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Nello Rosselli Carlo Pisacane nel Risorgimento Italiano IntraText CT - Lettura del testo |
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Capitolo nono
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p. - 175 Scriveva l'Ambasciatore napoletano a Londra al suo Ministro degli Esteri, 10 febbraio 1852: «Mazzini nel chiarirsi ostile a tali progetti (quelli murattiani), li fomenta sotto mano... Quello ch'egli se ne ripromette è aprir la via a disordini, a convulsioni nel nostro Reame, qualunque si fossero, per trarne profitto ai suoi chimerici sogni»... (GAVOTTI, 48). Da molti rivoluzionari si rimproverava a Mazzini il disinteresse per la questione napoletana. Mazzini protestava contro l'ingiusta accusa, pur ammettendo che, dal '49 in poi, «Napoli — e fu grave danno — si raggruppò in sé, si riconcentrò, temo, soverchiamente nei suoi dolori, e fu troppo poca la comunione che tenne con noi tutti quanti siamo figli delle altre province» (a Fabrizi, 15 agosto 1854). 176 Sugli appoggi ottenuti da L. Murat dalla Massoneria, cfr. LUZIO, La Massoneria nel Ris. Ital., Bologna, 1925, I, 253, 255. Già nel gennaio '50 Mazzini dava la sveglia contro il pericolo murattista (a Fabrizi). — Il 12 febbraio dello stesso anno Il Risorgimento pubblicava una protesta di emigrati napoletani stabiliti in Piemonte contro una insinuazione, stampata dal National, su pretese loro pratiche in pro di Murat. 177 Sulle gite di Pepe a Genova, cfr. GAVOTTI, 66; CHIALA, Lettere di Cavour, II, 480. — Quanto a Cosenz, egli era cosí contrario a Murat che — scriveva il Console napoletano in Genova al Ministro degli Esteri in Napoli — tanto lui che il Musto avean dichiarato che «in caso d'invasione del regno da parte della Francia... avrebbero rimesso sul loro petto il giglio dei Borboni e si sarebbero battuti contro i Francesi». GAVOTTI, 61. 178 Nel settembre '55 usciva a Parigi La question italienne, Murat et les Bourbons, di SALICETI; l'emigrato napoletano F. TRINCHERA stampava a Torino nello stesso anno La quistione napoletana. Ferdinando Borbone e Luciano Murat (entrambi murattisti). Rispondeva DE SANCTIS nel Diritto, n. 237, e l'anno di poi LA FARINA, con Murat e l'unione italiana. Replicavano i murattisti con L'unità italiana e L. Murat re di Napoli (Torino, 1856). Sul Times scriveva Murat il 24 settembre 1855: «Dichiari il Piemonte di inalberare la bandiera della indipendenza e libertà d'Italia ed io mi obbligo non solo a non preparare ostacoli, ma anche a dargli tutto il mio aiuto»... Vennero tentati, dai murattisti, perfino gli ergastolani politici di S. Stefano, di Montesarchio ecc. Ma le risposte che n'ebbero dovettero far arrossire gl'incauti proponenti almeno quanto c'inorgogliscono, oggi. Ed eran risposte che volevan dire: alla libertà per mano vostra preferiamo ancora la galera! (MAZZIOTTI, 350; SETTEMBRINI, Epistolario; PANIZZI, Lettere). Del MONTANELLI si veda Il partito nazionale italiano, Torino, 1856. — Anche SIRTORI (La questione napoletana. Metodo di soluzione), con l'isolare il problema napoletano da quello generale italiano, spianava in pratica il terreno a Murat. Cavour, è un fatto, dava a credere di non veder quelle trame troppo di mal occhio. Il 10 aprile 1856, infatti, nell'informare Rattazzi di un colloquio che avrebbe prossimamente avuto con Clarendon, Ministro degli Esteri inglese, gli diceva testualmente: «Credo potergli parlare di gettare in aria il Bomba. Che direbbe di mandare a Napoli il Principe di Carignano? O se a Napoli volessero Murat di mandarlo a Palermo?» Il 16 settembre '55 La Farina assicurava il Torrearsa, e il 31 ottobre il Ricciardi, che si era alla vigilia di una restaurazione murattista. «Ritenete queste mie parole non come notizie di giornali e come supposizioni, ma come un fatto positivo, stava quasi per dire un fatto compiuto». (La Farina, si sa, aveva le sue entrate in Piazza Castello). Pallavicino, a séguito di colloqui avuti coi ministri sardi, confermava (7 agosto '56): «Il governo piemontese non favorisce i... murattisti, ma non li avversa». Gli è che Cavour non si credeva né in diritto, né in grado di opporsi a una rivoluzione napoletana in favore di Murat. La sua politica fu quella di non avversare le ambizioni francesi, ma piuttosto di suscitare contro di esse le gelosie inglesi. A Corti, Incaricato a Londra, 5 settembre '56: informi Clarendon che il partito murattista guadagna giornalmente terreno e «qu'il agit désormais à découvert, ce qui ferait supposer un appui formel de la part de la France. En présence de tels faits, nous nous trouvons placés dans une situation extrémement pénible. Il est évident que nous ne pouvons nous disposer à combattre Murat... surtout si nous ignorons l'opinion... du cabinet Britannique sur cette question». Allo stesso, 17 settembre: «vous aurez soin... de vous montrer très préoccupé des efforts de ce parti. Vous tâcherez de... faire comprendre que l'inertie de l'Angleterre fait sa force; et que son succès est à peu près certain si le cabinet britannique, après avoir ténu un langage hautain et provocateur envers Bomba, s'absténait d'exercer une pression efficace à son égard» (CHIALA, II, 390, 395). Cavour batteva, cosí facendo, la via giusta. Anche Ruggero Settimo, per minare la propaganda murattista, scriveva a Palmerston (AVARNA, Ruggero Settimo, Bari, 1928, 225). 179 Il giorno appresso altri dieci emigrati aggiungevano le loro firme alla protesta antimurattista (tra gli altri, cospicui, i nomi di De Sanctis, Nicotera, La Cecilia, Plutino). 180 Le finalità del Centro politico obbedivano a quell'imperativo d'azione che allora era universalmente sentito. Anche Silvio Spaventa, tutt'altro che un esaltato, scriveva allora: «il punto che piú importa è di operare» (CROCE, 217). E, non molti mesi dopo, il Guerrazzi, pur nemico acerrimo dei mazziniani «La Italia ha bisogno di ferocissimi che sappiano morire ed uccidere; se questi non sorgono..., allora bisogna che aspetti salute da una invasione di barbari che le rinnovino il sangue» (Lettere, Livorno, 1880, II, 321; 6 giugno '57). 