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Nello Rosselli
Carlo Pisacane nel Risorgimento Italiano

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  • CARLO PISACANE NEL RISORGIMENTO ITALIANO
    • Capitolo sesto Primo libro
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Capitolo sesto
Primo libro

 

Genova formicolava allora di emigrati politici di tutte le regioni italiane. Qualche anno piú tardi una statistica ufficiale ne censiva, tra stabiliti in città e dispersi in provincia, ben 1500!83 A Torino non minore affollamento, con questa differenza: che mentre a Genova, sempre repubblicaneggiante e non per nulla la patria del Mazzini, convergevano per lo piú gli uomini di sinistra; nella capitale, attirati dalle maggiori probabilità di cacciarsi in qualche pubblico impiego, affluivano piuttosto gli elementi temperati e costituzionaleggianti. Gran daffare e grattacapi d'ogni genere, pel governo, questi emigrati: su cento che ne giungono ottanta non recan con sé di che campare otto giorni. Conviene per altro aiutarli, mostrar loro che solo il Piemonte, il quale in certo modo rappresenta l'Italia di domani, prende interesse a loro; a trattarli bene, c'è da convertirli tutti pian piano al regime costituzionale e farne amici provati, checché stia per succedere, del regno sabaudo. Bisogna per altro andar cauti per non urtare la gelosa suscettibilità degli altri governi italiani. Eterna questione dell'asilo ai fuorusciti: il Piemonte la risolve con molta abilità, con molto tatto. Stanzia un sussidio annuo in pro degli emigrati affidandolo, per la distribuzione, a un Comitato apposito, col patto che li sorvegli e tenga in freno; spalanca le porte dell'Università a taluni meridionali illustri nelle scienze84; rispetta il piú che può le mille iniziative di quest'accolta un po' turbolenta d'ingegni senza patria, lascia che impiantino giornali e riviste, procura che il censore li tormenti quanto meno è possibile; si oppone d'altra parte alle manifestazioni collettive in genere, vorrebbe che smorzassero tutti un poco la voce.

Se gli emigrati gli costano molto, se a volte gli suscitano grossi guai all'interno e pericolosi incidenti diplomatici, un grandissimo bene ne viene in ultima analisi al regno ospitale. Si può dire che il tono della vita culturale piemontese venga rinnovato, sveltito, sprovincializzato dal contatto con questa «intelligenza» italiana. Il brio, la prontezza, la versatilità degl'ingegni meridionali ad esempio (e solo di napoletani e siciliani ve n'erano presso che un migliaio) esercita senza dubbio la piú benefica influenza sul massiccio, grave, qualche volta un po' tardo temperamento dei pedemontani. La stampa di Torino, di Genova diventa in pochi anni, non senza merito loro, strumento agilissimo, vivace, battagliero di lotta politica; l'insegnamento superiore acquista in modernità e spregiudicatezza; la letteratura politica in profondità varietà e abbondanza. Talune nuove correnti ideali vengono addirittura importate e propagate per opera quasi esclusiva di emigrati, molti dei quali, viaggiando sovente e tenendo con l'estero assidua corrispondenza, contribuiscono a far del Piemonte, assai piú che non fosse, una provincia d'Europa.

Grandi vantaggi politici, poi: nessuno ignora oggi fino a qual punto gli statisti piemontesi — Cavour in ispecie85 — si valessero della loro intrinsechezza con alcuni emigrati non soltanto per averne, in merito alle cose italiane, informazioni precise, spunti e suggerimenti, magari anche leali critiche; non soltanto per allacciare quei discreti rapporti con circoli fiorentini, romani, napoletani, che piú tardi si sarebbero rivelati d'inestimabile importanza; ma anche per usarli come ballons d'essai, lasciando stampare a loro, sul conto degli altri Stati italiani, certe cose che al Piemonte comodava fossero dette senza troppo rischio per sé. E finalmente non era merito in parte dei rifugiati politici se il Piemonte tra il '50 e il '59 diventò agli occhi d'Europa un modello di quel che avrebbe potuto essere e sarebbe stato bene che fosse l'Italia, una volta distrutte le anacronistiche sue divisioni?

Ma il gruppo repubblicano di Genova dava piú preoccupazioni che altro. È vero che senza quello e il suo continuo agitarsi sarebbe riuscito difficile persuadere l'incredula diplomazia che in tutt'Italia ribolliva un pericoloso scontento, in tutt'Italia, salvo, s'intende, in Piemonte; ma non osavano quegli scalmanati o molti tra loro sostenere l'identità sostanziale tra i vari governi italiani, ponendo nel mazzo, tra quelli che si sarebbero dovuti un dí rovesciare, anche il governo sardo, e non si credevan lecito di mescolarsi nella politica interna del regno, in combutta con gli oppositori d'estrema?

 

In questo ambiente, autunno del '50, capita Pisacane. Ex ufficiale nell'esercito sardo, dimissionario alla vigilia della guerra per passare alla difesa di Roma, intrinseco di Mazzini, braccio destro di Avezzana, repubblicano dichiarato, egli non è precisamente, in Genova, un ospite desiderato. E infatti l'autorità locale, alla di lui richiesta appoggiata da un ragguardevole cittadino per ottenere un permesso di soggiorno, risponde un «no» tondo, motivandolo col fatto che «la diplomazia avvisi di prossimi movimenti insurrezionali». «Che bestia!», commenta Pisacane, che di quel no s'infischia perché sa che con un po' d'accortezza e molta ostinazione potrà benissimo restarsene dov'è, piú o meno celatamente. Gli è che Pisacane non è venuto in Liguria unicamente per godersi le bellezze della riviera e le grazie della sua donna: anche di questo sono informate le autorità, bestie perciò fino ad un certo punto. Piani insurrezionali (che comprendono la stessa Genova) non cessano d'imbastirsi tra le file dei mazziniani, facenti capo allora a un'Associazione Nazionale che Mazzini, su mandato di alcuni rappresentanti del popolo, ha fondato a Roma dopo caduta la repubblica, e poi diffuso in tutt'Italia86. Sospette perciò le amicizie, sospetti i rapporti che Pisacane riallaccia con ufficiali dell'esercito sardo, poco chiara fin dal principio la sua attività. Che mai vuol dire Mazzini quando, nello stesso novembre '50, scrive a Dall'Ongaro: «le basi di Pisacane sono giuste. Ma v'è già un'embrione d'organizzazione militare per legioni in alcuni punti, che può benissimo concordare»; o ad altri: «un po' di pazienza ancora per l'organizzazione militare. Stiamo intendendoci coi nostri militari di Genova, amici di Pisacane, per un insieme di disposizioni»? Nessuno lo sa meglio del governo sardo: Mazzini e Pisacane s'adoperano per costituire quel Comitato militare (ben presto entrato in funzione, con Pisacane stesso e Giacomo Medici alla testa) che nel movimento repubblicano dovrà agire come uno Stato Maggiore generale, incaricato di studiare dal punto di vista militare eventuali piani insurrezionali, di apprestare i necessari armamenti, di afferrare in caso di tempesta scatenata la barra del timone87.

