Capitolo sesto Primo
libro
Genova formicolava allora di emigrati
politici di tutte le regioni italiane. Qualche anno piú tardi
una statistica ufficiale ne censiva, tra stabiliti in città e
dispersi in provincia, ben 1500!83 A Torino non minore
affollamento, con questa differenza: che mentre a Genova, sempre
repubblicaneggiante e non per nulla la patria del Mazzini,
convergevano per lo piú gli uomini di sinistra; nella
capitale, attirati dalle maggiori probabilità di cacciarsi in
qualche pubblico impiego, affluivano piuttosto gli elementi temperati
e costituzionaleggianti. Gran daffare e grattacapi d'ogni genere, pel
governo, questi emigrati: su cento che ne giungono ottanta non recan
con sé di che campare otto giorni. Conviene per altro
aiutarli, mostrar loro che solo il Piemonte, il quale in certo modo
rappresenta l'Italia di domani, prende interesse a loro; a trattarli
bene, c'è da convertirli tutti pian piano al regime
costituzionale e farne amici provati, checché stia per
succedere, del regno sabaudo. Bisogna per altro andar cauti per non
urtare la gelosa suscettibilità degli altri governi italiani.
Eterna questione dell'asilo ai fuorusciti: il Piemonte la risolve con
molta abilità, con molto tatto. Stanzia un sussidio annuo in
pro degli emigrati affidandolo, per la distribuzione, a un Comitato
apposito, col patto che li sorvegli e tenga in freno; spalanca le
porte dell'Università a taluni meridionali illustri nelle
scienze84; rispetta il piú che può le mille
iniziative di quest'accolta un po' turbolenta d'ingegni senza patria,
lascia che impiantino giornali e riviste, procura che il censore li
tormenti quanto meno è possibile; si oppone d'altra parte alle
manifestazioni collettive in genere, vorrebbe che smorzassero tutti
un poco la voce.
Se gli emigrati gli costano molto, se
a volte gli suscitano grossi guai all'interno e pericolosi incidenti
diplomatici, un grandissimo bene ne viene in ultima analisi al regno
ospitale. Si può dire che il tono della vita culturale
piemontese venga rinnovato, sveltito, sprovincializzato dal contatto
con questa «intelligenza» italiana. Il brio, la
prontezza, la versatilità degl'ingegni meridionali ad esempio
(e solo di napoletani e siciliani ve n'erano presso che un migliaio)
esercita senza dubbio la piú benefica influenza sul massiccio,
grave, qualche volta un po' tardo temperamento dei pedemontani. La
stampa di Torino, di Genova diventa in pochi anni, non senza merito
loro, strumento agilissimo, vivace, battagliero di lotta politica;
l'insegnamento superiore acquista in modernità e
spregiudicatezza; la letteratura politica in profondità
varietà e abbondanza. Talune nuove correnti ideali vengono
addirittura importate e propagate per opera quasi esclusiva di
emigrati, molti dei quali, viaggiando sovente e tenendo con l'estero
assidua corrispondenza, contribuiscono a far del Piemonte, assai piú
che non fosse, una provincia d'Europa.
Grandi vantaggi politici, poi: nessuno
ignora oggi fino a qual punto gli statisti piemontesi — Cavour
in ispecie85 — si valessero della loro intrinsechezza
con alcuni emigrati non soltanto per averne, in merito alle cose
italiane, informazioni precise, spunti e suggerimenti, magari anche
leali critiche; non soltanto per allacciare quei discreti rapporti
con circoli fiorentini, romani, napoletani, che piú tardi si
sarebbero rivelati d'inestimabile importanza; ma anche per usarli
come ballons d'essai, lasciando stampare a loro, sul conto
degli altri Stati italiani, certe cose che al Piemonte comodava
fossero dette senza troppo rischio per sé. E finalmente non
era merito in parte dei rifugiati politici se il Piemonte tra il '50
e il '59 diventò agli occhi d'Europa un modello di quel che
avrebbe potuto essere e sarebbe stato bene che fosse l'Italia, una
volta distrutte le anacronistiche sue divisioni?
Ma il gruppo repubblicano di Genova
dava piú preoccupazioni che altro. È vero che senza
quello e il suo continuo agitarsi sarebbe riuscito difficile
persuadere l'incredula diplomazia che in tutt'Italia ribolliva un
pericoloso scontento, in tutt'Italia, salvo, s'intende, in Piemonte;
ma non osavano quegli scalmanati o molti tra loro sostenere
l'identità sostanziale tra i vari governi italiani, ponendo
nel mazzo, tra quelli che si sarebbero dovuti un dí
rovesciare, anche il governo sardo, e non si credevan lecito di
mescolarsi nella politica interna del regno, in combutta con gli
oppositori d'estrema?
