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Nello Rosselli
Carlo Pisacane nel Risorgimento Italiano

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  • CARLO PISACANE NEL RISORGIMENTO ITALIANO
    • Capitolo undicesimo Fine
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Capitolo undicesimo
Fine

 

Havvi un'altra chimerica idea sparsa in Italia. Sognano alcuni che fra un gruppo di montagne, anche un pugno di giovani arditi, potrebbero difendersi contro un prepotente nemico. Ma in primo luogo, la guerra rivoluzionaria essendo d'offesa e non già di difesa, cosí operando mancherebbesi al fine prefisso; inoltre, tal genere di guerra può combattersi solamente da coloro che abitano in questi monti... Ma può combattere in tal modo gente a cui siano nuovi i luoghi, e che non possegga neppure una capanna, neppure le vettovaglie necessarie per un giorno?

Saggi, IV, 143-144

 

«Questa volta — scriveva Pilo a Fabrizi alla vigilia d'imbarcarsi col nuovo carico di fucili e munizioni — m'auguro che si sarà piú fortunati. Per Dio! Non credo che si debba una seconda volta scatenare un diavolerio tale da farci mancare all'impresa».

Il tempo fu, invero, galantuomo; ma Pilo e i suoi diciassette compagni, fissando per le ore della notte e per un punto a 30 miglia al largo di Sestri il ritrovo col Cagliari dimostrarono ahimè di avere appreso meno che niente dalla prima esperienza fallita: le poche barche a remi sulle quali, la sera del 24, essi presero il largo, non disponevano neanche dei piú elementari strumenti di orientamento! Al Danèri, tecnico navale, nessuno aveva chiesto consiglio.

Nel pomeriggio di giovedí 25 partirono quelli del Cagliari.301 S'imbarcarono alla spicciolata, ostentando di non conoscersi fra loro; alcuni hanno il biglietto per Tunisi, altri (come il «possidente» Pisacane e l'«avvocato» Nicotera) per Cagliari; piú d'uno viaggia sotto mentite spoglie: Falcone ad esempio è il sig. Giuseppe Capatti.302

Allegria generale. Mazzini, che li abbraccia uno per uno, resta colpito dal «sorriso di fede ignara del tempo» che lampeggia sul volto di Pisacane: lo stesso sorriso che lo ha stretto a lui «nel primo nostro colloquio a Roma». Eppure, nessuna notizia da Napoli! Ma Pisacane tranquillamente ripete: «S'io riesco ad eseguire lo sbarco, se non mi arresta qualche vascello da guerra del Borbone, potete ritenere sicuro il buon successo, e certo il trionfo della rivoluzione».

Sale a bordo, per salutare i partenti, un gruppetto d'amici: tra gli altri Jessie White; anch'essa, che reca a Nicotera «un fervorino pei macchinisti inglesi a bordo del Cagliari»,303 resta ammirata del sorridente aspetto, della maschia risolutezza di quei trenta giovani.

Altri complici e amici — e forse Enrichetta tra loro — spiano ansiosi dall'alto della collinetta del Carignano la partenza del vapore. Si è notato che la vigilanza della polizia sulle banchine è stata intensificata in quei giorni; si teme (qualcuno forse lo spera in cuor suo?) che nasca qualche trambusto, prima del levar delle àncore.

Niente: gli ufficiali di sanità discendono tranquillamente a terra, il Cagliari (sono le sette pomeridiane) finalmente si stacca; dal Carignano se ne segue con emozione la rotta, finché la nave non si cela nell'orizzonte brumoso.

 

Venerdí 26 fu giorno di passione per Mazzini e i suoi complici trattenutisi a Genova. Bruciava nelle loro mani il telegramma convenzionale da spedirsi a De Mata: solo al ritorno delle barche si sarebbe potuto sapere se l'ammutinamento a bordo era riuscito, e queste non tornavano mai! Spedir senz'altro il dispaccio? Aspettare ancora? Nell'uno e nell'altro dei casi si correva un pericolo grave, quello di scatenar la sommossa nel napoletano senza l'appoggio della spedizione, o di esporre Pisacane a sbarcare inatteso.

«Fin ora non ho notizie esatte — spasimava Mazzini in un biglietto alla White, la sera inoltrata di quel giorno —. Ma tutto fa credere che le barche e il vapore non si siano incontrati. Se il vapore è nostro, a Pisacane mancheranno 19 uomini, 100 fucili ecc. Tuttavia è uno di quei passi dai quali non si può tornare indietro; e se hanno agito, qualcosa debbono tentare; è delitto di pirateria, il loro. Se le barche avessero incontrato il vapore, le piú piccole sarebbero ritornate di pieno giorno; il non esser giunte dimostra che, cariche come sono di uomini e di fucili, non osano venire se non di notte... Questa fatalità... è veramente troppo grave da sopportare per un uomo; tuttavia, la sopporto...» Non aveva suggellato la lettera che gli toccò aggiungere, con la morte nel cuore; «No; non si sono incontrati».304

