si dividevano, non era anche
questo ben comprensibile? Solo la magia dell'azione sa far tacere i
dissensi.
Cosí, quella notte, parlava
Pisacane; e i volti dei suoi ascoltatori si contraevano in
un'espressione di risolutezza incrollabile e i sedici occhi mandavano
lampi. Fatuità nel parlatore? Leggerezza negli altri? No:
Pisacane esercitava sugli amici, su Mazzini pel primo, l'ascendente
invincibile di chi, sostenendo la necessità e la bellezza
d'una impresa arrischiata, assume per sé, del rischio, la
massima parte.264
Fu cosí che venne
irrevocabilmente decisa, nei suoi minuti dettagli, l'impresa di
Sapri, combinata con i moti minori di Genova e Livorno; Pisacane capo
della spedizione, Nicotera e Falcone in sottordine; Pilo distaccato
sulla goletta destinata a incontrarsi col Cagliari; Cosenz
capo militare nel napoletano; Mignogna incaricato di informare
telegraficamente Fanelli; partenza della goletta il 6 giugno, della
spedizione il 10.265
Dopodiche l'adunanza si sciolse.
Due giorni di ansiosi preparativi.
Il 6 giugno, a notte alta,
accompagnato da altri emigrati fra i quali un Pisani, fratello del
relegato, Rosolino Pilo si portò presso Rivarolo di Ponente,
in una villa sul mare dove in precedenza si erano trasportate dodici
casse di «letti di ferro» (duecentocinquanta fucili, con
relative munizioni, e duecentocinquanta daghe). A mezzanotte, mentre
qualcuno pensava a tener lontane le guardie di dogana, si trasferí
questo carico sulla goletta già pronta in attesa.
Era comandata, questa, da un vecchio
lupo di mare cui si eran promessi lauti guadagni purché si
fosse prestato a tener mano a un contrabbando. Ma il pover'uomo,
osservate che ebbe le casse, non stentò a rendersi conto di
che mai si trattasse; sí che, nel timore d'incorrere in rischi
piú seri dell'usato, bruscamente rifiutò di partire.
Lieve impaccio per quei giovanotti già d'accordo col rimanente
dell'equipaggio! Al vecchio, che tra molte bestemmie piangeva e
profferiva minaccie, si tolse il governo della nave e fu lasciato in
un canto a ruminar la sua ira.
Pure quel pianto fu un cattivo
presagio. I primi due giorni si ebbe infatti a lottare con l'assoluta
mancanza del vento, che fece dubitare non si sarebbe raggiunto in
tempo il luogo destinato; e quando, la notte dall'8 al 9, finalmente,
le vele si gonfiaron d'un tratto, non era vento, era bufera
scatenata. «Il mare divenne piú che burrascoso, un vento
tutt'affatto contrario cominciò a soffiare: il battello
ruppesi nella carena e l'ondate del mare penetravano dentro, di modo
che in pochi momenti si giunse ad avere quattro palmi d'acqua. Per
maggior mala sorte il bastimento trovavasi con la pompa inservibile,
s'era senza carta di navigazione, con attrezzi e cordaggi vecchi, che
rompevansi ad ogni infuriar di vento. Li marinari per la folta nebbia
non sapevano piú dove stava la terra e quindi perdevansi
d'animo. Si raccolsero tutti a consiglio col vecchio
capitano».266 Impossibile approdare in un porto vicino,
per via del carico; impossibile d'altronde proseguire per via del
vento contrario; imminente il naufragio se non s'invertiva la rotta e
non si gettavano immediatamente a mare le dodici casse. Netta ripulsa
di Pilo: mancare all'incontro, gettare le armi — ognuna delle
quali era costata miracoli di audacia, di astuzia, di passione —
significava compromettere irreparabilmente la spedizione. Ma come tre
giorni innanzi alla volontà contraria del vecchio si era
violentemente imposta la forza del numero, cosí ora la
disperata resistenza di Pilo s'infranse contro il pànico
timore dei suoi compagni.
Liberata dunque la goletta dal peso e
il capitano dal gran pensiero, questi riprese il comando e quella, il
vento aiutando, filò verso Genova.
E se non si giungeva in tempo per
fermare gli amici? (Il Cagliari avrebbe dovuto salpar
l'indomani). Dopo il mancato incontro, cosa avrebbe risolto Pisacane?
Proseguirebbero inermi? E ammesso pure che si giungesse a prevenirli,
che fare se fosse intanto già partito il dispaccio per quei di
Napoli, perché iniziassero il moto? Ma il vento, per fortuna,
soffiava talmente impetuoso che «in 3 ore circa si rifece il
cammino che si era fatto in tre giorni e si giunse alle 3 ore pom.
del giorno 9 giugno nel porto di Genova». E allora le ansie
dello sbarco. I doganieri non si sarebbero insospettiti nel veder
calar giú da una goletta quei tipi cosí poco
marinareschi? Nessun genovese si trovava tra i passeggeri e Pilo era
noto anche troppo alla locale polizia. Ma no: il mare agitato favorí
la manovra; e poté il povero Pilo mandare altri dapprima e poi
correre disperato lui stesso a casa di Pisacane ad annunziare lo
sciagurato incidente.
A Genova tutto era pronto. Senonché
si era dovuto, la mattina stessa del 9, superare una imprevista
difficoltà, provocata (ebbe a dire Mazzini) dal «voltafaccia»
di Cosenz;267 questi, si è visto, avrebbe dovuto
partire per Napoli per assumervi la direzione militare
dell'insurrezione. Recatosi a Genova per prendere imbarco, aveva
appreso, all'ultimo, che Quadrio era stato designato a Commissario
politico e lo avrebbe accompagnato nel viaggio. Perché gli si
era taciuta la circostanza? Porre Quadrio alla testa delle cose non
significava forse assegnare al moto quell'etichetta di mazzinianismo
assoluto, che secondo le intese corse avrebbe dovuto evitarsi? Cosenz
avea fin qui tutte le ragioni del mondo e avrebbe potuto giustamente
pretendere la sostituzione di Quadrio; si mise dalla parte del torto
prendendo precipitosamente una risoluzione ab irato: quella di
tornare a Torino senza cercar di Mazzini, lasciando solo «una
lettera nella quale dichiarava che non voleva essere lo strumento di
nessuno». Ma forse Cosenz non si era reso conto di sabotare con
quel ripicco le sorti stesse e della spedizione e del moto di Napoli.
Toccò a Pisacane, avvezzo
d'altronde a certe sorprese da parte di quell'amico, di rabberciare
alla meglio le istruzioni a Fanelli, avvertendolo che a Napoli si
sarebbe recato soltanto il Commissario politico: alle cose militari
provvedesse da sé.
