Capitolo
undicesimo Fine
Havvi
un'altra chimerica idea sparsa in Italia. Sognano alcuni che fra un
gruppo di montagne, anche un pugno di giovani arditi, potrebbero
difendersi contro un prepotente nemico. Ma in primo luogo, la guerra
rivoluzionaria essendo d'offesa e non già di difesa, cosí
operando mancherebbesi al fine prefisso; inoltre, tal genere di
guerra può combattersi solamente da coloro che abitano in
questi monti... Ma può combattere in tal modo gente a cui
siano nuovi i luoghi, e che non possegga neppure una capanna, neppure
le vettovaglie necessarie per un giorno?
Saggi,
IV, 143-144
«Questa volta — scriveva Pilo a Fabrizi alla vigilia
d'imbarcarsi col nuovo carico di fucili e munizioni — m'auguro
che si sarà piú fortunati. Per Dio! Non credo che si
debba una seconda volta scatenare un diavolerio tale da farci mancare
all'impresa».
Il tempo fu, invero, galantuomo; ma
Pilo e i suoi diciassette compagni, fissando per le ore della notte e
per un punto a 30 miglia al largo di Sestri il ritrovo col Cagliari
dimostrarono ahimè di avere appreso meno che niente dalla
prima esperienza fallita: le poche barche a remi sulle quali, la sera
del 24, essi presero il largo, non disponevano neanche dei piú
elementari strumenti di orientamento! Al Danèri, tecnico
navale, nessuno aveva chiesto consiglio.
Nel pomeriggio di giovedí 25
partirono quelli del Cagliari.301 S'imbarcarono alla
spicciolata, ostentando di non conoscersi fra loro; alcuni hanno il
biglietto per Tunisi, altri (come il «possidente»
Pisacane e l'«avvocato» Nicotera) per Cagliari; piú
d'uno viaggia sotto mentite spoglie: Falcone ad esempio è il
sig. Giuseppe Capatti.302
Allegria generale. Mazzini, che li
abbraccia uno per uno, resta colpito dal «sorriso di fede
ignara del tempo» che lampeggia sul volto di Pisacane: lo
stesso sorriso che lo ha stretto a lui «nel primo nostro
colloquio a Roma». Eppure, nessuna notizia da Napoli! Ma
Pisacane tranquillamente ripete: «S'io riesco ad eseguire lo
sbarco, se non mi arresta qualche vascello da guerra del Borbone,
potete ritenere sicuro il buon successo, e certo il trionfo della
rivoluzione».
Sale a bordo, per salutare i partenti,
un gruppetto d'amici: tra gli altri Jessie White; anch'essa, che reca
a Nicotera «un fervorino pei macchinisti inglesi a bordo del
Cagliari»,303 resta ammirata del sorridente
aspetto, della maschia risolutezza di quei trenta giovani.
Altri complici e amici — e forse
Enrichetta tra loro — spiano ansiosi dall'alto della collinetta
del Carignano la partenza del vapore. Si è notato che la
vigilanza della polizia sulle banchine è stata intensificata
in quei giorni; si teme (qualcuno forse lo spera in cuor suo?) che
nasca qualche trambusto, prima del levar delle àncore.
Niente: gli ufficiali di sanità
discendono tranquillamente a terra, il Cagliari (sono le sette
pomeridiane) finalmente si stacca; dal Carignano se ne segue con
emozione la rotta, finché la nave non si cela nell'orizzonte
brumoso.
Venerdí 26 fu giorno di passione per Mazzini e i suoi
complici trattenutisi a Genova. Bruciava nelle loro mani il
telegramma convenzionale da spedirsi a De Mata: solo al ritorno delle
barche si sarebbe potuto sapere se l'ammutinamento a bordo era
riuscito, e queste non tornavano mai! Spedir senz'altro il dispaccio?
Aspettare ancora? Nell'uno e nell'altro dei casi si correva un
pericolo grave, quello di scatenar la sommossa nel napoletano senza
l'appoggio della spedizione, o di esporre Pisacane a sbarcare
inatteso.
«Fin ora non ho notizie esatte —
spasimava Mazzini in un biglietto alla White, la sera inoltrata di
quel giorno —. Ma tutto fa credere che le barche e il vapore
non si siano incontrati. Se il vapore è nostro, a Pisacane
mancheranno 19 uomini, 100 fucili ecc. Tuttavia è uno di quei
passi dai quali non si può tornare indietro; e se hanno agito,
qualcosa debbono tentare; è delitto di pirateria, il
loro. Se le barche avessero incontrato il vapore, le piú
piccole sarebbero ritornate di pieno giorno; il non esser giunte
dimostra che, cariche come sono di uomini e di fucili, non osano
venire se non di notte... Questa fatalità... è
veramente troppo grave da sopportare per un uomo; tuttavia, la
sopporto...» Non aveva suggellato la lettera che gli toccò
aggiungere, con la morte nel cuore; «No; non si sono
incontrati».304
Come il 9 di giugno, ma disfatto
questa volta, preda di una violentissima crisi nervosa, era tornato
Rosolino Pilo: nonostante l'accensione di razzi luminosi e di fuochi,
nonostante che le barche avessero perlustrato durante tutta la notte
la zona stabilita, nessuna traccia s'era trovata del Cagliari!
Colpa del vento, che aveva soffiato furioso, e forse inavvertitamente
spinto a deriva le barche?305 Pilo non riusciva a
spiegarselo. Si era dovuto comunque passar la giornata al largo, per
poi, dopo il tramonto, approdare al promontorio di Portofino e
nascondervi alla meglio, in caverne, le casse dei fucili.306
Che n'era dunque di Pisacane? Pilo
vedeva terribilmente nero:307 secondo lui, era il disastro
definitivo. Mazzini poi! Raddoppiavano in lui le incertezze per
Napoli, per Livorno e per Genova.
Ma ecco, il mattino del 27, a
rianimare le cadute speranze, un telegramma convenzionale da
Cagliari: il postale, atteso in giornata del 26, non v'era giunto.
Segno certissimo che Pisacane non s'era dato per vinto, dopo il
mancato incontro. A precipizio allora venne spedito — ma era
assai tardi! — l'avviso a De Mata, e si confermarono gli ordini
per Livorno e per Genova.
Mazzini, pur dubitoso che Pisacane
potesse, con quei pochissimi mezzi, eseguire il suo piano, andò
pian piano ricuperando la calma abituale: il grande giuoco, e forse
il giuoco finale, stava per iniziarsi.
L'ammutinamento a bordo del Cagliari
era infatti perfettamente riuscito, appena un'ora dopo la partenza da
Genova.308 Quattro urlacci (Italia, libertà,
repubblica) dei congiurati, radunatisi all'improvviso in coperta,
pistola alla mano, berretti rossi in capo,309 e il capitano,
Sitzia, piú morto che vivo dallo spavento, s'era lasciato
tradurre dal ponte di comando in cabina, dove l'avevano lasciato con
una sentinella alla porta; il resto dell'equipaggio, macchinisti
inglesi compresi, aveva ceduto con marcata sollecitudine
all'intimazione degli ammutinati di non tentar resistenza di
sorta.310 Quanto al Danèri, egli aveva finto benissimo
di cedere a una sopraffazione inaudita quando s'era piegato ad
assumere, lui semplice passeggero, il comando della nave.
Il cambio della guardia, bisogna
convenirne, non avrebbe potuto svolgersi piú incruento e
pacifico. Ad aggiungergli comicità pensò poi il cuoco
di bordo, nella deposizione resa dinanzi ai giudici salernitani: «Io
stava in cucina in coperta ad una cotteletta pel capitano (sic),
quando sentii un gran rumore, e delle grida, e vidi che vari,
afferrato il capitano, che dava ordini, lo fecero entrare nel suo
camerino pure in coperta. Rimasi spaventato di quell'operato, ma pur
essendo colla cotteletta m'accostai al camerino del capitano per
chiedere se voleva esser servito, ma trovai il capitano tutto
spaventato e piangente, e mi disse che egli non comandava piú.
Intanto un certo Nicotera mi afferrò pel colletto della
camicia, e con pistola in mano mi disse che era egli che comandava, e
io risposi che avrei fatto da mangiare... e durante quel viaggio il
Nicotera mi dava gli ordini di tenermi ad economia, vedendo che pochi
erano i viveri che avevamo». Era quel cuoco medesimo che,
giunto il Cagliari a Sapri e invitato a sbarcare, cosí
modestamente se ne schermiva: «che avevo il brodo al fuoco, e
che non potevo abbandonare la cucina», sí che «mi
lasciarono quieto».311
Mentre il Cagliari, mutata
rotta, si dirigeva al punto stabilito per l'incontro con le barche di
Pilo, Pisacane — su richiesta del Sitzia, che non ad altro
pensava che a «mettersi a posto» con la sua Compagnia —
verbalizzava l'accaduto sul giornale di bordo. Il suo resoconto,
immediatamente firmato da ventuno dei suoi seguaci, si chiudeva con
una Dichiarazione di superba bellezza:312 «Sprezzando
le calunnie del volgo, forti della giustizia della causa e della
gagliardia delle nostre anime ci dichiariamo gli iniziatori della
rivoluzione italiana. Se il paese non risponderà al nostro
appello, noi senza maledirlo sapremo morire da forti seguendo la
nobile falange dei martiri italiani. Trovi un'altra nazione del mondo
uomini che come noi s'immolino alla sua libertà, ed allora
solo potrà paragonarsi all'Italia, benché sino oggi
ancora schiava».
Dalle nove alle dieci le barche
avrebbero dovuto essere in vista; il Cagliari accese speciali
lumi a prua, incrociò nei paraggi, piú avanti, piú
indietro, a velocità ridottissima: inutilmente. Si scrutò
il mare da ogni parte, si ordinò, a bordo, il piú
assoluto silenzio: le macchine sussultavano appena, si sarebbe potuto
cogliere anche un grido lontano. Ma che: nessuna luce nella notte
fonda, nessuna voce nel vasto silenzio.313
Passavan le ore: si stava perdendo del
tempo prezioso, in una ricerca probabilmente vana. Che fare? Gli
stessi dubbi lancinanti che un po' piú tardi avrebbero
attanagliato l'animo degli amici di Genova. Tornare a terra, come se
niente fosse? Una fine tragicomica... Oppure attendere, incrociando
in alto mare, il 29 di giugno, per sbarcare in qualche punto della
Liguria, e marciare su Genova?314 Ma le scorte di carbone non
eran bastevoli;315 e poi il moto di Genova non sarebbe stato
contromandato, nella incertezza sulla sorte del Cagliari?
Fu una fortunata scoperta quella che
indicò la via da seguire: nella stiva del vapore, tra l'altre
merci, si trovavano «tre casse di boccacci di venticinque
ognuna, tre di fucili a due canne di venti ognuna, ed una cassa di
semplici canne», dirette a Tunisi. Era il carico d'armi che il
Cagliari, da qualche tempo, recava in ogni suo viaggio da
Genova, e che tanto avea dato da pensare allo zelante console
napoletano. Come mai né Mazzini né Pisacane l'avevan
saputo?316 Comunque, era la manna dal cielo! È vero
che non c'eran cartucce; ma con la polvere da sparo di dotazione del
Cagliari i rivoltosi le fabbricaron da loro. La nave allora (era il
mattino ormai) prese la via del Sud. Navigazione normale. Pisacane
profittava di quella provvisoria quiete per studiare i suoi appunti
topografici, per scriver lettere ed abbozzare proclami, che Falcone
poi ricopiava; Nicotera fungeva da commissario di bordo.
L'alba, il primo mattino: niente di
nuovo. All'undici apparve alla vista una squadra di legni da guerra.
Non si sa mai: venne sgombrato il ponte, si serrarono giú
nella stiva passeggeri ed equipaggio. Le navi sfilarono dappresso,
potenti e sicure, senza far caso del Cagliari, dileguandosi
poi verso levante; era la squadra mediterranea inglese che, al
comando dell'ammiraglio Lyons, si trasferiva dalla Sardegna a
Livorno, in giro di visite ufficiali. Del viaggio del Cagliari
il Lyons, nonostante qualche apparenza sospetta, sapeva in verità
meno che nulla.317
Scorse tutto il resto del giorno, che
era venerdí 26, senz'altri incidenti. Si procedeva a nove
miglia all'ora.
Ponza, vigilata dalle due isolette
minori, disabitate, di Palmarola e Zannone, non comparve che all'alba
di sabato; essa si presenta rocciosa, allungata ad ellisse, le sponde
tormentate precipitanti a picco nel mare; la vegetazione è
povera e bassa. In faccia a Ponza, sulla lontana costa, s'indovina
Gaeta; a un trenta chilometri, in direzione sud-sud est spicca il
profilo schiacciato di Ventotene e l'altro, rigonfio, di S. Stefano.