Il progetto di una spedizione armata nel Sud, a sostegno di nuclei sediziosi supposti in procinto di levarsi nell'una o nell'altra provincia, ma piú probabilmente in Sicilia, incomincia già a delinearsi88. Ben presto un nutrito carteggio tra i mazziniani di Londra, di Svizzera, di Genova, di Malta, di Napoli e Sicilia avrà per oggetto sempre piú definito questa impresa, a capitanare la quale i piú designeranno Garibaldi, allora imbarcato su bastimenti mercantili nei mari d'America.

Troppo logico che di queste trasparentissime trame e della parte che ad esse prendeva Pisacane il governo di Torino si mostrasse per lo meno uggito. Tanto piú che coincidevano con la clamorosa campagna propagandistica iniziata dai repubblicani pel lancio del prestito mazziniano dei dieci milioni. Questa campagna non fruttava, è vero, i grandiosi proventi da costoro sperati, ma era sintomatico il numero delle piccole sottoscrizioni, attestanti la diffusa popolarità nel Piemonte monarchico del programma e dei metodi di Giuseppe Mazzini. Facile e sotto certi rapporti opportuno sarebbe stato proibir la vendita delle cartelle, ma bisognava pur differenziarsi dall'Austria che nel Lombardo Veneto s'andava coprendo d'infamia agli occhi degl'italiani comminando ed applicando pene severissime contro quanti le detenessero. A malincuore perciò il governo sardo si adattò a tollerare la manifestazione repubblicana, di che la stampa conservatrice non cessò dal maravigliarsi e muover proteste. Pisacane esultava: «Il prestito cammina a gonfie vele, i biglietti si negoziano pubblicamente...; tutti ne abbiamo presi; e gli emigrati piú poveri si associano e prendono un biglietto ogni quattro o cinque persone».89

 

Per quanto seccato dai parenti di Enrichetta (con i quali pendevano probabilmente meschine vicende d'interessi), e urtato dalle incertezze cui lo condannava «il governo di questa Cina», Pisacane a Genova si trovava benissimo: finanziariamente non c'era nulla di nuovo, ma il gran daffare politico e la vicinanza di quasi tutti i suoi amici lo mettevano in vena. Erano là, degli antichi compagni della Nunziatella, oltre a Cosenz, i due Mezzacapo, Carrano e Boldoni; tra i meridionali di sua conoscenza Conforti, Jovene, Carbonelli, De Lieto, gli Orlando, Pilo; e la gente incontrata a Milano, a Roma, fuori d'Italia; venne Macchi, conobbe Acerbi e Napoleone Ferrari, rivide Bertani, Bixio, Medici, Cadolini, Quadrio, Cenni, Sacchi, Gorini.90

Nello stesso novembre '50 erano giunte a Genova, per trattenervisi tutto l'inverno, le due sorelle Emilia Hawkes e Matilde Biggs, nate Ashurst, che Pisacane aveva frequentate durante il soggiorno di Londra: intelligenti entrambe, intime di Mazzini; Matilde aveva con sé le due sue bambine. Enrichetta ne divenne amicissima, e si mantenne in attiva corrispondenza con loro anche quando tornarono a Londra. («Elizabetta et Carolina mandano i loro amori anche alla signora Enrichetta», scriveva ad esempio nel '52, nel suo goffo italiano, alludendo alle figlie, Matilde Biggs).

Luogo di convegno per loro e per molti altri repubblicani genovesi o emigrati era la casa della madre di Mazzini, che nel vedersi d'intorno tutti quegli amici del figlio, nell'ascoltare le loro confidenze e aver parte nelle loro discussioni, nel consegnare o ricever da loro le novità e le istruzioni politiche da e per Londra (dov'egli intanto era tornato), si confortava nella solitaria vecchiezza, quasi illudendosi d'averlo un poco con sé, questo figliuolo che pur non tornando da vent'anni nella sua casa sognava sempre di finire la vita, a Italia rinata, solo con lei e alcuni libri, in qualche romito luogo di campagna! Non di rado, fin quando, invocando il figliuolo, la povera donna morí (nell'agosto '52), Pisacane e la sua compagna varcaron quella soglia91. «Ricordatemi a lei e ditele ch'io non la scordo e non la scorderò», cosí Mazzini alla madre il 7 agosto '51, riferendosi a Enrichetta; e la madre, dieci giorni piú tardi, a Emilia Hawkes: «Ho dato la vostra letterina alla signora Enrichetta che è buona sempre con me e mi visita». L'amicizia devota durò, s'è detto, fino alla morte di Maria Mazzini; seppur fu meno intensa negli ultimi mesi in conseguenza forse dei dissapori che principiavano a manifestarsi tra Pisacane e Mazzini. Il tono è un po' mutato, certo, quando il 24 febbraio '52 Maria Mazzini scrive all'Emilia: «Finora non diedi alla Delorenzi la vostra pap(eletta) non vedendola che di rado ed ignorando la sua abitazione, ma l'avrà». Nel giugno, comunque, l'epistolario mazziniano nuovamente menziona frequenti visite di Enrichetta alla «Scià Maria».

Altro luogo di ritrovo, le redazioni dei giornali e giornaletti di sinistra, che a Genova non scarseggiavan davvero: a principiare dall'Italia e Popolo, quotidiano ufficiale del mazzinianismo, il quale, preso di mira (e ce n'era di che!) dal censore, mise insieme in pochi anni la piú ricca collezione di sequestri che mai giornale subisse; per seguitar con la Maga, la Libertà, la Libertà e Associazione, la Bandiera del Popolo, il Lavoro, l'Italia libera, l'Amico del povero, l'Associazione.92 Poi le riunioni consuete nei centri d'emigrazione, dove attorno ai migliori o piú ricchi o piú dotti si affollavano gli oscuri e i meno anziani. Forse fu anche Pisacane di quella congrega di giovani che — scriveva Macchi a Cattaneo il 13 maggio '52 — si radunavano «in certa casa tre volte la settimana» per far lettura della nuovamente uscita e ostica Filosofia della Rivoluzione del Ferrari, i piú colti ingegnandosi «di far comprendere i piú scabri insegnamenti anche ai meno esperti nelle filosofiche discipline».