Quanto agli uomini della spedizione,
marinai e artigiani della Liguria, della Lombardia e delle Marche,
gente devota a Mazzini, essi erano agli ordini. Pisacane, addí
otto di giugno, li aveva con maschie parole sommariamente informati
dello scopo e delle modalità dell'impresa.268 La rotta
era stata accuratamente studiata, e a Pisacane si era affidato il
magro «tesoro» dell'impresa. Il dispaccio per confermare
al Comitato di Napoli la imminente partenza era infine stato spedito
quando, trafelato e disfatto, giunse Rosolino Pilo.269 Era il
disastro! S'imponeva il rinvio sine die della impresa; ma come
avvertire Fanelli? Le menti agitate di Pisacane e Enrichetta, di Pilo
e dell'amico genovese Mazzini, che era con loro, si figuravano già
Napoli in tumulto e nuclei di insorti del Cilento, di Basilicata e
Calabria in marcia verso la costiera di Sapri, nella rischiosissima
attesa del Cagliari, e paesi e città piú lontani
in rivolta, nella fidente attesa della rivoluzione italiana, attesa
che si tramuterebbe ben presto in disperata angoscia, mentre la
repressione borbonica avrebbe soffocato nel sangue quegli efimeri
focolai d'incendio. Senza capi, senza programma, male armati, delusi,
i compagni laggiú sarebbero caduti ancora una volta da soli,
maledicendo.
No, questo non doveva accadere.
I quattro corsero da Mazzini, che si
teneva allora celato in casa Pareto: Mazzini rimase atterrito. «Un
intiero edificio costrutto con una difficoltà infinita, —
scrisse a un amico — successo insperato fino a ieri, ed avverti
che oggi era il giorno decisivo, venne abbattuto da un colpo di
vento, a cagione di un naviglio sbattuto dalla tempesta, che gittò
in mare il materiale e gli altri oggetti... Ce n'è da darsi la
testa nel muro... »270 Che fare? Impossibile spiegar
l'accaduto per telegramma; per lettera, sí, profittando del
postale per Napoli che partiva nel pomeriggio; ma a chi affidare uno
scritto cosí compromettente? Si pensò, al solito, al
consolato inglese e la lettera, vergata in grandissima fretta, vi fu
recapitata; ma il consolato era chiuso!
Fu allora che parlò la compagna
di Pisacane. Essa aveva assistito con grande inquietudine a tutti i
preparativi della spedizione, troppo generosa per dissuaderne il suo
Carlo in nome del suo amore o dei diritti della piccola Silvia,
troppo intelligente e sensata per non prevederne il tragico esito;
aveva, per mesi e mesi, taciuto. Ora parlò con rude
schiettezza.271 Non sapeva intendere come ci si potessero
fare tante illusioni sulla serietà e l'entità dei
preparativi compiuti dal Comitato di Napoli. E infatti, delle due
l'una: o laggiú si andava organizzando davvero una vasta
rivolta, e allora che bisogno poteva mai esserci di questa
pericolosissima spedizione di pochi? O invece una spinta dall'esterno
— cosí lieve! nessuno come lei poteva sapere quanto
terribilmente lieve! — si riteneva proprio indispensabile, e
allora che mai doveva pensarsi di quei preparativi? Il forzato
rinvio, comunque, giungeva forse provvidenziale: già che
occorreva ad ogni costo avvertire Fanelli, andasse Carlo in persona a
Napoli, prendendo imbarco sul postale in partenza, e profittasse
della gita per accertarsi della situazione effettiva. Troppo aveva
detto e disdetto, promesso e ritirato il Fanelli: sí che
soltanto dopo il controllo eseguito sul posto da Pisacane si sarebbe
potuto risolvere in tutta coscienza se fosse il caso o meno di
ripigliare il progetto.
Animata dalla segreta, umana speranza
che Pisacane tornasse da Napoli deluso e sfiduciato, persuaso cioè
come lo era essa da tempo, e come egli stesso s'era mostrato in
passato, che il forzare con imprese avventate la dura realtà
del regime borbonico, resistente a ben altre scosse, sarebbe stata
pura pazzia; allucinata dal ricordo anche recente dei tanti che,
scambiando lo stato d'animo proprio con quello di tutto un popolo, si
erano invano sacrificati, essa non esitò un istante a esporre
il suo compagno al pericolo immediato, che pur non si dissimulava
affatto, di cadere nelle mani della polizia napoletana: Pisacane era
disertore dell'esercito borbonico! Gli è che essa non agiva
soltanto per fini egoistici: al rischio, supposto inutile, di molti,
preferiva malgrado tutto il rischio corso da un solo, fosse quest'uno
il suo caro, il padre di sua figlia, la ragione stessa della sua
vita.
Senza indugio Pisacane accettò;
e gli altri approvarono. «In due ore — attestò
Mazzini nei Ricordi — ei decise; fece tutti i
preparativi opportuni, abbracciò la donna del suo cuore, che
si mostrò in tutto degna di lui, e partí. Era
determinazione per lui piú grave dell'altra; era l'esporsi a
tortura e a morte solitaria, senza difesa, non coll'armi in pugno e
lottando. E nondimeno, chi lo vide in quelle ore avrebbe detto ch'ei
s'avviava a diporto». Aveva infatti nel cuore una pace
profonda: se la spedizione forzatamente mancava, non lui mancava; se
il rinvio avesse malauguratamente prodotto, laggiú, una
catastrofe, era ben giusto che travolgesse lui pel primo. Ma una voce
interiore, ottimista, gli diceva che col suo arrivo a Napoli tutto si
sarebbe appianato e il tentativo, a breve scadenza, si sarebbe potuto
ripetere; chi sa mai, fors'anche gli si sarebbe rivelata la
possibilità di una iniziativa immediata nella capitale; e in
quel caso, nessun rinvio (pericoloso sempre) dei moti di Genova e
Livorno.
Degno di Mazzini — che, vinto il
primo smarrimento, era già pronto a ricominciare tutto da capo
— Pisacane assicurava un amico che «accostumati ormai
alle disgrazie ed alle delusioni, esse non ci scoraggiano — ma
con maggiore pertinacia ci legano all'impresa».
Munito d'un passaporto falso,
inosservato dalla polizia, s'affrettò dunque sull'Aventino
in partenza.272 Il viaggio fu turbato da continue
apprensioni; ancora da Civitavecchia, dove il postale faceva scalo,
egli scriveva a Fabrizi: «se ci sarà fallimento non
voglio rimproverarmi né debolezza, né mancanza di
energia; ma soccombere con la coscienza degna di me e de' miei
amici». Forse travestito, sbarcò incolume a Napoli,
venerdí dodici giugno; si precipitò da
Fanelli.273
Non appena ricevuto il famoso
dispaccio, Fanelli, pur mal persuaso e sconvolto, aveva diramato
nelle provincie l'ordine d'azione per il 13 giugno. Il contrordine fu
adesso comunicato d'urgenza: ma ci volevano altro che ventiquattr'ore
per giungere ovunque! Sí che, come si seppe di poi,
all'indomani il lido di Sapri si mostrava insolitamente animato e la
polizia borbonica notava, in varie località di provincia,
segni di agitazione. Però niente di grave accadde, né
tumulti né arresti.274 Si eran salvate le possibilità
di un prossimo bis e insieme si era inscenata una sorta di
prova generale del movimento nei piccoli centri lontani, della quale
e Fanelli e Pisacane, un po' alla leggera, si dichiararon soddisfatti
appieno. La complicazione piú grave provocata dal rinvio era
costituita piuttosto, o cosí parve, dalle confidenze pur vaghe
che nella imminenza del moto Fanelli aveva creduto di dover fare agli
esponenti del partito moderato costituzionale275; vero è
che in risposta alle sue sollecitazioni di aiuto o di benevola
neutralità gli si eran prodigati molti no, se e
ma; restava comunque il fatto, per niente rassicurante, che
molta gente per principio contraria ai metodi rivoluzionari era ormai
a conoscenza o subodorava il «segreto».