181 È Musolino stesso, che in una lettera a Ricciardi, 11 luglio '57, parla della sua gita a Londra. 182 L'asserzione di La Farina in lettera a Settimo, 13 maggio '56 (AVARNA, 220). 183 Sul Centro politico cfr. Pallavicino a Manin, 26 giugno '56 (MAINERI, Manin e Pallavicino. Milano, 1877). 184 «So che si vorrebbe fare insorgere Napoli senza la parola d'ordine: Vitt. Eman. re d'Italia — scriveva ancora Pallavicino a Manin, il 17 giugno '56 —; queste pratiche sono evidentemente un maneggio mazziniano; ho quindi ricusato di prendervi parte». 185 Altri membri del Comitato di Napoli (Capitale e provincie); V. Padula, i fratelli Magnone, G. Matina, G. B. Matera, i fratelli Albini, F. e G. Salomone, G. Lazzaro, P. Lacava, S. Verratti, G. Libertini, L. Fittipaldi ecc. (BILOTTI, 66). 186 Mignogna si era rifugiato a Genova; quivi raddoppiando, naturalmente, di attività. Si dimostrò collaboratore prezioso di P. nella preparazione dell'impresa di Sapri. 187 Dopo aver combattuto in Lombardia nel '48, Fanelli si era unito alla compagnia Medici con la quale aveva raggiunto, l'anno di poi, Roma. Quivi combatté al Vascello e venne promosso ufficiale. Caduta la repubblica, emigrò dapprima in Corsica, indi a Malta; e finalmente fece ritorno a Napoli. Su di lui v. anche PUPINO-CARBONELLI, 126. 188 Sulla progettata spedizione per liberare gli ergastolani cfr. CAPASSO, I tentativi per far evadere L. Settembrini dall'ergastolo di S. Stefano, in Il Risorgimento italiano, 1908, 22-65; e MARIO, Birth, 255-56. — Settembrini si trovava a S. Stefano dal 1850; cosí l'Agresti. Silvio Spaventa, invece, dal 1852. 189 Il progetto Panizzi non divenne realizzabile che nel '55, in seguito a fortunati spostamenti di cella dei detenuti politici (cfr. anche CROCE, Dal 48 al 61, Bari, Laterza, 1911, 200 sg.). Il 14 giugno 1855 Pilo informava Fabrizi aver Pisacane aderito con entusiasmo all'«affare che Garibaldi dovrebbe capitanare» (v. anche MARIO, Bertani, I, 222). 190 La polizia borbonica si era avveduta per tempo di questa attività extra diplomatica del ministro Temple; anzi re Ferdinando in persona aveva ordinato si «mettessero guardie presso l'abitazione del T. per notare quei che con la legazione inglese avessero rapporti» (NISCO, 336). Per altre fonti ci sono note le simpatie del T. per la causa liberale e i suoi generosi contatti con le famiglie dei condannati politici. Quanto al suo tollerare che la corrispondenza settaria da e per Napoli godesse della franchigia e della immunità diplomatica, ogni dubbio si elimina esaminando i documenti delle indagini ordinate al proposito dal Clarendon, nel '57 (Record Office, Londra, F. O., 70 | 288, 290; e C. O., 158 | 184-186). Il Console inglese a Napoli, Barbar, a Clarendon, 25 ott. 1857 (dispaccio in cifra): «Il sig. Fagan — ex attaché alla legazione inglese di Napoli — asserisce... che sir W. Temple permise a varie famiglie di Napoli di mandar lettere ai loro congiunti rifugiati a Malta, e di riceverne, attraverso la missione inglese». Lo stesso a sir Hammond, 10 ott. 1857: il commissionario della legazione ammette che da circa sei anni sir Tempie riceveva al suo nome corrispondenza da e per Genova e Malta, da e per quel tale Dragone ex membro del Comitato segreto di Napoli! Morto il Temple, e poi interrottesi le relazioni diplomatiche fra le due Sicilie e l'Inghilterra, s'incaricò di trasmettere la corrispondenza settaria il consolato inglese di Napoli. Scriveva infatti il Governatore di Malta al Ministro delle Colonie, 26 giugno 1858 (confidenziale): Son venuto a sapere che «for some time» il segretario capo del governatorato ha accettato dai rifugiati politici napoletani le loro lettere, le quali, suggellate come corrispondenza ufficiale e chiuse nel «Government bag» venivan trasmesse al consolato a Napoli. Ho ordinato la cessazione immediata di tale pratica. — Il Ministro delle Colonie ritenne suo obbligo in tale emergenza di chieder spiegazioni all'ex segretario del Governatorato maltese; questi si giustificava (in data 4 luglio 1858) ammettendo che il privilegio della corrispondenza in tal modo sottratta alla censura napoletana era stato concesso soltanto a tre o quattro persone ben note da molti anni al Governatorato; e s'intende che le lettere loro eran «di natura strettamente privata». Al Ministro non restò che esprimere la speranza «che questa pratica si smettesse in avvenire», essendo inammissibile «che il governo inglese si facesse lo agente di una corrispondenza clandestina a danno di Stati amici» (6 luglio 1858). 191 Che la prima idea della spedizione fosse partita da Napoli attestano innumerevoli fonti e conferma Mazzini (La situazione, nel vol. IX dei suoi Scritti, ed. Daelli, 292) «a rimprovero di chi doveva far altro, e non fece». Evidentemente da Napoli si era informato Mazzini (il quale trasmetteva la notizia al Mordini, 17 agosto 1856) che in quella capitale «con centomila franchi si compra l'azione di un nucleo militare, intorno al quale si raggrupperebbero i nostri elementi». 192 Di questi «confinati», si parlava spesso nella stampa liberale europea nei termini della piú grande commiserazione. Si veda ad es. la notizia stampata dalla Concordia, di Torino, il 17 ott. 1850, delle battiture inflitte a quelli di Ponza, rei d'aver gridato un evviva alla Costituzione: «È noto che questi sono coloro i quali valorosamente combatterono in Venezia, e che gli Austriaci consegnarono nelle mani del Borbone. Uno di questi infelici spirò non ha guari in conseguenza delle sofferte battiture». — A uno stampato clandestino da essi dedicato ai deportati nelle isole e diffuso nel Mezzogiorno (1857) accennano ripetutamente nella loro corrispondenza P. e Pilo. Nei primi mesi del '57 vennero relegati a Ponza anche i supposti complici di Agesilao Milano (CADOLINI, 272). 