 

Progrediva intanto, nella ritrovata serenità familiare, anche la stesura della Guerra combattuta. Il 23 gennaio del '51 Pisacane poteva spedire a Cattaneo parte del manoscritto, con preghiera di dargliene un giudizio. Il che Cattaneo fece sui primi d'aprile con assoluta franchezza; e Pisacane: «Vi sono gratissimo della marca d'amicizia che mi date, nell'avermi precisato dei fatti sul mio manoscritto; è questa una cosa che io desideravo moltissimo e che apprezzo immensamente»93. Uguale favore gli fecero il Macchi e il Dall'Ongaro; Dall'Ongaro anzi riguardò tutto il lavoro dal lato stilistico, quello che era sempre stato il tallone d'Achille di Pisacane. Ultimo e cospicuo recensore il Mazzini, che pur lodando il «bel libro», non risparmiò censure e consigli di soppressioni e revisioni.

Si trattava adesso di trovar l'editore: ed era tutt'altro che facile per un'opera informata a principii repubblicani e antipiemontesi. A pubblicarla in Piemonte c'era il pericolo d'un sequestro, aggiunto a rinnovate persecuzioni pel suo autore; e questi preferiva evitarle. Ma le ricerche condotte a Lugano dagli amici di là restaron vane: il Daelli n'avea poca voglia. Pisacane s'era lusingato che il libro potesse contribuire a restaurare le sue scosse finanze; ma sí! Se volle concludere gli toccò rinunciare a cavarne un quattrino94; e allora si profferí per stamparlo il Moretti di Genova, tipografo dell'Italia e Popolo, contribuendo alle spese Nicola Ardoino, ex colonnello di Pisacane in Piemonte ed ora giornalista repubblicano. L'intesa fu che ad ogni buon conto, prima di metter fuori il volume, se ne sarebbero spedite alquante copie in luogo sicuro.

L'autore figurava residente a Lugano; e infatti quando il 6 di luglio l'Italia e Popolo dette l'annunzio della pubblicazione imminente e il «programma» dell'opera, questo, a firma di Pisacane, recava la data: Lugano, 1° giugno 185195. Come programma, o soffietto, era abbastanza polemico: «Le baionette straniere non hanno distrutto una Rivoluzione, ciò sarebbe stato impossibile, ma hanno vinto gli sforzi di qualche individuo. Far risaltare tutti i punti in cui questa verità rifulge chiarissima è uno degli scopi principali della presente operetta». Mazzini, appena lo ebbe letto, si affrettò a scrivere a Genova per esprimere il timore che il libro di Pisacane non avesse a ridestar «vespai e discussioni, dove il paese non lo richiede»96.

Messo in vendita sui primi d'agosto, esso suscitò infatti straordinario scalpore. Pisacane aveva previsto le furie della censura; gli si scatenarono addosso invece quelle, impreviste e moralmente assai sgradite, degli stessi repubblicani! L'Italia e Popolo dell'agosto non ci conserva che due documenti di quella indiavolata polemica: una lettera di Nino Bixio, del 1897, per rettificare in qualche punto la narrazione dell'episodio del 30 aprile '49 a Roma; e la seguente dichiarazione di Pisacane, del 22: «Avendo per iscopo, nella narrazione dei fatti, la ricerca del vero (l'autore) sarà gratissimo a tutti coloro i quali faranno rilevare le inesattezze del libro per mezzo dei giornali; scorsi tre mesi dalla pubblicazione dell'opera verrà pubblicato un supplemento, il quale contenga tutte le giuste rettifiche, e cosí la narrazione acquisterà pregio, come quella discussa al tribunale della pubblica opinione». Dichiarazione che era di per sé sufficiente a fare intendere quanto avesse avuto ragione Mazzini nel prevedere il ridestarsi di incresciosi vespai. Altra lettera — privata questa — di Bixio, da Torino, 20 agosto: «Ho veduto un amico che viene da Genova, e mi dice che alcuni a Genova pensano di scrivere contro Pisacane per rivendicare non so cosa a Garibaldi. Secondo me (scriveva il futuro generale garibaldino) se Pisacane ha un torto, è quello di aver detto poco. Quali sono i fatti che vogliono mostrarci perché adoriamo un genio di convenzione? Siamo al tempo degli idoli? Fatti ci vogliono, e non ciarle. Garibaldi può avere delle buone qualità, ma quelle di un generale non certo». Condotta su questo terreno — ha detto male di Garibaldi! — la polemica s'inviperí. La dichiarazione di Pisacane non parve sufficiente. Seguirono incidenti personali, violente diatribe. Il direttore dell'Italia e Popolo, Remorino, che proprio in quei giorni lasciava l'ufficio e che pure era stato fino allora nei migliori termini con Pisacane, lo provocava addirittura a duello! Dallo scontro Pisacane usciva lievemente ferito. E forse a questo primo duello altri sarebbero seguiti senza l'energica intromissione di alcuni amici98.

Il 3 di settembre l'Italia e Popolo pubblicava una risentitissima lettera di alcuni emigrati siculo-calabresi — tra i quali Fardella, Calvino, Natoli — contro certi passi della Guerra combattuta relativi al contegno degl'insorti siciliani nel 184899. Lo stesso mese Macchi informava Cattaneo: «L'istoria del Pisacane è abbastanza diffusa ma anche contr'essa si sta condensando l'ira dei Garibaldini numerosi e potenti nella Liguria»100.