La sera del 13 il Comitato di Napoli
tenne riunione in casa Dragone, presenti, oltre Pisacane e Fanelli,
Giuseppe Lazzaro, Teodoro Pateras, Giovanni Matina, Antonio Rizzo,
Luigi Fittipaldi, Raffaello Basile e Giuseppe De Mata. I convenuti, a
ciascuno dei quali faceva capo l'organizzazione rivoluzionaria in
questa o quella provincia, resero conto dell'opera svolta,
presentarono nominativi e statistiche, esibirono l'intero carteggio
scambiato coi rispettivi nuclei.276 Il problema da risolvere
era il seguente: è in grado il Comitato di Napoli di suscitare
l'insurrezione nel regno senza che a muovere gli animi intervenga
dapprima il fatto nuovo, sensazionale dello sbarco dei fuorusciti e
dei prigionieri? Si dovette concluder pel no. Pisacane riferí
subito a Pilo: «non vi è nulla di concreto pel momento;
vi sono elementi disgregati, né possono concretarsi in pochi
giorni: contavano tutti sul fatto nostro».
Ritentare, dunque, la spedizione
mancata? Pisacane, il giorno 14, si pone a valutarne in concreto le
probabilità di riuscita: continua con le consultazioni con gli
amici del Comitato, s'abbocca con moderati, scrive di nuovo alle
isole.277 Il giorno appresso ha già ritrovato il
perduto ottimismo, per quanto non ancora si senta di prendere una
decisione in proposito. Scrive a Pisani: se la spedizione si farà,
si farà con i duecentocinquanta fucili in meno; quaranta
uomini armati, e basta. Ci sono speranze di successo a Ventotene, e i
relegati accetterebbero questo piano ridotto? «Le cose sono in
modo, che un impulso, una scintilla può produrre un incendio,
questo è il mio convincimento morale...»
Il 16 giugno è la risoluzione
finale: lo sbarco a Sapri avrà luogo, avvenga che può.
Ultime istruzioni a Fanelli, agli altri membri del Comitato, piú
o meno le stesse già concertate a Genova; unica variante
essenziale, certo suggerita dalla poca incoraggiante esperienza fatta
in quei giorni, quella di «evitare ogni discussione»
coi moderati, «procedendo sempre ad assimilarsi gli elementi di
azione,... opponendosi occultamente con ogni mezzo alle
dimostrazioni. Cedere alle loro pretese di ammettere il grido di
costituzione (perché l'avvenire è nostro) nel solo caso
che da questo dipendesse il fare o il non fare immediato».
Contemporaneamente, Pisacane informa
Fabrizi: «Ho trovato una gran quantità di ottimi
elementi; e piú di quelli che assicurava il coscienziosissimo
Kilburn (nome di guerra usato da Fanelli); manca (come egli
dice) un centro intorno a cui questi elementi indissolubilmente
rannodarsi; ma non vi è mezzo per crearlo ed a questo male che
dipende da esuberante individualità, non v'è che un
solo rimedio: che il nostro operosissimo si tenga strettamente unito
con costoro, e si accrediti presso di loro coi mezzi che noi dobbiamo
fare ogni sforzo per fornirgli... Ed ora è d'uopo, che io e
lui (Fanelli) prefiggendoci come scopo lo stabilito, pieghiamo come
si dovrà alle circostanze».
Fanelli subisce in pieno la
suggestione ottimistica esercitata dal suo amico, e quella sorta di
contagiosa serenità che ne emana si impadronisce di lui. Il 17
giugno, infatti, trasmettendo un biglietto di Pisacane — nel
frattempo partito — assicura l'Agresti che dopo il disastro
avvenuto «noi... non siamo men fermi nel nostro proponimento, e
speriamo o col ripetere il progetto o con imprenderne qualche altro
(che abbiamo pur da gran tempo ruminato e disposto) di venire
sollecitamente allo scopo desiderato». Due giorni dopo,
lettera a Pisacane: «...per carità, sbrigate l'opera
vostra. I moderati ci stanno tendendo una contromina nella
provincia. I murattisti si apparecchiano ad approfittare dell'opera
nostra, bisognerà che agiamo di sorpresa... Tutto ciò
che dovete sbrigatelo; io non credo che possiamo durare a lungo senza
avere arresto, ed allora le faccende potrebbero rimanere sospese per
un pezzo e con grave danno». Gli stessi appelli, febbricitanti,
rivolge agli amici di provincia. «Tenete tutto prontissimo»,
raccomanda a Giacinto Albini (il 18); l'insurrezione non è che
ritardata «di qualche giorno». Lo stesso scrive al
Libertini (20 giugno): l'azione è «sospesa» per
«pochissimo», bisogna «intanto giovarci della poca
dilazione»; lo stesso al Magnone (22 giugno).
Ma non sarebbe stato Fanelli se quando
poi Pisacane, tornato a Genova, gli annunziò l'imminente
concretarsi dell'impresa, non ne fosse rimasto sbalordito addirittura
e non avesse per l'ennesima volta maledetto il momento nel quale
s'era messo in contatto con quel pazzo furioso.
Pisacane era ripartito da Napoli, per
via di mare, il 16 giugno.278 Si sentiva tranquillo e pieno
di speranza: il resultato piú importante del suo viaggio era
stato quello di avergli permesso di rendersi conto pienamente, in
anticipo, dell'immenso effetto morale che lo sbarco a Sapri avrebbe
provocato in tutto il regno; i rivoluzionari napoletani, ricchi delle
migliori intenzioni, ma incerti e indolenti, avrebbero indubbiamente
reagito, di fronte al fatto compiuto, con quell'energia che spesso
gli irresoluti dispiegano all'improvviso quando una travolgente forza
esterna non lascia loro altra alternativa che quella di agire in una
certa direzione o di passar da codardi. Del loro zelo antiborbonico
non si poteva dubitare: bisognava dunque cacciarli per forza in
questa via senza uscita. Altra certezza che egli portava via con sé
era quella del fracidume dell'edificio borbonico, ritto ormai per
sola forza d'inerzia. La piccola folla dei discordi rivoluzionari
napoletani stava lí quieta a riguardare il palazzo; tutti
architetti, perdevano il tempo a disputarsi l'accollo della
demolizione, vantando ciascuno la superiorità del proprio
progetto e delle proprie maestranze. Non intendevano dunque che al
primo colpo di piccone un po' deciso l'oggetto delle chiacchiere loro
si sarebbe sfasciato in un nuvolone di polvere?
