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Nello Rosselli
Carlo Pisacane nel Risorgimento Italiano

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  • CARLO PISACANE NEL RISORGIMENTO ITALIANO
    • Capitolo decimo Testamento
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Capitolo decimo
Testamento

 

Mentre si approssimava la data per l'esecuzione del tentativo, una crescente agitazione s'impadroniva di quasi tutti gli organizzatori, sia che temessero per loro stessi, sia che soltanto allora riuscissero a misurare qual sorta di responsabilità si fossero assunti, sia finalmente che l'ostinata contrarietà alla spedizione di molti fra i migliori amici li rendesse proprio all'ultimo dubbiosi. Pisacane no. Era anzi sempre piú calmo: piú affettuoso e indulgente nelle lettere a Fanelli, meno concitato in quelle a Mazzini o a Fabrizi, sereno e rasserenante nei colloqui coi «complici». Nonostante l'imminente ciclone la sua normale attività proseguiva imperturbabile.

Ed eccolo modestamente occupato a impartire lezioni di matematica fino al giorno della partenza, eccolo dissipare col franco sorriso i sospetti degli amici non a parte del segreto, eccolo, nella corrispondenza coi conoscenti, distendersi a ragionare del piú e del meno, come se nulla fosse.

Il 9 maggio '57, per esempio (quando pare che la spedizione debba effettuarsi alla fine del mese), cosí risponde a una lettera di Giovanni Cadolini, il quale gli ha offerto un posto d'ingegnere nel suo studio a Oristano: «Il lavoro che mi proponete mi sarebbe molto omogeneo, ed i patti accettabili, perché proposti da amici in compagnia dei quali sarei contentissimo di lavorare; ma per tutto questo mese e l'entrante sono già impegnato e non potrò lasciar Genova, quindi non posso che ringraziarvi di cuore della memoria che avete conservato di me, sperando rivedervi in migliori occasioni. In politica qui si vegeta... Al Parlamento subalpino si recita sempre, non saprei se il dramma, commedia, o farsa. Quando finirà? Spero... (sic) ed abbracciandovi sono».

17 di maggio, lettera a Cosenz: di tutto un po'. D'una partita d'armi che è felicemente arrivata,250 di certe medaglie fatte coniare in memoria di Agesilao Milano, d'un libro del Carrano sul Pepe, della giornalista inglese Jessie White.

Il 26 trasmette a un amico, a Milano, informazioni minute su una partita di bachi e di «semi di Calabria»;251 ma è una formola convenzionale per annunziare il prossimo imbarco... Tutto fuoco di dentro ma all'aspetto esteriore quieto e composto è Pisacane; né solamente per deviare, col contegno, l'eventuale vigilanza della polizia. Come mutato dal Pisacane di pochi anni innanzi (quello descrittoci dal Dall'Ongaro), gesticolante, rumoroso, parolaio! Lo conobbe in quelle ultime settimane un mazziniano fiorentino, Andrea Giannelli, allora ospite a Genova di Costantino Mini, che abitava, a un piano diverso, nella casa medesima di Pisacane (Via Colombo, numero quattro).252 «Il Mini — racconta il Giannelli — mi presentò al Pisacane, che rividi solo qualche altra volta; e sebbene non mi spiegasse minutamente i suoi disegni, pure capii che qualcosa di straordinario egli stava preparando». Pisacane «lasciò in me un'indicibile espressione (sic) d'uomo predestinato. Di carnagione candida, barba e capelli rossi-biondicci, gli occhi celesti, di statura media ed abbastanza complessa, il portamento composto, di non molte parole e misurate tutte ed a proposito, rivelavano in lui, preso cosí nell'assieme, un uomo superiore...»253

 

L'11 di maggio, con prodigiosa disinvoltura sfidando le ricerche della polizia, Mazzini — via Torino — ritorna a Genova. Il sapere che c'è, che è fra loro, il poterlo qualche volta vedere, galvanizza i compagni.

Non ha un momento di requie; tre distinte gigantesche imprese da condurre a punto e sincronizzare: Sapri, Livorno e Genova! E, insieme, amici sicuri da raffermare, incerti da scuotere, tepidi da neutralizzare, nemici da tenere a bada; proclami e manifesti da dettare e passare alla stamperia clandestina; cento dettagli da stabilire per le imbarcazioni, per le armi; intese da precisare; e in piú sviare i sospetti delle autorità: un inferno!

Il giorno 12 Mazzini si abbocca con Pisacane; poi, quasi tutte le notti, sono convegni segreti e di decisiva importanza. Pochi giorni dopo, ecco a Genova Jessie White, mazziniana esaltata, ben nota per una serie di clamorose conferenze sull'Italia tenute in Inghilterra, venuta adesso in Italia per assicurare al Daily News, nell'imminenza dei moti insurrezionali, corrispondenze tali da guadagnare ad essi la simpatia del pubblico inglese.254 L'arrivo di questa rumorosa e imprudente reporter (imprudente al punto da discorrere a voce spiegata di quel che sta per succedere, in una stanza d'albergo, a Torino)255 è particolarmente importante in quanto è proprio per mezzo di lei che gli organizzatori della spedizione fanno un ultimo tentativo per ottenere la cooperazione di Garibaldi. Già nel febbraio di quell'anno, a ripetute pressioni della White in proposito, il generale ha risposto: «Se io fossi sicuro d'esser seguito da un numero ragguardevole presentandomi con una bandiera sulla scena d'azione del mio paese e soltanto con piccola probabilità di successo — dubitereste voi ch'io mi lancerei con gioia febbrile al conseguimento di quell'idea di tutta la vita, abbenché mi si presentasse, per compenso, il martirio piú atroce?... Se non mi lancio a capitanare un movimento — è perché non vedo probabilità di riuscita... non dirò agl'Italiani — Sorgete! per far ridere la canaglia...»256 La White non si dà per vinta. Agli ultimi di maggio combina un ritrovo a Torino fra Garibaldi e Pisacane, presenti lei medesima e Nicotera, allora giovane di studio del Mancini. Ma Pisacane, munito dei piani della spedizione e della corrispondenza col Comitato di Napoli, spiega invano la sua appassionata eloquenza: Garibaldi, appoggiato a Genova da Bertani e Medici, è fermissimo nel diniego, ben persuaso che senza l'appoggio del governo sardo sia impossibile ormai raggiungere in Italia per via d'insurrezioni alcun resultato apprezzabile.257 A Nicotera invece sembran piú che esaurienti le documentate assicurazioni di Pisacane esser tutto «disposto nel Regno, e che soltanto vi bisognava un'iniziativa»: tanto piú che gli consta che Pisacane s'è rifiutato di prender parte in passato ad altri movimenti insurrezionali da lui considerati immaturi. L'acquisto di Nicotera, intellettuale di fegato, popolare nella nativa Calabria, è incoraggiante e importante.258

Piú tardi, il 22 o il 23 di giugno, trovandosi Garibaldi in Genova, Pisacane s'abboccherà un'ultima volta con lui, ma senza frutto.259

Mazzini spedisce intanto a Fanelli le istruzioni definitive sull'azione da svolgersi a Napoli a sbarco avvenuto. Bisogna che Napoli insorga. Si badi bene però: «astenersi da manifestazioni esclusive», affermare fin da principio il carattere nazionale del movimento, stroncare inesorabilmente ogni deviazione murattista. Sfruttare senza esitazione il primo fermento che la notizia dello sbarco produrrà nella popolazione, non lasciarsi «sedurre dalla tendenza cosí facile e funestissima ad aspettare che lo sviluppo del moto provinciale assuma proporzioni imponenti». Si tenti subito un colpo d'audacia, per esempio impadronirsi di sorpresa d'uno dei forti che circondano Napoli; nel tempo stesso, non prima, si spargano tra i militari e i borghesi proclami insurrezionali e si faccian sparire «per fatto individuale» gli alti gradi dell'esercito.

Stia tranquillo, Fanelli: poco prima del «fatto» giungerà a Napoli, per assisterlo, un Commissario politico (il Quadrio); fors'anche un tecnico militare (il Cosenz). Mazzini intanto gli acclude due abbozzi di proclami, rivolti ai cittadini e ai soldati: concitati, trascinanti, generici; mazziniani, nell'intonazione, al cento per cento.

Tutto ciò il 24 di maggio. Il 1° di giugno parte per Napoli un altro proclama ancora: a Genova evidentemente si teme che Fanelli non sappia, nel giro di poche righe, riepilogare le cause dell'insurrezione e scuotere l'animo dell'anonima folla. Il nuovo proclama è scritto di pugno di Pisacane, Mazzini non ha fatto che correggerlo qua e là.260 Che differenza fra questo e i due precedenti! In quelli ricorrono le parole dovere, missione, patria, sacrificio, onore; questo non è che un contratto proposto ai napoletani dagli iniziatori del moto: seguiteci e noi vi daremo, sul terreno politico, suffragio universale, libertà di associazione, di parola e di stampa, educazione nazionale, libertà dei comuni, unità nazionale; su quello economico, assistenza obbligatoria ai nullatenenti infermi e vecchi, abolizione dei dazi e delle imposte indirette, tassa unica sul reddito con esenzione dei redditi minimi, imprendimento d'immensi lavori pubblici per sovvenire alla disoccupazione, larghissimi crediti alle associazioni di lavoro, sfollamento della burocrazia.

Tutte riforme che Mazzini bandisce da un pezzo, ma quando mai ha egli fatto leva cosí esplicitamente su di esse per trascinare le masse all'insurrezione? Il proclama è dunque un tipico frutto della collaborazione tra il suo dogmatismo morale e il pragmatismo di Pisacane. Pisacane concede un fuggitivo accenno introduttivo alla tradizionale formola Dio e Popolo261 e acconsente a ridurre a poche ricette d'un blando riformismo il vasto suo programma sociale; Mazzini si rassegna per parte sua a che l'appello alla rivoluzione politica venga contaminato da una serie di materialistici do ut des. Pisacane sa fin troppo che la stragrande maggioranza della popolazione non avverte gl'imperativi di libertà se non in funzione del problema economico; Mazzini si affretta a mettere in chiaro, scrivendo a Fanelli, come «le promesse contenute in questo scritto possano verificarsi tutte senza sovversioni di diritti acquisiti, senza sconvolgimenti sociali».

Non mancano gli accenni alla questione militare, e questi son tutti di pretta marca pisacaniana: esercito nazionale, gli ufficiali eletti a suffragio indiretto dalla truppa medesima; non appena raggiunta l'unità italiana, organizzazione della nazione armata. In un proclama speciale dedicato all'esercito, l'invito all'insurrezione è accompagnato naturalmente dalla promessa di promozioni speciali a quelli tra i militari che v'aderiranno piú presto.

 

La notte del 4 di giugno, in Genova, gli organizzatori e i fautori della spedizione si riuniscono segretamente per prendere gli ultimi accordi, rivedere punto per punto il progetto e valutarne definitivamente le probabilità di successo. Salvo Castelli, meridionali tutti: Pilo, Pisacane, Nicotera, Cosenz, Carbonelli, Mignogna, Falcone, portavoce di Fabrizi, di fresco giunto da Malta.262

All'ora designata, con quel tanto di mistero e di rischio che vale a dare il batticuore agli astanti, ecco Mazzini. Sebbene particolarmente ottimista in quei giorni, Mazzini era tuttavia molto perplesso. Lasciamo andare Fanelli che con le sue crisi alterne di disperazione e di esaltazione avrebbe fatto dubitar della fede un dei dodici apostoli; ma sconcertavan Mazzini la contrarietà d'un Saffi e d'un Crispi all'impresa di Genova, il pessimismo d'un Musolino, l'atteggiamento intransigente dell'equilibrato Bertani che perfino evitava d'incontrare gli amici per non saper da loro a che punto ne fossero 263(onde Pisacane: «Pare impossibile! cosí entusiasta l'anno passato, ora cosí irremovibile»). Per di piú mancavano ancora notizie precise su Ventotene e su Ponza; di Sapri non si sapeva che quello che ne dicevano le carte geografiche, e non ci si fondava che su presunzioni generiche quanto allo stato d'animo dei gruppi di opposizione nel napoletano: in quali e quanti paesi la notizia dello sbarco avrebbe determinato l'insurrezione? Fino a che punto si poteva contare sull'affluire di compagni armati sul lido di Sapri? Mistero, mistero. Ed eran sei mesi abbondanti che non ci si occupava di altro!