In questo ambiente, autunno del '50,
capita Pisacane. Ex ufficiale nell'esercito sardo, dimissionario alla
vigilia della guerra per passare alla difesa di Roma, intrinseco di
Mazzini, braccio destro di Avezzana, repubblicano dichiarato, egli
non è precisamente, in Genova, un ospite desiderato. E infatti
l'autorità locale, alla di lui richiesta appoggiata da un
ragguardevole cittadino per ottenere un permesso di soggiorno,
risponde un «no» tondo, motivandolo col fatto che «la
diplomazia dà avvisi di prossimi movimenti
insurrezionali». «Che bestia!», commenta Pisacane,
che di quel no s'infischia perché sa che con un po'
d'accortezza e molta ostinazione potrà benissimo restarsene
dov'è, piú o meno celatamente. Gli è che
Pisacane non è venuto in Liguria unicamente per godersi le
bellezze della riviera e le grazie della sua donna: anche di questo
sono informate le autorità, bestie perciò fino ad un
certo punto. Piani insurrezionali (che comprendono la stessa Genova)
non cessano d'imbastirsi tra le file dei mazziniani, facenti capo
allora a un'Associazione Nazionale che Mazzini, su mandato di
alcuni rappresentanti del popolo, ha fondato a Roma dopo caduta la
repubblica, e poi diffuso in tutt'Italia86. Sospette perciò
le amicizie, sospetti i rapporti che Pisacane riallaccia con
ufficiali dell'esercito sardo, poco chiara fin dal principio la sua
attività. Che mai vuol dire Mazzini quando, nello stesso
novembre '50, scrive a Dall'Ongaro: «le basi di Pisacane sono
giuste. Ma v'è già un'embrione d'organizzazione
militare per legioni in alcuni punti, che può benissimo
concordare»; o ad altri: «un po' di pazienza ancora per
l'organizzazione militare. Stiamo intendendoci coi nostri militari di
Genova, amici di Pisacane, per un insieme di disposizioni»?
Nessuno lo sa meglio del governo sardo: Mazzini e Pisacane
s'adoperano per costituire quel Comitato militare (ben presto
entrato in funzione, con Pisacane stesso e Giacomo Medici alla testa)
che nel movimento repubblicano dovrà agire come uno Stato
Maggiore generale, incaricato di studiare dal punto di vista militare
eventuali piani insurrezionali, di apprestare i necessari armamenti,
di afferrare in caso di tempesta scatenata la barra del
timone87.
Il progetto di una spedizione armata
nel Sud, a sostegno di nuclei sediziosi supposti in procinto di
levarsi nell'una o nell'altra provincia, ma piú probabilmente
in Sicilia, incomincia già a delinearsi88. Ben presto
un nutrito carteggio tra i mazziniani di Londra, di Svizzera, di
Genova, di Malta, di Napoli e Sicilia avrà per oggetto sempre
piú definito questa impresa, a capitanare la quale i piú
designeranno Garibaldi, allora imbarcato su bastimenti mercantili nei
mari d'America.
Troppo logico che di queste
trasparentissime trame e della parte che ad esse prendeva Pisacane il
governo di Torino si mostrasse per lo meno uggito. Tanto piú
che coincidevano con la clamorosa campagna propagandistica iniziata
dai repubblicani pel lancio del prestito mazziniano dei dieci
milioni. Questa campagna non fruttava, è vero, i grandiosi
proventi da costoro sperati, ma era sintomatico il numero delle
piccole sottoscrizioni, attestanti la diffusa popolarità nel
Piemonte monarchico del programma e dei metodi di Giuseppe Mazzini.
Facile e sotto certi rapporti opportuno sarebbe stato proibir la
vendita delle cartelle, ma bisognava pur differenziarsi dall'Austria
che nel Lombardo Veneto s'andava coprendo d'infamia agli occhi
degl'italiani comminando ed applicando pene severissime contro quanti
le detenessero. A malincuore perciò il governo sardo si adattò
a tollerare la manifestazione repubblicana, di che la stampa
conservatrice non cessò dal maravigliarsi e muover proteste.
Pisacane esultava: «Il prestito cammina a gonfie vele, i
biglietti si negoziano pubblicamente...; tutti ne abbiamo presi; e
gli emigrati piú poveri si associano e prendono un biglietto
ogni quattro o cinque persone».89
Per quanto seccato dai parenti di
Enrichetta (con i quali pendevano probabilmente meschine vicende
d'interessi), e urtato dalle incertezze cui lo condannava «il
governo di questa Cina», Pisacane a Genova si trovava
benissimo: finanziariamente non c'era nulla di nuovo, ma il gran
daffare politico e la vicinanza di quasi tutti i suoi amici lo
mettevano in vena. Erano là, degli antichi compagni della
Nunziatella, oltre a Cosenz, i due Mezzacapo, Carrano e
Boldoni; tra i meridionali di sua conoscenza Conforti, Jovene,
Carbonelli, De Lieto, gli Orlando, Pilo; e la gente incontrata a
Milano, a Roma, fuori d'Italia; venne Macchi, conobbe Acerbi e
Napoleone Ferrari, rivide Bertani, Bixio, Medici, Cadolini, Quadrio,
Cenni, Sacchi, Gorini.90
Nello stesso novembre '50 erano giunte
a Genova, per trattenervisi tutto l'inverno, le due sorelle Emilia
Hawkes e Matilde Biggs, nate Ashurst, che Pisacane aveva frequentate
durante il soggiorno di Londra: intelligenti entrambe, intime di
Mazzini; Matilde aveva con sé le due sue bambine. Enrichetta
ne divenne amicissima, e si mantenne in attiva corrispondenza con
loro anche quando tornarono a Londra. («Elizabetta et Carolina
mandano i loro amori anche alla signora Enrichetta»,
scriveva ad esempio nel '52, nel suo goffo italiano, alludendo alle
figlie, Matilde Biggs).