Il vapore si staccava dal porto.
Lontanava nel sereno orizzonte Napoli,279 la sua Napoli, per
la quale Pisacane soffriva la nostalgia senza requie di tutti i figli
del Vesuvio raminghi nel mondo: Napoli, dove aveva sognato i sogni
della sua adolescenza, dove era nato il primo, l'unico amore della
sua vita, dov'era la sua casa di un tempo, con sua madre, con la
sorella sposata. Aveva potuto abbracciarle e rivedere il fratello
ufficiale borbonico cui, pel tramite di Fanelli, aveva, alcuni mesi
innanzi, mandato un suo messaggio? Chi sa.280
Patriota italiano, egli restava ancora
e innanzi tutto napoletano: fiero del suo paese, lieto di sentirsi
parte di quella folla variopinta, rumorosa ed espressiva, in mezzo
alla quale si era mescolato ancora una volta, dopo dieci anni di
assenza; fiducioso che quel popolo sobrio e paziente, ma
all'occasione valorosissimo, fosse il piú degno in tutt'Italia
e il piú pronto a dare il segno di una generale insurrezione
per la libertà.
Via via che si dileguava nella
distanza il volto materiale della città, doveva vibrare nella
commossa imaginazione di Pisacane l'altra Napoli, quella delle sue
speranze: Napoli insorta, la Napoli generosa ed eroica che la
reazione del 15 maggio aveva soffocato; e, a Napoli insorta, il lieto
affluire di volontari da ogni parte d'Italia, per ripigliar la
guerra, dai Borboni malamente troncata nove anni innanzi.
Pensieri esaltati certo lo
accompagnarono in quel viaggio, che alcuni giorni prima aveva
compiuto in direzione opposta, il cuore turbato da miste speranze e
timori.
A Genova il ritorno di Pisacane era
ansiosamente atteso dagli amici: avevano passato, dal 9 di giugno,
giorni d'inferno. La sera stessa della partenza dell'Aventino
si era loro improvvisamente e dispettosamente presentata la
possibilità di «rimbarcare altra partita di mercanzia»,
e cioè di non rimandare la spedizione neanche di un
giorno;281 poi si erano accorti che la polizia piemontese
stava ormai sull'avviso e, pure ignorando ancora che al governo
francese si era da qualche ignoto giuda comunicata la cifra usata
nella loro corrispondenza settaria, si eran persuasi che, con tanta
gente a parte delle loro intenzioni,282 o si agiva entro
pochissimi giorni o l'iniziativa era da considerarsi come senz'altro
perduta.283 «Tento di fare il lavoro del ragno —
cosí si esprimeva il 20 di giugno la formidabile volontà
realizzatrice di Giuseppe Mazzini —; se poi tutto avesse a
fallire, sarò costretto, non dirò contro coscienza, ma
certo con molta riluttanza, a finirla con un coup de tête».
Intanto nuove armi si eran raccolte e nascoste, altro danaro era
affluito. L'ultima parola spettava a Pisacane.
Questi sbarcava a Genova il 19 di
giugno, determinando addirittura un'esplosione generale di ottimismo;
si sarebbe detto che avesse recato notizia della rivoluzione
trionfante nelle Due Sicilie!
«Tornò trasfigurato e
raggiante — scrive la Mario —:284 tutto era
combinato nuovamente cogli amici a Napoli. Vinceremo, disse, basta
una scintilla: da per tutto la mina è preparata, le
comunicazioni stabilite, audaci i capi, sicuri i seguaci. La
rivoluzione è nei cuori di tutte le classi colte; il
napolitano andrà in fiamme. Il murattismo non esiste se non
nella testa di Napoleone e de' suoi fidi di Piemonte. L'esercito sarà
con noi, la plebe con chi vince». Presso a poco negli stessi
termini scrive Nicotera. E Mazzini: «Tornò lieto,
convinto, anelante azione, e come chi sente, toccando la propria
terra, raddoppiarsi in petto la vita. Gli balenava in volto una fede
presaga di vittoria. I nostri non lo avevano ingannato; non gli
avevano celato le gravi difficoltà che si attraversavano alla
riscossa; avevano ripetuto che un indugio le avrebbe spianate. Ma, al
di là delle obiezioni pratiche, egli aveva veduto gli animi
risoluti e vogliosi, il terreno disposto, il fremito dei popolani...
e mi scongiurò di rifar la tela pel 25... Fui convinto...»
A sentire il Carrano, Pisacane avrebbe, scherzando, asserito che
perfino i cocchieri delle carrozzelle di Napoli erano ormai
repubblicani convinti!285
In realtà fu un eccitarsi
reciproco: ciascuno nutriva dei dubbi su qualche punto del vasto
progetto, ciascuno, nel mentre si sforzava di dissipare gli altrui,
si lasciava volentieri tranquillizzare sui propri. Mazzini ad esempio
era certo di Genova, poco persuaso di Napoli; Pisacane,
viceversa:286 a forza di discorrere assieme, ogni dubbio
svaní. L'aver da mesi l'attenzione concentrata, e quasi gli
occhi sbarrati, sul medesimo intento, tolse forse ad entrambi la
necessaria calma, quel certo distacco che era necessario per valutare
la situazione effettiva. È anche vero però che persone
fino allora tenute all'oscuro di tutto, cui si svelarono all'ultimo i
piani d'azione, dichiararono, dopo averne coscienziosamente esaminate
le basi, di ritenerle serie e fondate; tale quel capitano di mare
Danèri, cui venne offerto in extremis d'imbarcarsi sul
Cagliari per assumerne il comando dopo avvenuto
l'ammutinamento. In massima accettò lí per lí,
ma poi si recò da Mazzini (nascosto allora in casa di suo
fratello Francesco) e gli chiese: «Che fiducia avete voi in
questa spedizione? non sarà una seconda spedizione dei
fratelli Bandiera? Ed egli: al punto in cui sono le cose, giudicate
voi se si deve tentare o no. E mi porse diverse carte dicendo; queste
sono le ultime corrispondenze del Comitato di Napoli, sapete che
oltre ciò Pisacane andò a Napoli travestito da prete
(?) e ritornò piú entusiasta che mai. Letta la
corrispondenza del Comitato, risposi a Mazzini: se la centesima parte
delle promesse ed assicurazioni che dànno, è vera, noi
siamo colpevoli per avere aspettato tanto».287
Non dunque fu il solo Pisacane che
convertí gli altri all'azione immediata; furon tutti e
nessuno, fu un qualche cosa che era piú forte di loro, una
fatalità alla quale, inconsci, obbedivano tutti.