Insomma un successone di pubblicità, ma ben pochi consensi: Pisacane aveva urtato un po' tutti. Mazzini, in una lettera del 22 settembre, riecheggiava un'opinione diffusa scrivendo: «... mi duole che, col nemico in faccia, italiani abbiano a sciabolarsi fra di loro. Pisacane è buonissimo... Ma egli pecca nella via che prende, come molti di quei che scrivono. Oggi noi dobbiamo considerarci tutti come soldati d'un esercito davanti al nemico: intenti a preparar forze ed accordo per la battaglia. Può esserci dovere di scrivere contro un individuo, se si crede che quell'individuo possa esser chiamato a diriger le cose e possa per incapacità o malafede rovinarle; ma ogni linea che vada piú là, ogni linea inutile, ogni linea che dicendo anche la verità dica una verità non importante per la causa, è cagione di discordia e reazione nei ranghi, è una colpa. Pisacane ha moltissime di queste colpe. Non parlo affatto dell'aplomb col quale ei dichiara il governo di Roma aver mancato d'energia e d'idee, benché sia male lo spargere scetticismo sugli uomini capaci ancora di fare un po' di bene e che i padroni perciò appunto vorrebbero minare, ma delle linee che hanno suscitato questo subbuglio tra i Siciliani e lui. Probabilmente, sono linee avventate ed ingiuste; ma quando anche esse nol fossero, era utile scriverle? Credeva questo, ei dirà; ed è debito mio di pagar tributo alla verità. Dico, che l'Italia non ha alcuna necessità di avere storici in oggi, ma grande di avere combattenti. Non si tradisce, tacendo, il vero. E la mia questione è oggi, se importi scriver tutto».

Parole sacrosante in un certo senso, vuote di significato in un altro. Può mai dirsi infatti che un paese non abbia bisogno di «storici», quando gli storici sian uomini che credono d'aver ravvisato nei fatti presi in esame errori gravi o personali o collettivi i quali, se non considerati e perciò ripetuti, possono condurre a disastri avvenire? Quanto poi alla opportunità di tacere alcune volte il vero, la difficoltà sta per l'appunto nello stabilire queste occasioni. Non venne mosso, forse, l'identico rimprovero di parlare secondo coscienza ma contro ogni opportunità politica, al Mazzini quando, alcuni mesi piú tardi, vergò parole roventi contro la democrazia socialista di Francia?

Certo che nel suo libro Pisacane non aveva avuto il menomo riguardo per chicchessia; lasciatosi andare sull'invitante piano inclinato delle «stroncature», lo avea percorso tutto senza freni di sorta, diresti quasi con voluttà; nel rilevare le deficienze di questo o di quello raramente aveva sentito il bisogno di rammentarne insieme le benemerenze; è anche vero che qua e là aveva un po' troppo posato a giudice severo e imparziale di avvenimenti cui, non senza suscitar moltissime critiche, aveva egli stesso partecipato. Andò a finire che la modestia da lui dimostrata nel non accennare mai una sola volta in tutto il libro all'opera da lui compiuta nel '48-'49 (tanto piú apprezzabile quanto piú in contrasto col suo congenito egocentrismo) parve — e non era davvero — una colpa di piú.

È assai probabile che Pisacane ricavasse non poca amarezza dall'accoglienza che la critica e il pubblico avean riservata al suo libro; e ciò non tanto perché quasi nessuno lo avesse riconosciuto per quel che dopo tutto e nonostante tutto esso era, un bel libro cioè, solidamente costruito, vigorosamente scritto, personalissimo, d'una cristallina chiarezza, e comunque assai superiore a molti altri che sullo stesso argomento avevan visto la luce («forse la miglior scrittura di guerra allora pubblicata» lo giudicò l'Oriani); ma perché, pronti tutti a pizzicarlo su qualche inesattezza, su qualche giudizio affrettato, nessuno davvero avesse mostrato d'intendere la ragione, l'idea profonda, lo scopo del libro. Con la Guerra combattuta egli si era proposto infatti di dare la dimostrazione storica della intrinseca insufficienza della rivoluzione italiana.

Molto semplice il ragionamento da lui svolto: inutile accapigliarsi sulle responsabilità del «fiasco» del '48-'49; le colpe individuali, importanti per altro verso, non spiegano nulla a questo proposito; la rivoluzione è fatalmente fallita perché, dipendendo il suo successo dall'attiva cooperazione del popolo italiano, si è dato invece che il popolo o non mostrasse alcun interesse a promuovere questo successo, o, una volta ottenutolo, a rassodarlo. Lo spunto che ha indotto alla rivolta antidispotica — il principio nazionale cioè — era sí abbastanza diffuso e popolare in Italia innanzi il '48, e diffuso vi era il disagio per la dominazione straniera e tirannica. Ma quasi ovunque s'era creduto dagli utopisti e dagli stessi individui o gruppi che conducevan la battaglia che gli italiani si sarebbero mossi non per altro che per assicurare il trionfo delle loro idealità; non si era inteso invece che ogni ceto sociale vi avrebbe preso interesse solo in quanto gli fosse dato intravedere, come conseguenza necessaria di quell'astratto trionfo, vantaggi tangibili e di essenziale importanza101. È vero che in alcuni casi quegli individui e gruppi, stimando di non potere da soli fronteggiare le forze organizzate dalla reazione, si erano una buona volta decisi a sollecitare l'appoggio delle masse, promettendo loro, in compenso di un'attiva collaborazione, che le novità politiche cui si mirava avrebbero portato a un automatico e radicale miglioramento delle loro condizioni sociali; ma non appena ottenuto il successo e cacciate le vecchie oligarchie, quale atteggiamento avevano assunto i nuovi governi insediatisi al loro posto? Si eran forse preoccupati di alimentare il consenso dei piú? Di scavare un abisso incolmabile tra l'ieri e l'oggi mercè ardite riforme sociali? Di creare d'urgenza una rete quanto piú larga possibile d'interessi conservatori? Neanche per sogno: espressione d'idealità e d'interessi borghesi, essi non d'altro s'eran curati che di soddisfare e quelle e questi e di consolidare le loro posizioni. E perciò non soltanto avevano lasciato che l'ingenuo calore delle masse s'intiepidisse, ma si erano affannosamente adoperati a questo scopo. Sí che, rinfrancatesi in seguito le forze reazionarie e passate alla controffensiva, gli uomini dei cosí detti regimi liberali si erano trovati naturalmente isolati o presso che tali nella disperata difesa del nuovo ordine di cose; del quale isolamento, con incoscienza incredibile, avevano poi osato stupirsi e non cessavano ancora di rammaricarsi. I disastri del '49 non avevano dunque aperto gli occhi a nessuno? Non si era ancora inteso l'equivoco che aveva determinato cosí sproporzionate illusioni, prima, ed ora causava cosí irragionevoli scoraggiamenti?