Luogo di convegno per loro e per molti
altri repubblicani genovesi o emigrati era la casa della madre di
Mazzini, che nel vedersi d'intorno tutti quegli amici del figlio,
nell'ascoltare le loro confidenze e aver parte nelle loro
discussioni, nel consegnare o ricever da loro le novità e le
istruzioni politiche da e per Londra (dov'egli intanto era tornato),
si confortava nella solitaria vecchiezza, quasi illudendosi d'averlo
un poco con sé, questo figliuolo che pur non tornando da
vent'anni nella sua casa sognava sempre di finire la vita, a Italia
rinata, solo con lei e alcuni libri, in qualche romito luogo di
campagna! Non di rado, fin quando, invocando il figliuolo, la povera
donna morí (nell'agosto '52), Pisacane e la sua compagna
varcaron quella soglia91. «Ricordatemi a lei e ditele
ch'io non la scordo e non la scorderò», cosí
Mazzini alla madre il 7 agosto '51, riferendosi a Enrichetta; e la
madre, dieci giorni piú tardi, a Emilia Hawkes: «Ho dato
la vostra letterina alla signora Enrichetta che è buona sempre
con me e mi visita». L'amicizia devota durò, s'è
detto, fino alla morte di Maria Mazzini; seppur fu meno intensa negli
ultimi mesi in conseguenza forse dei dissapori che principiavano a
manifestarsi tra Pisacane e Mazzini. Il tono è un po' mutato,
certo, quando il 24 febbraio '52 Maria Mazzini scrive all'Emilia:
«Finora non diedi alla Delorenzi la vostra pap(eletta) non
vedendola che di rado ed ignorando la sua abitazione, ma l'avrà».
Nel giugno, comunque, l'epistolario mazziniano nuovamente menziona
frequenti visite di Enrichetta alla «Scià Maria».
Altro luogo di ritrovo, le redazioni
dei giornali e giornaletti di sinistra, che a Genova non
scarseggiavan davvero: a principiare dall'Italia e Popolo,
quotidiano ufficiale del mazzinianismo, il quale, preso di mira (e ce
n'era di che!) dal censore, mise insieme in pochi anni la piú
ricca collezione di sequestri che mai giornale subisse; per seguitar
con la Maga, la Libertà, la Libertà
e Associazione, la Bandiera del Popolo, il
Lavoro, l'Italia libera, l'Amico del povero,
l'Associazione.92 Poi le riunioni consuete nei centri
d'emigrazione, dove attorno ai migliori o piú ricchi o piú
dotti si affollavano gli oscuri e i meno anziani. Forse fu anche
Pisacane di quella congrega di giovani che — scriveva Macchi a
Cattaneo il 13 maggio '52 — si radunavano «in certa casa
tre volte la settimana» per far lettura della nuovamente uscita
e ostica Filosofia della Rivoluzione del Ferrari, i piú
colti ingegnandosi «di far comprendere i piú scabri
insegnamenti anche ai meno esperti nelle filosofiche discipline».
Progrediva intanto, nella ritrovata
serenità familiare, anche la stesura della Guerra
combattuta. Il 23 gennaio del '51 Pisacane poteva spedire a
Cattaneo parte del manoscritto, con preghiera di dargliene un
giudizio. Il che Cattaneo fece sui primi d'aprile con assoluta
franchezza; e Pisacane: «Vi sono gratissimo della marca
d'amicizia che mi date, nell'avermi precisato dei fatti sul mio
manoscritto; è questa una cosa che io desideravo moltissimo e
che apprezzo immensamente»93. Uguale favore gli fecero
il Macchi e il Dall'Ongaro; Dall'Ongaro anzi riguardò tutto il
lavoro dal lato stilistico, quello che era sempre stato il tallone
d'Achille di Pisacane. Ultimo e cospicuo recensore il Mazzini, che
pur lodando il «bel libro», non risparmiò censure
e consigli di soppressioni e revisioni.
Si trattava adesso di trovar
l'editore: ed era tutt'altro che facile per un'opera informata a
principii repubblicani e antipiemontesi. A pubblicarla in Piemonte
c'era il pericolo d'un sequestro, aggiunto a rinnovate persecuzioni
pel suo autore; e questi preferiva evitarle. Ma le ricerche condotte
a Lugano dagli amici di là restaron vane: il Daelli n'avea
poca voglia. Pisacane s'era lusingato che il libro potesse
contribuire a restaurare le sue scosse finanze; ma sí! Se
volle concludere gli toccò rinunciare a cavarne un
quattrino94; e allora si profferí per stamparlo il
Moretti di Genova, tipografo dell'Italia e Popolo,
contribuendo alle spese Nicola Ardoino, ex colonnello di Pisacane in
Piemonte ed ora giornalista repubblicano. L'intesa fu che ad ogni
buon conto, prima di metter fuori il volume, se ne sarebbero spedite
alquante copie in luogo sicuro.