Ragionevole dunque che a Mazzini tremassero i polsi nell'atto di dar fuoco alle polveri: fuor che Mignogna non eran tutti ragazzi, appetto a lui cinquantenne, gli otto adunati? Tremenda la responsabilità che per l'ennesima volta in sua vita gli gravava le spalle, insopportabile la ricorrente tempesta del dubbio. Su tutti pesava, quella notte, come un oscuro presagio, l'ombra di Bentivegna; perfino Nicotera, un vulcano di solito, si diceva poco persuaso della maturità rivoluzionaria del suo Mezzogiorno.

Ma come un improvviso raggio di sole disperde una densa cortina di nuvole, cosí la sicurezza pacata, il logico ragionare, la voce insieme ferma e appassionata di Pisacane valsero a dissipare ogni esitazione con tale facilità, con tale prontezza che alle postume riflessioni di coscienze turbate il miracolo dovette sembrare spiegabile solo qual frutto di una vera suggestione collettiva. Perché mai tormentarsi di dubbi? Troppi segni accusavano ormai l'esistenza di una situazione tipicamente pre-rivoluzionaria nelle Due Sicilie, troppe scintille eran sprizzate qua e là perché si potesse mettere in forse l'imminenza e la gravità dell'incendio. La cronaca degli ultimi mesi non era stata che una lunga teoria di sedizioni, rivolte, attentati, collettive proteste: falliti tutti, tragicamente scontati, è vero, ma non forse esclusivamente perché quegli episodi si erano svolti indipendenti e isolati l'uno dall'altro né alcuno di essi si era rivelato di tanta importanza da costituire seria minaccia per la conservazione del regime borbonico? Non piú si trattava dunque di star lí a soppesare le disposizioni del popolo napoletano, fin troppo chiare: o che si voleva, che esso insorgesse d'un tratto, tutto insieme, inerme di fronte alle baionette tiranniche? Era tempo di offrirgli un'occasione irresistibile, una base d'appoggio se si voleva che osasse: la spedizione, precisamente, la marcia dei prigionieri armati. Inadeguata la preparazione? E poco risoluti sembravano i rivoluzionari, laggiú? Ben naturale: quante volte, dietro precise promesse di aiuto esterno, pochi audaci si erano mossi per cadere da soli! La dolorosa esperienza rendeva diffidenti adesso anche i piú generosi. Ma se mai un giorno essi avessero veduto le vecchie promesse tradursi in realtà e la troppo decantata solidarietà italiana manifestarsi davvero attraverso altri moti scoppiati in altre regioni della penisola, chi mai li tratterrebbe piú? Il ricordo dei compagni caduti centuplicherebbe la loro energia, e il mondo, anche troppo disposto sin qui a deplorare l'inerzia dei napoletani, stupirebbe del numero e della foga degli antiborbonici. Se gli animi, nella fase della preparazione, oltre che intimidirsi, si dividevano, non era anche questo ben comprensibile? Solo la magia dell'azione sa far tacere i dissensi.

Cosí, quella notte, parlava Pisacane; e i volti dei suoi ascoltatori si contraevano in un'espressione di risolutezza incrollabile e i sedici occhi mandavano lampi. Fatuità nel parlatore? Leggerezza negli altri? No: Pisacane esercitava sugli amici, su Mazzini pel primo, l'ascendente invincibile di chi, sostenendo la necessità e la bellezza d'una impresa arrischiata, assume per sé, del rischio, la massima parte.264

Fu cosí che venne irrevocabilmente decisa, nei suoi minuti dettagli, l'impresa di Sapri, combinata con i moti minori di Genova e Livorno; Pisacane capo della spedizione, Nicotera e Falcone in sottordine; Pilo distaccato sulla goletta destinata a incontrarsi col Cagliari; Cosenz capo militare nel napoletano; Mignogna incaricato di informare telegraficamente Fanelli; partenza della goletta il 6 giugno, della spedizione il 10.265

Dopodiche l'adunanza si sciolse.

 

Due giorni di ansiosi preparativi.

Il 6 giugno, a notte alta, accompagnato da altri emigrati fra i quali un Pisani, fratello del relegato, Rosolino Pilo si portò presso Rivarolo di Ponente, in una villa sul mare dove in precedenza si erano trasportate dodici casse di «letti di ferro» (duecentocinquanta fucili, con relative munizioni, e duecentocinquanta daghe). A mezzanotte, mentre qualcuno pensava a tener lontane le guardie di dogana, si trasferí questo carico sulla goletta già pronta in attesa.

Era comandata, questa, da un vecchio lupo di mare cui si eran promessi lauti guadagni purché si fosse prestato a tener mano a un contrabbando. Ma il pover'uomo, osservate che ebbe le casse, non stentò a rendersi conto di che mai si trattasse; sí che, nel timore d'incorrere in rischi piú seri dell'usato, bruscamente rifiutò di partire. Lieve impaccio per quei giovanotti già d'accordo col rimanente dell'equipaggio! Al vecchio, che tra molte bestemmie piangeva e profferiva minaccie, si tolse il governo della nave e fu lasciato in un canto a ruminar la sua ira.

Pure quel pianto fu un cattivo presagio. I primi due giorni si ebbe infatti a lottare con l'assoluta mancanza del vento, che fece dubitare non si sarebbe raggiunto in tempo il luogo destinato; e quando, la notte dall'8 al 9, finalmente, le vele si gonfiaron d'un tratto, non era vento, era bufera scatenata. «Il mare divenne piú che burrascoso, un vento tutt'affatto contrario cominciò a soffiare: il battello ruppesi nella carena e l'ondate del mare penetravano dentro, di modo che in pochi momenti si giunse ad avere quattro palmi d'acqua. Per maggior mala sorte il bastimento trovavasi con la pompa inservibile, s'era senza carta di navigazione, con attrezzi e cordaggi vecchi, che rompevansi ad ogni infuriar di vento. Li marinari per la folta nebbia non sapevano piú dove stava la terra e quindi perdevansi d'animo. Si raccolsero tutti a consiglio col vecchio capitano».266 Impossibile approdare in un porto vicino, per via del carico; impossibile d'altronde proseguire per via del vento contrario; imminente il naufragio se non s'invertiva la rotta e non si gettavano immediatamente a mare le dodici casse. Netta ripulsa di Pilo: mancare all'incontro, gettare le armi — ognuna delle quali era costata miracoli di audacia, di astuzia, di passione — significava compromettere irreparabilmente la spedizione. Ma come tre giorni innanzi alla volontà contraria del vecchio si era violentemente imposta la forza del numero, cosí ora la disperata resistenza di Pilo s'infranse contro il pànico timore dei suoi compagni.

Liberata dunque la goletta dal peso e il capitano dal gran pensiero, questi riprese il comando e quella, il vento aiutando, filò verso Genova.

E se non si giungeva in tempo per fermare gli amici? (Il Cagliari avrebbe dovuto salpar l'indomani). Dopo il mancato incontro, cosa avrebbe risolto Pisacane? Proseguirebbero inermi? E ammesso pure che si giungesse a prevenirli, che fare se fosse intanto già partito il dispaccio per quei di Napoli, perché iniziassero il moto? Ma il vento, per fortuna, soffiava talmente impetuoso che «in 3 ore circa si rifece il cammino che si era fatto in tre giorni e si giunse alle 3 ore pom. del giorno 9 giugno nel porto di Genova». E allora le ansie dello sbarco. I doganieri non si sarebbero insospettiti nel veder calar giú da una goletta quei tipi cosí poco marinareschi? Nessun genovese si trovava tra i passeggeri e Pilo era noto anche troppo alla locale polizia. Ma no: il mare agitato favorí la manovra; e poté il povero Pilo mandare altri dapprima e poi correre disperato lui stesso a casa di Pisacane ad annunziare lo sciagurato incidente.

 

A Genova tutto era pronto. Senonché si era dovuto, la mattina stessa del 9, superare una imprevista difficoltà, provocata (ebbe a dire Mazzini) dal «voltafaccia» di Cosenz;267 questi, si è visto, avrebbe dovuto partire per Napoli per assumervi la direzione militare dell'insurrezione. Recatosi a Genova per prendere imbarco, aveva appreso, all'ultimo, che Quadrio era stato designato a Commissario politico e lo avrebbe accompagnato nel viaggio. Perché gli si era taciuta la circostanza? Porre Quadrio alla testa delle cose non significava forse assegnare al moto quell'etichetta di mazzinianismo assoluto, che secondo le intese corse avrebbe dovuto evitarsi? Cosenz avea fin qui tutte le ragioni del mondo e avrebbe potuto giustamente pretendere la sostituzione di Quadrio; si mise dalla parte del torto prendendo precipitosamente una risoluzione ab irato: quella di tornare a Torino senza cercar di Mazzini, lasciando solo «una lettera nella quale dichiarava che non voleva essere lo strumento di nessuno». Ma forse Cosenz non si era reso conto di sabotare con quel ripicco le sorti stesse e della spedizione e del moto di Napoli.

Toccò a Pisacane, avvezzo d'altronde a certe sorprese da parte di quell'amico, di rabberciare alla meglio le istruzioni a Fanelli, avvertendolo che a Napoli si sarebbe recato soltanto il Commissario politico: alle cose militari provvedesse da sé.

Quanto agli uomini della spedizione, marinai e artigiani della Liguria, della Lombardia e delle Marche, gente devota a Mazzini, essi erano agli ordini. Pisacane, addí otto di giugno, li aveva con maschie parole sommariamente informati dello scopo e delle modalità dell'impresa.268 La rotta era stata accuratamente studiata, e a Pisacane si era affidato il magro «tesoro» dell'impresa. Il dispaccio per confermare al Comitato di Napoli la imminente partenza era infine stato spedito quando, trafelato e disfatto, giunse Rosolino Pilo.269 Era il disastro! S'imponeva il rinvio sine die della impresa; ma come avvertire Fanelli? Le menti agitate di Pisacane e Enrichetta, di Pilo e dell'amico genovese Mazzini, che era con loro, si figuravano già Napoli in tumulto e nuclei di insorti del Cilento, di Basilicata e Calabria in marcia verso la costiera di Sapri, nella rischiosissima attesa del Cagliari, e paesi e città piú lontani in rivolta, nella fidente attesa della rivoluzione italiana, attesa che si tramuterebbe ben presto in disperata angoscia, mentre la repressione borbonica avrebbe soffocato nel sangue quegli efimeri focolai d'incendio. Senza capi, senza programma, male armati, delusi, i compagni laggiú sarebbero caduti ancora una volta da soli, maledicendo.

No, questo non doveva accadere.