Come il 9 di giugno, ma disfatto questa volta, preda di una violentissima crisi nervosa, era tornato Rosolino Pilo: nonostante l'accensione di razzi luminosi e di fuochi, nonostante che le barche avessero perlustrato durante tutta la notte la zona stabilita, nessuna traccia s'era trovata del Cagliari! Colpa del vento, che aveva soffiato furioso, e forse inavvertitamente spinto a deriva le barche?305 Pilo non riusciva a spiegarselo. Si era dovuto comunque passar la giornata al largo, per poi, dopo il tramonto, approdare al promontorio di Portofino e nascondervi alla meglio, in caverne, le casse dei fucili.306

Che n'era dunque di Pisacane? Pilo vedeva terribilmente nero:307 secondo lui, era il disastro definitivo. Mazzini poi! Raddoppiavano in lui le incertezze per Napoli, per Livorno e per Genova.

Ma ecco, il mattino del 27, a rianimare le cadute speranze, un telegramma convenzionale da Cagliari: il postale, atteso in giornata del 26, non v'era giunto. Segno certissimo che Pisacane non s'era dato per vinto, dopo il mancato incontro. A precipizio allora venne spedito — ma era assai tardi! — l'avviso a De Mata, e si confermarono gli ordini per Livorno e per Genova.

Mazzini, pur dubitoso che Pisacane potesse, con quei pochissimi mezzi, eseguire il suo piano, andò pian piano ricuperando la calma abituale: il grande giuoco, e forse il giuoco finale, stava per iniziarsi.

 

L'ammutinamento a bordo del Cagliari era infatti perfettamente riuscito, appena un'ora dopo la partenza da Genova.308 Quattro urlacci (Italia, libertà, repubblica) dei congiurati, radunatisi all'improvviso in coperta, pistola alla mano, berretti rossi in capo,309 e il capitano, Sitzia, piú morto che vivo dallo spavento, s'era lasciato tradurre dal ponte di comando in cabina, dove l'avevano lasciato con una sentinella alla porta; il resto dell'equipaggio, macchinisti inglesi compresi, aveva ceduto con marcata sollecitudine all'intimazione degli ammutinati di non tentar resistenza di sorta.310 Quanto al Danèri, egli aveva finto benissimo di cedere a una sopraffazione inaudita quando s'era piegato ad assumere, lui semplice passeggero, il comando della nave.

Il cambio della guardia, bisogna convenirne, non avrebbe potuto svolgersi piú incruento e pacifico. Ad aggiungergli comicità pensò poi il cuoco di bordo, nella deposizione resa dinanzi ai giudici salernitani: «Io stava in cucina in coperta ad una cotteletta pel capitano (sic), quando sentii un gran rumore, e delle grida, e vidi che vari, afferrato il capitano, che dava ordini, lo fecero entrare nel suo camerino pure in coperta. Rimasi spaventato di quell'operato, ma pur essendo colla cotteletta m'accostai al camerino del capitano per chiedere se voleva esser servito, ma trovai il capitano tutto spaventato e piangente, e mi disse che egli non comandava piú. Intanto un certo Nicotera mi afferrò pel colletto della camicia, e con pistola in mano mi disse che era egli che comandava, e io risposi che avrei fatto da mangiare... e durante quel viaggio il Nicotera mi dava gli ordini di tenermi ad economia, vedendo che pochi erano i viveri che avevamo». Era quel cuoco medesimo che, giunto il Cagliari a Sapri e invitato a sbarcare, cosí modestamente se ne schermiva: «che avevo il brodo al fuoco, e che non potevo abbandonare la cucina», sí che «mi lasciarono quieto».311

Mentre il Cagliari, mutata rotta, si dirigeva al punto stabilito per l'incontro con le barche di Pilo, Pisacane — su richiesta del Sitzia, che non ad altro pensava che a «mettersi a posto» con la sua Compagnia — verbalizzava l'accaduto sul giornale di bordo. Il suo resoconto, immediatamente firmato da ventuno dei suoi seguaci, si chiudeva con una Dichiarazione di superba bellezza:312 «Sprezzando le calunnie del volgo, forti della giustizia della causa e della gagliardia delle nostre anime ci dichiariamo gli iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non risponderà al nostro appello, noi senza maledirlo sapremo morire da forti seguendo la nobile falange dei martiri italiani. Trovi un'altra nazione del mondo uomini che come noi s'immolino alla sua libertà, ed allora solo potrà paragonarsi all'Italia, benché sino oggi ancora schiava».