La partenza venne nuovamente stabilita
pel 25 di giugno col piroscafo Cagliari; Pilo avrebbe
preceduto di un giorno, con una flottiglia di barche, recando un
nuovo seppur piú modesto carico d'armi; arrivo presunto a
Sapri domenica 28. Lunedí 29 era S. Pietro, festività
solenne; ed era parso importante che Pisacane, nel primo giorno di
marcia all'interno, non avesse a trovare i paesi deserti, la gente
tutta dispersa nei campi, al lavoro. Nella notte dal 28 al 29
sarebbero intanto scoppiate le insurrezioni di Livorno e di Genova.
Tremendamente affrettata la cosa, è
vero, anche rispetto agli accordi che si erano stretti col Comitato
di Napoli, ma in quegli stessi giorni non scongiurava lo stesso
Fanelli che si facesse presto, il piú presto possibile?
Fanelli venne avvertito alla prima occasione di postale in partenza,
martedí 23; sí che al piú presto la notizia non
poteva raggiungerlo che venerdí 26, all'indomani della
partenza del Cagliari! «Gl'indugi — spiegò
Pisacane in quella lettera che era la conclusione del loro lungo
carteggio — (sono) impossibili per ragioni troppo lunghe ed
inutili a dirvi. Io ho accettato, e perché accetto sempre
quando trattisi di fare, e perché sono convinto che questo è
l'ultimo gioco che per ora si farà, e se mai non cercheremo
trarne tutto il profitto possibile, faremo tale errore, che verrà
scontato con lunghissimo sonno...» E poi, con magnifica
tranquillità: «Appena saprete il contratto conchiuso a
Sapri, spedite quelle merci dispaccio. Finalmente se per caso
in luogo di sapere la conclusione del contratto per le merci Sapri,
venisse a vostra conoscenza un disastro nostro, spedite qui le merci
dispaccio all'indirizzo medesimo, ma con questo altro cosí
stabilito. La cambiale è stata rifiutata. Dunque queste
merci significano disastro... Spero che la cosa vada, ma non possiamo
esser certi di nulla, voi continuate a lavorare alacremente su quelle
basi, giacché se per imprevedibili eventualità ciò
non avesse luogo, il monopolio di Genova è inevitabile;
e quindi la conseguenza immediata, è il nostro contratto,
dunque, comunque vadano le cose, ritenete, che se il tutto non sfuma,
la cosa avverrà con differenza di pochi giorni».
Pisacane si lusingava che Fanelli
avesse, dopo la sua partenza da Napoli, sistemato le poche pendenze
importanti che ancora restavano, e nella lettera glielo diceva; poi
aggiungeva, a mo' di poscritto: «Se nella vostra che
ricevo leggerò tutte queste cose, sarò
contentissimo». Gli era dunque pervenuta, nel mentre scriveva,
la lettera Fanelli del 19, la quale — come tutte le altre —
andava decifrata; ma in essa, s'è visto, non c'era di concreto
che l'invito a sbrigarsi, di tutto il resto ne quidem verbum.
Dal 23 alla partenza non giunse piú
altro; sí che Pisacane, quando si mosse, si trovava nella
situazione seguente: ignorava se i relegati di Ponza e Ventotene
fossero disposti a dargli man forte, mancava di una carta o di un
disegno di quelle due isole che servissero a indicargliene almeno gli
edifici importanti, i depositi d'armi e gli appostamenti
difensivi;288 non sapeva neanche con assoluta certezza se
Fanelli avrebbe fatto in tempo a diramare in provincia l'avviso dello
sbarco imminente. Sapeva solo una cosa, e su questa contava, che ad
ogni modo a Napoli lo si sarebbe appoggiato con moti di piazza e con
colpi di mano; né dubitava ormai dell'esito, di decisiva
importanza, delle rivolte di Livorno e di Genova.
Il 24 di giugno — manca un sol
giorno all'imbarco — Pisacane riunisce in una casa fidatissima
— quella dell'ardente mazziniana Carlotta Benettini —
l'intero «corpo» della spedizione (oh non son molti,
entrano tutti in una stanza sola...), e a ciascuno consegna una
pistola, uno stilo ed un berretto rosso; null'altro. Poi Pisacane va
dalla White, la sola straniera addentro alle segrete cose, e le
consegna alcune sue carte alle quali tiene di piú: non vuol
che finiscano nei polverosi archivi di polizia. C'è una cara
vecchia lettera di Carlo Cattaneo; ci sono alcuni ricordi, c'è
soprattutto il suo Testamento politico. Jessie, commossa,
promette di tenerli per sacri: promette di vegliare su Enrichetta e
su Silvia.
Nel Testamento Pisacane ha tentato
un'impresa difficile: quella di giustificare l'imminente suo gesto
con le dottrine sociali e politiche già svolte nei Saggi.
È il socialista che va volontario alla guerra e che partendo
dice: morirò socialista. Il documento è breve,
sdegnoso; il suo stile incisivo e sicuro, quasi a coprir con la forma
la fragilità dell'assunto: ma chi legga attentamente e non si
lasci trascinare dalla foga irruente del discorso (che scandalo
quell'improvvisa uscita: «per me dominio di casa Savoia e
dominio di casa d'Austria è precisamente lo stesso!») e
dalla sicurezza apodittica degli enunciati, ben s'avvede che Pisacane
non è riuscito a conciliare le antinomie del suo spirito.
Nella prima parte è il
socialista determinista che parla e profetizza: «Io credo che
il solo socialismo... sia il solo avvenire non lontano dell'Italia e
forse dell'Europa... Sono convinto che le ferrovie, i telegrafi, il
miglioramento dell'industria, la facilità del commercio, le
macchine, ecc. ecc. per una legge economica e fatale, finché
il riparto del prodotto è fatto dalla concorrenza, accrescono
questo prodotto, ma l'accumulano sempre in ristrettissime mani, ed
immiseriscono la moltitudine; epperciò questo vantato
progresso non è che regresso: e se vuole considerarsi come
progresso, lo si deve nel senso che accrescendo i mali della plebe,
la sospingerà ad una terribile rivoluzione, la quale,
cangiando d'un tratto tutti gli ordinamenti sociali, volgerà a
profitto di tutti quello che ora è volto a profitto di pochi».
È qui in pieno, si vede, la dottrina dei Saggi, con la
medesima concezione della meccanicità del processo sociale, lo
stesso schematismo semplicista, lo stesso catastrofismo: la
rivoluzione sarà non tanto perché è giusto che
sia, e neppure perché le masse lotteranno per imporla, ma
semplicemente perché è inevitabile che sia, come
resultato immancabile d'un contrasto di forze sfuggenti al controllo
degli uomini. Nessun appello alle masse: determinismo puro.