Il Cagliari giungeva da
nord-ovest; Ponza gli si offriva dal suo fianco piú aspro dove
non è luogo all'approdo di navi grosse, ché
l'incantevole insenatura falcata detta Chiaja di Luna, tutta serrata
da una ciclopica muraglia naturale, e — all'estrema punta
settentrionale — il porticciuolo di Forni hanno fondali assai
bassi. Dalla Chiaja di Luna un passaggio in parte scoperto, in parte
sotterraneo, di costruzione antichissima, mena con breve tragitto
all'opposta sponda dell'isola dove, attorno a un buon porto, l'unico
di Ponza, s'addensa l'abitato principale.
A Napoli qualcuno pratico del luogo
aveva suggerito che il Cagliari, anziché attaccare nel
porto, calasse scialuppe innanzi alla Chiaja di Luna; e infatti di là
la sorpresa su Ponza sarebbe stata piú facile; ma i venti o i
venticinque uomini che l'avessero eseguita avrebbero dovuto
attraversare tutto il borgo prima di poter affrontare la guarnigione,
prima di potersi incontrare col grosso dei relegati; né la
loro azione avrebbe potuto essere appoggiata dal Cagliari,
lasciato dall'altra parte dell'isola: l'esito, dunque, si presentava
infausto. Molto piú promettente e sicuro, se pur necessitava
piú astuzia, il piano che si seguí.
Il vapore doppiò l'isola e,
invertita la rotta, avanzò fino all'imboccatura del porto,
intorno al quale il paese raduna a gradinata semicircolare le sue
casette dai colori vivaci. L'arrivo di un bastimento di quella stazza
a Ponza era allora un fatto piú eccezionale che insolito:
piccoli navigli a vela bastavano pel servizio dell'isola, e solo di
tanto in tanto vi capitava, dalla prossima Gaeta, qualche scorridora
borbonica in missione militare. Quando dal Cagliari, dunque,
si fanno le segnalazioni d'uso per la richiesta del «pilota
pratico», necessitando la nave di riparazioni, non è
meraviglia che i ponzesi tutti e i relegati318 — liberi
questi di circolare in paese dall'alba al tramonto, e ghiotti,
s'intende, d'ogni novità che venga a rompere la desolante
monotonia di quella vita d'esilio — s'affrettino alle finestre
e alla spalletta fronteggiante il porto, per godervi l'inatteso
spettacolo.
Il pilota s'accosta con la sua barca
alla nave, disposta in modo da celare al paese la murata recante la
scaletta d'imbarco: giunto che egli è sotto bordo, un gruppo
di rivoltosi che ha preso posto in una lancia, ghermitolo, lo
costringe con minacce a salire sul ponte per fornir schiarimenti
sull'isola. Lo stesso trattamento, sempre inosservato da terra, viene
usato al capitano del porto e a un ufficiale della piazza,
sopraggiunti di lí a poco. Poi, mentre una signora che è
fra i passeggeri (un'italiana residente a Tunisi) compiacentemente si
presta a stornare eventuali sospetti camminando tranquilla su e giú
sopra coperta,319 il Cagliari s'avanza nel bel mezzo
del porto, getta l'àncora, cala le imbarcazioni. I rivoltosi
si dividono in tre squadre: la prima, per ogni evenienza, rimane
sulla nave (saggia precauzione, ché — depose poi al
giudice il fuochista Rebora — già era corsa fra gli
uomini dello spodestato equipaggio l'«intelligenza» di
far partire il vapore piantando a terra gl'incomodi nuovi padroni);
la seconda, con Nicotera, Falcone e Danèri, accosta alla
banchina, e là garbatamente domanda il permesso di visitare
l'isola; la terza, con Pisacane in testa, s'è riservato il
compito piú arduo: girare in barca la gettata del molo e
assalir di sorpresa il posto di guardia (la Gran Guardia,
secondo la pomposa nomenclatura borbonica). Non appena impegnato da
questa squadra il conflitto — quattro feriti fra i rivoltosi —
il gruppo Nicotera si avventa su altri militari di fazione sulla
banchina, due ne getta in acqua, i restanti fa prigionieri. Indi
corre a rinforzar Pisacane. La Gran Guardia si affretta a
deporre le armi. Due cannoni che minacciano il porto vengon resi
inservibili. I rivoltosi, a squarciagola inneggiando all'Italia, alla
repubblica, alla liberazione dei relegati, si scagliano adesso contro
il palazzetto dove ha sede il comando, fronteggiante la Gran
Guardia. Per le scale dell'edificio un coraggioso ufficiale, il
tenente Cesare Balsamo, li affronta con la sciabola sguainata; ma è
sopraffatto, e stramazza colpito al petto. Un aiutante, che da un
terrazzo del secondo piano invoca al soccorso, resta ferito. Il
comandante la guarnigione non è un eroe: si dà
prigioniero320 (salvo poi, nei suoi rapporti, a gonfiare per
sua giustificazione l'impresa del Cagliari fino a paragonarla
a quelle dei «tempi del Barbarossa» e anche all'«inumana
e barbara pirateria africana»). Tra quel frastuono ecco intanto
affollarsi nella via sottostante i relegati a centinaia, pochi
«politici» e molti «comuni» (o coatti, come
oggi si direbbe): non han tardato a prender fuoco anche loro ed ora
gareggiano con quelli del Cagliari nell'affrontar militari,
nel far razzia d'armi, e piú nel gridare evviva ed abbasso.
Resta da conquistare il castello, un
massiccio edificio che incombe, dal sommo del poggio, sul paese e sul
mare: in esso, col grosso delle forze borboniche, è alloggiata
la compagnia dei militari in punizione, assai numerosa dopo
l'attentato Milano. Il castello, chi lo guardi, sembra addirittura
imprendibile; senonché, mentre a difenderlo son dei
«territoriali» poltroni, resi esitanti, per di piú,
dalla voce che subito circola tra loro non essere il Cagliari
che il messaggero d'una gran rivoluzione scoppiata in terra ferma
(voce, questo è il guaio, non affatto incredibile), ad
assalirlo è una mano d'arditi; s'aggiunge il caso che quasi
tutta l'ufficialità dell'isola, acquartierata in una casa a
mezza salita, anziché precipitarsi al primo allarme in
castello, si lascia sorprendere inerme, e in blocco ridurre
all'impotenza. In men che non si dica, dunque, il castello, con tutti
i suoi difensori, col suo fornitissimo magazzino d'armi, coi suoi
bravi cannoni puntati, passa ai rivoltosi, coi quali i militari in
punizione fanno immediatamente causa comune.321
Pisacane è il padrone di Ponza;
o piuttosto lo è la marmaglia dei relegati comuni, i quali —
liberati per prima cosa i detenuti dal carcere — a modo loro
gioiscono della conseguita vittoria, sfogando il rancore della lunga
massacrante disciplina forzata: il paese (sono le dieci appena) è
in pieno tumulto, i ponzesi spauriti si barricano in casa o fuggon
nei campi, l'archivio giudiziario e quello di polizia vengon dati
alle fiamme, vari edifici pubblici sottoposti al saccheggio,
abitazioni particolari visitate e spogliate. «Senza una
camicia» rimasero perfino gli agenti della pubblica
forza!322
Cosí l'ideale rivoluzionario di
Pisacane e compagni principiava a trovare attuazione. L'elemento piú
preoccupante della situazione era costituito, senza dubbio, dalla
vastità stessa del successo, dalla stessa unanimità dei
consensi trovati fra le varie categorie di quegli obbligati residenti
di Ponza: relegati delle due specie, militari in punizione, detenuti
comuni. Non era facile per quelli del Cagliari frenare lo
zelo... rivoluzionario dei loro troppo numerosi accoliti, quietare il
paese, tentar di discernere, in quella folla in tumulto, chi fosse
meno indegno di seguirli a Sapri.
Sul Cagliari avrebbero voluto
salir tutti quanti. Come fare a distinguerli? Salí chi poté.
117 militari in punizione, 128 detenuti, 75 relegati, dei quali solo
una dozzina politici, 3 presidiari e due povere donne, consorti di
relegati!323 La ressa, il tramestío eran terribili;
quelli che restavano a terra reclamavano a gran voce promesse che
presto si tornerebbe a liberarli tutti. È vero che poi, al
processo di Salerno, qualcuno di quei fuggitivi venne fuori con
l'asserzione che Pisacane e compagni «qualunque giovane
incontravano nel paese a viva forza gl'imponevano di
seguirli»;324 ma è mai possibile che trenta
individui potessero forzar la volontà di oltre trecento? La
fola venne d'altronde smentita da tutti i testimoni. Piú
verosimile, se mai, che le presunzioni ottimistiche sul successo
finale dell'impresa, partecipate da quei del Cagliari, in
perfetta buona fede, ai loro seguaci di Ponza, si tramutassero,
passando di bocca in bocca, complice l'eccitamento di tutti, in
assicurazioni categoriche. Tipica a questo proposito la deposizione
del relegato Signorelli Rocco: «Sí il cosiddetto
generale che gli altri... faceano intendere nell'esortare la massa
che ben altri 18 vapori sparsi nel mare conteneano lor compagni, e
che tutti doveano vedersi al Pizzo..., che eran protetti dal Turco e
dallo Inglese».325 Dove si vede come certe speranze,
invero assai problematiche, nutrite dai capi si fossero trasformate,
nella fantasia di ignoranti seguaci, in dati di fatto accertati.
Il programma della spedizione
preventivava una sosta a Ponza di non piú che otto ore, per
poi, se necessario, far tappa a Ventotene. Nel fatto, un po' per la
gran confusione, un po' per la necessità di rifornire di
combustibile il Cagliari, l'intera giornata del 27 di giugno
trascorse prima che si fosse pronti alla partenza. A Ventotene si
dové rinunciare.326 Ritardato sull'ultimo da un
disgraziato incidente, il vapore non levò l'àncora che
a mezzanotte circa. Danèri stava infatti per ordinare
l'avanti,327 quando — nell'oscurità —
fu intravveduta una barca che a gran forza di remi si allontanava dal
porto. Non era un momento, quello, propizio alla pesca: sospetta,
dunque, la barca. Dal Cagliari si cala all'inseguimento una
lancia; ma mentre Nicotera, con altri, fa per prendervi imbarco,
nell'orgasmo e nel buio, precipita in acqua. Lo tiran su vivo per
puro miracolo. Nell'incidente si perde del tempo, e intanto la barca
si è perduta di vista: prudenza vuole che il Cagliari,
ormai già tanto in ritardo sull'orario previsto, non si
trattenga piú oltre nelle acque di Ponza; e dunque, partenza
direttamente per Sapri. La barca misteriosa, intanto, si dirigeva a
Gaeta, dov'era la Corte reale, recandovi le straordinarie notizie
dell'isola e, tra molte voci infondate, quella esattissima della
destinazione del Cagliari. Gran merito, questo notturno raid,
del parroco di Ponza, Vitiello, che n'avea presa l'iniziativa un po'
per paura di nuovi eccessi dei relegati a suo danno, un po', disse
lui, per senso di dovere, ma piú che tutto per ragionata
speranza di ricompense e favori: certo si è che la casata sua
figura oggi tra le piú facoltose e altolocate
dell'isola.328
Quando si venne all'inchiesta
ufficiale sullo straordinario episodio della «presa di Ponza»,
le supreme autorità napoletane non poterono acquietarsi di
certo alla versione, premurosamente accreditata dagli interessati,
che la forza discesa dal Cagliari fosse ingentissima. Ma la
ricerca delle responsabilità dovette riuscire alquanto penosa.
Molto si disse e fantasticò, è vero, sulle intese che
evidentemente i relegati politici dovevano aver stretto in
precedenza, per chi sa quali vie misteriose, con gli organizzatori
della audacissima impresa329 (siamo giusti, chi poteva mai
imaginare che Pisacane fosse davvero partito da Genova cosí
digiuno d'intese da ignorare perfino che a Ponza i relegati politici
fossero quantità trascurabile?) La versione ufficiale, dovendo
spiegare la paralisi della guarnigione militare dell'isola, preferí
dunque attribuirla piuttosto alla rivolta di varie centinaia di
relegati che non alle mosse abilissime di una ventina di «esteri».