Dalle nove alle dieci le barche avrebbero dovuto essere in vista; il Cagliari accese speciali lumi a prua, incrociò nei paraggi, piú avanti, piú indietro, a velocità ridottissima: inutilmente. Si scrutò il mare da ogni parte, si ordinò, a bordo, il piú assoluto silenzio: le macchine sussultavano appena, si sarebbe potuto cogliere anche un grido lontano. Ma che: nessuna luce nella notte fonda, nessuna voce nel vasto silenzio.313

Passavan le ore: si stava perdendo del tempo prezioso, in una ricerca probabilmente vana. Che fare? Gli stessi dubbi lancinanti che un po' piú tardi avrebbero attanagliato l'animo degli amici di Genova. Tornare a terra, come se niente fosse? Una fine tragicomica... Oppure attendere, incrociando in alto mare, il 29 di giugno, per sbarcare in qualche punto della Liguria, e marciare su Genova?314 Ma le scorte di carbone non eran bastevoli;315 e poi il moto di Genova non sarebbe stato contromandato, nella incertezza sulla sorte del Cagliari?

Fu una fortunata scoperta quella che indicò la via da seguire: nella stiva del vapore, tra l'altre merci, si trovavano «tre casse di boccacci di venticinque ognuna, tre di fucili a due canne di venti ognuna, ed una cassa di semplici canne», dirette a Tunisi. Era il carico d'armi che il Cagliari, da qualche tempo, recava in ogni suo viaggio da Genova, e che tanto avea dato da pensare allo zelante console napoletano. Come mai né Mazzini né Pisacane l'avevan saputo?316 Comunque, era la manna dal cielo! È vero che non c'eran cartucce; ma con la polvere da sparo di dotazione del Cagliari i rivoltosi le fabbricaron da loro. La nave allora (era il mattino ormai) prese la via del Sud. Navigazione normale. Pisacane profittava di quella provvisoria quiete per studiare i suoi appunti topografici, per scriver lettere ed abbozzare proclami, che Falcone poi ricopiava; Nicotera fungeva da commissario di bordo.

L'alba, il primo mattino: niente di nuovo. All'undici apparve alla vista una squadra di legni da guerra. Non si sa mai: venne sgombrato il ponte, si serrarono giú nella stiva passeggeri ed equipaggio. Le navi sfilarono dappresso, potenti e sicure, senza far caso del Cagliari, dileguandosi poi verso levante; era la squadra mediterranea inglese che, al comando dell'ammiraglio Lyons, si trasferiva dalla Sardegna a Livorno, in giro di visite ufficiali. Del viaggio del Cagliari il Lyons, nonostante qualche apparenza sospetta, sapeva in verità meno che nulla.317

Scorse tutto il resto del giorno, che era venerdí 26, senz'altri incidenti. Si procedeva a nove miglia all'ora.

Ponza, vigilata dalle due isolette minori, disabitate, di Palmarola e Zannone, non comparve che all'alba di sabato; essa si presenta rocciosa, allungata ad ellisse, le sponde tormentate precipitanti a picco nel mare; la vegetazione è povera e bassa. In faccia a Ponza, sulla lontana costa, s'indovina Gaeta; a un trenta chilometri, in direzione sud-sud est spicca il profilo schiacciato di Ventotene e l'altro, rigonfio, di S. Stefano.

Il Cagliari giungeva da nord-ovest; Ponza gli si offriva dal suo fianco piú aspro dove non è luogo all'approdo di navi grosse, ché l'incantevole insenatura falcata detta Chiaja di Luna, tutta serrata da una ciclopica muraglia naturale, e — all'estrema punta settentrionale — il porticciuolo di Forni hanno fondali assai bassi. Dalla Chiaja di Luna un passaggio in parte scoperto, in parte sotterraneo, di costruzione antichissima, mena con breve tragitto all'opposta sponda dell'isola dove, attorno a un buon porto, l'unico di Ponza, s'addensa l'abitato principale.

A Napoli qualcuno pratico del luogo aveva suggerito che il Cagliari, anziché attaccare nel porto, calasse scialuppe innanzi alla Chiaja di Luna; e infatti di là la sorpresa su Ponza sarebbe stata piú facile; ma i venti o i venticinque uomini che l'avessero eseguita avrebbero dovuto attraversare tutto il borgo prima di poter affrontare la guarnigione, prima di potersi incontrare col grosso dei relegati; né la loro azione avrebbe potuto essere appoggiata dal Cagliari, lasciato dall'altra parte dell'isola: l'esito, dunque, si presentava infausto. Molto piú promettente e sicuro, se pur necessitava piú astuzia, il piano che si seguí.

Il vapore doppiò l'isola e, invertita la rotta, avanzò fino all'imboccatura del porto, intorno al quale il paese raduna a gradinata semicircolare le sue casette dai colori vivaci. L'arrivo di un bastimento di quella stazza a Ponza era allora un fatto piú eccezionale che insolito: piccoli navigli a vela bastavano pel servizio dell'isola, e solo di tanto in tanto vi capitava, dalla prossima Gaeta, qualche scorridora borbonica in missione militare. Quando dal Cagliari, dunque, si fanno le segnalazioni d'uso per la richiesta del «pilota pratico», necessitando la nave di riparazioni, non è meraviglia che i ponzesi tutti e i relegati318 — liberi questi di circolare in paese dall'alba al tramonto, e ghiotti, s'intende, d'ogni novità che venga a rompere la desolante monotonia di quella vita d'esilio — s'affrettino alle finestre e alla spalletta fronteggiante il porto, per godervi l'inatteso spettacolo.