I quattro corsero da Mazzini, che si teneva allora celato in casa Pareto: Mazzini rimase atterrito. «Un intiero edificio costrutto con una difficoltà infinita, — scrisse a un amico — successo insperato fino a ieri, ed avverti che oggi era il giorno decisivo, venne abbattuto da un colpo di vento, a cagione di un naviglio sbattuto dalla tempesta, che gittò in mare il materiale e gli altri oggetti... Ce n'è da darsi la testa nel muro... »270 Che fare? Impossibile spiegar l'accaduto per telegramma; per lettera, sí, profittando del postale per Napoli che partiva nel pomeriggio; ma a chi affidare uno scritto cosí compromettente? Si pensò, al solito, al consolato inglese e la lettera, vergata in grandissima fretta, vi fu recapitata; ma il consolato era chiuso!

Fu allora che parlò la compagna di Pisacane. Essa aveva assistito con grande inquietudine a tutti i preparativi della spedizione, troppo generosa per dissuaderne il suo Carlo in nome del suo amore o dei diritti della piccola Silvia, troppo intelligente e sensata per non prevederne il tragico esito; aveva, per mesi e mesi, taciuto. Ora parlò con rude schiettezza.271 Non sapeva intendere come ci si potessero fare tante illusioni sulla serietà e l'entità dei preparativi compiuti dal Comitato di Napoli. E infatti, delle due l'una: o laggiú si andava organizzando davvero una vasta rivolta, e allora che bisogno poteva mai esserci di questa pericolosissima spedizione di pochi? O invece una spinta dall'esterno — cosí lieve! nessuno come lei poteva sapere quanto terribilmente lieve! — si riteneva proprio indispensabile, e allora che mai doveva pensarsi di quei preparativi? Il forzato rinvio, comunque, giungeva forse provvidenziale: già che occorreva ad ogni costo avvertire Fanelli, andasse Carlo in persona a Napoli, prendendo imbarco sul postale in partenza, e profittasse della gita per accertarsi della situazione effettiva. Troppo aveva detto e disdetto, promesso e ritirato il Fanelli: sí che soltanto dopo il controllo eseguito sul posto da Pisacane si sarebbe potuto risolvere in tutta coscienza se fosse il caso o meno di ripigliare il progetto.

Animata dalla segreta, umana speranza che Pisacane tornasse da Napoli deluso e sfiduciato, persuaso cioè come lo era essa da tempo, e come egli stesso s'era mostrato in passato, che il forzare con imprese avventate la dura realtà del regime borbonico, resistente a ben altre scosse, sarebbe stata pura pazzia; allucinata dal ricordo anche recente dei tanti che, scambiando lo stato d'animo proprio con quello di tutto un popolo, si erano invano sacrificati, essa non esitò un istante a esporre il suo compagno al pericolo immediato, che pur non si dissimulava affatto, di cadere nelle mani della polizia napoletana: Pisacane era disertore dell'esercito borbonico! Gli è che essa non agiva soltanto per fini egoistici: al rischio, supposto inutile, di molti, preferiva malgrado tutto il rischio corso da un solo, fosse quest'uno il suo caro, il padre di sua figlia, la ragione stessa della sua vita.

Senza indugio Pisacane accettò; e gli altri approvarono. «In due ore — attestò Mazzini nei Ricordi — ei decise; fece tutti i preparativi opportuni, abbracciò la donna del suo cuore, che si mostrò in tutto degna di lui, e partí. Era determinazione per lui piú grave dell'altra; era l'esporsi a tortura e a morte solitaria, senza difesa, non coll'armi in pugno e lottando. E nondimeno, chi lo vide in quelle ore avrebbe detto ch'ei s'avviava a diporto». Aveva infatti nel cuore una pace profonda: se la spedizione forzatamente mancava, non lui mancava; se il rinvio avesse malauguratamente prodotto, laggiú, una catastrofe, era ben giusto che travolgesse lui pel primo. Ma una voce interiore, ottimista, gli diceva che col suo arrivo a Napoli tutto si sarebbe appianato e il tentativo, a breve scadenza, si sarebbe potuto ripetere; chi sa mai, fors'anche gli si sarebbe rivelata la possibilità di una iniziativa immediata nella capitale; e in quel caso, nessun rinvio (pericoloso sempre) dei moti di Genova e Livorno.

Degno di Mazzini — che, vinto il primo smarrimento, era già pronto a ricominciare tutto da capo — Pisacane assicurava un amico che «accostumati ormai alle disgrazie ed alle delusioni, esse non ci scoraggiano — ma con maggiore pertinacia ci legano all'impresa».

Munito d'un passaporto falso, inosservato dalla polizia, s'affrettò dunque sull'Aventino in partenza.272 Il viaggio fu turbato da continue apprensioni; ancora da Civitavecchia, dove il postale faceva scalo, egli scriveva a Fabrizi: «se ci sarà fallimento non voglio rimproverarmi né debolezza, né mancanza di energia; ma soccombere con la coscienza degna di me e de' miei amici». Forse travestito, sbarcò incolume a Napoli, venerdí dodici giugno; si precipitò da Fanelli.273

Non appena ricevuto il famoso dispaccio, Fanelli, pur mal persuaso e sconvolto, aveva diramato nelle provincie l'ordine d'azione per il 13 giugno. Il contrordine fu adesso comunicato d'urgenza: ma ci volevano altro che ventiquattr'ore per giungere ovunque! Sí che, come si seppe di poi, all'indomani il lido di Sapri si mostrava insolitamente animato e la polizia borbonica notava, in varie località di provincia, segni di agitazione. Però niente di grave accadde, né tumulti né arresti.274 Si eran salvate le possibilità di un prossimo bis e insieme si era inscenata una sorta di prova generale del movimento nei piccoli centri lontani, della quale e Fanelli e Pisacane, un po' alla leggera, si dichiararon soddisfatti appieno. La complicazione piú grave provocata dal rinvio era costituita piuttosto, o cosí parve, dalle confidenze pur vaghe che nella imminenza del moto Fanelli aveva creduto di dover fare agli esponenti del partito moderato costituzionale275; vero è che in risposta alle sue sollecitazioni di aiuto o di benevola neutralità gli si eran prodigati molti no, se e ma; restava comunque il fatto, per niente rassicurante, che molta gente per principio contraria ai metodi rivoluzionari era ormai a conoscenza o subodorava il «segreto».

La sera del 13 il Comitato di Napoli tenne riunione in casa Dragone, presenti, oltre Pisacane e Fanelli, Giuseppe Lazzaro, Teodoro Pateras, Giovanni Matina, Antonio Rizzo, Luigi Fittipaldi, Raffaello Basile e Giuseppe De Mata. I convenuti, a ciascuno dei quali faceva capo l'organizzazione rivoluzionaria in questa o quella provincia, resero conto dell'opera svolta, presentarono nominativi e statistiche, esibirono l'intero carteggio scambiato coi rispettivi nuclei.276 Il problema da risolvere era il seguente: è in grado il Comitato di Napoli di suscitare l'insurrezione nel regno senza che a muovere gli animi intervenga dapprima il fatto nuovo, sensazionale dello sbarco dei fuorusciti e dei prigionieri? Si dovette concluder pel no. Pisacane riferí subito a Pilo: «non vi è nulla di concreto pel momento; vi sono elementi disgregati, né possono concretarsi in pochi giorni: contavano tutti sul fatto nostro».

Ritentare, dunque, la spedizione mancata? Pisacane, il giorno 14, si pone a valutarne in concreto le probabilità di riuscita: continua con le consultazioni con gli amici del Comitato, s'abbocca con moderati, scrive di nuovo alle isole.277 Il giorno appresso ha già ritrovato il perduto ottimismo, per quanto non ancora si senta di prendere una decisione in proposito. Scrive a Pisani: se la spedizione si farà, si farà con i duecentocinquanta fucili in meno; quaranta uomini armati, e basta. Ci sono speranze di successo a Ventotene, e i relegati accetterebbero questo piano ridotto? «Le cose sono in modo, che un impulso, una scintilla può produrre un incendio, questo è il mio convincimento morale...»

Il 16 giugno è la risoluzione finale: lo sbarco a Sapri avrà luogo, avvenga che può. Ultime istruzioni a Fanelli, agli altri membri del Comitato, piú o meno le stesse già concertate a Genova; unica variante essenziale, certo suggerita dalla poca incoraggiante esperienza fatta in quei giorni, quella di «evitare ogni discussione» coi moderati, «procedendo sempre ad assimilarsi gli elementi di azione,... opponendosi occultamente con ogni mezzo alle dimostrazioni. Cedere alle loro pretese di ammettere il grido di costituzione (perché l'avvenire è nostro) nel solo caso che da questo dipendesse il fare o il non fare immediato».

Contemporaneamente, Pisacane informa Fabrizi: «Ho trovato una gran quantità di ottimi elementi; e piú di quelli che assicurava il coscienziosissimo Kilburn (nome di guerra usato da Fanelli); manca (come egli dice) un centro intorno a cui questi elementi indissolubilmente rannodarsi; ma non vi è mezzo per crearlo ed a questo male che dipende da esuberante individualità, non v'è che un solo rimedio: che il nostro operosissimo si tenga strettamente unito con costoro, e si accrediti presso di loro coi mezzi che noi dobbiamo fare ogni sforzo per fornirgli... Ed ora è d'uopo, che io e lui (Fanelli) prefiggendoci come scopo lo stabilito, pieghiamo come si dovrà alle circostanze».

Fanelli subisce in pieno la suggestione ottimistica esercitata dal suo amico, e quella sorta di contagiosa serenità che ne emana si impadronisce di lui. Il 17 giugno, infatti, trasmettendo un biglietto di Pisacane — nel frattempo partito — assicura l'Agresti che dopo il disastro avvenuto «noi... non siamo men fermi nel nostro proponimento, e speriamo o col ripetere il progetto o con imprenderne qualche altro (che abbiamo pur da gran tempo ruminato e disposto) di venire sollecitamente allo scopo desiderato». Due giorni dopo, lettera a Pisacane: «...per carità, sbrigate l'opera vostra. I moderati ci stanno tendendo una contromina nella provincia. I murattisti si apparecchiano ad approfittare dell'opera nostra, bisognerà che agiamo di sorpresa... Tutto ciò che dovete sbrigatelo; io non credo che possiamo durare a lungo senza avere arresto, ed allora le faccende potrebbero rimanere sospese per un pezzo e con grave danno». Gli stessi appelli, febbricitanti, rivolge agli amici di provincia. «Tenete tutto prontissimo», raccomanda a Giacinto Albini (il 18); l'insurrezione non è che ritardata «di qualche giorno». Lo stesso scrive al Libertini (20 giugno): l'azione è «sospesa» per «pochissimo», bisogna «intanto giovarci della poca dilazione»; lo stesso al Magnone (22 giugno).

Ma non sarebbe stato Fanelli se quando poi Pisacane, tornato a Genova, gli annunziò l'imminente concretarsi dell'impresa, non ne fosse rimasto sbalordito addirittura e non avesse per l'ennesima volta maledetto il momento nel quale s'era messo in contatto con quel pazzo furioso.

 

Pisacane era ripartito da Napoli, per via di mare, il 16 giugno.278 Si sentiva tranquillo e pieno di speranza: il resultato piú importante del suo viaggio era stato quello di avergli permesso di rendersi conto pienamente, in anticipo, dell'immenso effetto morale che lo sbarco a Sapri avrebbe provocato in tutto il regno; i rivoluzionari napoletani, ricchi delle migliori intenzioni, ma incerti e indolenti, avrebbero indubbiamente reagito, di fronte al fatto compiuto, con quell'energia che spesso gli irresoluti dispiegano all'improvviso quando una travolgente forza esterna non lascia loro altra alternativa che quella di agire in una certa direzione o di passar da codardi. Del loro zelo antiborbonico non si poteva dubitare: bisognava dunque cacciarli per forza in questa via senza uscita. Altra certezza che egli portava via con sé era quella del fracidume dell'edificio borbonico, ritto ormai per sola forza d'inerzia. La piccola folla dei discordi rivoluzionari napoletani stava lí quieta a riguardare il palazzo; tutti architetti, perdevano il tempo a disputarsi l'accollo della demolizione, vantando ciascuno la superiorità del proprio progetto e delle proprie maestranze. Non intendevano dunque che al primo colpo di piccone un po' deciso l'oggetto delle chiacchiere loro si sarebbe sfasciato in un nuvolone di polvere?