L'autore figurava residente a Lugano;
e infatti quando il 6 di luglio l'Italia e Popolo dette
l'annunzio della pubblicazione imminente e il «programma»
dell'opera, questo, a firma di Pisacane, recava la data: Lugano, 1°
giugno 185195. Come programma, o soffietto, era abbastanza
polemico: «Le baionette straniere non hanno distrutto una
Rivoluzione, ciò sarebbe stato impossibile, ma hanno vinto gli
sforzi di qualche individuo. Far risaltare tutti i punti in
cui questa verità rifulge chiarissima è uno degli scopi
principali della presente operetta». Mazzini, appena lo ebbe
letto, si affrettò a scrivere a Genova per esprimere il timore
che il libro di Pisacane non avesse a ridestar «vespai e
discussioni, dove il paese non lo richiede»96.
Messo in vendita sui primi d'agosto,
esso suscitò infatti straordinario scalpore. Pisacane aveva
previsto le furie della censura; gli si scatenarono addosso invece
quelle, impreviste e moralmente assai sgradite, degli stessi
repubblicani! L'Italia e Popolo dell'agosto non ci conserva
che due documenti di quella indiavolata polemica: una lettera di Nino
Bixio, del 1897, per rettificare in qualche punto la
narrazione dell'episodio del 30 aprile '49 a Roma; e la seguente
dichiarazione di Pisacane, del 22: «Avendo per iscopo, nella
narrazione dei fatti, la ricerca del vero (l'autore) sarà
gratissimo a tutti coloro i quali faranno rilevare le inesattezze del
libro per mezzo dei giornali; scorsi tre mesi dalla pubblicazione
dell'opera verrà pubblicato un supplemento, il quale contenga
tutte le giuste rettifiche, e cosí la narrazione acquisterà
pregio, come quella discussa al tribunale della pubblica opinione».
Dichiarazione che era di per sé sufficiente a fare intendere
quanto avesse avuto ragione Mazzini nel prevedere il ridestarsi di
incresciosi vespai. Altra lettera — privata questa — di
Bixio, da Torino, 20 agosto: «Ho veduto un amico che viene da
Genova, e mi dice che alcuni a Genova pensano di scrivere contro
Pisacane per rivendicare non so cosa a Garibaldi. Secondo me
(scriveva il futuro generale garibaldino) se Pisacane ha un torto, è
quello di aver detto poco. Quali sono i fatti che vogliono mostrarci
perché adoriamo un genio di convenzione? Siamo al tempo degli
idoli? Fatti ci vogliono, e non ciarle. Garibaldi può avere
delle buone qualità, ma quelle di un generale non certo».
Condotta su questo terreno — ha detto male di Garibaldi! —
la polemica s'inviperí. La dichiarazione di Pisacane non parve
sufficiente. Seguirono incidenti personali, violente diatribe. Il
direttore dell'Italia e Popolo, Remorino, che proprio in quei
giorni lasciava l'ufficio e che pure era stato fino allora nei
migliori termini con Pisacane, lo provocava addirittura a duello!
Dallo scontro Pisacane usciva lievemente ferito. E forse a questo
primo duello altri sarebbero seguiti senza l'energica intromissione
di alcuni amici98.
Il 3 di settembre l'Italia e Popolo
pubblicava una risentitissima lettera di alcuni emigrati
siculo-calabresi — tra i quali Fardella, Calvino, Natoli —
contro certi passi della Guerra combattuta relativi al
contegno degl'insorti siciliani nel 184899. Lo stesso mese
Macchi informava Cattaneo: «L'istoria del Pisacane è
abbastanza diffusa ma anche contr'essa si sta condensando l'ira dei
Garibaldini numerosi e potenti nella Liguria»100.
Insomma un successone di pubblicità,
ma ben pochi consensi: Pisacane aveva urtato un po' tutti. Mazzini,
in una lettera del 22 settembre, riecheggiava un'opinione diffusa
scrivendo: «... mi duole che, col nemico in faccia, italiani
abbiano a sciabolarsi fra di loro. Pisacane è buonissimo... Ma
egli pecca nella via che prende, come molti di quei che scrivono.
Oggi noi dobbiamo considerarci tutti come soldati d'un esercito
davanti al nemico: intenti a preparar forze ed accordo per la
battaglia. Può esserci dovere di scrivere contro un individuo,
se si crede che quell'individuo possa esser chiamato a diriger le
cose e possa per incapacità o malafede rovinarle; ma ogni
linea che vada piú là, ogni linea inutile, ogni linea
che dicendo anche la verità dica una verità non
importante per la causa, è cagione di discordia e reazione nei
ranghi, è una colpa. Pisacane ha moltissime di queste colpe.