Il pilota s'accosta con la sua barca alla nave, disposta in modo da celare al paese la murata recante la scaletta d'imbarco: giunto che egli è sotto bordo, un gruppo di rivoltosi che ha preso posto in una lancia, ghermitolo, lo costringe con minacce a salire sul ponte per fornir schiarimenti sull'isola. Lo stesso trattamento, sempre inosservato da terra, viene usato al capitano del porto e a un ufficiale della piazza, sopraggiunti di lí a poco. Poi, mentre una signora che è fra i passeggeri (un'italiana residente a Tunisi) compiacentemente si presta a stornare eventuali sospetti camminando tranquilla su e giú sopra coperta,319 il Cagliari s'avanza nel bel mezzo del porto, getta l'àncora, cala le imbarcazioni. I rivoltosi si dividono in tre squadre: la prima, per ogni evenienza, rimane sulla nave (saggia precauzione, ché — depose poi al giudice il fuochista Rebora — già era corsa fra gli uomini dello spodestato equipaggio l'«intelligenza» di far partire il vapore piantando a terra gl'incomodi nuovi padroni); la seconda, con Nicotera, Falcone e Danèri, accosta alla banchina, e là garbatamente domanda il permesso di visitare l'isola; la terza, con Pisacane in testa, s'è riservato il compito piú arduo: girare in barca la gettata del molo e assalir di sorpresa il posto di guardia (la Gran Guardia, secondo la pomposa nomenclatura borbonica). Non appena impegnato da questa squadra il conflitto — quattro feriti fra i rivoltosi — il gruppo Nicotera si avventa su altri militari di fazione sulla banchina, due ne getta in acqua, i restanti fa prigionieri. Indi corre a rinforzar Pisacane. La Gran Guardia si affretta a deporre le armi. Due cannoni che minacciano il porto vengon resi inservibili. I rivoltosi, a squarciagola inneggiando all'Italia, alla repubblica, alla liberazione dei relegati, si scagliano adesso contro il palazzetto dove ha sede il comando, fronteggiante la Gran Guardia. Per le scale dell'edificio un coraggioso ufficiale, il tenente Cesare Balsamo, li affronta con la sciabola sguainata; ma è sopraffatto, e stramazza colpito al petto. Un aiutante, che da un terrazzo del secondo piano invoca al soccorso, resta ferito. Il comandante la guarnigione non è un eroe: si dà prigioniero320 (salvo poi, nei suoi rapporti, a gonfiare per sua giustificazione l'impresa del Cagliari fino a paragonarla a quelle dei «tempi del Barbarossa» e anche all'«inumana e barbara pirateria africana»). Tra quel frastuono ecco intanto affollarsi nella via sottostante i relegati a centinaia, pochi «politici» e molti «comuni» (o coatti, come oggi si direbbe): non han tardato a prender fuoco anche loro ed ora gareggiano con quelli del Cagliari nell'affrontar militari, nel far razzia d'armi, e piú nel gridare evviva ed abbasso.

Resta da conquistare il castello, un massiccio edificio che incombe, dal sommo del poggio, sul paese e sul mare: in esso, col grosso delle forze borboniche, è alloggiata la compagnia dei militari in punizione, assai numerosa dopo l'attentato Milano. Il castello, chi lo guardi, sembra addirittura imprendibile; senonché, mentre a difenderlo son dei «territoriali» poltroni, resi esitanti, per di piú, dalla voce che subito circola tra loro non essere il Cagliari che il messaggero d'una gran rivoluzione scoppiata in terra ferma (voce, questo è il guaio, non affatto incredibile), ad assalirlo è una mano d'arditi; s'aggiunge il caso che quasi tutta l'ufficialità dell'isola, acquartierata in una casa a mezza salita, anziché precipitarsi al primo allarme in castello, si lascia sorprendere inerme, e in blocco ridurre all'impotenza. In men che non si dica, dunque, il castello, con tutti i suoi difensori, col suo fornitissimo magazzino d'armi, coi suoi bravi cannoni puntati, passa ai rivoltosi, coi quali i militari in punizione fanno immediatamente causa comune.321

Pisacane è il padrone di Ponza; o piuttosto lo è la marmaglia dei relegati comuni, i quali — liberati per prima cosa i detenuti dal carcere — a modo loro gioiscono della conseguita vittoria, sfogando il rancore della lunga massacrante disciplina forzata: il paese (sono le dieci appena) è in pieno tumulto, i ponzesi spauriti si barricano in casa o fuggon nei campi, l'archivio giudiziario e quello di polizia vengon dati alle fiamme, vari edifici pubblici sottoposti al saccheggio, abitazioni particolari visitate e spogliate. «Senza una camicia» rimasero perfino gli agenti della pubblica forza!322

Cosí l'ideale rivoluzionario di Pisacane e compagni principiava a trovare attuazione. L'elemento piú preoccupante della situazione era costituito, senza dubbio, dalla vastità stessa del successo, dalla stessa unanimità dei consensi trovati fra le varie categorie di quegli obbligati residenti di Ponza: relegati delle due specie, militari in punizione, detenuti comuni. Non era facile per quelli del Cagliari frenare lo zelo... rivoluzionario dei loro troppo numerosi accoliti, quietare il paese, tentar di discernere, in quella folla in tumulto, chi fosse meno indegno di seguirli a Sapri.