Il vapore si staccava dal porto. Lontanava nel sereno orizzonte Napoli,279 la sua Napoli, per la quale Pisacane soffriva la nostalgia senza requie di tutti i figli del Vesuvio raminghi nel mondo: Napoli, dove aveva sognato i sogni della sua adolescenza, dove era nato il primo, l'unico amore della sua vita, dov'era la sua casa di un tempo, con sua madre, con la sorella sposata. Aveva potuto abbracciarle e rivedere il fratello ufficiale borbonico cui, pel tramite di Fanelli, aveva, alcuni mesi innanzi, mandato un suo messaggio? Chi sa.280

Patriota italiano, egli restava ancora e innanzi tutto napoletano: fiero del suo paese, lieto di sentirsi parte di quella folla variopinta, rumorosa ed espressiva, in mezzo alla quale si era mescolato ancora una volta, dopo dieci anni di assenza; fiducioso che quel popolo sobrio e paziente, ma all'occasione valorosissimo, fosse il piú degno in tutt'Italia e il piú pronto a dare il segno di una generale insurrezione per la libertà.

Via via che si dileguava nella distanza il volto materiale della città, doveva vibrare nella commossa imaginazione di Pisacane l'altra Napoli, quella delle sue speranze: Napoli insorta, la Napoli generosa ed eroica che la reazione del 15 maggio aveva soffocato; e, a Napoli insorta, il lieto affluire di volontari da ogni parte d'Italia, per ripigliar la guerra, dai Borboni malamente troncata nove anni innanzi.

Pensieri esaltati certo lo accompagnarono in quel viaggio, che alcuni giorni prima aveva compiuto in direzione opposta, il cuore turbato da miste speranze e timori.

 

A Genova il ritorno di Pisacane era ansiosamente atteso dagli amici: avevano passato, dal 9 di giugno, giorni d'inferno. La sera stessa della partenza dell'Aventino si era loro improvvisamente e dispettosamente presentata la possibilità di «rimbarcare altra partita di mercanzia», e cioè di non rimandare la spedizione neanche di un giorno;281 poi si erano accorti che la polizia piemontese stava ormai sull'avviso e, pure ignorando ancora che al governo francese si era da qualche ignoto giuda comunicata la cifra usata nella loro corrispondenza settaria, si eran persuasi che, con tanta gente a parte delle loro intenzioni,282 o si agiva entro pochissimi giorni o l'iniziativa era da considerarsi come senz'altro perduta.283 «Tento di fare il lavoro del ragno — cosí si esprimeva il 20 di giugno la formidabile volontà realizzatrice di Giuseppe Mazzini —; se poi tutto avesse a fallire, sarò costretto, non dirò contro coscienza, ma certo con molta riluttanza, a finirla con un coup de tête». Intanto nuove armi si eran raccolte e nascoste, altro danaro era affluito. L'ultima parola spettava a Pisacane.

Questi sbarcava a Genova il 19 di giugno, determinando addirittura un'esplosione generale di ottimismo; si sarebbe detto che avesse recato notizia della rivoluzione trionfante nelle Due Sicilie!

«Tornò trasfigurato e raggiante — scrive la Mario —:284 tutto era combinato nuovamente cogli amici a Napoli. Vinceremo, disse, basta una scintilla: da per tutto la mina è preparata, le comunicazioni stabilite, audaci i capi, sicuri i seguaci. La rivoluzione è nei cuori di tutte le classi colte; il napolitano andrà in fiamme. Il murattismo non esiste se non nella testa di Napoleone e de' suoi fidi di Piemonte. L'esercito sarà con noi, la plebe con chi vince». Presso a poco negli stessi termini scrive Nicotera. E Mazzini: «Tornò lieto, convinto, anelante azione, e come chi sente, toccando la propria terra, raddoppiarsi in petto la vita. Gli balenava in volto una fede presaga di vittoria. I nostri non lo avevano ingannato; non gli avevano celato le gravi difficoltà che si attraversavano alla riscossa; avevano ripetuto che un indugio le avrebbe spianate. Ma, al di là delle obiezioni pratiche, egli aveva veduto gli animi risoluti e vogliosi, il terreno disposto, il fremito dei popolani... e mi scongiurò di rifar la tela pel 25... Fui convinto...» A sentire il Carrano, Pisacane avrebbe, scherzando, asserito che perfino i cocchieri delle carrozzelle di Napoli erano ormai repubblicani convinti!285

In realtà fu un eccitarsi reciproco: ciascuno nutriva dei dubbi su qualche punto del vasto progetto, ciascuno, nel mentre si sforzava di dissipare gli altrui, si lasciava volentieri tranquillizzare sui propri. Mazzini ad esempio era certo di Genova, poco persuaso di Napoli; Pisacane, viceversa:286 a forza di discorrere assieme, ogni dubbio svaní. L'aver da mesi l'attenzione concentrata, e quasi gli occhi sbarrati, sul medesimo intento, tolse forse ad entrambi la necessaria calma, quel certo distacco che era necessario per valutare la situazione effettiva. È anche vero però che persone fino allora tenute all'oscuro di tutto, cui si svelarono all'ultimo i piani d'azione, dichiararono, dopo averne coscienziosamente esaminate le basi, di ritenerle serie e fondate; tale quel capitano di mare Danèri, cui venne offerto in extremis d'imbarcarsi sul Cagliari per assumerne il comando dopo avvenuto l'ammutinamento. In massima accettò lí per lí, ma poi si recò da Mazzini (nascosto allora in casa di suo fratello Francesco) e gli chiese: «Che fiducia avete voi in questa spedizione? non sarà una seconda spedizione dei fratelli Bandiera? Ed egli: al punto in cui sono le cose, giudicate voi se si deve tentare o no. E mi porse diverse carte dicendo; queste sono le ultime corrispondenze del Comitato di Napoli, sapete che oltre ciò Pisacane andò a Napoli travestito da prete (?) e ritornò piú entusiasta che mai. Letta la corrispondenza del Comitato, risposi a Mazzini: se la centesima parte delle promesse ed assicurazioni che dànno, è vera, noi siamo colpevoli per avere aspettato tanto».287

Non dunque fu il solo Pisacane che convertí gli altri all'azione immediata; furon tutti e nessuno, fu un qualche cosa che era piú forte di loro, una fatalità alla quale, inconsci, obbedivano tutti.

La partenza venne nuovamente stabilita pel 25 di giugno col piroscafo Cagliari; Pilo avrebbe preceduto di un giorno, con una flottiglia di barche, recando un nuovo seppur piú modesto carico d'armi; arrivo presunto a Sapri domenica 28. Lunedí 29 era S. Pietro, festività solenne; ed era parso importante che Pisacane, nel primo giorno di marcia all'interno, non avesse a trovare i paesi deserti, la gente tutta dispersa nei campi, al lavoro. Nella notte dal 28 al 29 sarebbero intanto scoppiate le insurrezioni di Livorno e di Genova.

Tremendamente affrettata la cosa, è vero, anche rispetto agli accordi che si erano stretti col Comitato di Napoli, ma in quegli stessi giorni non scongiurava lo stesso Fanelli che si facesse presto, il piú presto possibile? Fanelli venne avvertito alla prima occasione di postale in partenza, martedí 23; sí che al piú presto la notizia non poteva raggiungerlo che venerdí 26, all'indomani della partenza del Cagliari! «Gl'indugi — spiegò Pisacane in quella lettera che era la conclusione del loro lungo carteggio — (sono) impossibili per ragioni troppo lunghe ed inutili a dirvi. Io ho accettato, e perché accetto sempre quando trattisi di fare, e perché sono convinto che questo è l'ultimo gioco che per ora si farà, e se mai non cercheremo trarne tutto il profitto possibile, faremo tale errore, che verrà scontato con lunghissimo sonno...» E poi, con magnifica tranquillità: «Appena saprete il contratto conchiuso a Sapri, spedite quelle merci dispaccio. Finalmente se per caso in luogo di sapere la conclusione del contratto per le merci Sapri, venisse a vostra conoscenza un disastro nostro, spedite qui le merci dispaccio all'indirizzo medesimo, ma con questo altro cosí stabilito. La cambiale è stata rifiutata. Dunque queste merci significano disastro... Spero che la cosa vada, ma non possiamo esser certi di nulla, voi continuate a lavorare alacremente su quelle basi, giacché se per imprevedibili eventualità ciò non avesse luogo, il monopolio di Genova è inevitabile; e quindi la conseguenza immediata, è il nostro contratto, dunque, comunque vadano le cose, ritenete, che se il tutto non sfuma, la cosa avverrà con differenza di pochi giorni».

Pisacane si lusingava che Fanelli avesse, dopo la sua partenza da Napoli, sistemato le poche pendenze importanti che ancora restavano, e nella lettera glielo diceva; poi aggiungeva, a mo' di poscritto: «Se nella vostra che ricevo leggerò tutte queste cose, sarò contentissimo». Gli era dunque pervenuta, nel mentre scriveva, la lettera Fanelli del 19, la quale — come tutte le altre — andava decifrata; ma in essa, s'è visto, non c'era di concreto che l'invito a sbrigarsi, di tutto il resto ne quidem verbum.

Dal 23 alla partenza non giunse piú altro; sí che Pisacane, quando si mosse, si trovava nella situazione seguente: ignorava se i relegati di Ponza e Ventotene fossero disposti a dargli man forte, mancava di una carta o di un disegno di quelle due isole che servissero a indicargliene almeno gli edifici importanti, i depositi d'armi e gli appostamenti difensivi;288 non sapeva neanche con assoluta certezza se Fanelli avrebbe fatto in tempo a diramare in provincia l'avviso dello sbarco imminente. Sapeva solo una cosa, e su questa contava, che ad ogni modo a Napoli lo si sarebbe appoggiato con moti di piazza e con colpi di mano; né dubitava ormai dell'esito, di decisiva importanza, delle rivolte di Livorno e di Genova.

 

Il 24 di giugno — manca un sol giorno all'imbarco — Pisacane riunisce in una casa fidatissima — quella dell'ardente mazziniana Carlotta Benettini — l'intero «corpo» della spedizione (oh non son molti, entrano tutti in una stanza sola...), e a ciascuno consegna una pistola, uno stilo ed un berretto rosso; null'altro. Poi Pisacane va dalla White, la sola straniera addentro alle segrete cose, e le consegna alcune sue carte alle quali tiene di piú: non vuol che finiscano nei polverosi archivi di polizia. C'è una cara vecchia lettera di Carlo Cattaneo; ci sono alcuni ricordi, c'è soprattutto il suo Testamento politico. Jessie, commossa, promette di tenerli per sacri: promette di vegliare su Enrichetta e su Silvia.

Nel Testamento Pisacane ha tentato un'impresa difficile: quella di giustificare l'imminente suo gesto con le dottrine sociali e politiche già svolte nei Saggi. È il socialista che va volontario alla guerra e che partendo dice: morirò socialista. Il documento è breve, sdegnoso; il suo stile incisivo e sicuro, quasi a coprir con la forma la fragilità dell'assunto: ma chi legga attentamente e non si lasci trascinare dalla foga irruente del discorso (che scandalo quell'improvvisa uscita: «per me dominio di casa Savoia e dominio di casa d'Austria è precisamente lo stesso!») e dalla sicurezza apodittica degli enunciati, ben s'avvede che Pisacane non è riuscito a conciliare le antinomie del suo spirito.