193 Leggendo i Ricordi di Mazzini su P. («Esaminata la proposta, P. l'approvò, e me ne scrisse, sollecitandomi, s'io pure approvassi, a recarmi ov'esso era. Esaminai, approvai..., mi affrettai a recarmi a Genova... La spedizione in Ponza doveva aver luogo il 10 giugno...»), si potrebbe dedurre che Mazzini fosse stato informato del progetto solo nel 1857 (ché qui egli allude evidentemente alla sua seconda gita a Genova, compiuta appunto in quell'anno). Ma nessun dubbio è possibile: l'intero epistolario di Mazzini nella seconda metà del '56 smentisce appieno l'ipotesi. Bisogna tener presente che i Ricordi furon vergati da Mazzini nel '58, quando egli aveva ancora delle buone ragioni per non parlare del suo viaggio in Italia del '56. Il soggiorno di Mazzini a Genova si prolungò da giugno a novembre 1856. Come sfuggí alle ricerche della polizia? Questa sapeva benissimo dove il temuto cospiratore si trovasse (Pilo a Fabrizi, 29 luglio: «Il Governo ha saputo l'esistenza di Pippo in questa, e lo ha ricercato, ma non è riuscito né riuscirà a sapere dove si trova domiciliato»; Mazzini allo stesso, 16 settembre: «Il Governo sa benissimo ch'io son nello Stato. E non me ne importa»). Sta bene che Mazzini rimaneva solo e celato tutto il giorno, ricevendo gli amici o recandosi a colloqui soltanto di notte; sta bene che egli mutava frequentemente d'alloggio. Ma bisogna per forza ammettere che le ricerche della polizia non fossero troppo zelanti (non vide egli perfino la sua sorella?)! Nel settembre '56 Emilia Hawkes fu a Genova per qualche giorno; vide naturalmente Mazzini, vide molto i Pisacane con i quali rinsaldò l'antica amicizia (MAZZINI, S.E.I., LVII, 79, 103). 194 Lo stato d'animo di Garibaldi verso Mazzini in quel periodo ci è chiarito dall'atteggiamento dei suoi piú fidi. Medici a Garibaldi, 26 sett.: «Come vedi siamo alla vigilia di vedere altra pazzia mazziniana, la quale, riesca o no, finirà come le altre in modo ridicolo... Quell'uomo rovina ogni cosa». Iddio ci liberi da quelle «piattole» dei mazziniani, esclamava Pallavicino il 4 ottobre. Garibaldi medesimo, c'informa Foresti, s'andava augurando allora d'avere almeno una volta «sotto le unghie per Dio» quel guastafeste del Mazzini! — Quanto a Bertani, Saffi assicura (Cenni ecc. a proemio degli Scritti di Mazzini, ed. Daelli, IX, 130) che egli «insistette indarno per tentare la prova con mezzi maggiori, guardando alla liberazione de' prigionieri e del paese ad un tempo: ma non se ne fece altro»; e anche la MARIO (Bertani, I, 222) dice che nell'agosto '56 il B. avrebbe informato il Panizzi «di altri progetti a cui egli teneva mano, sollecitandolo ad ottenergli dagli amici inglesi il permesso di unire il danaro loro a quanto si poteva raccogliere in Italia per tentare la liberazione di tutti i prigionieri, poi tentare la rivoluzione nel Regno». 195 In un primo tempo (Pisacane a Fanelli, 16 febbr. 1857) Mazzini insisteva perché la spedizione venisse preceduta dalle insurrezioni di Genova e Livorno «per poi correre con una parte dei mezzi al Sud». Ma P. e Fanelli riuscirono a persuaderlo dell'opportunità di rovesciare il piano, per non subordinare la spedizione al dubbio successo delle sommosse e comprometterne l'esito con la «sveglia» che queste avrebbero dato al governo napoletano (DE MONTE, XXXV). Come è noto, Mazzini si giovò (o sperava giovarsi) per l'insurrezione di Genova del vivissimo malcontento ivi regnante in seguito al trasferimento dell'arsenale alla Spezia e all'aumento del dazio sui generi di prima necessità. «V'era per me un problema militare e un problema politico da sciogliere — spiegò piú tardi Mazzini —; il primo dovea sciogliersi in Napoli, il secondo in Piemonte. Bisognava e bisognerà sempre avere una base all'insurrezione nazionale; e bisognava e bisognerà sempre impedire alla monarchia di Piemonte di prendere la direzione del moto e tradirlo. Quindi il moto di Genova» (a Medici e Bertani, 27 nov. '57). 196 Una lettera di Mazzini a Mordini, 1° agosto '56 («Dí a Pisacane che va aumentando il materiale in modo da imprendere non solamente sorprese, ma attacchi») sembra alludere a un viaggio di P. a Nizza in quel tempo: ché Mordini risulta, dall'indirizzo della lettera, residente appunto a Nizza in quei giorni. La cosa è possibile, per quanto strano sia che non ci consti anche da altre fonti; o forse l'indirizzo (scritto da Mazzini? o aggiunto, per chiarezza, dagli editori della lettera?) è sbagliato. Ma quel che escludo senz'altro è che P., nell'agosto, si recasse a Malta per conferir col Fabrizi, come sostiene il Menghini semplicemente perché, in una sua a Fabrizi, del 19 agosto, Mazzini allude a un C. che si reca appunto nell'isola. Menghini non ha dubbi nel risolvere C. in Carlo e Carlo in Pisacane; io ne ho moltissimi. Di piú: foss'anche Pisacane costui, non potrebbe darsi che una gita progettata fosse poi andata a monte (come andò, l'anno di poi, quella di Londra)? Un viaggio a Malta non era una bazzecola allora, ed è impossibile ammettere che P. l'abbia compiuto senza lasciarne ricordo che in questo frettoloso accenno di Mazzini. Durante il suo soggiorno a Genova Mazzini lanciò la famosa sottoscrizione per i 10.000 fucili. Nella decima lista di sottoscrittori — pubblicata dall'Italia e Popolo, 21 nov. 1856 — figuran tra gli altri i nomi di P., Cosenz, Bertani ecc. Un primo malinteso fra Mazzini e Cosenz (primo d'una lunga serie) s'ebbe fin dal settembre '56 (MAZZINI, S.E.I., LVII, 107). 