Ma come dar buono che codesta guarnigione, sia pure costretta alla
lunga ad arrendersi, non avesse almeno tentato una resistenza
onorevole? Il furibondo rapporto di quel genio strategico del
maggiore D'Ambrosio330 (4 di luglio) poneva in rilievo che
«niuno dei funzionarii militari — a principiare da lui! —
aveva adempiuto al proprio dovere, per salvare l'onore
militare... talché senza l'onorevole risoluzione di tre
individui di truppa, avrebbe quell'orda di settarii lasciato sul
terreno un ufficiale, ferito un aiutante, portando via armi,
munizioni e denaro, senza che un colpo di fucile nemico l'avesse
risposto, caso unico nella storia di siffatti attentati». Su
tutto ciò i giornali borbonici serbarono, s'intende, il piú
accurato silenzio.331 Era infatti un caso unico di
vigliaccheria e d'insipienza. Ma alle supreme gerarchie napoletane
non isfuggí di certo, seppur repugnassero ad ammetterlo
pubblicamente, che la spiegazione vera, oltre che nello scarso valore
delle loro milizie, dovesse cercarsi nella perplessità che
aveva preso la guarnigione di Ponza al precipitoso divulgarsi della
notizia, che la rivoluzione fosse già bell'e scoppiata nel
regno; cioè nel fatto che male si battono, quando non arrida
loro certezza assoluta di vittoria, i difensori di un regime
quotidianamente discusso, minato e minacciato e messo al bando degli
Stati civili. Come pretender da essi eroica fermezza nella
repressione dei ribelli quando li turbi la sensazione che i ribelli
di oggi potrebbero diventare i dominatori di domani?
Non restava al Borbone che consolarsi
al pensiero che quel dannato brigante di Pisacane, sbaragliatore di
truppe e conquistatore di castelli, avesse apprese la strategia e la
tattica, cosí magistralmente applicate nella «presa di
Ponza», sui banchi della sua Nunziatella!
Il ponte del Cagliari, finalmente in navigazione, brulicava
di gente. Ponza era già un episodio lontano, conchiuso: la
spedizione principiava allora.
Uomo di guerra e teorico della guerra, ecco dunque Pisacane al suo
vero posto, e nelle circostanze migliori per applicare i suoi
principii teorici! Non aveva egli infatti sognato sempre di trovarsi
alla testa di un piccolo corpo insurrezionale, veloce, omogeneo,
entusiasta, che partisse dall'Italia meridionale per risalire al
nord, suscitando al passaggio ondate rivoluzionarie di crescente
violenza ed ampiezza? Ebbene, ecco qua al suo comando trecento non
già «soldati» ma volontari autentici, animati, se
non da un comune desiderio di gloria, da un comune interesse: quello
di seppellire nelle rovine del regime borbonico il loro turbinoso
passato; incoraggiati da un clamoroso successo pur mo raggiunto;
velocemente diretti verso un punto dove ad attenderli sono altri
nuclei di armati; favoriti in pieno dal coefficiente «sorpresa».
Potevano darsi condizioni migliori? Piú promettenti?
Chiuso in cabina, Pisacane stillava —
ricavandole dalla decennale esperienza di insurrezioni combattute o
criticamente studiate — minute norme disciplinari e strategiche
per le operazioni future del suo piccolo esercito: gli uomini divisi
in tre compagnie, le compagnie in dieci squadre, i gradi assegnati a
relegati politici o a militi della compagnia di punizione,332
lui stesso generale, Nicotera colonnello, Falcone maggiore;
distribuite le armi; nominato un Consiglio di guerra chiamato ad
applicare un molto sommario codice militare. Ma non alzava mai dunque
i suoi limpidi occhi dai fogli, il general Pisacane? Non lo colpivano
i ceffi dei suoi seguaci? Ladri e ricettatori, lenoni, barattieri...
Qual nuova insania poteva travestirli in militi iniziatori della
indipendenza italiana? Come poteva egli seriamente incitarli a
«battersi con le truppe di Ferdinando per riscattare la
libertà», a battersi «con coraggio e
bravura»?333 Con venti giovinotti di cuore egli era
riuscito, sí, d'impadronirsi di Ponza; ma ora, con quei
trecento lazzaroni, che andava a fare nel regno di Napoli? Non gli
sovveniva la dichiarazione dei suoi compagni di Genova, quella del 12
giugno: «Forse si farà credere essere noi masnadieri o
pirati scesi al saccheggio»? O quel che egli stesso, nel quieto
tempo di Albaro, aveva scritto intorno al reclutamento degli
eserciti: «l'ammettere nelle (loro) file quelle classi di
persone, che alla miseria estrema aggiungono pessimi costumi... rende
l'esercito terrore ai cittadini. In Napoli si è toccato
l'estremo confine dell'avvilimento; l'esercito viene ingrossato dei
condannati alla galera»?
È vero che a Ponza, in tanto
tumulto, con una folla frenetica addensata sulla banchina, invocante
l'imbarco sul Cagliari, non era stato possibile far
distinzioni troppo sottili fra politici e non politici: due terzi dei
delinquenti comuni amano sempre atteggiarsi a vittime di persecuzione
politica; come dunque controllare l'identità di ciascuno, poi
che era andato distrutto l'archivio di polizia? Era pur logico,
d'altronde, che lí per lí si decidesse a quella che
pareva la condizione fondamentale per la buona riuscita della
spedizione: armare quanta piú gente fosse possibile per
assicurare almeno i primi passi della marcia insurrezionale. Ma poi,
staccatasi la nave da Ponza, esaminati un po' piú da vicino i
loro nuovi compagni, ben si erano avvisti Nicotera e Falcone del
colossale errore compiuto; e a Pisacane avevano affannosamente
proposto di rimediarvi, sia sbarcando d'urgenza in un punto qualsiasi
della costa quella pericolosa zavorra, sia, raggiunta Sapri,
lasciandola a bordo del Cagliari.334 Perché mai
Pisacane si rifiutò di ascoltarli? Gli repugnava tradire, sia
pur di fronte a cotal gente, gl'impegni presi, o forse gli apparve la
cosa impraticabile, in trenta o quaranta che erano contro quasi
trecento? Difficile dirlo, difficile ricostruire nelle sue fasi
quello che dovette pur essere un tormentoso dramma interiore. Certo è
però che l'atteggiamento visibile di Pisacane, da Ponza in
poi, non ha niente che riveli penosa accettazione di una realtà
considerata repugnante. Egli si mostra anzi fermamente convinto della
possibilità di trasformar quella feccia, durante il breve
tragitto, in una banda disciplinata, combattiva e, chi sa, valorosa.
L'idea di farne il primo nucleo del futuro esercito insurrezionale
italiano non gli pare mostruosa. I due sentimenti profondi e
istintivi che ha inteso vibrare in quelle anime buie —
l'aspirazione alla libertà e l'odio al «governo» —
lo hanno forse tratto in errore? Non si è reso conto che
l'odio al governo è odio alla legge, che la libertà
desiderata non è che libertà individuale? Che costoro
non hanno alcuna idealità collettiva, che mirano soltanto al
tornaconto personale? Chi sa. Può anche darsi che, fuor d'ogni
considerazione morale, egli abbia intuito il partito che nella
imminente lotta antiborbonica è possibile trarre dalla
disperata volontà di difesa di un'accolta di evasi dal
carcere. Ma, posti i suoi precedenti di lottatore politico e di
riformatore sociale, è assai piú probabile che lo
lusinghi davvero la speranza di riuscire ad appassionare costoro, sí
bramosi di libertà per se stessi, all'impresa di liberazione
di tutto un popolo, alla conquista di ordini liberi.
Di pochi giorni innanzi è il
suo dichiarato disprezzo per l'ignobile volgo; ma ora, al cospetto di
quel volgo nel volgo, di quella povera scoria d'umanità,
diresti che uno slancio nuovo di fraternità lo pervada. Il
moralista riaffiora, e quasi sembra che si compiaccia della
prospettiva paradossale che gli si para dinanzi: lanciare cioè
due o trecento amorali al rovesciamento di un regime dichiarato
decaduto in quanto immorale. Gesto sublime, e ingenuo fino al
ridicolo; da moralista appunto, che si diparte dalla premessa esser
la colpa, nell'uomo, un portato dell'iniqua costituzione sociale, e
perciò, nella maggior parte dei casi, non addebitabile al
singolo che la commette.
La spedizione di Sapri, concepita come
sfida a un regime politico, acquista in tal modo un ben piú
vasto significato di sfida deliberata contro la società in
generale. La morte del suo protagonista, tra quei galeotti
terrorizzati e fuggenti, assurgerà ad una incomparabile
donchisciottesca grandiosità da epopea.
Domenica sera, 28 di giugno. Ecco il
golfo, largamente arcato, di Policastro: nel fondo, la bellissima,
ridente baia di Sapri; il paese è un po' discosto dalla riva,
tra due poggi che digradano al mare; duemila abitanti, i piú
pescatori e pastori. Il Cagliari, dopo una giornata di quieta
navigazione, si arresta a una certa distanza, protetto alla vista dal
promontorio che serra Sapri a nord-ovest. Si attende, per lo sbarco,
l'ora convenuta col Comitato di Napoli. Annotta. A terra, di qua, di
là, privati cittadini e impiegati governativi avvistano la
nave; una barca della dogana s'approssima; il Cagliari,
riconosciutala, la saluta con un colpo di «boccaccio».
Sapri è avvertita. Dispacci d'allarme partono precipitosamente
pel capoluogo e per la capitale remota.
Disposto lo sbarco, il Cagliari
s'avvicina alla spiaggia. Restano a bordo i passeggeri, il vecchio
equipaggio,335 eccezion fatta d'un cameriere di bordo —
tale Mercurio336 — spontaneamente aggiuntosi ai
rivoltosi, i feriti di Ponza337, il capitano Danèri.
Pisacane consegna a quest'ultimo, che dovrà curarne ad ogni
modo il recapito (chi mai prevede l'imminente cattura del Cagliari?)
due lettere, una per Mazzini, l'altra per Enrichetta. La prima
contiene il resoconto dell'episodio di Ponza e riassume gli elementi
favorevoli sui quali egli conta per il buon proseguimento
dell'impresa; la seconda — riferisce il Danèri —
«prometteva eterno affetto, conchiudeva esortandola a sperar
bene prendendo buon augurio dal primo colpo riuscito».
Alla svelta, non senza qualche
confusione, i rivoltosi scendono a terra, nei pressi di una casetta
bianca, isolata, prescelta pel luogo di convegno. (Nessuna
spigolatrice, oh! Mercantini, è presente: è notte, e
sulla spiaggia non crescon le spighe).
I capi gridano la parola d'ordine:
Italia degli Italiani; il grido viene ripetuto una, due, dieci
volte: nessuno risponde, nessuno appare. Silenzio che diffonde un
primo sottile disagio. Possibile che sul lido di Sapri non abbia a
trovarsi nessuno degli amici o che questi, trattenuti altrove, non
abbian mandato qualcuno a recar notizie di loro? Eppure sul lido,
fuor dei trecento, non c'è anima viva: due impiegati al
telegrafo, che sopraggiungono, vengon senz'altro arrestati.
Per rinfrancare i suoi uomini,
Pisacane li arringa come se fossero veterani di cento battaglie:
«Figliuoli, noi siamo stati ventuno individui che vi abbiamo
liberati dall'Isola, adesso voi dovete liberare il
Regno...»338 Poi dà l'ordine che si avanzi su
Sapri. A Sapri la Guardia urbana (una piccola squadra)
è da tempo radunata a battaglia; ma non appena scorge vicino
il nemico, scaricati per debito di coscienza i fucili, si dà
alla campagna. Sapri viene cosí occupata, lo stemma reale
abbattuto e calpestato; ma le case del paese sembran deserte, porte e
finestre restan serrate; la maggior parte degli abitanti son scappati
in campagna, solo qualche donna o ragazzo curioso occhieggia dalle
persiane socchiuse. Da un'osteria ancora aperta escono pochi uomini,
ma oppongono un impacciato silenzio o rispondono per monosillabi alle
infiammate perorazioni dei comandanti quella caterva di male in
arnese. Il solo che abbocchi è un vecchio pregiudicato: unica
recluta in Sapri! E sí che a Pisacane resulta, di certa
scienza, che il 13 giugno, in attesa del primo mancato sbarco,
numerosi amici vi si son dati convegno.
Queste eran le accoglienze «imponenti» sulle quali si
poteva sicuramente contare, questo era il paese gremito di
«liberali». C'era, in verità, da sperar bene pel
séguito! Non aveva assicurato Fanelli che l'inoltrarsi dei
rivoltosi sarebbe stato né piú né meno che una
marcia trionfale attraverso una fila di paesi festanti? Lo spaventoso
silenzio di Sapri deserta e buia faceva presagire invece chi sa quale
misterioso agguato dietro quei monti ignoti.