Sul Cagliari avrebbero voluto salir tutti quanti. Come fare a distinguerli? Salí chi poté. 117 militari in punizione, 128 detenuti, 75 relegati, dei quali solo una dozzina politici, 3 presidiari e due povere donne, consorti di relegati!323 La ressa, il tramestío eran terribili; quelli che restavano a terra reclamavano a gran voce promesse che presto si tornerebbe a liberarli tutti. È vero che poi, al processo di Salerno, qualcuno di quei fuggitivi venne fuori con l'asserzione che Pisacane e compagni «qualunque giovane incontravano nel paese a viva forza gl'imponevano di seguirli»;324 ma è mai possibile che trenta individui potessero forzar la volontà di oltre trecento? La fola venne d'altronde smentita da tutti i testimoni. Piú verosimile, se mai, che le presunzioni ottimistiche sul successo finale dell'impresa, partecipate da quei del Cagliari, in perfetta buona fede, ai loro seguaci di Ponza, si tramutassero, passando di bocca in bocca, complice l'eccitamento di tutti, in assicurazioni categoriche. Tipica a questo proposito la deposizione del relegato Signorelli Rocco: «Sí il cosiddetto generale che gli altri... faceano intendere nell'esortare la massa che ben altri 18 vapori sparsi nel mare conteneano lor compagni, e che tutti doveano vedersi al Pizzo..., che eran protetti dal Turco e dallo Inglese».325 Dove si vede come certe speranze, invero assai problematiche, nutrite dai capi si fossero trasformate, nella fantasia di ignoranti seguaci, in dati di fatto accertati.

Il programma della spedizione preventivava una sosta a Ponza di non piú che otto ore, per poi, se necessario, far tappa a Ventotene. Nel fatto, un po' per la gran confusione, un po' per la necessità di rifornire di combustibile il Cagliari, l'intera giornata del 27 di giugno trascorse prima che si fosse pronti alla partenza. A Ventotene si dové rinunciare.326 Ritardato sull'ultimo da un disgraziato incidente, il vapore non levò l'àncora che a mezzanotte circa. Danèri stava infatti per ordinare l'avanti,327 quando — nell'oscurità — fu intravveduta una barca che a gran forza di remi si allontanava dal porto. Non era un momento, quello, propizio alla pesca: sospetta, dunque, la barca. Dal Cagliari si cala all'inseguimento una lancia; ma mentre Nicotera, con altri, fa per prendervi imbarco, nell'orgasmo e nel buio, precipita in acqua. Lo tiran su vivo per puro miracolo. Nell'incidente si perde del tempo, e intanto la barca si è perduta di vista: prudenza vuole che il Cagliari, ormai già tanto in ritardo sull'orario previsto, non si trattenga piú oltre nelle acque di Ponza; e dunque, partenza direttamente per Sapri. La barca misteriosa, intanto, si dirigeva a Gaeta, dov'era la Corte reale, recandovi le straordinarie notizie dell'isola e, tra molte voci infondate, quella esattissima della destinazione del Cagliari. Gran merito, questo notturno raid, del parroco di Ponza, Vitiello, che n'avea presa l'iniziativa un po' per paura di nuovi eccessi dei relegati a suo danno, un po', disse lui, per senso di dovere, ma piú che tutto per ragionata speranza di ricompense e favori: certo si è che la casata sua figura oggi tra le piú facoltose e altolocate dell'isola.328

 