197 La Legione anglo-italiana era, si sa, un corpo di volontari che l'Inghilterra aveva reclutato in Piemonte nella seconda metà del '55 per la guerra d'Oriente. Fra gli emigrati piú poveri, molti eran stati quelli che vi s'erano arruolati; ma i piú, e i migliori (P. fra quelli), contrari a che forze italiane si allontanassero da un possibile teatro di guerra nostrano, non solo avean rifiutato di assumervi grado e stipendio, ma s'eran dati a contrastarne il reclutamento. Senonché era sorta nel frattempo in taluni l'idea di profittare della traversata che la legione avrebbe dovuto compiere da Genova a Malta per forzar l'equipaggio a sbarcarla in qualche punto della costa italiana, a dar fuoco alle polveri. Ma la partenza venne ritardata fino al marzo '56 (a guerra finita!) ed eseguita a scaglioni. Nel giugno, disciolta la legione in Malta, 700 uomini vennero diretti in Inghilterra: fu per l'appunto durante la traversata che il luogotenente Angherà, siciliano, vanamente e a suo danno incitò i compagni ad eseguire il progetto, sbarcando in Sicilia. (RAULICH, Giudizi di un esule, 462). Pisacane era stato informato del progetto dal Musolino, il quale accerta che P., mutata opinione, «non solo si fece ad incoraggiare il reclutamento anglo-italiano, ma dié opera a guadagnare ufiziali» (a Ricciardi, 11 luglio 1857). Nel che è assai probabilmente qualche esagerazione: non s'intenderebbe infatti perché mai P. non avrebbe cominciato, more solito, col dar l'esempio agli altri, arruolandosi per primo nella Legione. L'Angherà, scampato al carcere della Vicaria di Napoli, era riparato (nel '50) a Genova, indi a Torino e Malta. P. lo conosceva di certo; nella Libera Parola, n. 6, sett. '56, il suo gesto sfortunato veniva ampiamente elogiato. Su di esso e sulle insistenze di Mazzini perché lo sbarco dei legionari si eseguisse in Toscana, v. Mazzini a Fabrizi, 12 agosto '56. 198 Le insistenze di P. verso Bertani si spiegan non solo con la vivissima stima che egli nutriva per lui; ma anche col fatto che in mano a B. erano i fondi destinati alla liberazione degli ergastolani... Panizzi scrisse decisamente al B. essere escluso di poterli utilizzare per altre e diverse imprese (MARIO, Bertani, I, 223). 199 La lettera a Bertani (di mano di P., ma firmata anche da Pilo) in MARIO, Bertani, I, 225-226. In essa era detto: «Il battello c'è». Si alludeva probabilmente al Ligure, piccolo piroscafo, che i fratelli Orlando avevano messo in un primo tempo a disposizione dell'impresa, da essi piú tardi sconsigliata. Il Ligure era affidato al Kirckiner «il quale, intimo di P., alloggiava con lui» (ITALICO, 106. Sul K. cfr. anche PAOLUCCI, 212). Bertani, pur contrario alla spedizione e soprattutto al proposto moto di Genova, non escludeva che Garibaldi, se interpellato all'ultimo, alla vigilia della esecuzione, avrebbe finito coll'accettare di farne parte (MARIO, Bertani, I, 42). 200 Sulla popolarità di Garibaldi scriveva Mazzini (fonte non sospetta...): «Il nome di G. è onnipotente tra i Napoletani, dopo l'affare romano di Velletri. Voglio mandarlo in Sicilia, dove sono maturi per l'insurrezione e lo invocano come condottiero» (a Taylor, 16 febbr. 1854). 201 Musolino (a Ricciardi, 11 luglio 1857) accerta che nel '56 P. «conveniva completamente su queste mie vedute » (sulla necessità cioè di non dar corso alla spedizione se non nel caso che si fossero raccolti mezzi imponenti). 202 Anche Cadolini collaborava alla Libera Parola; ed è lui che attesta (Mem., 213) che P. fu il direttore del giornaletto. — Copie della Libera Parola (divenute rarissime) si trovano oggi negli archivi Cadolini e Mordini, nonché nella Biblioteca Nazionale di Firenze (legate insieme all'Italia e Popolo). — Sulla diffusione della L. P. in Lombardia, molti documenti si trovano appunto nell'Archivio Cadolini (Museo del Risorgimento, Milano): agente per la diffusione era Ernesto Cairoli; per la diffusione nell'Italia meridionale e centrale, oltre alle notizie contenute nell'Epistolario di Mazzini, in DE MONTE, in PALAMENGHI CRISPI, varie notizie si trovano in una lettera di Pilo a Fabrizi, 17 febbr. '57, che si conserva nell'Archivio garibaldino del Museo del Risorgimento in Milano, cartella 792. — Stampata dapprima in una tipografia regolare, la L. P. dovette poi tirarsi alla meglio in un locale offerto dagli Orlando nella loro officina. — La crisi finale della L. P. coincise con quella dell'Italia e Popolo che, per contrasti col tipografo Moretti, dové cessare le pubblicazioni, per riprenderle poi, indipendente, con il titolo leggermente modificato di Italia del Popolo. — Della L. P. uscirono in tutto, pare, 12 numeri (9 maggio '57, P. a Cadolini: «La L. P. è morta poi resuscitata, e poi credo, sotterrata per sempre»). 203 Le citazioni della L. P. riprodotte nel testo son ricavate in ispecie dai primi 6 numeri. Di articoli contro Murat ne comparvero parecchi nella L. P.; quello Murat e i Borboni era di P. (come l'altro su A. Milano). Fin dal 1° numero si leggeva in proposito: «Alla rivoluzione dunque intenda tutta la operosità dei patriotti delle Due Sicile. Solo in caso di invasione straniera soprasiedano; concorrano anzi a respingerla. Conseguita la vittoria ripiglino l'impresa contro la tirannide domestica». 204 Pisacane, Mazzini, Fanelli, Fabrizi seguivano con intenso interesse lo svolgersi della politica generale europea, attenti soprattutto alla Francia e all'Inghilterra. Il loro carteggio formicola di notizie, di induzioni, di profezie piú o meno azzeccate sull'azione di Palmerston, di Clarendon, di Napoleone III ecc. Cercavano di regolare i loro movimenti in conformità: il minimo accenno a crisi europea li riempiva di speranze. Sulla fine del '56, ad es., si ebbe un ennesimo riacutizzarsi della questione svizzera (tensione fra l'Austria e la Svizzera). P., il 1° gennaio '57, scrisse all'amico Cosenz che, caso mai si arrivasse a guerra austro-svizzera, egli si sentiva di andare a combattere contro l'Austria con una legione italiana, a meno che «tutti facessero proponimento di farsi ammazzare individualmente, anche senza legione, per la povera Italia» (FALCO, 265). 205 A proposito degli armamenti di Murat, correva voce allora che egli avrebbe potuto disporre della disciolta legione polacco-ungherese e che avrebbe organizzato altresí una legione franco-italiana. — Per combatter Murat i mazziniani ricorrevano a tutti i mezzi (P. a Fabrizi, 11 marzo '57: «Cercheremo di stampare un proclama murattista, facendo la caricatura di quello che ci han spedito»). 