Nella prima parte è il socialista determinista che parla e profetizza: «Io credo che il solo socialismo... sia il solo avvenire non lontano dell'Italia e forse dell'Europa... Sono convinto che le ferrovie, i telegrafi, il miglioramento dell'industria, la facilità del commercio, le macchine, ecc. ecc. per una legge economica e fatale, finché il riparto del prodotto è fatto dalla concorrenza, accrescono questo prodotto, ma l'accumulano sempre in ristrettissime mani, ed immiseriscono la moltitudine; epperciò questo vantato progresso non è che regresso: e se vuole considerarsi come progresso, lo si deve nel senso che accrescendo i mali della plebe, la sospingerà ad una terribile rivoluzione, la quale, cangiando d'un tratto tutti gli ordinamenti sociali, volgerà a profitto di tutti quello che ora è volto a profitto di pochi». È qui in pieno, si vede, la dottrina dei Saggi, con la medesima concezione della meccanicità del processo sociale, lo stesso schematismo semplicista, lo stesso catastrofismo: la rivoluzione sarà non tanto perché è giusto che sia, e neppure perché le masse lotteranno per imporla, ma semplicemente perché è inevitabile che sia, come resultato immancabile d'un contrasto di forze sfuggenti al controllo degli uomini. Nessun appello alle masse: determinismo puro.

Ma nella seconda parte del Testamento (che con un brusco «Sono convinto che l'Italia sarà libera e grande oppure schiava» immediatamente fa seguito al passaggio su riportato) Pisacane ci appare un altro uomo. Poiché, se egli vi riconferma la necessità d'una soluzione rivoluzionaria del problema politico italiano, subito aggiunge: «Ma il paese è composto d'individui, e poniamo il caso che tutti aspettassero questo giorno (della rivoluzione) senza congiurare, la rivoluzione non scoppierebbe mai». E poi: «Con tali principii avrei creduto mancare a un sacro dovere, se vedendo la possibilità di tentare un colpo in un punto, in un luogo, in un tempo opportunissimo, non avessi impiegato tutta l'opera mia per mandarlo ad effetto... Cospirazioni, congiure, tentativi, ecc. sono quella serie di fatti attraverso cui l'Italia procede verso la sua meta». La rivoluzione, adunque, potrebbe anche non essere; v'è, sí, in Italia un equilibrio instabile, ma per rovesciarlo occorrono colpi di maglio. Volontarismo, violenza: «Il lampo della baionetta di Milano fu una propaganda piú efficace di mille volumi scritti dai dottrinari». Dov'è lo scientifico autore dei Saggi? E come può egli, che attende la rivoluzione integrale dal maturarsi d'un processo economico, appassionarsi ai problemi cosí detti della libertà borghese? Se è vero che il socialismo è «il solo avvenire d'Italia», cos'è mai questa «meta» di cui adesso ci parla e per raggiunger la quale gli sembra che valga la pena di mettere a repentaglio la vita? È forse quella di conquistare ordinamenti liberi perché il popolo, godendone, acquisti le capacità necessarie a promuovere in un secondo tempo la rivoluzione sociale? Ma allora addio determinismo: l'avvento del socialismo sarebbe dunque condizionato alla volontà socialista del popolo!

Ad ogni modo, si vede, la contradizione è gravissima; cosí grave che sembra quasi legittimo dubitare che il socialismo testamentario di Pisacane, meccanica ripetizione di formole evidentemente già superate nel suo spirito, non abbia ormai altro valore che quello d'un ingenuo tentativo di salvataggio: salvataggio della sua coerenza ideale, compromessa dal suo atteggiamento politico. «Se mai nessun bene frutterà all'Italia il nostro sagrificio, sarà sempre una gloria trovar gente che volonterosa s'immola al suo avvenire». L'ex socialista Pisacane, adesso mazziniano esaltato, non farebbe dunque che continuare la tradizione, ormai lunga in Italia e tutt'altro che socialmente rivoluzionaria, di eletti campioni dei ceti piú alti, che periodicamente si sacrificano al bene supposto o reale di un popolo inerte; non altri egli sarebbe che il successore dei Bandiera, l'emulo di Bentivegna e dell'attentatore Milano. E nemmeno egli s'illude, col suo «colpo», di doventare «il salvatore della patria»: no, non altra missione egli rivendica a sé che quella di propagar la scintilla. «Giunto al luogo dello sbarco... per me è la vittoria, dovessi anche perire sul patibolo». Ma come è pessimista, «disincantato», remoto le mille miglia dal misticismo del Dio e Popolo, questo eroe mazziniano! «La propaganda dell'idea — scrive nel Testamento — è una chimera,... l'educazione del popolo è un assurdo. Le idee risultano dai fatti, non questi da quelle... se non riesco, dispregio profondamente l'ignobile volgo che mi condanna, ed apprezzo poco il suo plauso in caso di riuscita». Quando mai un gesto cosí profondamente idealistico come quello di Sapri fu preparato con maggiore freddezza e con meno illusioni?

In conclusione: è, questo Pisacane ultimo, un transfuga del socialismo, un disperato, un vinto?

Io non lo penso. Penso invece che il Testamento, vergato con mano febbrile, sia l'espressione di una profonda crisi interiore in pieno sviluppo; penso che esso avrebbe preluso, ove l'autore fosse sopravvissuto a Sapri, a una profonda revisione della sua concezione sociale e politica (cristallizzata nei Saggi) e propriamente nel senso, piú sopra adombrato, volontaristico. Di questa crisi, è vero, il Testamento non offre che incerte indicazioni; ma si confronti, in esso, la freddezza dogmatica con la quale son ripetute le formole socialiste ricavate tal quali dai Saggi, combattivo calore che anima i successivi passaggi sull'azione politica riservata a una minoranza decisa; si rifletta all'«ignobile volgo». Tutto si spiega, e le contradizioni s'intendono, se appunto si ammetta che Pisacane stia evolvendo in quest'ora (verosimilmente sotto l'influenza e l'esempio del piú volontaristico tra i grandi lottatori politici, Mazzini) verso un socialismo rivoluzionario antideterministico per eccellenza, fondato sull'azione diretta, e anzi sulla violenza esercitata nel nome e nell'interesse del popolo da una ristretta élite ardita e dinamica: socialismo d'un uomo d'azione che, avendo ricavato dall'esame scientifico della costituzione sociale la convinzione della fatalità economica della rivoluzione proletaria, intende poi come il processo vada sollecitato e moralizzato dall'azione sovvertitrice, se non del proletariato medesimo, dei suoi interpreti e rappresentanti. È insomma il socialismo d'un democratico senza illusioni; vogliam dire la parola moderna? D'un sindacalista rivoluzionario, d'un Sorel avanti lettera. Il passaggio, frequentemente ripetutosi di poi, è quello che dal mito dell'eguaglianza, della libertà assoluta e del livellamento di classi conduce pari pari a giustificare la violenta sopraffazione della volontà della maggioranza (che può essere anche non volontà) da parte di una minoranza auto-proclamatasi depositaria delle sue aspirazioni profonde; dal postulato della identità dei diritti alla enunciazione della missione privilegiata delle élites. Lotta contro l'adattamento, la cristallizzazione, l'immobilità: allenamento rivoluzionario delle élites, e loro rinnovamento attraverso l'affluenza di elementi nuovi via via staccantisi dalla gran massa amorfa.

Il sindacalista rivoluzionario moderno mira allo sciopero generale (paralisi dello Stato borghese) attraverso una serie di scioperi violenti di categoria; ma pur di sottrarre il ceto operaio alla pratica riformistica distruttrice del mito rivoluzionario aderisce magari alla guerra borghese. Pisacane a che mira, a che ha sempre mirato fin da quando, dopo il '50, s'è messo a pensare con la sua testa? A risolvere i problemi politici e sociali d'Italia con forze che siano originali italiane ed espressione di esigenze autentiche del corpo sociale italiano. Di fronte alla pratica riformista (azione dei principi), mietitrice di sempre nuovi successi, egli ha inteso la necessità non priva di urgenza di suscitare, dal corpo inerte della nazione, sussulti, scintille, affermazioni violente e spontanee di una potenziale sovranità popolare. Rivoluzione sociale, rivoluzione politica non son che vane parole se non presuppongono, se non si risolvono appunto in uno sforzo di liberazione interiore che muova dal basso, dal sottosuolo sociale, trovi espressione in élites rappresentative e si imponga come volontà di lottare. Per un rivoluzionario dello stampo di Pisacane il problema già tanto discusso dell'ordine di precedenza tra le due liberazioni, l'una dall'asservimento politico, l'altra da quella sociale, ha perso dunque ogni concreto interesse, poiché si tratta piuttosto di creare l'atmosfera favorevole ad entrambe, pregna d'intolleranza d'ogni giogo, satura di volontarismo, dinamica; di allenare frazioni sempre piú numerose della popolazione ad osare, a infranger barriere e divieti, a reclamare i diritti di libertà conculcati, ed anzi a conquistarseli con la violenza. Solo in un'atmosfera siffatta, solo partendo da queste premesse potranno gli italiani doventare un popolo libero. S'intende dunque come, per Pisacane, Sapri non costituisca che una delle tappe obbligate di questo itinerario, necessariamente assai lungo. E come ai sindacalisti rivoluzionari d'oggidí, tutti tesi verso il grande sussulto finale, riescono alquanto indifferenti le cause e le finalità contingenti dei singoli scioperi, cosí si spiega perché Pisacane assegni cosí scarsa importanza ai particolari d'esecuzione del suo progetto e perfino alle stesse probabilità maggiori o minori d'un suo successo. Gli «scioperanti» del Cagliari verranno aggrediti e sopraffatti dai «krumiri»? È ben possibile, è anzi assai verosimile; ma che importa? L'essenziale è di agire, di scuotere: scagliare il sasso nella morta gora. La catena di scioperi parziali, per sfortunati che siano, condurrà poi fatalmente al grande sciopero ultimo, alla liberazione integrale cioè delle masse asservite.

«Giunti al luogo dello sbarco per me è la vittoria». Non sembra adesso che questa espressione, scambiata sin qui per una volata romantica assai poco in accordo coi precedenti di Pisacane, acquisti un significato positivo e preciso? E che la sfida di lui morituro all'«ignobile volgo» perda quel carattere di odiosa sprezzante superiorità da un verso, di desolata disperazione dall'altro, che a tutta prima ci aveva colpiti, leggendo il Testamento politico?