Ma nella seconda parte del Testamento
(che con un brusco «Sono convinto che l'Italia sarà
libera e grande oppure schiava» immediatamente fa seguito al
passaggio su riportato) Pisacane ci appare un altro uomo. Poiché,
se egli vi riconferma la necessità d'una soluzione
rivoluzionaria del problema politico italiano, subito aggiunge: «Ma
il paese è composto d'individui, e poniamo il caso che tutti
aspettassero questo giorno (della rivoluzione) senza congiurare, la
rivoluzione non scoppierebbe mai». E poi: «Con tali
principii avrei creduto mancare a un sacro dovere, se vedendo la
possibilità di tentare un colpo in un punto, in un luogo, in
un tempo opportunissimo, non avessi impiegato tutta l'opera mia per
mandarlo ad effetto... Cospirazioni, congiure, tentativi, ecc. sono
quella serie di fatti attraverso cui l'Italia procede verso la sua
meta». La rivoluzione, adunque, potrebbe anche non essere; v'è,
sí, in Italia un equilibrio instabile, ma per rovesciarlo
occorrono colpi di maglio. Volontarismo, violenza: «Il lampo
della baionetta di Milano fu una propaganda piú efficace di
mille volumi scritti dai dottrinari». Dov'è lo
scientifico autore dei Saggi? E come può egli, che
attende la rivoluzione integrale dal maturarsi d'un processo
economico, appassionarsi ai problemi cosí detti della libertà
borghese? Se è vero che il socialismo è «il solo
avvenire d'Italia», cos'è mai questa «meta»
di cui adesso ci parla e per raggiunger la quale gli sembra che valga
la pena di mettere a repentaglio la vita? È forse quella di
conquistare ordinamenti liberi perché il popolo, godendone,
acquisti le capacità necessarie a promuovere in un secondo
tempo la rivoluzione sociale? Ma allora addio determinismo: l'avvento
del socialismo sarebbe dunque condizionato alla volontà
socialista del popolo!
Ad ogni modo, si vede, la
contradizione è gravissima; cosí grave che sembra quasi
legittimo dubitare che il socialismo testamentario di Pisacane,
meccanica ripetizione di formole evidentemente già superate
nel suo spirito, non abbia ormai altro valore che quello d'un ingenuo
tentativo di salvataggio: salvataggio della sua coerenza ideale,
compromessa dal suo atteggiamento politico. «Se mai nessun bene
frutterà all'Italia il nostro sagrificio, sarà sempre
una gloria trovar gente che volonterosa s'immola al suo avvenire».
L'ex socialista Pisacane, adesso mazziniano esaltato, non farebbe
dunque che continuare la tradizione, ormai lunga in Italia e
tutt'altro che socialmente rivoluzionaria, di eletti campioni dei
ceti piú alti, che periodicamente si sacrificano al bene
supposto o reale di un popolo inerte; non altri egli sarebbe che il
successore dei Bandiera, l'emulo di Bentivegna e dell'attentatore
Milano. E nemmeno egli s'illude, col suo «colpo», di
doventare «il salvatore della patria»: no, non altra
missione egli rivendica a sé che quella di propagar la
scintilla. «Giunto al luogo dello sbarco... per me è la
vittoria, dovessi anche perire sul patibolo». Ma come è
pessimista, «disincantato», remoto le mille miglia dal
misticismo del Dio e Popolo, questo eroe mazziniano! «La
propaganda dell'idea — scrive nel Testamento — è
una chimera,... l'educazione del popolo è un assurdo. Le idee
risultano dai fatti, non questi da quelle... se non riesco, dispregio
profondamente l'ignobile volgo che mi condanna, ed apprezzo poco il
suo plauso in caso di riuscita». Quando mai un gesto cosí
profondamente idealistico come quello di Sapri fu preparato con
maggiore freddezza e con meno illusioni?
In conclusione: è, questo
Pisacane ultimo, un transfuga del socialismo, un disperato, un vinto?
Io non lo penso. Penso invece che il
Testamento, vergato con mano febbrile, sia l'espressione di una
profonda crisi interiore in pieno sviluppo; penso che esso avrebbe
preluso, ove l'autore fosse sopravvissuto a Sapri, a una profonda
revisione della sua concezione sociale e politica (cristallizzata nei
Saggi) e propriamente nel senso, piú sopra adombrato,
volontaristico. Di questa crisi, è vero, il Testamento non
offre che incerte indicazioni; ma si confronti, in esso, la freddezza
dogmatica con la quale son ripetute le formole socialiste ricavate
tal quali dai Saggi, combattivo calore che anima i successivi
passaggi sull'azione politica riservata a una minoranza decisa; si
rifletta all'«ignobile volgo». Tutto si spiega, e le
contradizioni s'intendono, se appunto si ammetta che Pisacane stia
evolvendo in quest'ora (verosimilmente sotto l'influenza e l'esempio
del piú volontaristico tra i grandi lottatori politici,
Mazzini) verso un socialismo rivoluzionario antideterministico per
eccellenza, fondato sull'azione diretta, e anzi sulla violenza
esercitata nel nome e nell'interesse del popolo da una ristretta
élite ardita e dinamica: socialismo d'un uomo d'azione
che, avendo ricavato dall'esame scientifico della costituzione
sociale la convinzione della fatalità economica della
rivoluzione proletaria, intende poi come il processo vada sollecitato
e moralizzato dall'azione sovvertitrice, se non del proletariato
medesimo, dei suoi interpreti e rappresentanti. È insomma il
socialismo d'un democratico senza illusioni; vogliam dire la parola
moderna? D'un sindacalista rivoluzionario, d'un Sorel avanti lettera.
Il passaggio, frequentemente ripetutosi di poi, è quello che
dal mito dell'eguaglianza, della libertà assoluta e del
livellamento di classi conduce pari pari a giustificare la violenta
sopraffazione della volontà della maggioranza (che può
essere anche non volontà) da parte di una minoranza
auto-proclamatasi depositaria delle sue aspirazioni profonde; dal
postulato della identità dei diritti alla enunciazione della
missione privilegiata delle élites. Lotta contro
l'adattamento, la cristallizzazione, l'immobilità: allenamento
rivoluzionario delle élites, e loro rinnovamento
attraverso l'affluenza di elementi nuovi via via staccantisi dalla
gran massa amorfa.