Sul suo libretto di appunti Pisacane
avea segnato il recapito di un sicuro e facoltoso liberale di Sapri:
il barone Giovanni Gallotti. Da lui, dai suoi familiari, gli avevan
detto a Napoli, avrebbe ottenuto non solamente danaro e provvigioni,
ma ogni sorta d'appoggi. Identificata la casa, Pisacane bussò,
fu freddamente ricevuto: lo sbarco? E che ne sappiamo noi,
protestarono i Gallotti. Di preparativi rivoluzionari compiuti nella
regione non abbiamo mai inteso parlare! In casa poche armi, qualche
chilo di pane, che Pisacane, indignato, requisí: in abbondanza
non avevano i Gallotti, i quali appartenevano a una famiglia
d'antichi patrioti, che una paura grandissima e un fanelliano terrore
di responsabilità. Piú tardi — nelle segrete
salernitane — si affannarono in untuose proteste di devozione
al trono, rammentando gl'importanti servigi resi, e imprecando,
furibondi, contro i «maledetti rivoltosi».339
Andata a vuoto la visita ai Gallotti,
fallita del pari l'incursione eseguita dal bollente Nicotera contro
le case dei Peluso, responsabili dell'eccidio del patriota Carducci
nel '48, fu giuocoforza acconciarsi a pernottare a Sapri. Notte
d'angoscia pei capi, che pur si sforzavano di tranquillizzarsi a
vicenda; notte di terrore pei loro seguaci, che solo adesso —
sparito il Cagliari, e i fantasmi delle tenebre ingigantendo i
pericoli — principiavano a misurare la tremenda avventura alla
quale s'eran mischiati. Folle in tumulto, confusione, entusiasmo,
fucilate magari, questo sí s'aspettavano; ma non quell'atroce
silenzio piú pauroso di qualunque minaccia. Si era parlato
loro di appoggi imponenti, e non avevano visto nessuno; si parlava
ora della marcia da compiere, ma chi di loro conosceva quei luoghi? E
i capi stessi, quel generale, quel colonnello, esigenti e severi, chi
erano, donde venivano, come potevano illudersi di vincere il governo
del re, che disponeva di soldati a migliaia, e avea vapori sul mare,
e il «telegrafo elettrico»? Ed essi eran fuggiti dalla
relegazione, dal carcere, ma che forse eran liberi adesso, o non
erano invece passati sotto una disciplina piú dura e
arbitraria? A Ponza, almeno, il domani seppur triste era certo, e la
libertà s'avvicinava ogni giorno. Perché dunque si
erano indotti a fuggire?
Disertarono alcuni, quella notte
medesima: chi per puro terrore, chi nella speranza di guadagnarsi
indulgenza con delazioni all'autorità, chi per profittare
delle case deserte e delle donne indifese; qualcuno, nostalgico,
prese la via del paese lontano, Puglie, Calabria, centinaia di
miglia.340
Dietro quella cortina di monti,
intanto, la bufera si andava addensando.
Gaeta era stata avvertita, in giornata
del 28, dell'episodio di Ponza. Nonostante fosse domenica, il
telegrafo, cui s'ebbe d'urgenza ricorso, funzionò
egregiamente, recando la notizia dell'imminente sbarco alle autorità
costiere, agli Intendenti, ai comandi militari. Quando i rivoltosi
prendevan terra, già Salerno, sotto la cui intendenza era
Sapri, era stata informata che i fuggiaschi di Ponza sarebbero, d'ora
in ora, approdati; e quell'Intendente, senza indugio mobilitate le
truppe, provvedeva d'urgenza a diramare l'avviso. Non era la
mezzanotte di quella stessa domenica che due fregate trasportanti
soldati, incuorati alla partenza dall'intervento del re in persona,
lasciavan Gaeta per lanciarsi all'inseguimento del Cagliari;
poche ore dopo un altro vapore con altre truppe. In due giorni, tra
bastimenti effettivamente partiti ed altri mobilitati e sotto
pressione, non meno di dieci unità vennero impiegate alla
cattura degli evasi di Ponza!
Il Cagliari, insomma, aveva
appena doppiato, sulla via del ritorno, il capo del golfo di
Policastro, che già la Corte, il governo e tutte le autorità
interessate sapevano dell'avvenuto sbarco. L'elemento primo di
successo sul quale Pisacane contava, la sorpresa, veniva dunque a
mancare del tutto. La mattina di lunedí 29, mentre due legni
borbonici catturavano il Cagliari all'altezza di Capri, e i
passeggeri e l'equipaggio subivan l'arresto,341 sei compagnie
di cacciatori si mettevano in marcia da Salerno verso la regione di
Sapri (oltre 150 chilometri!) e il Sottintendente di Sala, radunando
tutti i distaccamenti militari e di guardia urbana che avea
sottomano, li fondeva in un unico corpo di battaglia, avviandoli su
Padula. Fra le popolazioni del distretto venne diffusa la voce che
300 briganti, evasi dal bagno di Ponza, si avanzavano da Sapri
saccheggiando, uccidendo, stuprando; fidassero, «quei buoni
villici», nel valore delle truppe reali accorrenti; e ove non
si trovassero in grado di opporsi all'invasione dei malfattori, si
concentrassero armati verso l'interno. Una vera e propria
mobilitazione generale.342
E a Napoli? Cosa faceva Fanelli?
Nel pomeriggio di venerdí 26,
il disgraziato aveva ricevuto l'ultima lettera di Pisacane. Invece di
precipitarsi dagli amici per concretare immediatamente il da farsi,
invece di spedire d'urgenza avvisi in provincia, invece insomma di
utilizzare anche i minuti di quei due giorni che ancor gli restavano,
Fanelli prese la penna e... scrisse a Pisacane, che pur sapeva già
in viaggio! Scrisse concitato, risentito, fuori di sé:
impossibile predisporre le cose pel giorno 28, impossibile prevenire
in tempo i nuclei lontani, non tutti condotti a termine ancora i
preparativi concordati. «Ardo per la sollecitudine, ammetto la
fretta, ma il precipizio in cose di tale importanza... non è
opera che approvo... Mi pareva bene morire in guerra; ma invece pare
che lo debba di crepacuore, di bile, e di attacchi nervosi». E
in un poscritto febbrile, a Mazzini, assicurandolo che comunque
avrebbe fatto del suo meglio: «Onorevole maestro e fratello.
Rifletto che questa mia non potrà pervenire all'amico a cui è
diretta; perché a questa ora forse è già in via;
perdonate il modo con cui è scritta. Addio di somma fretta».
Il giorno dopo — quando Fanelli,
immerso nella piú nera disperazione, ancora non si è
mosso — ecco gli giunge il dispaccio Mazzini. Non gli restano
che ventiquattr'ore per dar fuoco alle polveri: ma con qual mezzo
avvertire gli amici, almeno quelli in provincia di Salerno? Il
Comitato, organizzatore di un cosí vasto moto, non ha neanche
dei corrieri a disposizione! Fanelli aveva poi sempre mentalmente
scaricato le difficoltà finali sulle spalle del supposto «capo
militare» che avrebbe dovuto arrivare da Genova: di quali
miracolistiche virtú risolutrici non lo riteneva egli capace,
se avea di giorno in giorno rimandato, in sua attesa, l'adozione di
certi minuti ma indispensabili provvedimenti che soprattutto
esigevano gran tempo, e che alla vigilia del moto neppure il
padreterno avrebbe ormai potuto condurre a buon fine! Questo capo non
era giunto e non giunse; con esso venne a mancare a Napoli la volontà
inflessibile di mantenere a ogni costo tutti gl'impegni assunti. Nel
Comitato qualcuno espresse perfino dei dubbi sull'autenticità
del dispaccio; e avanzando la comoda ipotesi che si potesse trattare
d'un poliziesco tranello, si cavò dagli impicci,
ecclissandosi. Cosí, discutendo, si persero altre ore
preziose. Fanelli, pover'uomo, raccolse le sue poche energie e, in
quell'ultimo giorno, superò se medesimo. Ma non era
temperamento adatto a travolgere prevedibili, umane riluttanze e
incertezze. «L'ora solenne è presta: apparecchiatevi a
coglierla diffinitivamente», scrisse ad esempio a Giacinto
Albini, che da Montemurro dirigeva il movimento in Basilicata.
Apparecchiatevi? Ma se lo sbarco a Sapri doveva aver luogo di lí
a poche ore! Ci voleva, al suo posto, un che ordinasse: radunatevi
alla tal ora in tal luogo; marciate in direzione tale, fate cosí
e cosí; un che dicesse: noi tutti stiamo per muoverci, se voi
mancate siete un vigliacco.
E invece, in altra lettera (era già
il due di luglio), Fanelli si raccomandava inutilmente cosí:
«Per carità non tardate un momento; aiutate l'eroismo di
quegli uomini preziosi, salvateli col vostro moto... insorgete, che
noi insorgeremo appena ricevuto l'avviso della vostra insurrezione
per rendere piú colossale il movimento». Ma Montemurro
pensava: se non si muove Napoli, perché dovremmo sacrificarci
noi?
I capi politici del movimento in
provincia si trinceravano inoltre dietro un comodissimo alibi:
anche a loro era stato promesso l'invio di tecnici militari per
assumere il comando dei nuclei d'azione; questi non s'eran visti; e
che, si pretendeva forse che delle personalità politiche si
tramutassero in quattro e quattr'otto in caporali di truppa? Ohibò!
In alcuni centri anche importanti,
poi, le comunicazioni del Comitato o non giunsero affatto, per
incredibile trascuratezza degl'improvvisati corrieri, o giunsero
quando era già troppo tardi. Il povero Fanelli, in quei giorni
di passione, seguitava dunque a ricevere, anziché le attese
conferme di quelli che egli, in perfetta buona fede, riteneva i suoi
«ordini», tiritere accademiche sul modo da tenersi per
organizzare una rivoluzione o risciacquate per la sua incapacità
o, peggio ancora, recriminazioni per la «sua fretta»! In
piú, pacatamente esposte, le ragioni buonissime per le quali
questo o quel nucleo non s'era, armi alla mano, buttato alla
campagna. Fanelli non impazzí, chi sa come, in quei giorni; ma
la follia lo ghermí, senza rimedio, pochi anni piú
tardi.343
A Napoli avrebbe dovuto aver luogo una
grandiosa dimostrazione di popolo, di pieno accordo coi
costituzionali; ma questi con un pretesto o con l'altro — non
ci vedevano chiaro, volevano evitare a ogni costo spargimenti di
sangue, preferivano scendere in piazza non appena dalla località
dello sbarco giungessero notizie un po' piú incoraggianti —
la rimandarono di giorno in giorno fino al 4 di luglio; il 4 di
luglio, tenuto concistoro, buttarono all'aria ogni cosa.344
La polizia della capitale andava intanto ricercando e scoprendo a suo
agio casse d'armi malamente celate qua e là, e si poneva
indisturbata alla caccia dei complici di Pisacane. Il giorno 5
giunsero a Napoli pessime nuove di laggiú...
E sí che l'emozione prodotta in
città dalle prime voci sullo sbarco e sull'episodio di Ponza,
giunte nella tarda serata del 28 di giugno e subito diffuse nei caffè
e nei teatri (particolarmente notato il precipitoso ritorno degli
ufficiali in caserma), era stata grandissima: mancò, ecco
tutto, chi sapesse, chi osasse trarne profitto. Durante il 29 le
autorità notarono non senza preoccupazione «molti
capannelli», e in questo o quel rione un'agitazione inconsueta;
non si era perfino accreditata la voce di una imminente spedizione
navale del regno sardo contro il Borbone?345 Ancora il 30 di
giugno l'inviato piemontese segnalava al suo governo il «grande
eccitamento degli animi» che seguitava a regnare in città.
Piú esplicito di lui l'agente consolare inglese: «A
giudicare dalle interviste che ho avuto con esponenti del partito
liberale — egli scriveva —, dai sentimenti che per quanto
a me consta animano in genere tutta la nazione, nonché dal
dubbioso stato d'animo prevalente nell'esercito, io ritengo che,
essendo ormai sprizzata la scintilla, tutto il paese andrà in
fiamme; prevedo che un attacco come questo, d'un'audacia senza
precedenti, compiuto contro una delle prigioni principali, di pieno
giorno, vicino a Gaeta, sotto gli occhi stessi del re, deciderà
il popolo a ricorrere alle armi pur di liberarsi da quest'oppressivo
governo. È assai probabile che fra non molto abbia a
dichiararsi in città un serio movimento popolare, il
cosiddetto "Partito d'azione" è indaffarato a
promuoverlo». L'eccitata missiva si conchiudeva asserendo che
fra gli organizzatori della spedizione «erano alcuni dei piú
abili e audaci ufficiali italiani, ex combattenti nelle rivoluzioni
del 48», e dando al governo inglese le piú ampie
assicurazioni che Murat e il murattismo non avevano assolutamente
niente a che fare col movimento in parola, seppure volto a
detronizzare re Ferdinando. Bene informato, il Console Barbar!