Ma sia che si voglia interpretare quel documento come sintesi superficiale e affrettata d'un pensiero ormai tarato dalle contradizioni, sia che si voglia considerarlo, come a me pare piú giusto, quale espressione d'una cosciente crisi interiore in pieno sviluppo, certo è che mai un testamento — sinonimo di volontà estrema, chiara e sicura — dette al lettore, meno di questo pisacaniano, il senso consolante di una pace raggiunta e d'una verità, sia pure parziale, nella quale lo spirito abbia trovato la quiete.289

 

Lo stesso 24 di giugno, mentre il pensoso Pisacane dà in questo modo il suo addio alle lotte della vita, Falcone — ventitre anni — si congeda dagli amici con una breve lettera di commovente semplicità: diano essi il suo ritratto alla madre e dicano ai suoi fratelli «nel caso che non debba piú rivederli... essere mio desiderio che imitassero il mio esempio. Ei sono dotati di un'indole energica, e volendo son sicuro che faranno ciò che forse non potrò fare io medesimo». Nient'altro: solo le scuse per essere partito senza dare all'amico Sprovieri «l'ultimo addio!»290

Cuore saldo, questi giovani. «I vostri operai inglesi — disse alla White uno dei due Poggi,291 marinaio, imbarcandosi sul Cagliari — vedranno che i loro fratelli italiani sanno conquistare la loro libertà, o morire per essa». Dodici giorni innanzi, questi umili seguaci di Pisacane292 (non tutti, ché alcuni di essi vennero prescelti o si offersero nei giorni successivi), avevano firmato una commovente bellissima dichiarazione Ai fratelli d'Italia; chi la dettò?293 Non monta; essi la sottoscrissero e, consegnandola a persona di fiducia, espressero il desiderio che «quando che sia» venisse data alle stampe «perché il nostro popolo non disconosca i motivi che determinano la nostra accettazione». «Noi partiamo. Partiamo, non allettati da... speranze di guadagno e di gloria,... non costretti da invasione straniera o da crudele tirannide domestica... Cittadini di uno Stato comparativamente sicuro in Italia... tuttavia non ci sentivamo liberi e felici. Dal Nord e dal Sud ci giungeva il pianto e il fremito di genti schiave e martirizzate!... La coscienza ci dice: fino a tanto che 20 milioni d'italiani sono schiavi, non abbiamo diritto di essere liberi se non a patto di consacrare la vita all'emancipazione di tutti. La piccola patria di Genova e di Piemonte non ci basta piú... E perciò partiamo... Siamo ben pochi a tentare la prova, perché chi governa non ama l'Italia, e avversa chi s'adopra a liberarla... Noi, da un governo egoista e codardo siamo costretti a involarci fra le tenebre a guisa di contrabbandieri... La prova è difficile; il nemico che intendiamo assalire è forte...: la provincia, in cui speriamo piantare la bandiera Italiana, è abitata da gente buona ma ignorante, a cui forse si farà credere essere noi masnadieri o pirati scesi al saccheggio. Forse ci toccherà d'essere accolti, come il drappello dei Bandiera, quali nemici dei nostri fratelli. E sia pure! Poveri popolani, non abbiamo se non la vita da dare all'Italia, e di gran cuore l'offriamo... Se l'impresa riesce, secondateci, fratelli di Genova... Trasformate lo Stato Sardo in provincia italiana... Se cadiamo, non ci piangete... Se non ci è dato piú vedere le nostre Riviere bagnate dal mare, date una carezza d'affetto agli orfani bambini che lasciamo tra voi: educateli nella religione della Patria: raccogliete la bandiera che, nel morire, ci sarà sfuggita di mano; e se — libera l'Italia dalle Alpi al mare — vi sovverrà dei morti fratelli, ergete allora — non prima — a coloro che per la Patria hanno incontrato la morte, una tomba. Una tomba, in terra libera e per mani libere, consolerà le anime nostre. Viva l'Italia!»

La dichiarazione, si noti, fu scritta il giorno dodici: per tredici giorni dunque quei poveri popolani seppero tenere il tremendo segreto, pur vivendo la tumultuosa vita della grande città, fra tentazioni d'ogni sorta. Tredici giorni per ripensare le parole sottoscritte, valutare i pericoli dell'impegno assunto, ritrarsene, o guadagnarsi favori e compensi a mezzo di delazioni. Ma non fiatarono. Dei dodici firmatari, poi, tre furono uccisi, gli altri tutti, fatti prigionieri, intristirono a lungo nelle carceri borboniche. Che importa se, dopo mesi e mesi, fallito il grande disegno, alcuni di costoro, tra le gravi more del processone di Salerno, pensando alle famiglie lontane e in miseria, protestarono al giudice d'aver sempre ignorato lo scopo del viaggio? D'esser stati costretti, una volta attirati sul Cagliari, a eseguire nolenti gli ordini dei capi? Se uno affermò che gli s'era promesso, per indurlo a imbarcarsi, certo lavoro a Tunisi, e un altro che riteneva trattarsi d'una impresa di contrabbando? Troppo logico che ci si fosse accordati in anticipo perché i gregari, in caso d'insuccesso, venissero sollevati da qualunque responsabilità. Non altrimenti, del resto, si comportò il Danèri, cui convenne allora protestarsi innocente, e che solo piú tardi, caduto il Borbone, menò gran vanto del suo operato: i nove popolani superstiti, come accade, si tacquero, e nessuno per lunghissimi anni si ricordò in alcun modo di loro.294

 

Sereni e animosi fino all'ultimo, gl'impresari della «pazza» impresa, Pisacane, Pilo, Nicotera; ma come materiata di dolore, quella serenità, e con quanta disperata energia conquistata! Il loro sorriso brillava tutto di lacrime.

Pilo si era creato da tempo una famiglia illegale: la sua compagna, Rosetta, e un loro bambino. Era fragile, appassionata, egoista, — donna! — questa Rosetta; e tratteneva, adesso, disperatamente il suo uomo. Già l'anno prima, quando Pilo era partito per la Sicilia, essa aveva giurato di uccidersi; e l'aveva torturato come solo la donna che ama sa fare: «Io per te ho rinunziato alla stima di tutti, perfino a quella di mio padre (aveva infatti abbandonato, per seguir lui, il marito che non aveva mai amato); e tu mi lasci per non rinunziare alla stima dei tuoi amici...!» Questa volta Pilo ha tentato di farle credere che parte per vendere un quadro di grande valore; Rosetta dubita, esige giuramenti solenni. Quando sa il vero, n'è come infranta. Il 6 giugno — prima partenza di Pilo —: «Questa tua partenza mi ucciderà, te lo giuro — gli scrive — ma tu lo vuoi, sia; comprendo bene che tu mi malediresti, se io ti trattenessi; ebbene, io ti lascio libero. Rosolino, tu mi hai giurato..., che la notte del 17 giugno 1857 sarai in Genova. Bada di non mancare; se no non troverai piú me in vita». — Il martirio ricomincia, dopo il 20 di giugno; Rosetta vorrebbe salpare con lui! Ma poi si rassegna: basta che Rosolino s'impegni a ritornare al piú presto «per pietà del mio stato, di me, della tua povera Rosetta, che muore di amore, di dolore per te, che t'ama, t'ama alla follia; che per te muore»; il cuore impazzito le detta infine parole tremende: «Dio non è né può essere con la tua causa. Dio non permette le guerre civili, nelle quali il fratello uccide il fratello» — e allude spietatamente alla circostanza che un fratello di Pilo, come il fratello di Pisacane, è un borbonico reazionario!295 — «Tu ami tuo fratello come un tuo padre, e siete nemici di partito, e... fate la guerra tra voi. Se vince il tuo partito, è in pericolo la vita di tuo fratello; se la tua causa perde, ecco gli amici politici di tuo fratello faranno il possibile per darti in mano della polizia e fucilarti. E tu chiami questa una guerra santa? Oh, è un'infamia!...» Ma Pilo tien duro, riparte. E il 25 la povera donna gli scrive (chi sa dove!): «Io cerco di stare ridente per tema sempre che un mio sospiro possa comprometterti... lo crederesti? alla notte non dormo per tema di parlare nell'agitazione, nella quale mi trovo, e tradire in sogno il tuo segreto».296

Nicotera, che aveva nettissimo il presentimento di non piú tornare, s'era fidanzato, a Torino, con Gaetanina Poerio, figlia di Raffaele. Altra creatura fragile e innamorata, che la bufera schiantava. Sposatasi nel '60, essa diventò poi «donna politica» e divise gli ideali e i cospicui onori toccati al marito. Ma allora! Nel '59 — mentr'egli scontava in galera l'audacia — Gaetanina, rievocando il '57, freddamente scriveva a Pilo: «La parte profonda, che naturalmente io doveva prendere negli avvenimenti, in cui Giovanni era involto, fece sí ch'io fui messa a parte di molte cose... alle quali ero perfettamente estranea sia per convinzione, sia per altri riguardi. Non partecipo alle speranze ed alle opinioni di Giovanni... perché giudicando freddamente le cose veggo che sono impossibili a realizzarsi e che sono propugnate da pochi...»297

Pisacane, che aveva scritto il suo Testamento, che aveva disposto minutamente delle sue povere cose,298 lasciava Enrichetta, lasciava Silvia di appena quattro anni; e come le amava! Enrichetta, piú temprata, piú esperta, piú intelligente della compagna di Pilo o della fidanzata di Nicotera, non poteva neanche disapprovare in tutto la risoluzione di Carlo: aveva discusso con calma il pro e il contro, aveva suggerito il sopraluogo a Napoli, divideva gl'ideali di Pisacane; eppure avrebbe voluto, come donna, abbrancarsi disperatamente al suo caro che (essa lo sentiva come una certezza interiore) non sarebbe tornato piú mai, e rinnegare una fede prodiga unicamente di tanti dolori. Ma s'impose e riuscí a farsi forza. Di piú: s'offri, pel caso che la rivolta divampasse a Genova, qual direttrice delle ambulanze; come a Roma nel '49.299 Pisacane salpa, ed essa, come Rosetta, in una atroce eventualità ahimè fin troppo prevista, non potrà dirsi neanche sua vedova; «druda» di Pisacane la designeranno le spietate carte di polizia!

Anche in questa sua pagina estrema, la storia d'amore di Pisacane conserva la sua gelosa intimità: non una lettera loro, non un accenno d'altri ci restano per fissare nella nostra imaginazione quell'addio consapevole, che dovette pur essere infinitamente triste.300 Amore che aveva accompagnato tutta la vita di Pisacane, fin dalla lontana adolescenza; che aveva avuto i suoi splendori e le sue ombre presto dissipate, e la definitiva consacrazione, in Silvia. Amore dei sensi e dello spirito, fusione d'anime, illimitata confidenza reciproca. «Amore delle epoche di credenza», lo definí giustamente Mazzini, notando come i due amanti, anziché rinchiudersi in esso e ricercarvi la individuale felicità, ne avessero tratto una sempre piú viva e operante devozione a finalità collettive; e Mazzini fu a Genova, nel maggio e nel giugno del '57, intimo dei Pisacane. La sua parola assurge perciò a incomparabile testimonianza d'onore per Enrichetta cui, umana giustizia, neanche un raggio della postuma gloria di Pisacane visitò poi nei tetri anni di solitudine, ché anzi la sua povera vita parve, nel contrasto, farsi piú oscura e gelida: dimenticata da tutti.






p. -

250 Del clandestino traffico d'armi, che continuava, cosí dava notizia, il 2 giugno, l'Inviato inglese a Torino (Hudson) a lord Clarendon: «È giunto a mia cognizione che casse di moschetti si stanno trasportando da Marsiglia a Torino via Genova, e che vi è ragione di credere che queste casse, le quali a Genova vengono trasbordate ostensibilmente per Tunisi, siano in realtà spedite a qualche Stato dell'Italia meridionale. I moschetti, mi si assicura, non sono di buona qualità né si trovano in condizioni troppo buone» (Rec. Off., F.O., 67 | 226).



251 Le notizie sui «semi di Calabria» in lettera al mazziniano Bellazzi, che si conserva (inedita, credo) nella cartella Pisacane del Museo del Risorg. in Milano (n. 12707 | 25). La chiave della formola convenzionale nel carteggio P.-Fanelli, passim.



252 È FALCO, 268, che precisa, in base a documenti di polizia, l'indirizzo di P.; Danèri invece (PAOLUCCI, 1. c.) asserisce che P. abitava allora in via Edera.



253 Il racconto del Giannelli (che era reduce allora dalla relegazione scontata nel castello d'Ivrea) nel suo vol. Cenni autobiografici. Milano, 1925.