206 Sono arcinote le simpatie che, dal 1811 in poi, la Sicilia antiborbonica nutrí per l'Inghilterra; ed è anche noto che, in fondo a ogni insurrezione antiborbonica in Sicilia, il governo napoletano credé poter ravvisare la segreta influenza della politica inglese. Il moto del Bentivegna non andò esente da tale sospetto, tanto piú che, essendo interrotti i rapporti diplomatici con l'Inghilterra, le crociere navali inglesi intorno alla Sicilia, compiute all'incirca in quel tempo, non parevano a Napoli potersi spiegare senza reconditi motivi. Interessante a questo proposito una lettera di G. Bonomo, marchese di Castania, a lord Clarendon, da Londra, 27 febbraio 1857. Il B. sollecitava un passaporto per Genova, ma si diffondeva a ragionare delle «calde simpatie ormai sempre sentite dai Siciliani per la nazione Inglese», assicurando che proprio esse avevan dato luogo «in novembre 1856 a diverse vicende in taluni punti della Sicilia, ed in particolar modo vicino a Palermo», vicende cui egli stesso aveva preso parte. (Record Office, F. O., 70 | 292). — Il governo napoletano, per parte sua, favorí in quel tempo, specialmente in Sicilia, la diffusione di un opuscolo stampato a Genova che accusava di perfidia e di riposte mire la politica inglese nel Mediterraneo. Ne davan notizia, concordemente, il Console inglese a Palermo (Goodwin) a lord Clarendon, 3 gennaio '57; e il comandante la corvetta Wanderer all'ammiragliato in Malta, da Malta, 9 marzo '57 (Ivi, 70 | 291, 292). Si trattava probabilmente dell'opuscolo Situation politique de l'Angleterre et sa conduite machiavélique à l'égard des puissances éuropéennes et en particulier de la France (Gènes, 1856). Che i sospetti napoletani avessero, allora, qualche fondamento dimostra assai chiaramente un passo del dispaccio 13 gennaio '57 del suddetto Console Goodwin al Clarendon, nel quale egli prendeva atto della «approvazione» trasmessagli dal Clarendon «per non avere incoraggiato l'ultima rivolta in quest'isola!» (Ivi, 70 | 291). Dalla medesima fonte apprendeva il Clarendon che il governo napoletano piú di una volta aveva segnalato alle dipendenti autorità in Sicilia il presunto arrivo di viaggiatori inglesi, incaricati di recar denaro e messaggi da parte di Mazzini ai rivoluzionari isolani (Ivi, dispacci 24 gennaio, 4 febbraio 1857). 207 Della riunione di Genova dette notizia il VISALLI, De Lieto, 38 sg. 208 Al lavoro compiuto in comune in questo periodo si riferisce probabilmente la letterina di P. al De Lieto, da Genova 7 febbraio '57 (con la quale gli fissava un appuntamento), che si conserva a Roma nel Museo d. Risorgimento. (Mss., Busta 175, n. 14). 209 La Libera Parola dedicò quasi un intero numero al resoconto del processo Bentivegna (P. a Fabrizi, 3 marzo 1857). 210 La stampa napoletana esaltò, in occasione dell'attentato, il sangue freddo dimostrato dal re; né sembra che avesse torto. Ma d'altra opinione era il Console inglese a Napoli, che nei suoi dispacci lo dipingeva come un codardo. «Si è tentato di fare del re un eroe — scriveva egli l'11 gennaio al suo Ministro degli Esteri —. Ma la verità è ben diversa. L'attentato del soldato Milano fu cosí improvviso e fallí cosí immediatamente, che il re non ebbe il tempo di spaventarsi; e come può chiamarsi un eroe, quando vediamo gente innocua arrestata nei caffè, un gran ballo rinviato sine-die, i teatri chiusi, l'illuminazione a gas sospesa», tutto ciò per ordine suo? (Record Off., F. O., 70 | 289). 211 Le ultime parole di A. Milano in DE CESARE, III, 65. 212 Falcone era stato compagno di Milano in collegio; si rividero poi a Napoli, dove ebbero frequenti riunioni politiche. Assai drammatica fu la fuga di Falcone da Napoli a Malta (DE CESARE, I, 204-207, 212 sg.). 213 Sulla Libera Parola e poi su L'Italia e Popolo, 11 gennaio '57, comparve un infiammato art. di esaltazione di Agesilao Milano rivelante, s'è detto, la penna di P. Stupiva, il Gropello, della freddezza dimostrata dal popolo napoletano di fronte al re dopo l'attentato (DE CESARE, III, 57). Abbondarono in Piemonte le pubblicazioni di carmi apologetici di Agesilao Milano (che la polizia fece mostra, in pochi casi, di sequestrare), furon coniate medaglie in suo onore, gran voga ebbero i suoi ritratti. L'Italia e Popolo, 19 gennaio '57, proclamava essere egli «il miglior figlio d'Italia». Una settimana prima, a Torino, gli emigrati siciliani avevano solennemente celebrato, in chiesa, un rito funebre in suffragio di Bentivegna. 214 Sicuramente doloso era stato, pel Console inglese a Napoli, lo scoppio del Carlo III. «Questa — egli scriveva al Clarendon il 6 gennaio '57 — è una situazione spaventosa, milord, che cagiona a tutti molta paura e ansietà»; e suggeriva che, a rinforzo del Malacca già ancorato a Napoli, vi s'inviasse altra nave da guerra, a protezione dei residenti inglesi. Il qual desiderio, avallato dal comandante il Malacca, venne prontamente soddisfatto, coll'invio, da Malta, dell'Osprey. (Record Office, F. O., 70 | 289, 292). 215 La lettera del cap. Farguliar (com. il Malacca) all'ammiraglio Stopford era del 14 gennaio '57. 216 Fu in occasione del processo Spinuzza che il Console inglese a Palermo mandò al suo governo gli atroci particolari sulla procedura giudiziaria borbonica, accludendo fra l'altro il disegno di quella «cuffia del silenzio» che, assicurava, era stata adoperata in istruttoria per estorcere confessioni. Donde grida di indignazione della stampa inglese, furiose smentite napoletane, risolute conferme del Console (rimaste, queste, naturalmente sepolte negli archivi inglesi, ché non si volle dir mai da che parte giungessero a Londra tali notizie). Record Office, F. O., 70 | 291, disp. 14 marzo, 8, 14 aprile, 5 maggio '57. 