Non parlo affatto dell'aplomb col quale ei dichiara il governo
di Roma aver mancato d'energia e d'idee, benché sia male lo
spargere scetticismo sugli uomini capaci ancora di fare un po' di
bene e che i padroni perciò appunto vorrebbero minare, ma
delle linee che hanno suscitato questo subbuglio tra i Siciliani e
lui. Probabilmente, sono linee avventate ed ingiuste; ma quando anche
esse nol fossero, era utile scriverle? Credeva questo, ei dirà;
ed è debito mio di pagar tributo alla verità. Dico, che
l'Italia non ha alcuna necessità di avere storici in oggi, ma
grande di avere combattenti. Non si tradisce, tacendo, il vero. E la
mia questione è oggi, se importi scriver tutto».
Parole sacrosante in un certo senso,
vuote di significato in un altro. Può mai dirsi infatti che un
paese non abbia bisogno di «storici», quando gli storici
sian uomini che credono d'aver ravvisato nei fatti presi in esame
errori gravi o personali o collettivi i quali, se non considerati e
perciò ripetuti, possono condurre a disastri avvenire? Quanto
poi alla opportunità di tacere alcune volte il vero, la
difficoltà sta per l'appunto nello stabilire queste occasioni.
Non venne mosso, forse, l'identico rimprovero di parlare secondo
coscienza ma contro ogni opportunità politica, al Mazzini
quando, alcuni mesi piú tardi, vergò parole roventi
contro la democrazia socialista di Francia?
Certo che nel suo libro Pisacane non
aveva avuto il menomo riguardo per chicchessia; lasciatosi andare
sull'invitante piano inclinato delle «stroncature», lo
avea percorso tutto senza freni di sorta, diresti quasi con voluttà;
nel rilevare le deficienze di questo o di quello raramente aveva
sentito il bisogno di rammentarne insieme le benemerenze; è
anche vero che qua e là aveva un po' troppo posato a giudice
severo e imparziale di avvenimenti cui, non senza suscitar moltissime
critiche, aveva egli stesso partecipato. Andò a finire che la
modestia da lui dimostrata nel non accennare mai una sola volta in
tutto il libro all'opera da lui compiuta nel '48-'49 (tanto piú
apprezzabile quanto piú in contrasto col suo congenito
egocentrismo) parve — e non era davvero — una colpa di
piú.
È assai probabile che Pisacane
ricavasse non poca amarezza dall'accoglienza che la critica e il
pubblico avean riservata al suo libro; e ciò non tanto perché
quasi nessuno lo avesse riconosciuto per quel che dopo tutto e
nonostante tutto esso era, un bel libro cioè, solidamente
costruito, vigorosamente scritto, personalissimo, d'una cristallina
chiarezza, e comunque assai superiore a molti altri che sullo stesso
argomento avevan visto la luce («forse la miglior scrittura di
guerra allora pubblicata» lo giudicò l'Oriani); ma
perché, pronti tutti a pizzicarlo su qualche inesattezza, su
qualche giudizio affrettato, nessuno davvero avesse mostrato
d'intendere la ragione, l'idea profonda, lo scopo del libro. Con la
Guerra combattuta egli si era proposto infatti di dare
la dimostrazione storica della intrinseca insufficienza della
rivoluzione italiana.
Molto semplice il ragionamento da lui
svolto: inutile accapigliarsi sulle responsabilità del
«fiasco» del '48-'49; le colpe individuali, importanti
per altro verso, non spiegano nulla a questo proposito; la
rivoluzione è fatalmente fallita perché, dipendendo il
suo successo dall'attiva cooperazione del popolo italiano, si è
dato invece che il popolo o non mostrasse alcun interesse a
promuovere questo successo, o, una volta ottenutolo, a rassodarlo. Lo
spunto che ha indotto alla rivolta antidispotica — il principio
nazionale cioè — era sí abbastanza diffuso e
popolare in Italia innanzi il '48, e diffuso vi era il disagio per la
dominazione straniera e tirannica. Ma quasi ovunque s'era creduto
dagli utopisti e dagli stessi individui o gruppi che conducevan la
battaglia che gli italiani si sarebbero mossi non per altro che per
assicurare il trionfo delle loro idealità; non si era inteso
invece che ogni ceto sociale vi avrebbe preso interesse solo in
quanto gli fosse dato intravedere, come conseguenza necessaria di
quell'astratto trionfo, vantaggi tangibili e di essenziale
importanza101. È vero che in alcuni casi quegli
individui e gruppi, stimando di non potere da soli fronteggiare le
forze organizzate dalla reazione, si erano una buona volta decisi a
sollecitare l'appoggio delle masse, promettendo loro, in compenso di
un'attiva collaborazione, che le novità politiche cui si
mirava avrebbero portato a un automatico e radicale miglioramento
delle loro condizioni sociali; ma non appena ottenuto il successo e
cacciate le vecchie oligarchie, quale atteggiamento avevano assunto i
nuovi governi insediatisi al loro posto? Si eran forse preoccupati di
alimentare il consenso dei piú? Di scavare un abisso
incolmabile tra l'ieri e l'oggi mercè ardite riforme sociali?