In tanta rovina di intese e di
speranze, agli uomini del Comitato, allo stesso Fanelli mancò
il cuore di mostrare, se non altro, personale coraggio, tentando a
Napoli una di quelle azioni di sorpresa che avrebbero potuto,
riuscendo, costituire un diversivo e alleggerire la pressione
militare su Sapri; e comunque, anche fallendo, impedire al governo
napoletano di menar vanto in Europa della esemplare quiete serbata
dalla popolazione durante quel periodo di crisi. Perfino Fabrizi, che
si erse poi sempre a difensor di Fanelli, da molti tenuto
responsabile primo del disastro, avvertí l'obbligo di
rimproverarlo: «Debbo dirlo, un atto puranco disperato di
pochi, protesta d'onore e di dovere, rimprovero ed imputazione
all'intrigo dei codardi, non avrebbe dovuto da qualche lato mancare,
e forse chi sa che questo atto non salvasse il tutto, ma certo
avrebbe salvato l'onore, se non di un popolo di sette milioni, almeno
della sua attitudine allo avvenire. La mancanza d'ogni fatto,
l'abbandono al martirio, in mezzo al silenzio, dei piú
valorosi figli dell'Italia, per Dio, è uno spettacolo
terribile e disperante».346
È vero che Fabrizi non si era
mosso da Malta.
Alieno da intrighi, intanto, ignaro
d'esitazioni, materialmente lontano, moralmente remoto addirittura da
tutti costoro, colui che aveva virilmente promesso ed ora, senza
curarsi di che facessero gli altri, manteneva a qualunque costo gli
impegni assunti — Pisacane — pagava lo scotto, perduto
fra le squallide giogaie d'intorno a Sapri.
La mattina di lunedí 29, assai
per tempo, la colonna di insorti si pose in marcia verso l'interno
della regione, seguendo la medesima angusta vallata che tre anni piú
tardi, fra evviva e canti e presagi di vittoria, avrebbe percorso
Garibaldi con i suoi volontari.347 Eran le sei quando —
coperte tre miglia e saliti oltre quattrocento metri — si
giunse al borgo di Torraca. A Torraca si celebrava, come se nulla
fosse, la festività di S. Pietro: gran processione, la statua
del santo solennemente trasportata per le vie del paese. Il
sopraggiungere della masnada non parve impaurire nessuno: anzi alle
grida sediziose molti fecero eco, e ci fu tra i paesani chi
prontamente esibí coccarde tricolori; qualcuno vociò:
Viva Murat. Corse del vino, qualche stretta di mano. Il cuore di
Pisacane e dei suoi s'aprí un poco alla speranza: non che
Torraca proclamasse la rivoluzione, ma li accoglieva almeno come
cristiani!
Nel bel mezzo del paese qualcuno lesse
alla folla il proclama insurrezionale. Diceva: «Cittadini —
È tempo di porre un termine alla sfrenata tirannide di
Ferdinando secondo. A voi basta volerlo. L'odio contro di lui è
universalmente inteso. L'esercito è con noi. La capitale
aspetta dalle provincie il segnale della ribellione per troncare in
un colpo solo la questione. Per noi il governo di Ferdinando ha
cessato d'esistere; ancora un passo ed avremo il trionfo; facciamo
massa e corriamo dove i fratelli ci aspettano. Su dunque: chiunque è
atto a portare le armi ci segua. Chi non è abbastanza forte
per seguirci, ci consegni l'arma. Noi abbiamo lasciato famiglia ed
agi di vita per gettarci in una intrapresa che sarà il segnale
della rivoluzione e voi ci guardate freddamente come se la causa non
fosse la vostra? Vergogna a chi potendo combattere non si unisce a
noi; infamia a quei vili che nascondono le armi piuttosto che
consegnarle. Su dunque, cittadini, cercate le armi nel paese e
seguiteci. La vittoria non sarà dubbia. Il vostro esempio sarà
seguito dai paesi vicini, il nostro numero crescerà ogni
giorno ed in breve tempo saremo un esercito. Viva l'Italia».
L'accenno alla freddezza e viltà
degli abitanti rivela che il proclama era stato probabilmente
compilato, o corretto, la notte stessa, dopo l'esperienza di Sapri.
Ma nessuno, a Torraca, terminata la
lettura, si mosse, nessuno mostrò di divider quell'odio per la
sfrenata tirannide, da nessuno vennero armi. Come ignorare che piú
in là, verso Sala Consilina, si andava febbrilmente operando
il concentramento delle forze borboniche e che anche i componenti la
locale guardia urbana vi si eran diretti?348 Gli stessi
«liberali» del paese (ché alcuni ve n'erano, già
noti alla polizia e attentamente sorvegliati) si rivelarono
nell'occasione severi tutori dell'ordine, barricandosi in casa o
prodigando tutt'al piú ai rivoltosi il prudente consiglio di
abbandonare al piú presto una posizione cosí poco
sicura.
Il contegno di alcuni della masnada,
d'altronde, non era fatto per conciliar simpatie e incoraggiare
adesioni; ché, col pretesto di requisire armi, non pochi
s'introdussero nelle case private, impadronendosi di danaro e di
oggetti. Se mai non fossero giunte ancora a Torraca le informazioni
ufficiali sulla provenienza e lo stato civile della maggior parte dei
seguaci di Pisacane, provvedevan costoro ad anticiparle! Né i
capi, per quanto facessero, riparavano ad impedir ruberie e
vandalismi o, una volta commessi, a indennizzare i queruli
danneggiati.
Ripresa, senza entusiasmo, la marcia,
gl'insorti imboccarono l'impervio sentiero che da Torraca, pei monti
della Serra, mena al Fortino di Cervara (a 780 m. sul mare), punto di
confine tra la Campania e la Basilicata. Il Fortino si trova sulla
grande rotabile delle Calabrie, a mezza strada fra Lagonegro e
Casalnuovo. Oltrepassato Casalnuovo e raggiunto il Vallo di Diano, ci
si poteva gettare, a seconda dei casi, o verso l'interno, nel cuore
della Basilicata, o verso il mare, in Cilento, oppure, continuando
per la via consolare, direttamente su Eboli e Salerno.
«I faziosi — cosí
deposero al giudice due evasi da Ponza, Venturini e Catapano —
credevano di essere attesi nelle vicinanze di Sala da 2000
correligionari ed altri 500 in Padula (borgata importante fra
Casalnuovo e Sala), dopodiché sarebbero piegati in Potenza da
dove dietro la venuta dei Calabresi si sarebbero volti per la
Capitale». C'era esagerazione nel numero, ma la deposizione era
sostanzialmente esatta. Padula (lo avevano poco prima confermato
alcuni di quei saggissimi liberali in Torraca) era un centro
importante di cospirazioni settarie; resultava a Pisacane che vi si
potesse contare, a dir poco, su «duecento militari, dei quali
un terzo incirca munito di schioppi»; a Sala cento individui si
sarebbero tenuti pronti ad agire; molti altri simpatizzanti si
sarebbero racimolati nelle frazioni intermedie. Possibile che tutto
questo, tutto, tutto, tutto fosse millanteria di loquaci capi popolo
di provincia?
Ma gli organizzatori della spedizione
non avevano tenuto conto di una circostanza di capitale importanza: e
cioè che in quel periodo dell'anno, in quella regione, gran
parte della popolazione maschile soleva emigrar nelle Puglie per la
mietitura del grano.
La tappa Torraca-Fortino (12 miglia)
occupò quasi l'intera giornata. I trecento, stanchissimi,
tormentati dall'arsura, avanzavano con faticosa lentezza. «In
quel tragitto — confidò poi uno di loro — patimmo
tanta sete che credo fosse uguale a quella che soffersero i
Crociati!»349 Sul far della sera, al Fortino, fu dato
l'alt: gli uomini si accasciarono, affranti; i capi si
radunarono nella miserabile osteria del luogo. Mancavano perfino i
viveri: si dovette comprare della farina guasta e infornar quella,
malamente impastata, per essere in grado, il giorno dopo, di
proseguire la marcia.
Passarono di là due militari in
congedo, che tornavano al paese d'origine: ecco l'occasione di
saggiare lo stato d'animo delle truppe borboniche. La prova, se
vogliam credere alla deposizione giurata dei due malcapitati, non fu
incoraggiante; ché, invitati ad unirsi alla banda, essi
tentarono di svignarsela. Ma non ci fu verso: «Carogne f...,
avete finora servito il re, ora dovete servire a noi», avrebbe
detto loro «uno di quei malviventi in tono di sdegno»;
altri li avrebbero percossi. Meno male che un «galantuomo»,
che tutti chiamavano il «comandante», li trattò
umanamente offrendo loro, nell'osteria, qualche ristoro.350
I capi tenevan consiglio. La fascia
paurosa di silenzio seguitava ad avvolgerli: nessuna notizia degli
amici, nessuna dei nemici; la gente loro manifestamente spossata, non
in grado di certo di sostenere un conflitto un po' serio. Conveniva,
cosí stando le cose, discendere, secondo il piano fissato, per
la rotabile a Padula, presidiata dalle forze borboniche? O non
piuttosto, allontanandosi immediatamente dalla vicinanza dei grossi
centri abitati, guadagnare posizioni montuose in Basilicata e magari
in Calabria, ove attendere in relativa sicurezza che pervenissero
rinforzi? Nicotera e Falcone propendevano per questo diversivo; ma
Pisacane, che ancora e nonostante tutto fidava negli appoggi
rivoluzionari di Padula e Sala, fermamente si oppose. L'idea di una
fulminea marcia da sud a nord, verso la capitale, lo ipnotizzava
tuttavia, né lo atterriva minimamente la possibilità di
un prossimo scontro con truppe borboniche anche superiori di numero:
valeva cosí poco, l'esercito napoletano! La regione di
Padula-Sala, d'altronde, per l'accurato studio topografico e
logistico che n'avea fatto, gli era ormai familiare: mutare
itinerario non sarebbe stato come affrontare l'ignoto?
Parve per un momento che trionfasse
tra gli opposti pareri una tesi intermedia: giunse infatti al Fortino
nel cuor della notte (chi sa come benedetto e festeggiato: era il
primo segno di vita che, dallo sbarco in poi, fosse venuto a
rincuorare la banda!) un emissario degli amici di Lagonegro. Questi
mandavano a dire che il paese era sgombro di truppe, che gli
«affiliati» eran molti e che i trecento v'erano attesi al
piú presto. Ma Pisacane, dopo qualche esitazione, tornò
al suo parere piú convinto di prima. Se a Lagonegro il partito
era in piedi, perché dubitar che lo fosse, e ben altrimenti
efficiente, a Padula e a Sala? Un successo a Lagonegro non avrebbe
portato a nulla; un successo nel Vallo di Diano apriva invece la via
di Salerno! Gli amici di Lagonegro, dunque, facessero massa e
convergessero immediatamente, anche loro, su Padula: non bisognava
lasciare il tempo alle truppe borboniche di concentrarsi in troppo
gran numero.
Il dubbio, ahimè, non lo sfiorò
neppure che i prodi rivoluzionari di Lagonegro, professantisi
disposti a tutto pur di scuotere il giogo borbonico entro la cerchia
del borgo natío, potessero essere campanilisti al punto da
rifiutarsi di far dieci miglia per conquistare la libertà di
Padula...
Che Pisacane fosse stato bene ispirato
parve a tutti evidente quando, poco innanzi il mezzogiorno del 30, la
banda fece il suo ingresso a Casalnuovo, a mezza strada fra il
Fortino e Padula. Il paese era infatti in pieno tumulto; i gendarmi
s'eran ritirati su Sala, la loro caserma era stata presa d'assalto, e
una quantità di persone aspettavano adesso, festanti, i
trecento. Scrosciaron gli applausi alla lettura dei proclami
sediziosi, stemmi e insegne borboniche volarono in pezzi, vennero
abbattuti i pali telegrafici, saltarono fuori armi in buon numero. I
capi della spedizione ebbero un momento di vero ottimismo: eran
dunque maturi alla rivoluzione, quei buoni casalnuovesi!