217 Rapporto del com. la corvetta Wanderer al suo ammiraglio (da Malta, 16 maggio '57) intorno al giro della Sicilia pur mo compiuto, con fermate nei vari porti per aver dai Consoli notizie sulla situazione. A Catania «circolava la voce che gran numero di rifugiati in armi stavano per sbarcare in qualche punto della costa in quei dintorni. Il governo, di conseguenza, sorvegliava accuratamente l'intera costiera sudoccidentale». E il Console inglese a Palermo (a Clarendon, 24 gennaio): il governo ha messo in guardia le autorità locali contro un temuto sbarco di fuorusciti da Genova e da Malta «sotto la vantata protezione di una forza straniera». (Record Off., F. O., 70 | 291. 292). 218 Il governo borbonico — era logica difesa — s'appigliava alla dimostrata futilità degli isolati tentativi rivoluzionari per magnificare, in una circolare diretta ai suoi rappresentanti all'estero (27 dicembre), la fondamentale tranquillità dello Stato e l'attaccamento della popolazione alla dinastia regnante. 219 L'opera del DE MONTE, non sempre esattissima e comunque incompleta, va integrata con gli scritti cit. di PALAMENGHI CRISPI. 220 La corrispondenza settaria si svolgeva, oltreché con la complicità dei consolati inglesi, con l'aiuto di camerieri di bordo dei vapori Genova-Napoli. Il sistema piú usato per celare le lettere era quello di cacciarle tra la fodera e la sottofodera di certe spazzole, delle quali ci si serviva anche per scambiare la corrispondenza in provincia (Resoconto, cit., 74; Fanelli a P., 29 maggio '57). Né solo a trasmettere lettere si prestavano questi camerieri, né essi appartenevano solo a linee italiane. Difendendosi infatti dall'accusa, insinuata dalla polizia napoletana, che il Malacca avesse introdotto a Napoli armi e munizioni, il suo comandante scriveva all'ammiraglio Stopford, da Palermo, 5 marzo '57: «Il facente funzione di Console inglese a Napoli mi ha informato... che il cameriere di un vapore mercantile inglese è stato arrestato mentre recava su di sé, nascoste, delle rivoltelle che la polizia ha sequestrate». (Record Office, F. O., 70 | 292). 221 Mazzini a Fanelli, 21 nov. '56, a proposito della eventuale costituzione, a rivoluzione avvenuta, di un governo insurrezionale; «Non tocca a me proporvi nomi; soltanto vi dico che tra i vostri a me noti da lungo Carlo Pisacane congiunge forse meglio d'ogni altro al coraggio, al patriottismo, all'onestà il concetto strategico della guerra nazionale. Se mai gli eventi mi portassero a rappresentare nel governo d'insurrezione un'altra provincia italiana che insorgerà, avrei in lui tutta fiducia». 222 Il 30 dic. '56 P. scrive a Fabrizi: «Ora, secondo me... è d'uopo tentare anche a costo di essere schiacciati». La calma conservata da P. in questo periodo è magnificamente documentata anche dalla lunga e meticolosa recensione che, sull'Italia del Popolo del 7 marzo '57, egli dedicava a uno scritto di VINCENZO ORSINI (Lettera di V. O. all'anonimo autore delle Memorie storico-critiche della rivoluzione avvenuta in Sicilia nel 1848). Come poteva, fra tanti e cosí gravi pensieri, addentrarsi nell'esame critico delle operazioni condotte dal governo e dall'esercito siciliani, nove anni innanzi? P. lodava assaissimo l'amico Orsini (antico compagno della Nunziatella) per quanto aveva compiuto in quel tempo, ritorcendo contro il La Farina le accuse di debolezza e peggio da questi rivoltegli (lo lodava altresí perché, «dopo aver sofferto, durante la rivoluzione, molte amare delusioni, e dopo dieci anni di esilio, egli professa i medesimi principii che allora professava, pregio grandissimo fra il continuo altalenare delle opinioni, oggi divenuto costume»). Tecnicamente e politicamente, l'articolo di P. era la logica continuazione e dell'altro pubblicato sette anni innanzi su L'Italia del Popolo, a Lugano, e della Guerra combattuta, laddove si occupava della Sicilia. Ma quel che importava a P. (e forse la sola ragione del suo scritto) si era la possibilità che tal recensione gli offriva di battere a palle infuocate ancora una volta contro la tesi lafariniana: la tesi secondo la quale la Sicilia non avrebbe avuto salute che in una rivoluzione compiuta nel nome del re di Sardegna: «È inutile dimostrare — egli scriveva — che il governo sardo non vuole né può abbandonare la colleganza dei potentati d'Europa e farsi il sostegno di una provincia in rivolta contro la legittimità ed il diritto divino, che sono i principî su cui esso governo è basato; questa verità è confermata dalla storia... Il governo sardo, se avvi sollevazione nelle provincie italiane sue limitrofe interverrà senza dubbio, ma interverrà per soffocare la rivoluzione, o padroneggiandola come fece in Lombardia nel '48, o combattendola a forza aperta, come tentò di fare in Toscana, e come fece a Genova, e come fa sempre ogni qual volta un tentativo minaccia di turbare la quiete in Italia, sperando cosí che le altre potenze lascino ingrandire i suoi possedimenti, in grazia dei servizi prestati alla causa dell'ordine. — L'11 aprile '57, nuovo scritto di P. sull'Italia del Popolo, per prender atto di qualche rettifica che Ignazio Calona aveva creduto di addurre alla narrazione militare di Orsini, e quindi anche alla sua recensione (sul Calona, v. il Dizionario del Risorgimento, cit.). Con questi due scritti si concludeva l'attività giornalistica di P. 223 Una conferma tipica del disgraziato carattere di Fanelli si ebbe assai piú tardi, quando — legatosi egli nel '65 col rivoluzionario russo Bakunin — venne da questi incaricato di un importante giro di propaganda socialista in Ispagna. Le sue lettere di là sembrano calcate su quelle napoletane: perpetuamente dominato da una volontà piú forte della sua, e nel contempo ribelle contro di essa, F. trovò dapprima il suo tormento in P., di poi nel Bakunin. Vittima sempre! (Sul viaggio in Ispagna, 1868, v. NETTLAU, 151). 