Di creare d'urgenza una rete quanto piú larga possibile
d'interessi conservatori? Neanche per sogno: espressione d'idealità
e d'interessi borghesi, essi non d'altro s'eran curati che di
soddisfare e quelle e questi e di consolidare le loro posizioni. E
perciò non soltanto avevano lasciato che l'ingenuo calore
delle masse s'intiepidisse, ma si erano affannosamente adoperati a
questo scopo. Sí che, rinfrancatesi in seguito le forze
reazionarie e passate alla controffensiva, gli uomini dei cosí
detti regimi liberali si erano trovati naturalmente isolati o presso
che tali nella disperata difesa del nuovo ordine di cose; del quale
isolamento, con incoscienza incredibile, avevano poi osato stupirsi e
non cessavano ancora di rammaricarsi. I disastri del '49 non avevano
dunque aperto gli occhi a nessuno? Non si era ancora inteso
l'equivoco che aveva determinato cosí sproporzionate
illusioni, prima, ed ora causava cosí irragionevoli
scoraggiamenti?
Gli egoismi di classe avevano
soffocata la rivoluzione italiana; questa era la chiave dell'enigma;
questo, seppure in altri termini ma con altrettanta chiarezza, diceva
la Guerra combattuta; ed era pensiero acuto e
fortissimo, cui ben pochi prima di Pisacane erano giunti, e nessuno
aveva espresso cosí incisivamente; pensiero ben degno di
venire apprezzato e svolto, almeno per quel tanto di vero che esso
conteneva accanto a evidenti semplicismi e inaccettabili
generalizzazioni. La rivoluzione italiana usciva dal suo processo con
una sentenza d'immaturità: trovandosi concordi nel deprecare i
mali del dispotismo e dell'asservimento straniero, gl'italiani
avevano infatti compiuta la fase negativa della loro liberazione; ma
non erano né risoluti né concordi nel determinare quel
che si sarebbe dovuto sostituire ai regimi condannati e ancora
concepivano miticamente l'indomani post-rivoluzionario, esponendosi
cosí infallibilmente a nuove delusioni, a nuovi bruschi
risvegli. Forse che il problema era proprio quello di stabilire se si
dovesse mirare a repubblica o a monarchia, a federazione o a unità?
No, si trattava di stabilire qualcosa d'importanza incomparabilmente
maggiore: su quali interessi dovesse poggiare il nuovo edificio, su
quali contributi s'avesse a contare per la sua costruzione, quali
resistenze bisognasse prepararsi a travolgere. Il ragionamento di
Pisacane si faceva qui stringente e inflessibile, per giungere a una
conclusione d'uno sconcertante radicalismo. Si voleva proprio far
l'Italia nazione? Sbaragliare per sempre le innumerevoli forze
d'opposizione? Ebbene, occorreva perciò che la stragrande
maggioranza degli italiani partecipasse davvero alla lotta; ma
l'esperienza del '48-'49 insegnava che questo fenomeno non si sarebbe
assolutamente verificato se il fin qui ristretto programma nazionale
non si fosse arricchito di qualche grande idea-forza capace di
scuoter le fibre delle masse proletarie, ed anzi impostato
addirittura su di essa e in vista della sua realizzazione. Tale
idea-forza non poteva essere ormai che la rivoluzione sociale; urgeva
proclamarne la bellezza e l'utilità e dar opera per bandirla e
promuoverla, non già come complemento della rivoluzione
politica, sibbene come sua giustificazione e «spiegamento».
Ci si persuadesse insomma che la rigenerazione d'Italia non si
sarebbe verificata se non in quanto le abusate espressioni di
giustizia, di libertà, d'autogoverno fossero venute finalmente
a significare giustizia per tutti, libertà per tutti,
autogoverno del popolo e non d'una minoranza privilegiata. E infatti
che mai poteva al «popolo» importare che in Lombardia ad
esempio cessasse la dominazione austriaca se, sparita quella, ne
principiasse un'altra, nazionale o no, a eternizzare la sua servitú?
Era considerare il problema italiano
sotto un punto di vista di stupefacente modernità. Si poteva
non accettare l'ottimismo un po' superficiale del socialismo
pisacaniano (si vedrà in seguito che non era soltanto suo), ci
si poteva maravigliare che egli lo postulasse, almeno apparentemente,
solo in funzione e in servizio della questione italiana, si potevano
discutere e magari rifiutare molte sue valutazioni assiomatiche;
avrebbe dovuto, comunque, riuscir difficile, dopo la pubblicazione
del suo libro e di qualche altro che seguí dappresso,
continuare in certe impostazioni confusionarie del nostro problema
politico, volte a risuscitare tal quale l'equivoco quarantottista e
con esso, seppur sotto altra forma, le amare sorprese del '49.