Gli egoismi di classe avevano soffocata la rivoluzione italiana; questa era la chiave dell'enigma; questo, seppure in altri termini ma con altrettanta chiarezza, diceva la Guerra combattuta; ed era pensiero acuto e fortissimo, cui ben pochi prima di Pisacane erano giunti, e nessuno aveva espresso cosí incisivamente; pensiero ben degno di venire apprezzato e svolto, almeno per quel tanto di vero che esso conteneva accanto a evidenti semplicismi e inaccettabili generalizzazioni. La rivoluzione italiana usciva dal suo processo con una sentenza d'immaturità: trovandosi concordi nel deprecare i mali del dispotismo e dell'asservimento straniero, gl'italiani avevano infatti compiuta la fase negativa della loro liberazione; ma non erano né risoluti né concordi nel determinare quel che si sarebbe dovuto sostituire ai regimi condannati e ancora concepivano miticamente l'indomani post-rivoluzionario, esponendosi cosí infallibilmente a nuove delusioni, a nuovi bruschi risvegli. Forse che il problema era proprio quello di stabilire se si dovesse mirare a repubblica o a monarchia, a federazione o a unità? No, si trattava di stabilire qualcosa d'importanza incomparabilmente maggiore: su quali interessi dovesse poggiare il nuovo edificio, su quali contributi s'avesse a contare per la sua costruzione, quali resistenze bisognasse prepararsi a travolgere. Il ragionamento di Pisacane si faceva qui stringente e inflessibile, per giungere a una conclusione d'uno sconcertante radicalismo. Si voleva proprio far l'Italia nazione? Sbaragliare per sempre le innumerevoli forze d'opposizione? Ebbene, occorreva perciò che la stragrande maggioranza degli italiani partecipasse davvero alla lotta; ma l'esperienza del '48-'49 insegnava che questo fenomeno non si sarebbe assolutamente verificato se il fin qui ristretto programma nazionale non si fosse arricchito di qualche grande idea-forza capace di scuoter le fibre delle masse proletarie, ed anzi impostato addirittura su di essa e in vista della sua realizzazione. Tale idea-forza non poteva essere ormai che la rivoluzione sociale; urgeva proclamarne la bellezza e l'utilità e dar opera per bandirla e promuoverla, non già come complemento della rivoluzione politica, sibbene come sua giustificazione e «spiegamento». Ci si persuadesse insomma che la rigenerazione d'Italia non si sarebbe verificata se non in quanto le abusate espressioni di giustizia, di libertà, d'autogoverno fossero venute finalmente a significare giustizia per tutti, libertà per tutti, autogoverno del popolo e non d'una minoranza privilegiata. E infatti che mai poteva al «popolo» importare che in Lombardia ad esempio cessasse la dominazione austriaca se, sparita quella, ne principiasse un'altra, nazionale o no, a eternizzare la sua servitú?

Era considerare il problema italiano sotto un punto di vista di stupefacente modernità. Si poteva non accettare l'ottimismo un po' superficiale del socialismo pisacaniano (si vedrà in seguito che non era soltanto suo), ci si poteva maravigliare che egli lo postulasse, almeno apparentemente, solo in funzione e in servizio della questione italiana, si potevano discutere e magari rifiutare molte sue valutazioni assiomatiche; avrebbe dovuto, comunque, riuscir difficile, dopo la pubblicazione del suo libro e di qualche altro che seguí dappresso, continuare in certe impostazioni confusionarie del nostro problema politico, volte a risuscitare tal quale l'equivoco quarantottista e con esso, seppur sotto altra forma, le amare sorprese del '49. Difficile? Ma non è forse eccezionale il caso, tra noi, che uno scritto politico, di qualsivoglia importanza, abbia esercitato un'effettiva influenza e lasciato un'impronta non cancellabile nella vita reale? I libri in Italia si leggono dagli studiosi e questi non contano nulla nel giuoco delle forze attive. La Guerra combattuta non sfuggí a questa sorte: chi l'ebbe tra mano prese infatti passione (s'è visto) ai pettegolezzi che ne derivarono, lodò piú o meno lo stile ecc. ecc.; ma le «proposte» fatte da Pisacane alla classe politica italiana, importanti e nuove, caddero miseramente nel vuoto. Del che, è vero, qualche colpa aveva anche il suo autore; il quale, accingendosi ad esporre un pensiero cosí inusato e aggressivo, lo aveva sin dalle prime pagine presentato ai lettori nella sua formulazione piú intransigente dogmatica ed estrema. Si sarebbe detto che non gli bastasse la pazienza a condurli pian piano, per via deduttiva, ad afferrarne la logica derivazione da premesse accettabili e quindi, se non la convenienza, la ragionevolezza.

Né si vuol lamentare con questo che non si sia davvero, in quegli anni, fatto propaganda per la rivoluzione sociale; scartando questo, che era in qualche modo il «programma massimo» della Guerra combattuta, se ne sarebbe potuto estrarre pur sempre almeno una indicazione di metodo, di praticità immediata. Studiare a fondo cioè le condizioni della vita italiana nelle diverse regioni e nei diversi strati sociali sí da chiarire, in base ai resultati dell'indagine, tre cose importanti: 1) i moventi dell'adesione di taluni ceti al movimento nazionale italiano; 2) le ragioni effettive della indifferenza d'altri ceti — costituenti la grande maggioranza della popolazione — di fronte al movimento stesso; 3) a quali interessi e a quali ideali dovesse il programma nazionale d'ora innanzi ispirarsi per poter guadagnare le solidarietà sufficienti ad assicurarne il trionfo.

Il programma massimo di Pisacane non si presentava in fondo che come la discutibilissima soluzione da lui proposta al terzo paragrafo: non era difficile intravederne di piú equilibrate; ad ogni modo l'invito implicito ai partiti italiani per una maggiore concretezza avrebbe potuto venir raccolto con sicuro beneficio di tutti. E invece la minoranza repubblicana seguitò a trascurare affatto nella sua propaganda il fattore sociale, seguitò — per quanto il suo organo massimo, l'Italia e Popolo, mostrasse talvolta d'intendere certe necessità nuove — a eccitare alla lotta e ai sacrifici per la patria operai e signori, preti e soldati, proletari e impiegati, tutti con un solo programma che, quando non era generico e miope al punto da non vedere un palmo piú in là dell'attimo rivoluzionario, rispecchiava naturalmente le premesse, gli interessi e le aspirazioni di un ceto ristretto di politicanti smaniosi di «dar l'assalto alla diligenza», beninteso nella convinzione sincera d'imbarcarvi poi tutti quanti. E proprio in quel torno di tempo, tutti quelli che nel campo politico non eran repubblicani arrabbiati principiarono ad ammetter la possibilità di una soluzione limitata della questione italiana che rispondesse alle sole esigenze d'indipendenza e di progressiva unificazione, rassegnandosi a relegare in sottordine e anzi abbandonando in anticipo il terzo comma fino allora considerato, la libertà cioè, e ripudiando una volta per sempre i mezzi rivoluzionari, ossia la conquista profonda di quei beni. Col delegare a un forte potere costituito (il Piemonte) la direzione tecnica e l'accollo dei lavori e i rischi del rivolgimento italiano, i patrioti rinunciavan, s'intende, a controllarne l'esecuzione e si rendeva cosí possibile di differire a cose fatte (non mai, certo, l'evitare per sempre) quell'esame delle forze di sostegno e di attrito del nuovo edificio, cui Pisacane scrittore riteneva indispensabile l'accingersi preventivamente.