Il guaio si fu che quando la banda di
lí a poco lasciò il paese, non uno di quei cittadini sí
prodighi in evviva fu capace d'imbracciare il fucile e porsi al suo
séguito. Un voltafaccia improvviso. Come spiegarlo? Pisacane,
il quale partiva dalla supposizione che quella gente avesse l'odio
antiborbonico nel sangue, non si trovava nelle condizioni migliori
per scioglier l'enigma. Si cacciò in capo che qualche
furtarello, qualche grassazione meschina commessa anche lí da
rivoltosi isolati avessero alienato alla banda la simpatia di
Casalnuovo; e risolvette di dare un esempio terribile, che valesse a
tagliare alle radici quel male. Il disgraziato che pagò per
tutti fu Eusebio Bucci, che aveva derubato di pochi centesimi una
povera donna: tradotto innanzi al «Consiglio di guerra»,
venne, con poche o punte formalità, condannato alla
fucilazione.351 La sentenza spietata si eseguí senza
indugio, a un miglio da Casalnuovo. Povero ladro Bucci, la parte di
combattente non era tagliata per te: oh quanto meglio se nessun
Pisacane t'avesse dischiuso, a Ponza, le porte del carcere!
Poi fu ripreso il cammino. Padula, il
centro piú ragguardevole fino allora toccato, venne raggiunto
in serata.
Sapri, Torraca, Casalnuovo avevan
crudelmente deluso le aspettazioni di Pisacane; ma eran piccoli
borghi rurali, senza importanza. Il disinganno patito a Padula
(nessun amico che si facesse vivo, salvo qualche liberale del tipo
Gallotti, nessuna notizia delle attese bande sussidiarie, silenzio
assoluto da Lagonegro) segnò invece di colpo il fallimento
della spedizione, ormai difficilmente evitabile. Improvvisamente, nel
terzo giorno da che v'eran sbarcati, i trecento sentirono
infatti di essere in terra nemica, all'assoluta mercè del
nemico. Perfino il fatto che la cittadina, naturalmente sgombra di
truppe, non offrisse resistenza alcuna all'occupazione (marcata dalle
solite requisizioni e sequestri, e dalla liberazione dei detenuti dal
carcere), parve sottolineare la gravità della situazione,
accrescendo l'angoscia di tutti. Altro che marcia trionfale! Intorno
a Padula si andava serrando il cerchio di ferro delle forze
borboniche: a Sapri, quella mattina medesima, eran sbarcate le truppe
provenienti da Gaeta; a Sala, dove si concentravano i distaccamenti
di gendarmeria e di guardia urbana del circondario, le compagnie di
cacciatori, partite da Salerno, erano attese da un momento all'altro.
Nel cortile di casa Romano (designata
in anticipo per quartier generale delle forze rivoluzionarie)
gl'insorti inquietamente bivaccarono; finché, nelle prime ore
del mattino seguente (era il primo di luglio), non venne segnalato
l'avanzarsi di nuclei borbonici dalla parte di Sala. Terrore? Fuggi
fuggi? Disordine? No: la stessa prossimità del pericolo, il
suo concretarsi in alcunché di preciso e visibile, parvero
anzi sollevare i trecento, che già, secondo il piano scartato
due giorni innanzi, stavano per iniziare la marcia di ripiegamento
sulla Basilicata. Era la fine di un incubo.
Gli ordini di Pisacane vennero
puntualmente eseguiti: evacuato alla svelta il paese, gli uomini
vennero piazzati in posizione elevata, disposti a battaglia.
Nonostante tutto, il generale era tornato sereno e quasi ottimista:
non che s'illudesse minimamente ormai sulla sorte del conflitto, se
conflitto si fosse davvero impegnato; ma gli s'era risvegliata
l'estrema speranza che, nel momento di scaricare le armi contro i
loro fratelli, quei soldati (commilitoni di Agesilao Milano!) e
soprattutto quelle guardie urbane, rivelando d'un tratto l'animo loro
d'uomini liberi, o avrebbero rifiutato di battersi o addirittura
fatto causa comune con loro. Gli ufficiali che guidan quelle truppe,
egli andava dicendo, son miei antichi colleghi, so ben io come la
pensano, mio fratello è tra loro, come dunque potete temere
che intendano sterminarci? E a chi, nel recargli del cibo per la
giornata, esprimeva il dubbio che dovessero poi mancargli il tempo e
la voglia per consumarlo, egli, alludendo ai borbonici, ribatteva con
un sorriso che voleva essere tranquillizzante: «Bene, mangeremo
assieme».
Divisi in due colonne, guardie urbane
e gendarmi avanzavano con evidente cautela. S'arrestarono a
rispettosa distanza, aprirono il fuoco: un fuoco blando, incerto,
inoffensivo; a sentire gli spari si sarebbe detto una caccia. Durò
cosí per due ore. Pisacane avrebbe potuto benissimo,
profittando della superiorità numerica, ordinare l'attacco a
fondo o proseguire nella ritirata già predisposta; ma era
sicuro che gli urbani non aspettassero se non il momento opportuno
per abbracciare la causa della rivolta. Temporeggiò. D'un
tratto, invece, sopraggiunsero le soldatesche del colonnello Ghio, il
fronte borbonico s'avvicinò, la fucileria si fece intensa;
molti rivoltosi caddero feriti od uccisi, il pericolo d'un
accerchiamento completo si fece imminente. Le guardie urbane
gareggiavano d'accanimento coi regolari. Pisacane si perse d'animo:
quanto piú ostinatamente s'era ribellato fino allora a quel
crescendo di disinganni che avevano accompagnato la marcia su Sapri,
tanto piú tragicamente essi lo percotevano adesso, culminando,
sintetizzandosi quasi, in quelle raffiche micidiali. Smarrí
l'usata energia. Presentiva la fine: di sé, dei suoi, d'una
Idea.
La resistenza fu rabbiosa, in qualche
punto anche eroica; ma bisognò ben presto desistere: troppo
schiacciante era la superiorità del nemico. E allora, la resa?
Ma la resa significava indubbiamente fucilazione pei capi, ergastolo
per tutti gli altri. Ritirata, dunque: abbandonare quella maledetta
regione per rifugiarsi in qualche località meno esposta,
tagliata fuori dalle grandi vie di comunicazione. Data la posizione
delle truppe borboniche, l'unico scampo possibile era ormai quello in
direzione nord-ovest, verso il Cilento, cioè: il Cilento,
terra classica delle rivolte. Ma sotto il grandinar delle palle la
ritirata divenne fuga, scompiglio, si salvi chi può. Gli
sciagurati seguaci di Pisacane, fuorché un centinaio che gli
si strinsero disperatamente d'intorno, gettaron le armi, follemente
correndo chi incontro al nemico, chi verso l'aperta campagna, chi a
rintanarsi tra le case di Padula. Battaglia? No, caccia, massacro:
feriti sgozzati, prigionieri inermi passati per l'armi, i fuggitivi
rincorsi e atterrati. Trentacinque, che in cerca di scampo
traversavano precipitosamente il paese, infilarono, inseguiti, un
vicolo cieco: impossibile uscirne, si addossarono allora,
terrorizzati e inebetiti, al muro terminale, e i fucili borbonici,
puntati e scaricati al sicuro, nel cumulo, li abbatterono urlanti
come cani randagi, un dopo l'altro, gli uni su gli altri.
Pisacane, Nicotera, Falcone, quel
centinaio dei migliori con loro, capaci ancora d'orizzontarsi, si
gettavano intanto, distanziando con la rapida corsa il nemico, per
una viottola che, traversato il Vallo di Diano, menava a
Buonabitacolo, verso il Cilento. Formavano un piccolo corpo, ancora
relativamente omogeneo, ma privo o quasi di munizioni, senza
conoscenza dei luoghi, spossato. Se le truppe borboniche li avessero
inseguiti, era finita per loro. Ma il colonnello Ghio — il
quale, secondo fu ripetuto allora da molti, aveva sostituito
all'ultimo momento, nel comando di quelle truppe, lo stesso fratello
di Pisacane, da re Ferdinando generosamente esentato352 —
aveva anche troppo da fare, quel giorno, a redigere un bollettino
della vittoria da trasmettersi a Napoli, che fosse degno del
memorabile evento. Era un pezzo che all'esercito borbonico non
toccava la gloria d'una battaglia vinta, e cosí a buon
mercato, tre morti e sei feriti in tutto... Né volle mancare
altresí di presenziare, in veste di trionfatore, alle solenni
festività religiose ordinate per quella sera medesima
dall'arciprete di Padula, per render grazie al Signore.
(Il giusto destino castigò tre
anni dopo quel Napoleone: il quale, promosso generale, doveva
arrendersi, in Calabria, alle bande garibaldine, con diecimila
uomini, senza neanche combattere!)353
«Non è facile provocare
l'insurrezione di un popolo che, per quanto saturo d'odio, ha
l'inveterata abitudine di sfogarlo soltanto a parole; l'impresa,
verosimilmente, non condurrà che al sacrifizio della vita di
questi uomini coraggiosi e disperati, i quali l'hanno arrischiata nel
pazzo tentativo di conquistare al loro paese la libertà e la
pace. In questo stesso momento, sulle colline di Calabria o nei
boschi del Salernitano, centinaia di uomini dai piedi sanguinanti,
affamati, sofferenti, errano col moschetto e il pugnale, affrontando
ogni ostacolo e ogni pericolo, spinti dalla disperazione loro e dalla
miseria insopportabile della loro patria. La vita per essi non ha
alcun valore. Esuli rovinati, tornano a casa per farsi fucilare...»
Cosí, con fantasia commossa e
pietosa, intuendo a tanta distanza la tragicità della loro
situazione e la vigliaccheria dei loro compatrioti, un giornalista
inglese scriveva di Pisacane e dei compagni suoi, due giorni dopo la
loro fuga da Padula. Né mai descrizione romanzesca ammannita
al pubblico inglese, sempre ghiotto di thrills, corrispose piú
esattamente di questa a una spaventosa realtà.
Buonabitacolo: non suonava promessa
quel nome? Sembrava infatti abbastanza probabile, dato il
concentramento di Padula, che si sarebbe potuto sorprendere il paese
sguernito di forza; a Pisacane risultava inoltre, dai pochi appunti
fornitigli a Napoli, che la lista dei «sospetti in linea
politica» vi fosse particolarmente abbondante. Chi sa, pensava,
mentre coi suoi disgraziati compagni arrancava a quella volta, chi sa
che a Buonabitacolo non s'abbia finalmente a trovar qualche aiuto; ma
certo potremo riposarvi, e avremo cibo, e qualcuno di là saprà
guidarci in salvo. Ma alle soglie di Buonabitacolo, minacciosamente
vietanti l'ingresso e la sosta, vegliava un manipolo di guardie
urbane. Rapide le comunicazioni nel regno di Napoli! Attaccarle?
Sarebbe stata follia: quei cento superstiti del disastro di Padula
stentavano a reggersi in piedi. Proseguire, dunque, in quella marcia
estenuante che durava da ore e ore? Ma dove vettovagliarsi e come
rintracciare la via, mentre già calava la notte? Ebbero il
torto di non diffidare d'un pastorello, incontrato un po' troppo per
caso, che spontaneamente si offerse di condurli per vie traverse al
paese di Sanza, poche ore di strada. Errarono a lungo, dietro a lui,
in una zona montuosa tormentatissima, senza riuscire a raggiunger la
meta; anzi la guida confessò a un certo punto d'aver smarrita
la strada. Non si resero conto che poche ore potevan decidere dalla
loro salvezza: non inghiottivano cibo e soffrivan la sete dall'alba
di quella giornata terribile! S'adagiarono in terra. Gli orrori
veduti, l'incertezza del loro domani, la spossatezza medesima tolsero
loro anche il conforto e il ristoro del sonno.
Erano in piedi, di nuovo, sul fare del
giorno seguente. Sanza non era lontana: in poche ore guadagnarono una
piccola altura sovrastante il paese. Erano affamati e sfiniti, ombre
di uomini; non volevano né saccheggiare né uccidere,
non si sognavano neanche piú di «fare la rivoluzione».
Domandavan di vivere, ecco, d'essere aiutati a fuggire: come non li
avrebbero quei terrazzani soccorsi, che soccorrevano per tradizione
perfino i briganti, e dato loro del pane e dell'acqua e insegnata una
via di salvezza?