Difficile? Ma non è forse eccezionale il caso, tra noi, che
uno scritto politico, di qualsivoglia importanza, abbia esercitato
un'effettiva influenza e lasciato un'impronta non cancellabile nella
vita reale? I libri in Italia si leggono dagli studiosi e questi non
contano nulla nel giuoco delle forze attive. La Guerra
combattuta non sfuggí a questa sorte: chi l'ebbe tra
mano prese infatti passione (s'è visto) ai pettegolezzi che ne
derivarono, lodò piú o meno lo stile ecc. ecc.; ma le
«proposte» fatte da Pisacane alla classe politica
italiana, importanti e nuove, caddero miseramente nel vuoto. Del che,
è vero, qualche colpa aveva anche il suo autore; il quale,
accingendosi ad esporre un pensiero cosí inusato e aggressivo,
lo aveva sin dalle prime pagine presentato ai lettori nella sua
formulazione piú intransigente dogmatica ed estrema. Si
sarebbe detto che non gli bastasse la pazienza a condurli pian piano,
per via deduttiva, ad afferrarne la logica derivazione da premesse
accettabili e quindi, se non la convenienza, la ragionevolezza.
Né si vuol lamentare con questo
che non si sia davvero, in quegli anni, fatto propaganda per la
rivoluzione sociale; scartando questo, che era in qualche modo il
«programma massimo» della Guerra combattuta, se ne
sarebbe potuto estrarre pur sempre almeno una indicazione di metodo,
di praticità immediata. Studiare a fondo cioè le
condizioni della vita italiana nelle diverse regioni e nei diversi
strati sociali sí da chiarire, in base ai resultati
dell'indagine, tre cose importanti: 1) i moventi dell'adesione di
taluni ceti al movimento nazionale italiano; 2) le ragioni effettive
della indifferenza d'altri ceti — costituenti la grande
maggioranza della popolazione — di fronte al movimento stesso;
3) a quali interessi e a quali ideali dovesse il programma nazionale
d'ora innanzi ispirarsi per poter guadagnare le solidarietà
sufficienti ad assicurarne il trionfo.
Il programma massimo di Pisacane non
si presentava in fondo che come la discutibilissima soluzione da lui
proposta al terzo paragrafo: non era difficile intravederne di piú
equilibrate; ad ogni modo l'invito implicito ai partiti italiani per
una maggiore concretezza avrebbe potuto venir raccolto con sicuro
beneficio di tutti. E invece la minoranza repubblicana seguitò
a trascurare affatto nella sua propaganda il fattore sociale, seguitò
— per quanto il suo organo massimo, l'Italia e Popolo,
mostrasse talvolta d'intendere certe necessità nuove — a
eccitare alla lotta e ai sacrifici per la patria operai e signori,
preti e soldati, proletari e impiegati, tutti con un solo programma
che, quando non era generico e miope al punto da non vedere un palmo
piú in là dell'attimo rivoluzionario, rispecchiava
naturalmente le premesse, gli interessi e le aspirazioni di un ceto
ristretto di politicanti smaniosi di «dar l'assalto alla
diligenza», beninteso nella convinzione sincera d'imbarcarvi
poi tutti quanti. E proprio in quel torno di tempo, tutti quelli che
nel campo politico non eran repubblicani arrabbiati principiarono ad
ammetter la possibilità di una soluzione limitata della
questione italiana che rispondesse alle sole esigenze d'indipendenza
e di progressiva unificazione, rassegnandosi a relegare in sottordine
e anzi abbandonando in anticipo il terzo comma fino allora
considerato, la libertà cioè, e ripudiando una volta
per sempre i mezzi rivoluzionari, ossia la conquista profonda di quei
beni. Col delegare a un forte potere costituito (il Piemonte) la
direzione tecnica e l'accollo dei lavori e i rischi del rivolgimento
italiano, i patrioti rinunciavan, s'intende, a controllarne
l'esecuzione e si rendeva cosí possibile di differire a cose
fatte (non mai, certo, l'evitare per sempre) quell'esame delle forze
di sostegno e di attrito del nuovo edificio, cui Pisacane scrittore
riteneva indispensabile l'accingersi preventivamente.
E qui un
dubbio affiora: che sarebbe avvenuto se le sinistre avessero adottato
programmi e metodi del socialismo rivoluzionario? Si sarebbe
raggiunta ugualmente l'unità d'Italia, e in qual modo, e con
maggiore o minore sollecitudine?
Assai ragionevolmente lo storiografo
si guarda dalla fascinante attrazione dei se, che dal reale lo
condurrebbero al fantastico; eppure non di rado accade che il cedere
con accorta prudenza al richiamo di un se spinga — per
il solo fatto del domandarsi perché mai una certa alternativa
non si sia verificata — a meglio profondare lo sguardo nel
groviglio di circostanze dalle quali derivò la inevitabile
necessità di un determinato corso di eventi.
La
propaganda di un pugno d'idealisti per la formazione dell'unità
italiana ebbe successo per uno straordinario complesso di circostanze
favorevoli; ma fondamentalmente perché collimò col
beninteso interesse della nuova borghesia in ogni regione della
penisola, avida di spazio, di liberi traffici, di largo mercato,
insofferente della rigidezza dei vecchi sistemi, che ostinatamente le
negavano ogni valore politico, ansiosa dell'avvento di un regime
nuovo, che promettesse di formarsi a imagine sua, al suo servizio,
adeguato e soggetto alle sue necessità e alle sue
indispensabili esigenze di sviluppo; di un regime il cui nerbo e le
cui forze fossero costituiti appunto da essa borghesia, i cui posti
di comando fossero spettati a uomini suoi; del quale insomma le
toccassero i benefici e gli utili.