 

E qui un dubbio affiora: che sarebbe avvenuto se le sinistre avessero adottato programmi e metodi del socialismo rivoluzionario? Si sarebbe raggiunta ugualmente l'unità d'Italia, e in qual modo, e con maggiore o minore sollecitudine?

Assai ragionevolmente lo storiografo si guarda dalla fascinante attrazione dei se, che dal reale lo condurrebbero al fantastico; eppure non di rado accade che il cedere con accorta prudenza al richiamo di un se spinga — per il solo fatto del domandarsi perché mai una certa alternativa non si sia verificata — a meglio profondare lo sguardo nel groviglio di circostanze dalle quali derivò la inevitabile necessità di un determinato corso di eventi.

La propaganda di un pugno d'idealisti per la formazione dell'unità italiana ebbe successo per uno straordinario complesso di circostanze favorevoli; ma fondamentalmente perché collimò col beninteso interesse della nuova borghesia in ogni regione della penisola, avida di spazio, di liberi traffici, di largo mercato, insofferente della rigidezza dei vecchi sistemi, che ostinatamente le negavano ogni valore politico, ansiosa dell'avvento di un regime nuovo, che promettesse di formarsi a imagine sua, al suo servizio, adeguato e soggetto alle sue necessità e alle sue indispensabili esigenze di sviluppo; di un regime il cui nerbo e le cui forze fossero costituiti appunto da essa borghesia, i cui posti di comando fossero spettati a uomini suoi; del quale insomma le toccassero i benefici e gli utili.

Orbene, s'andasse dinanzi a questa gente ad agitare il vessillo della emancipazione del proletariato, della rivoluzione sociale. Si provasse a dir loro che i benefici della grande operazione andrebbero divisi con i nullatenenti; che nel nuovo regime il troppo si falcidierebbe per sovvenire al poco; che alla divisione degli utili futuri delle aziende parteciperebbero anche gli operai; che le imposte sarebbero progressive sul reddito e magari una porzione cospicua dell'asse ereditario verrebbe confiscata a beneficio della collettività; si provasse a suscitare agitazioni nei nascenti centri operai o a metter su i contadini (figuriamoci poi a far propaganda seria di comunismo). Effetto immediato e sicuro, tanto piú generale quanto piú larga e fortunata si dimostrasse la seminagione del sonoro principio dell'uguaglianza sociale, sarebbe stata la contrazione del patriottismo borghese, l'affermarsi in sua vece di un diffuso conservatorismo attaccato alla salvaguardia dei regimi assolutisti, per principio e per intima necessità contrari a ogni esperienza di rinnovamento sociale. Pochi idealisti disinteressati (oppure politicanti spiantati, sicuri comunque di far fortuna nel nuovo regime) non sarebbero bastati allora davvero a vincere le innumeri forze che si opponevano al compimento della rivoluzione italiana. Quale, per contro, avrebbe potuto essere il contributo popolare? In verità, ipotetico alquanto e, nella migliore delle ipotesi, a ben remota scadenza (non bastarono trent'anni, dopo il '60, a far, non dirò del socialismo, ma del movimento operaio una cosa seria tra noi!) E poi in qual modo si sarebbe potuta svolgere una intensa propaganda sociale nelle masse, tale da trasformare la loro inerte disperazione in attività autoemancipatrice, durando i regimi antiliberali? Possibile determinare un vasto movimento, con quegli esigui mezzi dei quali disponevano gli uomini di sinistra e che si rivelavano miseramente insufficienti anche ai fini di una limitata propaganda su una minoranza già pronta e ben disposta? L'assioma secondo il quale lo sviluppo delle libertà sociali segue e non precede l'acquisto delle piú elementari almeno tra le libertà politiche non ha, ch'io mi sappia, sofferto smentite mai.

D'altronde cosa predicare alle masse, i cui bisogni e le cui aspirazioni si presentavan da noi cosí diversi e quasi in opposizione reciproca da regione a regione? Rivoluzione sociale era un termine troppo generico. Ma a parte questo, supposto anzi che si potesse nell'Italia del '50 lanciare un'efficace propaganda socialistica, non era forse chiaro che essa avrebbe accentuato l'indifferenza del «popolo» per un problema, appetto a quello sociale, tanto formale e di secondaria importanza come quello delle istituzioni e delle etichette politiche?

Era dunque in preda a una ben strana illusione chi credeva che suscitando nel bel mezzo della lotta politica la fiamma dell'odio di classe, si sarebbe aggiunto sangue e vigore alla lotta; chi credeva che il mito socialista proposto a un proletariato analfabeta e di tipo prettamente pre-industriale avrebbe giovato, sollecitandone le immense energie vergini, al partito o ai partiti che in un risveglio degli italiani ponevano la condizione di un effettivo rinnovamento politico. Esso in realtà avrebbe avvantaggiate unicamente le forze reazionarie, mentre l'idea italiana, stretta fra i due opposti fuochi del socialismo e del conservatorismo ad oltranza, sarebbe miseramente perita. Invero l'ipotesi che il nostro risorgimento non si sarebbe verificato se non con l'alleanza di tutte le forze interessate a mutar stato (ossia sotto una bandiera che promettesse benefici essenziali a ciascuna di esse) rivelò la sua acutezza piú tardi e per l'appunto proprio quando il raggiungimento dell'unità italiana, frutto degli sforzi e concretizzazione degli ideali di una modesta minoranza, parve segnarne il constatato fallimento. Necessariamente fallita nella contingenza, essa trionfava cioè in un senso piú assoluto, in quanto passava a costituire la pietra di paragone delle gravi evidenti deficienze proprie a un grande risultato raggiunto con minimi mezzi. Dal '60 in poi avrebbe dovuto essa ispirare la politica italiana: s'era tirato su, in fretta e furia, l'edificio; ora, perché non precipitasse addosso agl'italiani, bisognava rifarlo tenendo presente quell'idea che giustamente s'era dovuta scartare, un tempo, per considerazioni d'opportunità, ma che restava ciò nondimeno impeccabilmente e incontrastabilmente vera.






p. -

83 Il numero degli emigrati stabiliti a Genova e provincia è precisato in una comunicazione dell'Intendente di Genova al Ministro dell'Interno, 14 dic. 1857 (Archivio di Stato, Torino, Materie politiche interne in genere, mazzo 18). Oltre a questi 1500 politici, ve n'eran circa 250 che avevan lasciato il loro paese d'origine per reati comuni.