254 Hudson a Clarendon, Torino, 19 maggio 1857: Cavour lo ha informato «che una miss White la quale si è recentemente acquistata notorietà in Inghilterra per la sua calorosa propaganda delle dottrine repubblicane applicate all'Italia, è giunta a Genova, munita di calde raccomandazioni di Saffi, Mazzini e altri di quel partito; e che le teste calde, aderenti all'Italia del Popolo, hanno organizzato in suo onore una dimostrazione, durante la quale sono state emesse grida sediziose. Mettendomi al corrente di tali circostanze, il conte Cavour ha aggiunto che il Governo non vuole attribuire soverchia importanza al comportamento di questi sconsigliati; ma io ritengo mio dovere di richiamare l'attenzione di V. S. su quanto sta accadendo, per il caso che ciò provochi commenti in Austria o altrove, e altresí perché non è improbabile che la condotta di miss White finisca con l'obbligare il Governo Sardo a richiedere la sua partenza dal Regno» (Rec. Off., F. O., 67 | 226).



255 Hudson a Clarendon, 10 luglio 1857: Sulla fine di giugno Mazzini «andò a visitare miss White... che viveva in una pensione; in questa pensione si discuteva cosí apertamente e cosí rumorosamente di progetti rivoluzionari che un piemontese, alloggiato in una camera adiacente a quella di miss White, udendo di che si trattava, nonché grida di viva la repubblica, picchiò all'uscio e gridò viva il re» (Rec. Off., F. O., 70 | 293). Altro episodio venne narrato dal Times, 9 luglio 1857: giunta la W. a Genova, una Società operaia volle eseguire in suo onore, una notte di pioggia, una serenata sotto le sue finestre. Per il che, esprimendo la W. la sua gratitudine e complimenti per la perseveranza degli esecutori, «finí col dire che avrebbero fatto assai meglio, secondo lei, ad andarsene a casa per prepararsi a combattere per la loro libertà».



256 La lettera di Garibaldi venne dalla Mario (Vita di Garibaldi, I, 149) erroneamente attribuita al febbraio '56. L'errore venne corretto nel vol. postumo Birth of modern Italy, 139-40.



257 La White si era presentata ai P. munita d'una lettera di presentazione di Emilia Hawkes, in data 13 maggio (in parte pubblicata, ma con datazione inesatta, da FALCO, 268). La lettera prova i rapporti fraternamente amichevoli che correvano fra Enrichetta ed Emilia.

Ferme dichiarazioni filo-piemontesi aveva fatto Garibaldi, nel marzo, a P. in persona (Mazzini alla White, marzo 1857).

P. e Nicotera si erano conosciuti a Roma, nel '49 (MARIO, In memoria, 3).

Sul convegno di Torino, cfr Resoconto, 347, 357; CASANOVA, Sulla preparazione, cit., 511-513.



258 Sullo scorcio del '56, Nicotera — su mandato generico di Cavour — si era preparato a compiere un viaggio di... esplorazione in Sicilia, poi andato a monte in séguito al fallimento del moto Bentivegna. — Da una lettera della White alla Biggs, stampata da FALCO, 283, nasce ora il sospetto che anche l'adesione di Nicotera al piano di P. fosse stata in qualche modo consigliata o autorizzata da Cavour. Scriveva infatti la W. (sdegnata pel contegno del governo sardo dopo la catastrofe di Sapri): «Chi potrebbe mai imaginarsi che quelle stesse Autorità, che diedero un compagno all'eroe che partí per morire per l'Italia, ordinino...» ecc. È desiderabile che ulteriori ricerche fra le carte di Cavour, o meglio di La Farina, chiariscano la questione, finora assai oscura, e di superlativo interesse.



259 La lettera di Nicotera a Garibaldi, del 1864, pubblicata da CASANOVA, dà notizie precise sull'incontro P: Garibaldi, a Genova, nel giugno '57. Nicotera aggiungeva che P. era tornato cosí entusiasta dalla sua gita a Napoli (v. nel testo, a pag. 272 sg.) da vincere «tutte le opposizioni che voi (Garibaldi) facevate per far precedere il tentativo di Genova alla spedizione». Garibaldi fautore dell'insurrezione genovese? Ecco qualcosa di assolutamente nuovo, smentito da tutte le altre fonti.



260 Cfr. le correzioni di Mazzini al proclama pisacaniano in PALAMENGHI CRISPI.



261 L'accenno a Dio e Popolo suonava cosí: la rivoluzione si farà «non per passare da un padrone a un altro, ma per non avere padroni fuorché Dio in cielo e il Popolo sulla terra».



262 Sul convegno di Genova, BILOTTI, 127 sg.; PUPINO-CARBONELLI, 135.

Nell'inviare per l'appunto il Falcone a Genova con la missione di ispirare prudenza a P. e Mazzini, Fabrizi rivelava invero ben povere doti di penetrazione psicologica! Ché piú ardente e generoso giovane non era facile trovare. Del resto le ultime parole che, nel salpare da Malta, Falcone gli aveva rivolte, avevano procurato al Fabrizi (lo raccontò lui stesso) un triste presentimento: non gli aveva infatti detto il Falcone che avrebbe sí ottemperato all'incarico, ma «avendo luogo l'impresa in qualsiasi momento, vi si sarebbe gettato con tutta gioia»?



263 Sulle opinioni di Saffi, v. i suoi Cenni ecc. a proemio del vol. IX degli Scritti di Mazzini, ed. Daelli, CXXXV-VI; su quelle di Crispi, le sue Lettere dall'esilio; su quelle di Musolino, la cit. sua lettera a Ricciardi, 11 luglio '57; su quelle di Bertani, MARIO, I, 242.



264 P. insisté moltissimo anche sul pericolo murattista che, a suo avviso, prendeva corpo ogni giorno di piú (cfr. la deposizione Fabrizi al processo di Firenze, in Resoconto).



265 Si scelse la data del 10 di giugno posto che i vapori per Cagliari-Tunisi partivano da Genova il 10 e il 25 di tutti i mesi.



266 I particolari sulla navigazione della goletta da lettera di P. ad Agresti, 16 giugno '57 e da un memoriale di Pilo pubblicato da PAOLUCCI. Danèri invece narrò le cose altrimenti; ma egli non era fra i compagni di Pilo, e d'altronde le sue asserzioni vanno sempre accolte con ampio beneficio d'inventario (specie laddove si riferiscono all'opera da lui personalmente prestata).



267 Sul contegno di Cosenz, cfr. la severissima lettera di Mazzini alla Hawkes, 30 nov. '57; e anche Pilo a Fabrizi, 16 giugno '57, e P. a Fanelli, 9 giugno. FALCO (270-71) argomenta che a Cosenz fu facile ritirarsi dall'impresa perché non lo si era mai tenuto troppo al corrente. Orbene, se è vero che il 1° aprile P. aveva scritto a Fanelli che C. «non vuol saper nulla, dice che le cose prese a lungo non riescono, vuol saperlo solo al momento del fatto», è anche vero che, il giorno precedente, lo aveva esplicitamente assicurato che C. avrebbe partecipato alla spedizione (cosí anche a Fabrizi, 21 aprile; e Fanelli a Fabrizi, 28 maggio). La lettera P. a Cosenz, 17 maggio, che qui si pubblica, elimina d'altronde ogni incertezza in proposito. C. era piú che informato e si era solennemente impegnato a partire. Strano, comunque, che con la prospettiva imminente di doversi recare a dirigere l'insurrezione napoletana, C. non si fosse curato di stabilire rapporti diretti con gli uomini del Comitato di Napoli!



268 SAFFI, l. c., CXXXVII sg., riporta le parole da P. rivolte, l'8 di giugno, ai suoi seguaci, ricavandole da una memoria inedita di Giovanni Gagliani, milanese, un di costoro.



269 Sul temperamento nervoso di Pilo (malato anche di convulsioni) v. ROMANO-CATANIA, Del Risorgimento d'Italia, Roma, 1913, 92; MARIO, In memoria, 9.



270 La lettera di Mazzini 10 giugno '57, che non vedo riprodotta nella Edizione nazionale, in Resoconto, 568-69. Era indirizzata a C. F. (Campanella?), e venne sequestrata alla posta di Parigi.



271 Le parole di Enrichetta in PAOLUCCI, 216-17, il quale sfrutta appunti di Pilo.



272 Il passaporto usato da P. era quello stesso che si era preparato per Cosenz, intestato a Francesco Danèri.

Qualche informazione sul viaggio di P. giunse, è vero, alla polizia napoletana; ma troppo imprecisa. Scriveva infatti il Carafa (Incaricato del portafoglio degli esteri) al Direttore di polizia, il 15 giugno: «Mi si assicura... esser partito per Cagliari il noto Carlo Pisacani» (sic). (Archivio di Stato, Napoli, Min. di Polizia, f. 551). La polizia non si curò di indagare. Sí che non solo ignorò allora la presenza di P. in Napoli, ma ostinatamente continuò a smentire che egli vi si fosse recato, anche quando, all'indomani di Sapri, venne richiesta di spiegazioni in proposito dall'autorità giudiziaria. In un suo rapporto 11 dicembre '57 il Procur. gener. Pacifico scriveva infatti: «Quantunque la Polizia di Napoli sostenga che il P. non sia stato in Napoli poco prima di effettuare l'insensata spedizione, pure non è del pari ciò chiaro per l'istruzione» (Resoconto, 663). — Il Carafa, oltre alla notizia sulla partenza di P. aveva comunicato alla Polizia altre informazioni sull'imbarco di armi compiuto dal Cagliari, con dichiarazione per Tunisi, osservando che «trovandosi tra le armi un numero non indifferente di tromboni, arma inusitata fra gli arabi, conviene dedurne, che abbia un tal fatto uno scopo rivoluzionario» (l. c., lettere 15 e 20 giugno 1857).



273 Che P. ricorresse, per sottrarsi alle grinfie della polizia, a qualche travestimento, è abbastanza probabile; ma certo non si tagliò la barba né si travesti da prete come pretesero Catapano e Venturini, due imputati al processo di Salerno, che svesciarono al giudice quel che sapevano e anche quel che non sapevano (Archivio di Stato, Napoli, Min. di Polizia, f. 551: Rapporto telegrafico dell'Intendente di Salerno al Dir. di polizia, 4 luglio 1857), e poi Danèri (RONDINI, 166) e COMANDINI, L'Italia nei Cento anni ecc., ad diem. Ché con la sua barba solita partí da Genova pochi giorni appresso, e a Napoli giunse qualificandosi «Francesco Danèri, genovese, causidico» come si rileva dal Giornale del Regno delle Due Sicilie, Napoli, 20 giugno 1857 (arrivi di venerdí 12 giugno).



274 Niente di grave accadde nel regno di Napoli il 13 giugno per la ragione assai semplice che gli elementi rivoluzionari della provincia erano ben decisi a non muoversi se non dopo aver ricevuto notizia di movimenti già scoppiati e affermatisi altrove. Ciascuno si proponeva di seguire l'iniziativa altrui, nessuno di assumerla! Tipico, a questo proposito, quel che scriveva Magnone a Fanelli, 6 giugno: «Salerno non vuol muoversi se non vede prima rivoluzionato il regno intero e disfatto interamente il tiranno». E da questo punto di vista tutte le città e i paesi del regno si chiamavan Salerno!



275 Sui contatti tra Fanelli e i «trattenitori» (gli elementi piú moderati) cfr. la sua lettera a Fabrizi, 12 giugno '57.



276 Era la casa di Dragone, tutta fori e nascondigli, che custodiva l'archivio del Comitato.



277 Secondo il Times, 8 luglio '57, P., nella sua visita a Napoli, si sarebbe procurata perfino «l'opportunità di esaminare l'arsenale».