Quando si venne all'inchiesta ufficiale sullo straordinario episodio della «presa di Ponza», le supreme autorità napoletane non poterono acquietarsi di certo alla versione, premurosamente accreditata dagli interessati, che la forza discesa dal Cagliari fosse ingentissima. Ma la ricerca delle responsabilità dovette riuscire alquanto penosa. Molto si disse e fantasticò, è vero, sulle intese che evidentemente i relegati politici dovevano aver stretto in precedenza, per chi sa quali vie misteriose, con gli organizzatori della audacissima impresa329 (siamo giusti, chi poteva mai imaginare che Pisacane fosse davvero partito da Genova cosí digiuno d'intese da ignorare perfino che a Ponza i relegati politici fossero quantità trascurabile?) La versione ufficiale, dovendo spiegare la paralisi della guarnigione militare dell'isola, preferí dunque attribuirla piuttosto alla rivolta di varie centinaia di relegati che non alle mosse abilissime di una ventina di «esteri». Ma come dar buono che codesta guarnigione, sia pure costretta alla lunga ad arrendersi, non avesse almeno tentato una resistenza onorevole? Il furibondo rapporto di quel genio strategico del maggiore D'Ambrosio330 (4 di luglio) poneva in rilievo che «niuno dei funzionarii militari — a principiare da lui! — aveva adempiuto al proprio dovere, per salvare l'onore militare... talché senza l'onorevole risoluzione di tre individui di truppa, avrebbe quell'orda di settarii lasciato sul terreno un ufficiale, ferito un aiutante, portando via armi, munizioni e denaro, senza che un colpo di fucile nemico l'avesse risposto, caso unico nella storia di siffatti attentati». Su tutto ciò i giornali borbonici serbarono, s'intende, il piú accurato silenzio.331 Era infatti un caso unico di vigliaccheria e d'insipienza. Ma alle supreme gerarchie napoletane non isfuggí di certo, seppur repugnassero ad ammetterlo pubblicamente, che la spiegazione vera, oltre che nello scarso valore delle loro milizie, dovesse cercarsi nella perplessità che aveva preso la guarnigione di Ponza al precipitoso divulgarsi della notizia, che la rivoluzione fosse già bell'e scoppiata nel regno; cioè nel fatto che male si battono, quando non arrida loro certezza assoluta di vittoria, i difensori di un regime quotidianamente discusso, minato e minacciato e messo al bando degli Stati civili. Come pretender da essi eroica fermezza nella repressione dei ribelli quando li turbi la sensazione che i ribelli di oggi potrebbero diventare i dominatori di domani?

Non restava al Borbone che consolarsi al pensiero che quel dannato brigante di Pisacane, sbaragliatore di truppe e conquistatore di castelli, avesse apprese la strategia e la tattica, cosí magistralmente applicate nella «presa di Ponza», sui banchi della sua Nunziatella!

 

Il ponte del Cagliari, finalmente in navigazione, brulicava di gente. Ponza era già un episodio lontano, conchiuso: la spedizione principiava allora.

Uomo di guerra e teorico della guerra, ecco dunque Pisacane al suo vero posto, e nelle circostanze migliori per applicare i suoi principii teorici! Non aveva egli infatti sognato sempre di trovarsi alla testa di un piccolo corpo insurrezionale, veloce, omogeneo, entusiasta, che partisse dall'Italia meridionale per risalire al nord, suscitando al passaggio ondate rivoluzionarie di crescente violenza ed ampiezza? Ebbene, ecco qua al suo comando trecento non già «soldati» ma volontari autentici, animati, se non da un comune desiderio di gloria, da un comune interesse: quello di seppellire nelle rovine del regime borbonico il loro turbinoso passato; incoraggiati da un clamoroso successo pur mo raggiunto; velocemente diretti verso un punto dove ad attenderli sono altri nuclei di armati; favoriti in pieno dal coefficiente «sorpresa». Potevano darsi condizioni migliori? Piú promettenti?

Chiuso in cabina, Pisacane stillava — ricavandole dalla decennale esperienza di insurrezioni combattute o criticamente studiate — minute norme disciplinari e strategiche per le operazioni future del suo piccolo esercito: gli uomini divisi in tre compagnie, le compagnie in dieci squadre, i gradi assegnati a relegati politici o a militi della compagnia di punizione,332 lui stesso generale, Nicotera colonnello, Falcone maggiore; distribuite le armi; nominato un Consiglio di guerra chiamato ad applicare un molto sommario codice militare. Ma non alzava mai dunque i suoi limpidi occhi dai fogli, il general Pisacane? Non lo colpivano i ceffi dei suoi seguaci? Ladri e ricettatori, lenoni, barattieri... Qual nuova insania poteva travestirli in militi iniziatori della indipendenza italiana? Come poteva egli seriamente incitarli a «battersi con le truppe di Ferdinando per riscattare la libertà», a battersi «con coraggio e bravura»?333 Con venti giovinotti di cuore egli era riuscito, sí, d'impadronirsi di Ponza; ma ora, con quei trecento lazzaroni, che andava a fare nel regno di Napoli? Non gli sovveniva la dichiarazione dei suoi compagni di Genova, quella del 12 giugno: «Forse si farà credere essere noi masnadieri o pirati scesi al saccheggio»? O quel che egli stesso, nel quieto tempo di Albaro, aveva scritto intorno al reclutamento degli eserciti: «l'ammettere nelle (loro) file quelle classi di persone, che alla miseria estrema aggiungono pessimi costumi... rende l'esercito terrore ai cittadini. In Napoli si è toccato l'estremo confine dell'avvilimento; l'esercito viene ingrossato dei condannati alla galera»?