Ma ecco dall'abitato farsi innanzi una
piccola squadra d'urbani, undici uomini in tutti. Coraggiosi, quei
difensori del regime borbonico! Appena riconosciuta la banda,
spianarono i fucili, tirarono senza esitare. Sessanta dei rivoltosi
si ritirarono immediatamente e, girando il colle, fecero per
avvicinarsi al paese; qualche minuto piú tardi sventolavano,
in segno di resa, delle pezzuole bianche. Gli altri — il gruppo
dei provenienti da Genova — restavano fermi sotto la gragnuola
di colpi. Concitato colloquio tra i capi; poi Nicotera si staccò,
rincorse i fuggenti. Perché mai capitolare, in cento che
erano? Delusione su delusione, era vero; ma non si poteva, alla
peggio, lasciando Sanza, proseguire il cammino? O almeno mantenersi
in gruppo, per trattare una resa onorevole?
Ma s'intese in quel mentre il perché
dell'audacia spiegata dagli undici urbani: nel paese le campane
suonavano a stormo; il parroco, d'accordo col comandante le guardie
urbane, radunava a precipizio la gente. Una torma di briganti —
egli si pose a gridare, e le concitate parole trovavano conferma ed
acquistavan forza nel crepitio delle fucilate — calava su Sanza
per spogliarvi le case, oltraggiare le donne, attaccare il colera.
Buona caccia per chi li atterrasse, quei galeotti fuggiti dal bagno,
ricolme le tasche di danaro rubato; il re, per sovraprezzo,
pagherebbe ogni testa a peso d'oro. E brandiva la croce, eccitando
abilmente ora la cupidigia, ora il timore, ora lo zelo religioso dei
suoi parrocchiani ignoranti. Povera gente di Sanza, perché non
avrebbero dovuto credergli? Ammazza ammazza, sono i briganti che
vogliono il sangue del popolo! I lupi rapaci! Gli assassini, gli
untori! Contadini, artigiani, boscaioli, parve che con improvviso
furore si risvegliassero in loro istinti e tendenze selvaggi, sopiti
da secoli. Corsero alle case, s'armarono d'ogni arnese che capitò
sottomano, che fosse massiccio o tagliente, roncole, falci, randelli,
spiedi; e seguíti dal prete, aizzati dalle donne, si buttarono
su per l'erta, a sterminare i briganti.
Pisacane, che avrebbe resistito fino
all'ultimo sangue a uomini pagati per difendere i Borboni, che aveva
poco prima sussultato di sdegno quando i piú tra i suoi s'eran
vilmente arresi, ora ordinò — e fu l'ultimo ordine suo,
né alcuno osò trasgredirlo — che non si reagisse.
Era il «popolo» che si
precipitava su di loro, urlando, avido di strage; il popolo schiavo e
sfruttato ch'egli aveva voluto redimere, e perciò s'era mosso
da lungi e aveva affrontato le pene di quel tremendo calvario. Ma
certo, quando avesse veduto «i briganti» immobili e
inermi, si sarebbe fermato e avrebbe gettato gli strumenti del
lavoro, con sacrilegio infame impugnati per dar la caccia all'uomo.
Ed egli, Pisacane, avrebbe parlato e detto loro chi fosse e come mai
venuto, lui colonnello e nobile, a combattere un re che era il loro
comune tiranno; avrebbe saputo esaltarli nella speranza di un regime
migliore, tutto del popolo, tutto pel popolo. Fors'anche li avrebbe
infiammati con la lettura del suo proclama, quello di Torraca, di
Casalnuovo: «Cittadini — È tempo di porre un
termine alla sfrenata tirannide di Ferdinando II... Su dunque,
chiunque è atto a portare le armi»...
Le avevano impugnate, finalmente, le
armi: né solo gli uomini, ma perfino le femmine, e
gl'indemoniati ragazzi; e tutti insieme si rovesciavano, con
incontenibile slancio satanico, su di lui, sui pochi compagni.
Oh, quelle parole accese ch'egli
stesso, forse, dodici mesi prima, aveva scritto per la Libera
Parola; «se nel paese classico di Fra Diavolo, di
Rinaldini, del Passatore e dei Lazzarini... non sorge nell'anima di
alcuni strenui giovani il generoso pensiero di farsi i Fra Diavoli
e i Lazzarini della libertà, di tentare e soffrire per
l'indipendenza d'Italia quanto Gasparone, De Cesaris e migliaia dei
loro simili hanno tentato e tentano tutt'oggi per un pugno d'oro...
oh allora, ogni parola è inutile...»
Atroce presentimento: ora gli toccava
in sorte anche la fine ignominiosa del brigante.
Lo colpiron di fucile, al fianco
sinistro; Pisacane piegò a terra. «... Siete assassini,
si dice che mormorasse, mi derubate, ed ora mi uccidete: conducetemi
alla giustizia»...354 Non un barlume di estrema
speranza, non la fierezza d'un dovere compiuto, e neanche il conforto
della cristiana rassegnazione potevano rianimarlo o rendergli sereno
il passo estremo. Non era questa la sognata ebbrezza della morte in
battaglia. Misconosciuto, tradito dai suoi conterranei, confuso in
una turba vile di galeotti, forse anche raddoppiava il suo affanno la
coscienza della tremenda responsabilità che gl'incombeva
proprio di fronte a questi umilissimi tra i suoi seguaci.
Disperatamente deluso, solo nell'anima, tra gli urli selvaggi di
quelle furie e il bestemmiar delle vittime, per cui neppure nel dolce
pensiero della sua Silvia lontana e ignara gli era dato quietamente
chiuder gli occhi alla luce, volle almeno morir di sua mano. Gli eran
quasi sul capo, ormai, roncole, falci, spiedi, pronti ad abbatterlo
come belva famelica, calata dai monti a devastare gli ovili: impugnò
fermo la sua pistola, e con un colpo si sottrasse allo scempio.
Falcone, il piú giovane, che
gli era accanto e che a malincuore aveva obbedito al suo ordine di
non resistenza, vistolo cadere, si uccise a sua volta; Foschini,
sembra, si cacciò nel cuore il pugnale. Altri sei del gruppo
di Genova vennero massacrati intorno a loro; Nicotera, accorso,
gravemente colpito, venne lasciato per morto. Dei dispersi, chi
trucidato, chi, ferito o malconcio, catturato; e i morti, per
l'insanire dei colpi, cento volte morti. Non un solo ferito fra i
popolani di Sanza; la cui rabbia di sangue, se non l'avesse impedito
un capitano Musitano sopraggiunto al comando di poche truppe
borboniche, non avrebbe risparmiato neppur gli arrestati! Non si
voleva finire lo stesso Nicotera perché rifiutatosi di gridar
«viva u' re»?
Ultimata la strage, i poveri corpi non
furon neanche sepolti, ma, in omaggio al preteso interesse della
salute pubblica (cui non nocque per altro la spogliazione accurata!)
vennero immediatamente bruciati in un immenso rogo.355 Solo
inumato, si disse, Pisacane, per volontà pietosa di quel
Musitano, memore d'esser stato alla Nunziatella, vent'anni
prima, suo compagno di studi.
Terminava cosí la spedizione di
Sapri.
Dichiarazione dei capi urbani di tutto il distretto, all'indomani
della vittoria: «I popoli affidati alle cure dell'adorato
Ferdinando II, non vogliono che lui assoluto al governo del Regno,
perché da lui ottengono il bene con la salvezza dell'onore e
della proprietà». (È vero che tre anni dopo
accoglievano con immenso entusiasmo il «liberatore»
dell'efferrata tirannia, Garibaldi...)
Rapporto sullo «scontro»
di Sanza del giudice regio: «Il clero prestossi anch'esso
piamente, mostrando al pubblico nel momento in cui ferveva la pugna
le sacre immagini dei protettori S. Sabino e S. Antonio di Padova».
(È vero che il clero di quella regione, da tempo minacciato di
inchiesta e sanzioni per notoria, scandalosa condotta privata,
cercava ogni occasione per riacquistare le grazie della suprema
autorità...)
Seguí, s'intende, un'abbondante
distribuzione di ricompense, promozioni e onorificenze. Ma non tutti
rimasero contenti; tra gli altri il molto reverendo don Domenico
Castelli, arciprete di Sanza, il quale si rammaricò col
direttore di polizia che, mentre la «gloria» del massacro
risaliva unicamente a lui e ai suoi parrocchiani, altri se la fosse
attribuita e ne avesse ritratto vantaggi: sí che nessuno aveva
pensato a rimeritare i suoi «poveri figliani, che eransi
esposti al pericolo della vita... mentre ebbero molti colpi di
archibugi; e per miracolo della Vergine di Loreto loro tutelatrice e
protettrice non furono colpiti... Ed essi loro dopo tanti sforzi e
pericoli, posti in non cale, sono rimasti dispiacentissimi, e molti
avveliti!»356
Mentre la diplomazia e la stampa
napoletana menavano gran vanto del tentativo abortito, inferendone la
provata solidità del regime;357 mentre la polizia
borbonica incrudeliva contro i sospetti complici della spedizione, e
a Salerno s'istruiva il mastodontico processo contro i superstiti;
mentre Fanelli (miracolosamente sfuggito alle ricerche) e i
«rivoluzionari» di provincia si palleggiavano accuse e
recriminazioni; mentre i «costituzionali» napoletani
declinavano pubblicamente ogni loro responsabilità nella
sciagurata impresa; negli ergastoli, nelle isole di relegazione, dove
tante fiorenti energie si consumavano invano, calava ancora una
volta, piú tetra, l'ombra della delusione. Sarebbero dunque
tutti morti là dentro senza veder la fine di quell'iniquo
regime e riacquistare la libertà perduta? Disperato Pisani
perché il Cagliari non avesse fatto scalo a Ventotene,
«siamo proprio — scriveva agli amici di Napoli — in
un orgasmo che ci divora»; fremente Magnone, detenuto a
Salerno: «Io mi sento ardere le vene e le ossa dalla febbre
d'azione. Ma non v'è speranza che mi togliessero da questa
bolgia... Pensate escogitare come farci uscire di qui...»
Indignato invece Settembrini: «Sono addoloratissimo —
cosí alla moglie — e maledico quegli scellerati che
sotto specie di libertà, standosi da lontano, mandano giovani
generosi a morire, anzi ad esser macellati... Povero paese, lacerato
in mille guise dagli sciocchi e dai tristi... Quanto sangue, quanti
mali, quante lagrime per queste imprese sconsigliate»; e dopo
qualche giorno: «Ho un peso sull'anima, che m'opprime: e
l'ergastolo mi sembra piú tormentoso, e chiuso, e stretto, e
pesante». Severo, come lui, Silvio Spaventa nel biasimare «il
colpo che ci fa perdere il frutto di dieci anni di persecuzioni
sofferte e il vantaggio d'una situazione che si rendeva ogni giorno
piú difficile pel governo. Pazienza!»358
E a Genova? Pervenutovi il sospirato
dispaccio convenzionale da Napoli annunziante lo sbarco di Pisacane a
Sapri (dispaccio spedito da un dipendente del consolato
inglese!)359, il 29 di giugno era scoppiato, come è
noto, per poi miseramente fallire, il tentativo insurrezionale; lo
stesso giorno a Livorno: né qui s'addice di ricalcare
narrazioni esaurienti, per ritracciare e dell'uno e dell'altro la
precipitosa parabola. Mazzini sfuggito alle rabbiose ricerche
condotte in tutt'Italia;360 arresti a migliaia in Piemonte e
in Toscana, espulsioni numerosissime, processi. Ecco — oltre ai
morti e ai feriti di Livorno — il triste bilancio della doppia
avventura.
La notizia del disastro di Sanza
giunse a Genova con grande ritardo.361 Fino all'ultimo si era
sperato nel successo e quasi tutti i giornali — compresi quelli
che avevano stigmatizzato con roventi espressioni i tentativi di
Genova e Livorno — avevano diffuso in proposito notizie
ottimistiche, commentandole in tono di ostentata simpatia: intere
provincie in rivolta nelle Due Sicilie, le truppe borboniche unitesi
agli insorti, clamorose dimostrazioni a Napoli. L'8 di luglio, quando
pure già tutti conoscevano la verità tristissima,
l'Italia del Popolo insinuava che le notizie del disastro
fossero state diffuse da Napoli «per ispaventare gli animi
nostri e fare esaltare quelli dei realisti».