224 Giusto è per altro osservare che alla radice di molti ondeggiamenti di Fanelli stavano le informazioni contraddittorie che gli pervenivano dalla provincia. Le lettere pubblicate da DE MONTE son piú che bastevoli a dimostrare che se Fanelli non era al suo posto, ancor meno di lui lo erano i suoi immediati collaboratori. Come conciliare ad es. le infiammate dichiarazioni di un Nicola Albini, 6 marzo '57 («Siate certi che all'apparire degli ufficiali insorgeranno pure le gatte»), o di suo fratello Giacinto, 7 marzo («... Si è pronti, prontissimi a insorgere... il fuoco è celato e divamperà in modo sorprendente... »), col contegno tenuto poi alla prova dei fatti dai nuclei rivoluzionari da essi controllati? 225 Nel febbraio il disegno preferito era quello di far partire 20 uomini armati su di un vapore salpante da Londra; nelle acque di Pianosa esso avrebbe dovuto incontrarsi con una goletta proveniente da Genova, con a bordo altri 15 uomini e carico d'armi; indi proseguire per Ponza. 226 «Per la cooperazione io conto piú sulla disposizione morale che sugli accordi — aveva già scritto P. a Fanelli, il 16 marzo. — Tutto ciò che mi verrà da voi sarà utilissimo, preziosissimo, ma il puro necessario v'è». — Si tenga presente che P. partiva sempre dalla premessa che il movimento nel napoletano non avrebbe dovuto essere che un episodio, sia pure essenziale, di un sistema insurrezionale pan-italiano. Genova e Livorno, si sa; ma anche si ricevevan grandi promesse dalla Sicilia e dalla Toscana (Lunigiana segnatamente). 227 P. ordinava a Fanelli di trovarsi a Sapri; ma Fabrizi lo consigliò invece di trattenersi fino all'ultimo a Napoli: chi altri che lui avrebbe potuto infiammare la popolazione napoletana quando fosse giunta notizia dell'avvenuto sbarco? (a F., 15 aprile). 228 Lo stesso 2 d'aprile Fanelli si sfoga in termini ancora piú pietosi col Fabrizi. 229 Ancora nel gennaio '57 Mazzini nutriva dei dubbi sulla possibilità e l'utilità di agire nel sud: fu P. a travolgerli (Mazzini a P., 26 gennaio: «Amico, intendetemi bene: darei il sangue perché si facesse nel Sud, ma non voglio sprecare gli ultimi elementi che posso mettere in moto sull'incerto»). 230 Mazzini rincarava la dose con Fanelli sei giorni appresso («Le minorità non fanno rivoluzioni; le provocano: la minorità che provocò le giornate di marzo in Milano, se avesse esatto, prima della scintilla produttrice, cifra uguale all'impresa, non avrebbe tentato mai»). 231 Offeso da tanti rimproveri, rispondeva il 20 maggio F., fieramente vantando gli elogi in altri tempi prodigatigli da Mazzini come a uomo non certo indegno di assumere responsabilità. 232 Di P., nella lettera 24 maggio, Mazzini tracciava questo magnifico elogio: «Migliore uomo non potreste avere ad ispiratore: principio radicatissimo, assenza d'ambizione di potere, pericolosa nell'avvenire, concetto strategico della Guerra d'Insurrezione, energia nell'esecuzione. Troverete tutto in lui. Non posso abbastanza raccomandarlo a voi e ai vostri». 233 Sullo stato d'animo dei «costituzionali» napoletani, coi quali Fanelli allora si poneva in contatto, getta un fascio di luce il dispaccio del Console inglese a Napoli a lord Clarendon, 23 aprile '57, nel quale è il resoconto di un colloquio da lui avuto con uno dei loro capi. Questi ha dichiarato che la popolazione aspira a un governo costituzionale; che i fautori di Murat sono pochi, ma che se questi riuscisse a sbalzare il Borbone, il partito costituzionale lo appoggerebbe, pur di cambiare in meglio. I capi del movimento costituzionale «guardavano da tempo all'Inghilterra, nella speranza che qualche circostanza facesse trasparire le vedute del governo inglese rispetto al regime che esso preferirebbe veder stabilito a Napoli, e il partito desiderava quanto mai di regolare i propri movimenti in modo da incontrare i disegni del governo inglese, al quale naturalmente guardava come a governo costituzionale». Alle quali dichiarazioni il Console ha evasivamente risposto, trincerandosi dietro il carattere puramente commerciale (?!) della sua missione e concludendo nel senso che «non poteva offrire la sua opinione né incoraggiare o dissuadere il partito costituzionale dall'aderire a qualsiasi movimento di tendenza rivoluzionaria» (Rec. Off., F. O., 70 | 289). Il Clarendon, 30 aprile, sanzionava la condotta del suo saggio dipendente (Ivi, 70 | 288). — Ma se i rivoluzionari napoletani di tutte le sfumature cercavano contatti col governo inglese, non da meno si mostrava il governo napoletano, naturalmente in via non ufficiale. Il Bianchini, Direttore generale di polizia, venuto un giorno a discorrer di politica col Barbar, lo assicurava infatti che, quanto a lui, non risparmiava sforzi per indurre il re a volgersi verso l'Inghilterra, l'unico paese della cui amicizia ci si poteva fidare. L'Inghilterra si era lasciata trascinare da quel «parvenu» di Napoleone III alla contesa con Napoli, ma ormai cominciava ad accorgersi che la Francia perseguiva esclusivamente i suoi propri interessi. L'Inghilterra non voleva affatto la caduta dei Borbone, ma solo la supremazia nel Mediterraneo; era dunque sperabile che accettasse le aperture che il governo napoletano aveva di recente fatte a Londra. Il Barbar si limitò ad ascoltare e a prendere atto delle assicurazioni essere falso che Napoli fosse caduta sotto la tutela austriaca. (Ivi, 70 | 289). 234 Sulle intese per la falsa richiesta di lavoratori da Tunisi e per il nolo della goletta, v. P. a Fabrizi, 22 aprile '57. Nell'aprile '57, P. avrebbe dovuto fare una gita a Londra per perfezionare le intese; ma poi la cosa andò a monte (Mazzini alla Biggs, 19 aprile '57; DE MONTE, LIII). 235 Della decisione di eseguire lo sbarco a Sapri venne subito e misteriosamente a conoscenza la polizia napoletana. Deposizione Ajossa al processo della Gazzetta d'Italia (Firenze, 1876): «... nei primi giorni dell'aprile 1857, epoca in cui occupavo il posto d'Intendente della Provincia di Salerno, venne a trovarmi un individuo del quale non posso declinare il nome, manifestandomi che dal Comitato rivoluzionario di Napoli... si era progettato uno sbarco a Sapri». (Resoconto, 274). 