Il sindacalista rivoluzionario moderno
mira allo sciopero generale (paralisi dello Stato borghese)
attraverso una serie di scioperi violenti di categoria; ma pur di
sottrarre il ceto operaio alla pratica riformistica distruttrice del
mito rivoluzionario aderisce magari alla guerra borghese. Pisacane a
che mira, a che ha sempre mirato fin da quando, dopo il '50, s'è
messo a pensare con la sua testa? A risolvere i problemi politici e
sociali d'Italia con forze che siano originali italiane ed
espressione di esigenze autentiche del corpo sociale italiano. Di
fronte alla pratica riformista (azione dei principi), mietitrice di
sempre nuovi successi, egli ha inteso la necessità non priva
di urgenza di suscitare, dal corpo inerte della nazione, sussulti,
scintille, affermazioni violente e spontanee di una potenziale
sovranità popolare. Rivoluzione sociale, rivoluzione politica
non son che vane parole se non presuppongono, se non si risolvono
appunto in uno sforzo di liberazione interiore che muova dal basso,
dal sottosuolo sociale, trovi espressione in élites
rappresentative e si imponga come volontà di lottare. Per un
rivoluzionario dello stampo di Pisacane il problema già tanto
discusso dell'ordine di precedenza tra le due liberazioni, l'una
dall'asservimento politico, l'altra da quella sociale, ha perso
dunque ogni concreto interesse, poiché si tratta piuttosto di
creare l'atmosfera favorevole ad entrambe, pregna d'intolleranza
d'ogni giogo, satura di volontarismo, dinamica; di allenare frazioni
sempre piú numerose della popolazione ad osare, a infranger
barriere e divieti, a reclamare i diritti di libertà
conculcati, ed anzi a conquistarseli con la violenza. Solo in
un'atmosfera siffatta, solo partendo da queste premesse potranno gli
italiani doventare un popolo libero. S'intende dunque come, per
Pisacane, Sapri non costituisca che una delle tappe obbligate di
questo itinerario, necessariamente assai lungo. E come ai
sindacalisti rivoluzionari d'oggidí, tutti tesi verso il
grande sussulto finale, riescono alquanto indifferenti le cause e le
finalità contingenti dei singoli scioperi, cosí si
spiega perché Pisacane assegni cosí scarsa importanza
ai particolari d'esecuzione del suo progetto e perfino alle stesse
probabilità maggiori o minori d'un suo successo. Gli
«scioperanti» del Cagliari verranno aggrediti e
sopraffatti dai «krumiri»? È ben possibile, è
anzi assai verosimile; ma che importa? L'essenziale è di
agire, di scuotere: scagliare il sasso nella morta gora. La catena di
scioperi parziali, per sfortunati che siano, condurrà poi
fatalmente al grande sciopero ultimo, alla liberazione integrale cioè
delle masse asservite.
«Giunti al luogo dello sbarco per me è la vittoria».
Non sembra adesso che questa espressione, scambiata sin qui per una
volata romantica assai poco in accordo coi precedenti di Pisacane,
acquisti un significato positivo e preciso? E che la sfida di lui
morituro all'«ignobile volgo» perda quel carattere di
odiosa sprezzante superiorità da un verso, di desolata
disperazione dall'altro, che a tutta prima ci aveva colpiti, leggendo
il Testamento politico?
Ma sia che si voglia interpretare quel
documento come sintesi superficiale e affrettata d'un pensiero ormai
tarato dalle contradizioni, sia che si voglia considerarlo, come a me
pare piú giusto, quale espressione d'una cosciente crisi
interiore in pieno sviluppo, certo è che mai un testamento —
sinonimo di volontà estrema, chiara e sicura — dette al
lettore, meno di questo pisacaniano, il senso consolante di una pace
raggiunta e d'una verità, sia pure parziale, nella quale lo
spirito abbia trovato la quiete.289
Lo stesso 24 di giugno, mentre il
pensoso Pisacane dà in questo modo il suo addio alle lotte
della vita, Falcone — ventitre anni — si congeda dagli
amici con una breve lettera di commovente semplicità: diano
essi il suo ritratto alla madre e dicano ai suoi fratelli «nel
caso che non debba piú rivederli... essere mio desiderio che
imitassero il mio esempio. Ei sono dotati di un'indole energica, e
volendo son sicuro che faranno ciò che forse non potrò
fare io medesimo». Nient'altro: solo le scuse per essere
partito senza dare all'amico Sprovieri «l'ultimo
addio!»290
Cuore saldo, questi giovani. «I
vostri operai inglesi — disse alla White uno dei due
Poggi,291 marinaio, imbarcandosi sul Cagliari —
vedranno che i loro fratelli italiani sanno conquistare la loro
libertà, o morire per essa». Dodici giorni innanzi,
questi umili seguaci di Pisacane292 (non tutti, ché
alcuni di essi vennero prescelti o si offersero nei giorni
successivi), avevano firmato una commovente bellissima dichiarazione
Ai fratelli d'Italia; chi la dettò?293 Non
monta; essi la sottoscrissero e, consegnandola a persona di fiducia,
espressero il desiderio che «quando che sia» venisse data
alle stampe «perché il nostro popolo non disconosca i
motivi che determinano la nostra accettazione». «Noi
partiamo. Partiamo, non allettati da... speranze di guadagno e di
gloria,... non costretti da invasione straniera o da crudele
tirannide domestica... Cittadini di uno Stato comparativamente sicuro
in Italia... tuttavia non ci sentivamo liberi e felici. Dal Nord e
dal Sud ci giungeva il pianto e il fremito di genti schiave e
martirizzate!... La coscienza ci dice: fino a tanto che 20 milioni
d'italiani sono schiavi, non abbiamo diritto di essere liberi se non
a patto di consacrare la vita all'emancipazione di tutti. La piccola
patria di Genova e di Piemonte non ci basta piú... E perciò
partiamo... Siamo ben pochi a tentare la prova, perché chi
governa non ama l'Italia, e avversa chi s'adopra a liberarla... Noi,
da un governo egoista e codardo siamo costretti a involarci fra le
tenebre a guisa di contrabbandieri... La prova è difficile; il
nemico che intendiamo assalire è forte...: la provincia, in
cui speriamo piantare la bandiera Italiana, è abitata da gente
buona ma ignorante, a cui forse si farà credere essere noi
masnadieri o pirati scesi al saccheggio. Forse ci toccherà
d'essere accolti, come il drappello dei Bandiera, quali nemici dei
nostri fratelli. E sia pure! Poveri popolani, non abbiamo se non la
vita da dare all'Italia, e di gran cuore l'offriamo... Se l'impresa
riesce, secondateci, fratelli di Genova... Trasformate lo Stato Sardo
in provincia italiana... Se cadiamo, non ci piangete... Se non ci è
dato piú vedere le nostre Riviere bagnate dal mare, date una
carezza d'affetto agli orfani bambini che lasciamo tra voi: educateli
nella religione della Patria: raccogliete la bandiera che, nel
morire, ci sarà sfuggita di mano; e se — libera l'Italia
dalle Alpi al mare — vi sovverrà dei morti fratelli,
ergete allora — non prima — a coloro che per la Patria
hanno incontrato la morte, una tomba. Una tomba, in terra libera e
per mani libere, consolerà le anime nostre. Viva l'Italia!»
La dichiarazione, si noti, fu scritta
il giorno dodici: per tredici giorni dunque quei poveri popolani
seppero tenere il tremendo segreto, pur vivendo la tumultuosa vita
della grande città, fra tentazioni d'ogni sorta. Tredici
giorni per ripensare le parole sottoscritte, valutare i pericoli
dell'impegno assunto, ritrarsene, o guadagnarsi favori e compensi a
mezzo di delazioni. Ma non fiatarono. Dei dodici firmatari, poi, tre
furono uccisi, gli altri tutti, fatti prigionieri, intristirono a
lungo nelle carceri borboniche. Che importa se, dopo mesi e mesi,
fallito il grande disegno, alcuni di costoro, tra le gravi more del
processone di Salerno, pensando alle famiglie lontane e in miseria,
protestarono al giudice d'aver sempre ignorato lo scopo del viaggio?