La disgraziata Enrichetta aveva
trascorso quei giorni in una inesprimibile angoscia; solo di tanto in
tanto l'impenitente ottimismo di Jessie White era riuscito a
sommergere sotto ondate esaltatrici di speranza e di fierezza i suoi
tristi presagi. In giornata del 29 le avevano comunicato il
telegramma da Napoli; poi era stato l'eccitamento effimero del moto
genovese, lo stordimento per la sua rapida fine, l'ansia per gli
arresti e le fughe. Il 2 di luglio l'amico De Lieto aveva potuto
comunicarle i primi particolari sul «felice» sbarco della
spedizione a Sapri. Seguirono altri due giorni senza alcuna notizia
se non le poche, contradittorie, stampate dai giornali; brutto segno,
comunque, la loro stessa incertezza. E quel vuoto pauroso che le si
faceva d'intorno, amici in prigione, altri celati, altri timorosi di
recarsi da lei! Il 4 di luglio, mentre la White veniva senz'altro
arrestata,362 la polizia si presentava a perquisire la casa
di Enrichetta sotto pretesto che essa «si faceva centro dei
complici del tentativo di sommossa avvenuta in questa città la
notte dal 29 al 30 p. p. Giugno per diramare le notizie
dell'andamento delle cose ai diversi complicati». Al primo
scorgere gli sbirri, Enrichetta tentava invano di far sparire,
gettandole dalla finestra, due lettere, una delle quali
compromettente per l'amica inglese. La polizia le sequestrò
insieme ad altre due lettere di Cosenz, a varie ricevute sospette e a
una nota cifrata. La povera donna, pur intuendo quel che la
perquisizione significava per lei, ebbe la forza di rispondere con
disinvolta accortezza alle domande rivoltele. Passarono altri sei
giorni d'inferno: l'11 luglio venne il colpo di grazia. In quel
giorno — riferí poi la torinese Gazzetta del Popolo
(16 luglio) — «si recavano in casa della Signora Di
Lorenzo il Giudice del sestiere S. Vincenzo; il Vice console di
Napoli ed il loro codazzo. Il giudice appena entrato disse per tutto
saluto alla sconsolata compagna di Pisacane, che essendo morto Carlo
Pisacane egli doveva mettere i suggelli alla sua roba nell'interesse
dei suoi eredi: ed il vice console profittando dello sbalordimento,
del dolore della Signora, si recò nella camera da letto, ne
frugò ogni cosa, ne trasse delle lettere... Ora la sfortunata
compagna di Pisacane, ridotta ad uno oscuro salotto d'entrata, avendo
tutte le altre camere suggellate, fu costretta a disertare da casa
sua cercando un ricovero altrove...»363
Sequestrate tutte le carte del suo
diletto Carlo (minute di scritti politici, lettere di Cattaneo e,
cocente per lei, la «confessione» che ella gli aveva
mandata a Lugano, nell'ottobre '50), portati via tutti i libri,
cacciata essa stessa fuori di casa, priva del conforto degli amici
migliori, senza risorse economiche, con la piccola Silvia malaticcia,
e, in un ambiente cosí stretto e severo come il Piemonte
d'allora, senza neanche la suprema fierezza di venir rispettata qual
vedova di Pisacane, Enrichetta si trovò, indifesa, alla mercè
della polizia e, peggio, della loquace stampa. Ne compiangeva piú
che ogni altro la durissima sorte (cui era essa stessa — per
allora! — miracolosamente scampata) Rosetta, l'amica di Pilo,
lamentando che sui giornali si fosse «scritta e pubblicata la
loro storia amorosa; e anzi quella povera donna venisse anche
disprezzata da molti, e chiamata donna venduta e di
mondo».364 E nonostante tutto Enrichetta non poteva,
non voleva, non sapeva credere a quel che era accaduto: si difendeva
contro l'atroce dolore, respingendolo, negandolo. «La povera
Enrichetta... ancora non crede tutto quel che le dicono. Come sarà
terribile il giorno in cui se ne persuaderà», scriveva
Mazzini ancora il 14 luglio. Ed essa stessa, il 13 d'agosto, a
Rosolino Pilo, rivelandogli tutta la sua tragedia interiore: «Sono
48 giorni dacché il mio Carlo m'abbandonò, si dice
ch'ei sia morto da 41 giorni, ed io nol posso ancora credere... Ho
perduto l'uomo impareggiabile! Ed è molto crudele che la sua
morte non ha giovato menomamente al nostro paese!... Ei non
prevedeva; ma io sí, e glielo dissi l'ultimo giorno, ma il
povero Carlo era afferrato, non poteva piú ragionare...
Saprete tutte le sevizie che mi sono state usate... Oh come era
illuso il povero Carlo su tutto!... Le voci, che corrono qui ora,
sono che Carlo vive; ma io nol credo... Alle volte mi balena il
pensiero che forse ei voglia provarmi e vedere se era vera la sua
convinzione che anche la sua morte mi avrebbe giovato...»
Tornata nella sua casa, questa divenne
— col progressivo normalizzarsi della situazione genovese —
luogo di riunione degli amici di Pisacane, e in genere dei mazziniani
e dei fuorusciti napoletani. Enrichetta, nel perpetuo va e vieni
degli amici, che in quelle stanze si recavano (notava la polizia)
«come se vi fosse la tomba di Pisacane», riusciva a
stordirsi se non a trovar distrazione. Ma non piacque la cosa alle
autorità piemontesi; ed ecco lo sfratto da Genova! La
poveretta vi si oppose fin che poté, accampando tutti i
pretesti possibili, e principalmente la delicata salute di Silvia; ma
dopo che nel gennaio '58, nel corso di una nuova perquisizione, le si
rinvenne una lettera firmata Mazzini, il provvedimento non fu piú
revocabile.365 Nell'aprile '58 dové dunque trasferirsi
a Torino, sempre sorvegliatissima:366 quanto piú sola,
nella capitale, e quanto piú morto, ivi, e dimenticato dovea
sembrarle il suo Carlo! La polizia attestava come essa vivesse
ritiratissima, poco frequentata dagli emigrati, «anzi poco
curata, e generalmente disprezzata pe' suoi antecedenti poco morali
sebbene l'amica da lunghi anni di colui che viene portato alle stelle
dai Mazziniani».
Non le concessero di ritornare a
Genova che sulla fine del '58.367 «Pensa solo
all'educazione della figlia, scriveva quell'Intendente, non vede che
le famiglie Boldoni e Camozzi e qualche altro emigrato; non pensa
alla politica, vive di aiuti che riceve dalla famiglia del marito e
dei frutti di un suo capitaletto di 3000 lire».
Ma oltre alla missione di educar
Silvia (che nel '60 Nicotera, liberato dalla galera, adottò
come figlia ed ebbe poi sempre carissima, fin quando, ancor giovane,
essa morí, nel 1890)368, altri due grandi scopi aveva
allora la grama vita di Enrichetta: la pubblicazione dell'ultima
opera di Pisacane, lasciata da lui mal compiuta e
scorretta,369 e il soccorso materiale e morale ai superstiti
di Sanza, invidianti, nei durissimi ergastoli, Pisacane
caduto.370
Cavour, sinceramente indignato contro
le delittuose iniziative di quell'«infame cospiratore, vero
capo di assassini e demonio» che rispondeva al nome di Mazzini
(tanto da augurarsi di vederlo un bel giorno «appiccato sulla
piazza dell'Acquasola»), esprimeva al governo napoletano la sua
solidarietà; e intanto anche la falange dei patrioti
costituzionaleggianti e un'ampia frazione degli stessi repubblicani
si levavano a rumore, scagliando furiose invettive contro il grande
fuggiasco: fu un plebiscito d'odio che avrebbe sommerso per sempre,
fuori di Mazzini, chiunque.371 Né solo le vecchie
accuse d'incapacità e di codardia gli piovvero addosso: ché
si giunse perfino a stampare aver egli saputo provveder con vantaggio
a' suoi meschini privati interessi mentre il Cagliari navigava
alla volta di Sapri!372 Mazzini, per fortuna di tutti, non
esclusi coloro che piú rumorosamente maledicevano a lui,
teneva duro; amareggiato, deluso, ferito nell'anima, stringeva le
mascelle e tirava innanzi; pareva non avvertisse neanche il coro
delle imprecazioni! «Come potete ideare — scriveva a
un'amica, in settembre —, ad ogni ritorno, ad ogni anno,
s'aggrava piú sempre su me quel tedio della vita che non ha
nome ed al quale porrei in qualche modo una conclusione, se qualche
affetto non mi confortasse a durare». Ma poi, stupenda ripresa:
«Le cose d'Italia sono com'erano; i tentativi falliti sono
conseguenza di casi che possono riprodursi, ma che non cangiano la
natura delle condizioni generali. Si può fare. Vi sono
elementi piú che sufficienti. Una vittoria li porrebbe tutti
in moto. Con questa convinzione, è dovere il tentare sempre; e
se riesco a raccogliere mezzi sufficienti ritenterò».
Cecità? O, come si volle da alcuni, insensibilità di
fronte al disastro? Non gli pesava dunque il corpo straziato di
Pisacane? Anzi lo risuscitava, l'amico perduto, facendo del suo nome
un'idea, lui solo! Gli si gridava il crucifige, ed egli, (in
ottobre) in una circolare del partito d'azione, osava scriver cosí:
«Il sacrificio eroico d'uno dei migliori nostri, Carlo
Pisacane, ha suscitato simpatie universali. A noi, fratelli
suoi nell'Associazione, impone un nuovo dovere di costanza e di
attività. Noi non siamo uomini se non ci adoperiamo a
compirlo».373
Chi dava tanta prodigiosa forza a
quell'uomo precocemente invecchiato, malato e incanutito? Morale
eroica! A Rosolino Pilo — altra sua «vittima
predestinata» — scriveva: il colpo è gravissimo,
«ragione di piú perché noi rimaniamo fermi
sulla nostra via di predicazione e d'azione». La disfatta, le
ingiurie lo trasumanano, moltiplicano all'infinito la sua attività,
dànno un commosso fremito d'ali alla sua prosa. Processo di
Genova? «Badate — fulmina i magistrati — che a
giudici Italiani i quali nel 1858 pronunziassero: gl'Italiani che
volevano morire o vincere con Pisacane per la libertà della
Patria meritano il patibolo o la galera, né Dio né gli
uomini perdoneranno». Sottoscrizione per far la dote a
Silvia?374 Opera santa, Italiani, «ma ricordatevi, che
se santo è l'aiuto agli orfani dei martiri del paese, piú
santo è l'impedire che martiri siano, e ricordatevi che, se
mezzi maggiori concedevano a Pisacane l'inoltrarsi securo fin dove
popolazioni numerosamente accentrate e meno ignoranti potevano
secondarlo, fors'a quest'ora egli sollevava da Napoli tutte le
popolazioni che s'agitano tormentate fra le Alpi e il Faro». E
via e via, in un crescendo allucinante che ai contemporanei dové
sembrare monomaniaco. C'è un momento nella vita delle nazioni
schiave «nel quale ogni tentativo, fallito o no, giova
visibilmente alla causa del popolo che combatte. L'Italia ha
raggiunto questo periodo». Fino a quei commossi Ricordi
su Pisacane, culminanti nella espressa certezza che se l'amico
«avesse potuto, cadendo, mandarci un ultimo grido, questo grido
ci avrebbe detto: rifate, tentate, tentate sempre fino al giorno
in cui vincerete».
Perché Pisacane morto era per
lui, ormai, quel che Jacopo Ruffini, i Bandiera, Tito Speri, morti,
erano stati: una pausa di sbigottimento, di dubbio, di rimorso; poi
un nuovo balzo in avanti, quasi disperato, piú risoluto che
mai. Era la grande sua idea che cacciava sempre piú fonde le
radici nel tessuto vivo della nazione italiana. Alla testa d'una
colonna di martiri, egli, cui pur pareva che incombesse da un dí
all'altro la fine, respinta solo da una volontà indomita,
poteva ormai parlare parole solenni: non s'incarnavano in lui, con i
diritti e le aspirazioni dei vivi, i diritti e le aspirazioni dei
compagni caduti?
Quanti, nei necrologi stampati per
Pisacane o in intimi sfoghi, avevano deprecato il suo vano
sacrificio!375 Perfino Enrichetta: «è molto
crudele che la sua morte non ha giovato menomamente al nostro paese».
Mazzini solo misurava e capiva.
Il viandante ansioso di varcare il
torrente getta pietre una sull'altra, nel profondo dell'acqua, poi
posa sicuro il suo piede sulle ultime, che affiorano, perché
sa che quelle scomparse nel gorgo sosterranno il suo peso.
Pisacane, anche lui, pareva sparito
nel nulla. Ma sulla sua vita, sulla sua morte poteva posare, e posa,
uno dei piloni granitici dell'edificio italiano.
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