È vero che a Ponza, in tanto tumulto, con una folla frenetica addensata sulla banchina, invocante l'imbarco sul Cagliari, non era stato possibile far distinzioni troppo sottili fra politici e non politici: due terzi dei delinquenti comuni amano sempre atteggiarsi a vittime di persecuzione politica; come dunque controllare l'identità di ciascuno, poi che era andato distrutto l'archivio di polizia? Era pur logico, d'altronde, che lí per lí si decidesse a quella che pareva la condizione fondamentale per la buona riuscita della spedizione: armare quanta piú gente fosse possibile per assicurare almeno i primi passi della marcia insurrezionale. Ma poi, staccatasi la nave da Ponza, esaminati un po' piú da vicino i loro nuovi compagni, ben si erano avvisti Nicotera e Falcone del colossale errore compiuto; e a Pisacane avevano affannosamente proposto di rimediarvi, sia sbarcando d'urgenza in un punto qualsiasi della costa quella pericolosa zavorra, sia, raggiunta Sapri, lasciandola a bordo del Cagliari.334 Perché mai Pisacane si rifiutò di ascoltarli? Gli repugnava tradire, sia pur di fronte a cotal gente, gl'impegni presi, o forse gli apparve la cosa impraticabile, in trenta o quaranta che erano contro quasi trecento? Difficile dirlo, difficile ricostruire nelle sue fasi quello che dovette pur essere un tormentoso dramma interiore. Certo è però che l'atteggiamento visibile di Pisacane, da Ponza in poi, non ha niente che riveli penosa accettazione di una realtà considerata repugnante. Egli si mostra anzi fermamente convinto della possibilità di trasformar quella feccia, durante il breve tragitto, in una banda disciplinata, combattiva e, chi sa, valorosa. L'idea di farne il primo nucleo del futuro esercito insurrezionale italiano non gli pare mostruosa. I due sentimenti profondi e istintivi che ha inteso vibrare in quelle anime buie — l'aspirazione alla libertà e l'odio al «governo» — lo hanno forse tratto in errore? Non si è reso conto che l'odio al governo è odio alla legge, che la libertà desiderata non è che libertà individuale? Che costoro non hanno alcuna idealità collettiva, che mirano soltanto al tornaconto personale? Chi sa. Può anche darsi che, fuor d'ogni considerazione morale, egli abbia intuito il partito che nella imminente lotta antiborbonica è possibile trarre dalla disperata volontà di difesa di un'accolta di evasi dal carcere. Ma, posti i suoi precedenti di lottatore politico e di riformatore sociale, è assai piú probabile che lo lusinghi davvero la speranza di riuscire ad appassionare costoro, sí bramosi di libertà per se stessi, all'impresa di liberazione di tutto un popolo, alla conquista di ordini liberi.

Di pochi giorni innanzi è il suo dichiarato disprezzo per l'ignobile volgo; ma ora, al cospetto di quel volgo nel volgo, di quella povera scoria d'umanità, diresti che uno slancio nuovo di fraternità lo pervada. Il moralista riaffiora, e quasi sembra che si compiaccia della prospettiva paradossale che gli si para dinanzi: lanciare cioè due o trecento amorali al rovesciamento di un regime dichiarato decaduto in quanto immorale. Gesto sublime, e ingenuo fino al ridicolo; da moralista appunto, che si diparte dalla premessa esser la colpa, nell'uomo, un portato dell'iniqua costituzione sociale, e perciò, nella maggior parte dei casi, non addebitabile al singolo che la commette.

La spedizione di Sapri, concepita come sfida a un regime politico, acquista in tal modo un ben piú vasto significato di sfida deliberata contro la società in generale. La morte del suo protagonista, tra quei galeotti terrorizzati e fuggenti, assurgerà ad una incomparabile donchisciottesca grandiosità da epopea.

 

Domenica sera, 28 di giugno. Ecco il golfo, largamente arcato, di Policastro: nel fondo, la bellissima, ridente baia di Sapri; il paese è un po' discosto dalla riva, tra due poggi che digradano al mare; duemila abitanti, i piú pescatori e pastori. Il Cagliari, dopo una giornata di quieta navigazione, si arresta a una certa distanza, protetto alla vista dal promontorio che serra Sapri a nord-ovest. Si attende, per lo sbarco, l'ora convenuta col Comitato di Napoli. Annotta. A terra, di qua, di là, privati cittadini e impiegati governativi avvistano la nave; una barca della dogana s'approssima; il Cagliari, riconosciutala, la saluta con un colpo di «boccaccio». Sapri è avvertita. Dispacci d'allarme partono precipitosamente pel capoluogo e per la capitale remota.

Disposto lo sbarco, il Cagliari s'avvicina alla spiaggia. Restano a bordo i passeggeri, il vecchio equipaggio,335 eccezion fatta d'un cameriere di bordo — tale Mercurio336 — spontaneamente aggiuntosi ai rivoltosi, i feriti di Ponza337, il capitano Danèri. Pisacane consegna a quest'ultimo, che dovrà curarne ad ogni modo il recapito (chi mai prevede l'imminente cattura del Cagliari?) due lettere, una per Mazzini, l'altra per Enrichetta. La prima contiene il resoconto dell'episodio di Ponza e riassume gli elementi favorevoli sui quali egli conta per il buon proseguimento dell'impresa; la seconda — riferisce il Danèri — «prometteva eterno affetto, conchiudeva esortandola a sperar bene prendendo buon augurio dal primo colpo riuscito».