D'esser stati costretti, una volta attirati sul Cagliari, a
eseguire nolenti gli ordini dei capi? Se uno affermò che gli
s'era promesso, per indurlo a imbarcarsi, certo lavoro a Tunisi, e un
altro che riteneva trattarsi d'una impresa di contrabbando? Troppo
logico che ci si fosse accordati in anticipo perché i gregari,
in caso d'insuccesso, venissero sollevati da qualunque
responsabilità. Non altrimenti, del resto, si comportò
il Danèri, cui convenne allora protestarsi innocente, e che
solo piú tardi, caduto il Borbone, menò gran vanto del
suo operato: i nove popolani superstiti, come accade, si tacquero, e
nessuno per lunghissimi anni si ricordò in alcun modo di
loro.294
Sereni e animosi fino all'ultimo,
gl'impresari della «pazza» impresa, Pisacane, Pilo,
Nicotera; ma come materiata di dolore, quella serenità, e con
quanta disperata energia conquistata! Il loro sorriso brillava tutto
di lacrime.
Pilo si era creato da tempo una
famiglia illegale: la sua compagna, Rosetta, e un loro bambino. Era
fragile, appassionata, egoista, — donna! — questa
Rosetta; e tratteneva, adesso, disperatamente il suo uomo. Già
l'anno prima, quando Pilo era partito per la Sicilia, essa aveva
giurato di uccidersi; e l'aveva torturato come solo la donna che ama
sa fare: «Io per te ho rinunziato alla stima di tutti, perfino
a quella di mio padre (aveva infatti abbandonato, per seguir lui, il
marito che non aveva mai amato); e tu mi lasci per non rinunziare
alla stima dei tuoi amici...!» Questa volta Pilo ha tentato di
farle credere che parte per vendere un quadro di grande valore;
Rosetta dubita, esige giuramenti solenni. Quando sa il vero, n'è
come infranta. Il 6 giugno — prima partenza di Pilo —:
«Questa tua partenza mi ucciderà, te lo giuro —
gli scrive — ma tu lo vuoi, sia; comprendo bene che tu mi
malediresti, se io ti trattenessi; ebbene, io ti lascio libero.
Rosolino, tu mi hai giurato..., che la notte del 17 giugno 1857 sarai
in Genova. Bada di non mancare; se no non troverai piú me in
vita». — Il martirio ricomincia, dopo il 20 di giugno;
Rosetta vorrebbe salpare con lui! Ma poi si rassegna: basta che
Rosolino s'impegni a ritornare al piú presto «per pietà
del mio stato, di me, della tua povera Rosetta, che muore di amore,
di dolore per te, che t'ama, t'ama alla follia; che per te muore»;
il cuore impazzito le detta infine parole tremende: «Dio non è
né può essere con la tua causa. Dio non permette le
guerre civili, nelle quali il fratello uccide il fratello» —
e allude spietatamente alla circostanza che un fratello di Pilo, come
il fratello di Pisacane, è un borbonico
reazionario!295 — «Tu ami tuo fratello come un
tuo padre, e siete nemici di partito, e... fate la guerra tra voi. Se
vince il tuo partito, è in pericolo la vita di tuo fratello;
se la tua causa perde, ecco gli amici politici di tuo fratello
faranno il possibile per darti in mano della polizia e fucilarti. E
tu chiami questa una guerra santa? Oh, è un'infamia!...»
Ma Pilo tien duro, riparte. E il 25 la povera donna gli scrive (chi
sa dove!): «Io cerco di stare ridente per tema sempre che un
mio sospiro possa comprometterti... lo crederesti? alla notte non
dormo per tema di parlare nell'agitazione, nella quale mi trovo, e
tradire in sogno il tuo segreto».296
Nicotera, che aveva nettissimo il
presentimento di non piú tornare, s'era fidanzato, a Torino,
con Gaetanina Poerio, figlia di Raffaele. Altra creatura fragile e
innamorata, che la bufera schiantava. Sposatasi nel '60, essa diventò
poi «donna politica» e divise gli ideali e i cospicui
onori toccati al marito. Ma allora! Nel '59 — mentr'egli
scontava in galera l'audacia — Gaetanina, rievocando il '57,
freddamente scriveva a Pilo: «La parte profonda, che
naturalmente io doveva prendere negli avvenimenti, in cui Giovanni
era involto, fece sí ch'io fui messa a parte di molte cose...
alle quali ero perfettamente estranea sia per convinzione, sia per
altri riguardi. Non partecipo alle speranze ed alle opinioni di
Giovanni... perché giudicando freddamente le cose veggo che
sono impossibili a realizzarsi e che sono propugnate da
pochi...»297
Pisacane, che aveva scritto il suo
Testamento, che aveva disposto minutamente delle sue povere
cose,298 lasciava Enrichetta, lasciava Silvia di appena
quattro anni; e come le amava! Enrichetta, piú temprata, piú
esperta, piú intelligente della compagna di Pilo o della
fidanzata di Nicotera, non poteva neanche disapprovare in tutto la
risoluzione di Carlo: aveva discusso con calma il pro e il contro,
aveva suggerito il sopraluogo a Napoli, divideva gl'ideali di
Pisacane; eppure avrebbe voluto, come donna, abbrancarsi
disperatamente al suo caro che (essa lo sentiva come una certezza
interiore) non sarebbe tornato piú mai, e rinnegare una fede
prodiga unicamente di tanti dolori. Ma s'impose e riuscí a
farsi forza. Di piú: s'offri, pel caso che la rivolta
divampasse a Genova, qual direttrice delle ambulanze; come a Roma nel
'49.299 Pisacane salpa, ed essa, come Rosetta, in una atroce
eventualità ahimè fin troppo prevista, non potrà
dirsi neanche sua vedova; «druda» di Pisacane la
designeranno le spietate carte di polizia!
Anche in questa sua pagina estrema, la
storia d'amore di Pisacane conserva la sua gelosa intimità:
non una lettera loro, non un accenno d'altri ci restano per fissare
nella nostra imaginazione quell'addio consapevole, che dovette pur
essere infinitamente triste.300 Amore che aveva accompagnato
tutta la vita di Pisacane, fin dalla lontana adolescenza; che aveva
avuto i suoi splendori e le sue ombre presto dissipate, e la
definitiva consacrazione, in Silvia. Amore dei sensi e dello spirito,
fusione d'anime, illimitata confidenza reciproca. «Amore delle
epoche di credenza», lo definí giustamente Mazzini,
notando come i due amanti, anziché rinchiudersi in esso e
ricercarvi la individuale felicità, ne avessero tratto una
sempre piú viva e operante devozione a finalità
collettive; e Mazzini fu a Genova, nel maggio e nel giugno del '57,
intimo dei Pisacane. La sua parola assurge perciò a
incomparabile testimonianza d'onore per Enrichetta cui, umana
giustizia, neanche un raggio della postuma gloria di Pisacane visitò
poi nei tetri anni di solitudine, ché anzi la sua povera vita
parve, nel contrasto, farsi piú oscura e gelida: dimenticata
da tutti.
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