236 L'autografo di questa lettera di P. è stata pubblicata, senza indicazioni di data o di destinatario, sul Risorgimento Italiano, 1914, 123-124. Ma che si tratti proprio della lettera a Pisani della fine di aprile '57 appare chiaro a chi la confronti col carteggio P.-Fanelli e colle circostanze a noi note riguardanti il fratello del Pisani relegato, Enrico, che prese poi parte alla prima spedizione mancata dell'8 giugno. 237 La prima lettera spedita dall'Agresti — che conteneva indicazioni topografiche su S. Stefano — venne poi rinvenuta sul cadavere di P. (Resoconto, 453). 238 Le informazioni date dall'Agresti il 20 maggio, e chi sa perché tenute in non cale, eran precisissime: «In Ponza vi sono pochissimi relegati politici... in Ventotene vi sono circa una cinquantina... In S. Stefano siamo tra condannati a' ferri ed all'ergastolo trenta, e circa 800 condannati comuni» (lettera pubblicata sul Ris. Ital., 1914, 779). 239 Che l'Agresti fosse stato persuaso dallo Spaventa a sconsigliare P. dall'impresa su S. Stefano asserisce NISCO, 367. Anche Settembrini dichiarò nettamente che non si sarebbe mosso dall'ergastolo in compagnia dei condannati comuni. (TORRACA, Settembrini. Notizie. Napoli, 1877, 45). 240 Cfr. in MAINERI, 397-403, le lettere di Cosenz a Pallavicino (1856) per ottenere contributi finanziari. Nel dicembre Pallavicino, pregato anche da Mordini e Varè, elargí 7000 lire per l'acquisto di fucili (Ivi, 249). Ma ad ulteriori pressioni — e alludendo a quanto, per incoraggiarlo, gli aveva scritto Cosenz, che l'Inghilterra cioè non vedesse di mal occhio l'impresa, — Pallavicino rispondeva: «Ma se l'Inghilterra è realmente disposta ad assistervi, come avviene che abbiate difetto del danaro occorrente ad iniziare l'impresa?... Io non ci vedo chiaro». Alla ricerca di fondi si dette anche, prima in Inghilterra e poi in Piemonte, la WHITE (In memoria di Nicotera, 4). 241 Le sdegnose espressioni di Mazzini sulla questione finanziaria in lettera a Mordini, 29 febbraio '57. 242 P. teneva talmente al segreto che, il 22 aprile, scriveva a Fabrizi: «Io poi protesto, che se a forza di voler preparare, si darà la sveglia al (Governo) e si comincerà a parlare della faccenda, siccome sono responsabile non di me stesso, ma di molti, che vengono per fiducia in me, avrò il coraggio di rifiutarmi». 243 Fino dall'8 agosto '56 l'Intendente di Genova scriveva al Ministro dell'Interno: «... Altri poi dicono con tutta certezza imminente un moto, ma questo verrebbe iniziato a Firenze, Livorno e Napoli, e si estenderebbe in tutta la Toscana e nei Ducati» (Archivio di Stato, Torino, Materie politiche interne in genere, mazzo 18). — Il 4 dicembre Villamarina (Ambasciatore a Parigi) assicurava Cavour essere l'Imperatore informato di un imminente scoppio insurrezionale in Italia e particolarmente nel territorio sardo. — Il Console inglese a Palermo citava in un dispaccio a Clarendon 24 gennaio '57 il testo delle circolari spedite da Napoli alle autorità siciliane per porle in guardia contro sbarchi di fuorusciti (Rec. Off., F. O., 70 | 291). La citazione del Times in lettera di P. a Fanelli, 16 febbraio. — Il 4 febbraio il cit. Console a Palermo informava che «la polizia marittima ha ricevuto l'ordine di ricercare un tal Giorgio Glassford accusato di essere un emissario di Mazzini, mandato con denaro in Italia e in Sicilia a fini rivoluzionari. Questo personaggio non è apparso finora in nessun luogo dell'isola». (Rec. Off., F. O., 70 | 291). 244 Sulle informazioni del governo toscano, cfr. Monitore Toscano, Firenze, 11 maggio 1857. 245 La lettera di Fanelli 30 aprile era diretta a Mazzini; le stesse cose F. scriveva il 14 maggio a P. 246 Le informazioni dell'Intendente di Genova nell'Archivio di Torino, 1. c., mazzo 17. Era stato il Ministro Rattazzi che il 18 di maggio aveva messo in guardia l'Intendente contro possibili trame dei mazziniani. (CHIALA, II, CCXXV). Questi comunque assicurava che le spedizioni di armi «se si dovesse prestare fede alle dichiarazioni fatte in dogana, tutte sarebbero seguite per Tunisi». 247 Il 13 giugno l'Intendente di Salerno assicurava le superiori autorità d'aver già dato tutte le disposizioni opportune (Archivio di Stato, Napoli, Ministero di polizia, fascio 551). 248 Nel suo dispaccio 10 giugno, l'Intendente di Genova precisava che sul Cagliari in partenza per Tunisi sarebbero stati imbarcati 75 fucili, 250 canne da fucile, 128 platine. Nello stesso dispaccio affermava non sussistergli che fossero state spedite delle casse sospette a Capraia. Questa informazione era stata richiesta dall'Incaricato d'affari toscano a Torino, cui il Ministro Lenzoni aveva scritto «che un tal Cuneo, di Genova, si è impegnato a depositare casse di carabine in Capraia, a disposizione del Comitato rivoluzionario di Genova. Queste casse sarebbero dichiarate come contenenti lastre di piombo» (Archivio di Stato, Torino, 1. c., mazzo 17). 249 Sul contegno ambiguo del governo piemontese di fronte ai rivoluzionari disposti ad agire nel resto d'Italia, cfr. lettera di Mazzini a Pallavicino, 2 agosto '56. Il governo lasciava o prometteva di lasciar mano libera soprattutto in Toscana, ché se vi fossero scoppiati movimenti insurrezionali si sarebbe potuto invocare il principio del non intervento. Altre notizie sul «contatto indiretto» fra Mazzini e il Ministero sardo in quel tempo, in lettera a Taylor, 8 agosto. Sulla politica che «a molti fa l'effetto di essere a doppio fondo» del gabinetto torinese, cfr. D'Azeglío a Sforza Cesarini, 2 gennaio '58 (CHIALA, II, CCXLV). Sul contegno di Rattazzi, Ministro dell'Interno, nella crisi del giugno-luglio 1857 e sulle accuse che da molte parti gli piovvero d'aver chiuso consapevolmente gli occhi sulle trame mazziniane, salvo a reprimerle poi quando irrimediabilmente fallite, cfr., oltre alle sue biografie e ai suoi discorsi parlamentari, CHIALA, II, CCXXV, CCXXXII.
Capitolo X. |
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