Orbene, s'andasse dinanzi a questa
gente ad agitare il vessillo della emancipazione del proletariato,
della rivoluzione sociale. Si provasse a dir loro che i benefici
della grande operazione andrebbero divisi con i nullatenenti; che nel
nuovo regime il troppo si falcidierebbe per sovvenire al poco; che
alla divisione degli utili futuri delle aziende parteciperebbero
anche gli operai; che le imposte sarebbero progressive sul reddito e
magari una porzione cospicua dell'asse ereditario verrebbe confiscata
a beneficio della collettività; si provasse a suscitare
agitazioni nei nascenti centri operai o a metter su i contadini
(figuriamoci poi a far propaganda seria di comunismo). Effetto
immediato e sicuro, tanto piú generale quanto piú larga
e fortunata si dimostrasse la seminagione del sonoro principio
dell'uguaglianza sociale, sarebbe stata la contrazione del
patriottismo borghese, l'affermarsi in sua vece di un diffuso
conservatorismo attaccato alla salvaguardia dei regimi assolutisti,
per principio e per intima necessità contrari a ogni
esperienza di rinnovamento sociale. Pochi idealisti disinteressati
(oppure politicanti spiantati, sicuri comunque di far fortuna nel
nuovo regime) non sarebbero bastati allora davvero a vincere le
innumeri forze che si opponevano al compimento della rivoluzione
italiana. Quale, per contro, avrebbe potuto essere il contributo
popolare? In verità, ipotetico alquanto e, nella migliore
delle ipotesi, a ben remota scadenza (non bastarono trent'anni, dopo
il '60, a far, non dirò del socialismo, ma del movimento
operaio una cosa seria tra noi!) E poi in qual modo si sarebbe potuta
svolgere una intensa propaganda sociale nelle masse, tale da
trasformare la loro inerte disperazione in attività
autoemancipatrice, durando i regimi antiliberali? Possibile
determinare un vasto movimento, con quegli esigui mezzi dei quali
disponevano gli uomini di sinistra e che si rivelavano miseramente
insufficienti anche ai fini di una limitata propaganda su una
minoranza già pronta e ben disposta? L'assioma secondo il
quale lo sviluppo delle libertà sociali segue e non precede
l'acquisto delle piú elementari almeno tra le libertà
politiche non ha, ch'io mi sappia, sofferto smentite mai.
D'altronde cosa predicare alle masse,
i cui bisogni e le cui aspirazioni si presentavan da noi cosí
diversi e quasi in opposizione reciproca da regione a regione?
Rivoluzione sociale era un termine troppo generico. Ma a parte
questo, supposto anzi che si potesse nell'Italia del '50 lanciare
un'efficace propaganda socialistica, non era forse chiaro che essa
avrebbe accentuato l'indifferenza del «popolo» per un
problema, appetto a quello sociale, tanto formale e di secondaria
importanza come quello delle istituzioni e delle etichette politiche?
Era dunque in preda a una ben strana
illusione chi credeva che suscitando nel bel mezzo della lotta
politica la fiamma dell'odio di classe, si sarebbe aggiunto sangue e
vigore alla lotta; chi credeva che il mito socialista proposto a un
proletariato analfabeta e di tipo prettamente pre-industriale avrebbe
giovato, sollecitandone le immense energie vergini, al partito o ai
partiti che in un risveglio degli italiani ponevano la condizione di
un effettivo rinnovamento politico. Esso in realtà avrebbe
avvantaggiate unicamente le forze reazionarie, mentre l'idea
italiana, stretta fra i due opposti fuochi del socialismo e del
conservatorismo ad oltranza, sarebbe miseramente perita. Invero
l'ipotesi che il nostro risorgimento non si sarebbe verificato se non
con l'alleanza di tutte le forze interessate a mutar stato (ossia
sotto una bandiera che promettesse benefici essenziali a ciascuna di
esse) rivelò la sua acutezza piú tardi e per l'appunto
proprio quando il raggiungimento dell'unità italiana, frutto
degli sforzi e concretizzazione degli ideali di una modesta
minoranza, parve segnarne il constatato fallimento. Necessariamente
fallita nella contingenza, essa trionfava cioè in un senso piú
assoluto, in quanto passava a costituire la pietra di paragone delle
gravi evidenti deficienze proprie a un grande risultato raggiunto con
minimi mezzi. Dal '60 in poi avrebbe dovuto essa ispirare la politica
italiana: s'era tirato su, in fretta e furia, l'edificio; ora, perché
non precipitasse addosso agl'italiani, bisognava rifarlo tenendo
presente quell'idea che giustamente s'era dovuta scartare, un tempo,
per considerazioni d'opportunità, ma che restava ciò
nondimeno impeccabilmente e incontrastabilmente vera.
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