Sulla emigrazione politica a Genova v., oltre i voll. cit. in append., RIDELLA, C. Cabella, Genova, 1923, 249 sg.



84 850 eran gli emigrati napoletani e siciliani stabiliti in Piemonte, dei quali circa 300 nella sola Genova (D'AYALA, Memorie, 231).



85 Gran parte del merito della politica liberale seguita dal Piemonte nei confronti degli emigrati risale certo al Cavour (si veda a conferma TORELLI, Ricordi politici, 245 sg.). Di Dabormida, Ministro degli Esteri nel '53, si ricorda questa bella risposta data al Ministro sardo a Firenze, che si era fatto eco delle lagnanze toscane per l'ospitalità concessa a fuorusciti toscani (26 ott. 1853): Se «il Governo del Re... richiede dagli esuli, ai quali... concede l'ospitalità, che non trascendano ad atti di natura a turbare la interna tranquillità del Regno, né quella degli Stati vicini, esso non può penetrare nelle loro coscienze e chiamare loro conto dei loro sentimenti: e gli è impossibile soffocare negli animi degli emigrati il desiderio della patria e quindi le aspirazioni verso mutamenti che loro ne aprano le porte» (ROSI, Il Risorgimento italiano e l'azione di un patriota, Torino, 1906, 125).



86 L'atto di costituzione dell'Associazione nazionale era stato firmato anche da P. (Mazzini alla Hawkes, 12 aprile 1850).



87 Il Medici era allora, si sa, tra i piú devoti amici di Mazzini; poi le cose mutarono alquanto.

Alle relazioni con elementi militari della guarnigione di Genova Mazzini teneva moltissimo. Si vedan sue lettere ad Accini, 12 e 15 aprile 1850, a Remorino, 23 aprile 1850.



88 Sulla maturità rivoluzionaria della Sicilia in questo periodo, o piuttosto sull'inguaribile disgusto dei Siciliani pel giogo napoletano, che avrebbero scosso in cambio di qualunque altra dominazione, cfr. il carteggio di Mazzini e Crispi, dicembre 1850, in S.E.I., XLV, 100. Per le offerte di Mazzini a Garibaldi perché capitanasse un moto in Sicilia, ivi, XLVII, 88 (ott. 1851).



89 La grande maggioranza dei giornali liberali piemontesi parlarono favorevolmente del prestito mazziniano. L'effetto morale raggiunto dal successo del prestito fu immenso, anche fuori d'Italia. In un rapporto di polizia diretto allo Home Office, Londra, 14 agosto 1852, trovo precisato che ad esso sarebbero state sottoscritte oltre 20.000 lire sterline! (Rec. Office, H. O., O. S., 4302).



90 Gli emigrati si riunivano allora preferibilmente in associazioni regionali. Contro di esse tuonava Mazzini (a Remorino, 2 nov. 1850), parendogli che esse offendessero il principio dell'unità italiana che bisognava «cominciare a preparare in ogni luogo».

Tutti questi amici di P. s'ingegnavano, per campare la vita, nei modi piú svariati. Boldoni dava lezioni di matematica, Cenni faceva il legatore di libri, Sacchi l'assistente ai lavori, Gorini stava a bottega (CADOLINI).

A Genova si stabilí piú tardi anche il Guerrazzi; ma tra lui e P. non corsero evidentemente cordiali rapporti. Il G. bollò di debolezza P. nel suo Assedio di Roma (920-21, 1029, 1032); P. definí il G. (nella sua Guerra comb., 169) «uomo dubbio ed ambizioso». Passò a Genova parecchio tempo anche il Cironi, che senza dubbio fu in rapporti diretti con P.; e forse se ne trova notizia nel Diario ms. che il Cironi tenne in questi anni e che a me non è stato possibile di consultare (il Diario, depositato nella Nazionale di Firenze, è da piú anni infatti a disposizione della Commissione Editrice degli Scritti di Mazzini, in Roma). — Quanto al Bertani, P. lo aveva molto probabilmente conosciuto a Roma, durante l'assedio; e lo aveva riveduto in Isvizzera, ché il B. era intimo di Cattaneo. — Macchi, che era stato espulso una prima volta dal Piemonte, tornò a Genova nel giugno 1851.



91 A una prima visita di P. a lei allude probabilmente la madre di Mazzini in un biglietto a Macchi, 27 nov. 1850. Scriveva Mazzini alla Hawkes il 21 dic. '50: «La Signora P.(isacane) sta spesso con loro (le figlie di Matilde)? ed egli (P.) è ancora costí? ricordatemi ad ambedue». Abbastanza enigmatico l'accenno di Mazzini in altra sua alla H., 4 febbr. '51: «Idealizzare è la missione dell'arte; ma se v'è riuscito di idealizzare la Signora Pis(acane), avete raggiunto l'acme». La Hawkes, com'è noto, era una valente pittrice; ritengo perciò che l'uscita di Mazzini possa riferirsi a un ritratto di Enrichetta da lei tentato. Enrichetta era dunque cosí poco attraente? — Altro accenno di Mazzini a P. si trova in una terza sua lettera alla H., 8 febbr. 1851, e in una lettera alla madre, 25 aprile 1851. Nel febbr. di quell'anno Mazzini, scrivendo a Remorino, gli suggeriva di ricorrere a P. per collaborazione militare sull'organo repubblicano. I suoi articoli — gli diceva — «saranno sempre buonissimi; ma solamente hanno bisogno d'un po' d'esame in fatto di stile...» — Si noti che P. non figura tra i pochi intimi che si recano in casa Mazzini durante l'agonia della madre, nell'agosto '52.