278 La data di partenza di P. da Napoli (fin qui precisata nel 17 o nel 18 di giugno) si ricava dal cit. Giornale del Regno delle Due Sicilie, 25 giugno 1857.

Le autorità sarde non vennero a conoscenza del viaggio di P. che dopo il disastro. Hudson, informato da Cavour, scriveva a Clarendon il 10 di luglio che «il colonnello Pizza Cane (sic)... aveva visitato due volte, recentemente, gli Stati Napoletani» (Rec. Off., F. O., 70 | 293). La versione, infondata, della duplice visita venne piú tardi ripetuta da FOSCHINI, op. cit., 38.



279 Non mi si giudichi pedante se, a tranquillizzare il lettore piú scrupoloso, assicuro di aver ricavato la notizia del tempo bello regnante a Napoli il 16 giugno dal Bollettino meteorologico, stampato sul Giornale del Regno delle Due Sicilie, 25 giugno 1857!



280 Scriveva Fanelli a P., 26 marzo '57: «La mia posizione di latitante non mi permette tutto quello che vorrei. Non so se potrò giungere sino a vostro fratello, ma cercherò».



281 Alle nuove possibilità presentatesi ai rivoluzionari di Genova la sera del 9 di giugno accenna Pilo (a Fabrizi, 16 giugno '57).



282 Il governo piemontese era stato ripetutamente ammonito da quello francese di stare in guardia contro un'imminente insurrezione che sarebbe scoppiata a Genova; da Torino si era risposto che si era pronti a tutto e che la polizia di Genova vegliava. Ma se vien voglia di dire che questa chiuse un occhio sui preparativi dell'insurrezione locale, forza è concludere che li chiuse tutti e due sui preparativi della spedizione. Proprio il 10 giugno '57, ad es., l'Intendente di Genova tranquillizzava il Ministro dell'Interno cosí: «lo scrivente si pregia di partecipare... non apparire alcun indizio che vogliasi qui tentare qualche movimento insurrezionale, né, da indagini fatte, risulta che Mazzini sia nascosto in Genova». (Archivio di Stato, Torino, Materie politiche interne in genere, m. 17). E il governo francese seguitava a sequestrare lettere di Mazzini da Genova! (Resoconto, 460). Non del tutto immeritata giunse a Cavour, dunque, all'indomani di Sapri, l'aspra nota napoletana, rinfacciante all'indignato conte gli avvenimenti «che avrebbero certamente potuto evitarsi con tenersi conto dei noti preparativi che li hanno preceduti, come conviene ai governi che vogliono mantenersi all'altezza della loro propria dignità e posizione». Cavour, si sa, respinse la nota.



283 È impressionante osservare quante persone piú o meno amiche di P. attestino di averlo dissuaso dall'impresa, della quale, dunque, avevan contezza. D'AYALA (Mem., 235) «adoperò tutti gli argomenti che seppe per sconsigliarla»; Macchi lo stesso; Bertani, si sa (è vero che poi, avvenuto il disastro, riconobbe nell'animoso P. «il prode dei prodi»: cfr. I Cacciatori delle Alpi nel 1859, in Il Politecnico, 1860, 291); Musolino, Cadolini, Calvino, idem; Sprovieri scriveva a Fabrizi il 4 agosto '57: «De Dominicis, Mazziotti, Carducci ed altri, fin dal primo momento che seppimo essersi scelto Sapri per luogo di sbarco, dubitammo dell'esito dell'impresa e ognuno può attestarvi che prima dell'esito noi facemmo questi discorsi» (MAZZIOTTI, 361, 362). Perfino Guerrazzi era informato dei disegni sulla Toscana e su Napoli (lettera 8 giugno '57 al Mangini).



284 Le parole della MARIO nel suo In Memoria di Nicotera, 6-7. — Tornato da Napoli — scriveva a Bertani e ad altri il Mazzini il 27 nov. '57 — P. «mi scongiurò di rifare pel 25». — La versione di Nicotera nella cit. lettera a Garibaldi del 1864; un po' diversamente egli si era espresso nei suoi interrogatori di Salerno, è vero, ma unicamente per motivi di difesa.



285 Sullo stato d'animo di P. di ritorno da Napoli, v. anche SAFFI, l. c.; S. attinse a una relazione di G. Profumo, testimone oculare.



286 In una lettera del 20 luglio '73, Musolino asserí, quanto alla spedizione di Sapri, «che non solamente Mazzini la sconsigliò aspramente, ma che fu P. che volle eseguirla ad ogni costo, ed in questa occasione la ruppe con Mazzini» (RAULICH, 458). Esagerazione, né piú né meno che l'altra diceria riportata, già l'8 luglio '57, dalla torinese Gazzetta del Popolo, secondo la quale il colonnello P. era niente affatto d'accordo con Mazzini a proposito del tentativo su Genova... P. glie ne lasciò l'intiera responsabilità, senza romperla con lui perché aveva bisogno di ottenere alcuni uomini, fucili e danari per il suo tentativo su Napoli».



287 Il racconto di Danèri, infarcito d'inesattezze, in RONDINI.



288 P. non disponeva che di pochissimi appunti e schizzi pseudo topografici, poi repertati sul suo cadavere: tra di essi una «pianta delle Isole di Napoli», e «un pezzo di carta che contiene notizie riguardanti il porto di Ponza» (Resoconto, 722). In piú, un Prospetto delle operazioni a farsi nello sbarco di Sapri (LACAVA, 213-14).



289 La pubblicazione del Testamento di P. — comparso la prima volta nel Journal des Débats, luglio '57, e poi in traduzione nei giornali piemontesi e in quelli inglesi — sollevò grande scalpore. I piú, anche tra gli amici di P., ne deplorarono il tono; e la White, alla quale ne venne attribuita la prima pubblicazione, buscò generali rimproveri (BERTANI, I, 245). Cavour, che negli avvenimenti del '57 vide l'occasione opportuna per screditare definitivamente il mazzinianismo in Italia, accolse invece il Testamento quasi con gioia (Nuove lettere, ed. Mayor, 550); e il Boldoni insinuava addirittura che il governo piemontese avesse procurata la maggior possibile diffusione del Testamento; certo, aggiungeva, esso ha prodotto «cattiva impressione sul pubblico» (MARIO, Bertani, I, 246). «Un'assai sinistra impressione», precisava Macchi, a Cattaneo, 1° agosto '57. La clericale Armonia non si lasciò naturalmente sfuggir l'occasione per stillare un Avviso ai proprietari (già cit.), nel quale, more solito, i radicali principii pisacaniani venivano estesi a tutto il movimento liberale italiano, con imaginabili deduzioni... Il Morning Post — pubblicandolo in parte il 24 di luglio — cosí lo commentava: «L'insieme di questo documento è caratterizzato da uno sforzo di esaltata logica, che dimostra come il pover'uomo fosse travagliato da un eccitato stato mentale, e insieme comprova l'odio profondo nutrito da tutti i cospiratori e i radicali verso il governo piemontese». Il Times, 28 luglio, offriva ai suoi lettori il Testamento qual «prova di che sia capace un rivoluzionario integrale... Per noi inglesi è quanto mai sorprendente vedere energia, coraggio indomabile, e ferma tenacia di propositi basata su sogni nei quali a fatica imaginiamo che alcuno possa credere sul serio». Al Times pareva incredibile addirittura come gli «ultra» di tutta Europa potessero considerare male abominevole tutto ciò che valeva a render la gran massa rassegnata al proprio stato e aliena dalle rivoluzioni, inconcepibile che per siffatte teoriche si potesse trovare alcuno disposto a giocare la vita. — Del resto, ancor prima che il Testamento vedesse la luce, venne da taluni insinuato che quella catena di moti insurrezionali avesse carattere e finalità socialisti. Il Cittadino, Asti, 7 luglio, scriveva ad es. aver Mazzini lavorato «coll'aiuto della Marianna... si voleva la distruzione, ed il saccheggio per odio alle famiglie agiate»; e il Cattolico, Genova, ascriveva il moto genovese alla «rapacità socialista».



290 La lettera di Falcone (a Vincenzo Sprovieri, 24 giugno) in BILOTTI, 422.



291 I due Poggi lasciavan la madre, coraggiosa donna, che assisté poi al processo di Salerno e rese preziosi servizi ai vari coimputati (Resoconto, 176).



292 Degli umili seguaci di P., v. notizie e nomi in BILOTTI; Resoconto, passim; SAFFI, l. c., CXXXVIII; MORANDO, Mazziniani e garibaldini, Genova, 1931; GIANGIACOMI, Anconitani precursori dei Mille, Ancona, 1910.



293 Per robustezza di stile, per virile concitazione, per le doti tutte di questo magnifico scritto, inclinerei ad attribuire a Mazzini la paternità della dichiarazione Ai fratelli d'Italia.



294 Di Lerici eran molti dei marinai seguaci di P. Significativo perciò quel che il 6 novembre '57 scriveva il Comandante dei Carabinieri reali, da Torino, al Ministro dell'Interno, essersi trovato, cioè, il giorno d'Ognissanti, affisso sulle cantonate di Lerici il seguente stampato: «Non di lagrime — Ma di virili propositi — Oggi la memoria dei prodi — Che per la Italia morirono — Reverenti onoriamo — A. Milano, B. Bentivegna, C. Pisacane — Fortissimi — Aspettano vendetta — Per la patria e per sé — Per le ossa dei martiri — Seminate sulla terra — Che nostra lo straniero — Ci toglie giuriamo — Trucidare i tiranni» (Archivio di Stato, Torino, Materie pol. interne in genere, m. 17).

Alcuni fra i componenti della spedizione da Genova, superstiti di Sanza, usciti nel '60 dalla galera, combatteron poi con Garibaldi: e tre restaron feriti, due vennero uccisi! (MARIO, Camicia rossa, 15 sg.).



295 Il fratello di Rosolino: Ignazio Pilo.



296 Le lettere di Rosetta in LABATE, op. cit.



297 Il 2 febbraio '61, ad es., la Nicotera, in veste di promotrice della sottoscrizione per Roma e Venezia, scriveva, con altre Signore, a Garibaldi, una lettera che si conserva a Milano, Museo del Ris., Archivio garibaldino, c. 554.



298 Lo stesso 24 di giugno — alla presenza di Lorenzo Montemayor, Pasquale Mileti e Federico Salomone — P. faceva dono di tutti i suoi libri a Enrichetta «perché dovendo partire per la Sardegna faceva cento di non piú ritornare in Genova» (FALCO, 279).



299 Dell'intenzione di Enrichetta di occuparsi delle ambulanze si ha notizia da una Memoria del Colonnello dei Carabinieri, Arnulfi, al Giud. Istruttore di Genova, 6 luglio 1857 (Genova, Museo del Risorgimento).



300 Secondo il Danèri l'estremo saluto di P. a Enrichetta avrebbe contenuto anche un accenno alla scena piuttosto violenta dell'ultima notte (quella dal 24 al 25 di giugno), durante la quale essa avrebbe investito P. dicendogli che aveva sí il diritto di ammazzarsi, ma non quello di sacrificar tanti giovani. Che tale fosse il pensiero di Enrichetta, sappiamo di già; che fra i due nascesse in proposito una scena violenta, escludiamo. Preferiamo credere alle altre fonti concordi, che ci dipingono Enrichetta degna fino all'ultimo istante dell'ardimentoso sacrificio del suo compagno, piuttosto che a questo loquace miles gloriosus, non d'altro sollecito, nel suo racconto, che di attenuare a suo pro il merito dei suoi compagni di spedizione, o di spargere pettegolezzi sul conto loro.

 

Capitolo XI.





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