92 La Maga, che successe alla Strega, iniziò le pubblicazioni il 1° luglio 1851; La Libertà e Associazione nel maggio '52; Il Lavoro nell'agosto; L'Italia Libera successe all'Italia, che avea diretto il Macchi, il 1° maggio '50, e durò fino al 21 maggio '51. L'Amico del Povero si stampò nel '51, poi continuato, ma per poco, dalla Associazione (che s'iniziò nell'ottobre '51). Questi giornali di estrema sinistra eran sottoposti a continui processi per reati di stampa. Li difese piú volte, e quasi sempre con successo, il Cabella (RIDELLA, 230).



93 La lettera di P. a Cattaneo (una delle sue piú significative) continuava, rispondendo alle osservazioni di C.: ... «Riguardo poi alla cosa, che non eravi opinione Repubblicana, io credo di averlo detto nel mio manoscritto; essendo mia intima convinzione; anzi credo anche di averlo scritto, che la Repubblica in Venezia non fu proclamata per un'opinione dell'epoca, ma per una tradizione... Non solamente io credo che non siavi partito Repubblicano nel vero senso, ma anche l'opinione è formata in pochissimi. Intanto, dalle notizie che si hanno da per tutto, pare che le masse siano pronte, anzi impazienti di operare, ma senza concetto. La sola differenza fra un movimento di oggi, con quello del '48 sarebbe che la fiducia nei Principi è spenta; e la parola Repubblica è diventata popolare; ma se il Piemonte ha il tempo di uscire in campo, temo che la libertà d'Italia sarà sepolta. Vi sono qui vari entusiasti per Mazzini, ma sono entusiasti della libertà né sapendo come manifestare questa loro opinione, tengono il suo nome quasi come simbolo dei loro desideri. Fra gli uomini pensanti Mazzini è caduto affatto, e particolarmente quando si legge qualche lunga declamazione, ove egli parla da ispirato o da profeta».



94 Su la Guerra comb., invocando un editore, cosí scriveva P. a Cattaneo: «attesa la mia posizione finanziaria, sarei contentissimo trarre profitto da queste mie fatiche. Essendo il primo libro del nostro colore, il quale abbia raccolto tutti gli avvenimenti militari della passata Insurrezione, mi lusingo dello smaltimento, e credo un editore non potrebbe correre alcun rischio assicurandomi un tanto per cento sul guadagno netto». Aggiungeva però che, nella peggiore delle ipotesi, si sarebbe contentato di «una ventina di copie per gli amici».



95 Era stato Cattaneo a suggerire che la Guerra comb., anche se stampata altrove, recasse la data di Lugano (a Macchi, 20 marzo '51). — Sulle cure prestate da Cattaneo al manoscritto della Guerra comb., cfr. Macchi a Cattaneo, 1° agosto 1857. — P. si scusava con Cattaneo di importunarlo per la stampa della sua opera, adducendogli che «circondato da codini io non posso che far capo da voi» (23 gennaio '51). — Scrivendo al Daelli il 5 marzo '51 per sollecitare una risposta in merito alla stampa della Guerra comb., Cattaneo cosí premeva: «Pare impossibile che trovi accoglienza migliore il Gualterio e persino il Negri!» — I dettagli della stampa della Guerra comb. in lettera di P. a Dall'Ongaro, 4 giugno '51, cit.



96 È Mazzini stesso che, nei cit. Ricordi, narra dei consigli da lui dati a P. dopo la lettura del ms. della Guerra comb.; e aggiunge: «Non assentí; l'amore al Vero era in lui piú potente d'ogni altra considerazione; la discussione fra noi fu animata abbastanza, perché ne seguisse un lungo silenzio».



97 La lettera di Bixio in NERI, Un episodio della vita di B., Genova, 1912, 102-103; 106-108. Bixio proseguiva: «Chi ama il proprio paese deve pensarci due volte prima di contribuire ad inalzare certe reputazioni, che la storia non conoscerà che per i mali che ne seguirono».

Al B. accenna altresí P. in una lettera a Dall'Ongaro, 4 giugno 1851, cit. — Bixio teneva a chiarire che da parte romana, il 29 aprile 1849, non si era operato contro i francesi alcun guet-apens; la lotta era stata aperta e leale. — Altre lettere di B. a Remorino con accenni alla Guerra comb. in NERI, op. cit.



98 Scrisse Mazzini: «Gli amici procurino di far sí che non succedano altri duelli quando egli (P.) sarà risanato». — Col Remorino P. era stato fino allora nei migliori termini.



99 La dichiarazione dei calabresi e siciliani protestava contro la versione accettata da P. degli avvenimenti del giugno '48 in Calabria (cfr. Guerra comb., 104); e narrava che il primo dei firmatari (il Fardella) aveva già avuto un inutile colloquio con P. per persuaderlo del suo preteso errore; l'ostinazione di P. obbligava i firmatari — che pur professavano la massima stima per lui — a dichiarare solennemente «che apporre la nota di defezione ai Siciliani è segnare una vile calunnia... Che se dopo questa... aperta confessione taluno avrà il mal vezzo di... ridire l'immeritata accusa, sappia che d'oggi stesso essi lo dichiarano basso e spregevole calunniatore». Il 7 sett. l'Italia e popolo pubblicava varie adesioni alla dichiarazione dei siciliani. — La tempesta d'altronde si placò presto; ché con molti dei firmatari della protesta P. si strinse piú tardi in amichevole e operosa solidarietà.



100 L'accenno di Macchi si riferisce alle accoglienze ancora peggiori toccate alla Federazione repubblicana di G. Ferrari.

Della Guerra comb. l'Italia e pop. stampò, nei n. dal 27 sett. al 3 ott. 1851, una recensione favorevolissima. A P. veniva riconosciuto il merito di aver per primo tentato una storia d'insieme del biennio; generiche lodi venivano tributate altresí alle sue «politiche e filosofiche considerazioni». — Ignoro se del libro si occupasse criticamente il Ferrari, il quale esprimeva tale intenzione a Cattaneo (lettera ottobre 1851), ma nel contempo lamentava di non aver giornali a sua disposizione (MONTI, 101).



101 Anche David Levi, rievocando molti anni piú tardi su La Nuova Antologia (s. IV, vol. 69, 433) Le prime fasi del socialismo in Italia, scriveva: «Si sentiva il bisogno di infervorate le masse alla causa nazionale...; non bastava a tale intento il principio politico, conveniva creare un interesse che corrispondesse ai loro bisogni materiali..., unire alla politica la questione sociale».

 

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