Alla svelta, non senza qualche confusione, i rivoltosi scendono a terra, nei pressi di una casetta bianca, isolata, prescelta pel luogo di convegno. (Nessuna spigolatrice, oh! Mercantini, è presente: è notte, e sulla spiaggia non crescon le spighe).

I capi gridano la parola d'ordine: Italia degli Italiani; il grido viene ripetuto una, due, dieci volte: nessuno risponde, nessuno appare. Silenzio che diffonde un primo sottile disagio. Possibile che sul lido di Sapri non abbia a trovarsi nessuno degli amici o che questi, trattenuti altrove, non abbian mandato qualcuno a recar notizie di loro? Eppure sul lido, fuor dei trecento, non c'è anima viva: due impiegati al telegrafo, che sopraggiungono, vengon senz'altro arrestati.

Per rinfrancare i suoi uomini, Pisacane li arringa come se fossero veterani di cento battaglie: «Figliuoli, noi siamo stati ventuno individui che vi abbiamo liberati dall'Isola, adesso voi dovete liberare il Regno...»338 Poi dà l'ordine che si avanzi su Sapri. A Sapri la Guardia urbana (una piccola squadra) è da tempo radunata a battaglia; ma non appena scorge vicino il nemico, scaricati per debito di coscienza i fucili, si dà alla campagna. Sapri viene cosí occupata, lo stemma reale abbattuto e calpestato; ma le case del paese sembran deserte, porte e finestre restan serrate; la maggior parte degli abitanti son scappati in campagna, solo qualche donna o ragazzo curioso occhieggia dalle persiane socchiuse. Da un'osteria ancora aperta escono pochi uomini, ma oppongono un impacciato silenzio o rispondono per monosillabi alle infiammate perorazioni dei comandanti quella caterva di male in arnese. Il solo che abbocchi è un vecchio pregiudicato: unica recluta in Sapri! E sí che a Pisacane resulta, di certa scienza, che il 13 giugno, in attesa del primo mancato sbarco, numerosi amici vi si son dati convegno.

Queste eran le accoglienze «imponenti» sulle quali si poteva sicuramente contare, questo era il paese gremito di «liberali». C'era, in verità, da sperar bene pel séguito! Non aveva assicurato Fanelli che l'inoltrarsi dei rivoltosi sarebbe stato né piú né meno che una marcia trionfale attraverso una fila di paesi festanti? Lo spaventoso silenzio di Sapri deserta e buia faceva presagire invece chi sa quale misterioso agguato dietro quei monti ignoti.

Sul suo libretto di appunti Pisacane avea segnato il recapito di un sicuro e facoltoso liberale di Sapri: il barone Giovanni Gallotti. Da lui, dai suoi familiari, gli avevan detto a Napoli, avrebbe ottenuto non solamente danaro e provvigioni, ma ogni sorta d'appoggi. Identificata la casa, Pisacane bussò, fu freddamente ricevuto: lo sbarco? E che ne sappiamo noi, protestarono i Gallotti. Di preparativi rivoluzionari compiuti nella regione non abbiamo mai inteso parlare! In casa poche armi, qualche chilo di pane, che Pisacane, indignato, requisí: in abbondanza non avevano i Gallotti, i quali appartenevano a una famiglia d'antichi patrioti, che una paura grandissima e un fanelliano terrore di responsabilità. Piú tardi — nelle segrete salernitane — si affannarono in untuose proteste di devozione al trono, rammentando gl'importanti servigi resi, e imprecando, furibondi, contro i «maledetti rivoltosi».339

Andata a vuoto la visita ai Gallotti, fallita del pari l'incursione eseguita dal bollente Nicotera contro le case dei Peluso, responsabili dell'eccidio del patriota Carducci nel '48, fu giuocoforza acconciarsi a pernottare a Sapri. Notte d'angoscia pei capi, che pur si sforzavano di tranquillizzarsi a vicenda; notte di terrore pei loro seguaci, che solo adesso — sparito il Cagliari, e i fantasmi delle tenebre ingigantendo i pericoli — principiavano a misurare la tremenda avventura alla quale s'eran mischiati. Folle in tumulto, confusione, entusiasmo, fucilate magari, questo sí s'aspettavano; ma non quell'atroce silenzio piú pauroso di qualunque minaccia. Si era parlato loro di appoggi imponenti, e non avevano visto nessuno; si parlava ora della marcia da compiere, ma chi di loro conosceva quei luoghi? E i capi stessi, quel generale, quel colonnello, esigenti e severi, chi erano, donde venivano, come potevano illudersi di vincere il governo del re, che disponeva di soldati a migliaia, e avea vapori sul mare, e il «telegrafo elettrico»? Ed essi eran fuggiti dalla relegazione, dal carcere, ma che forse eran liberi adesso, o non erano invece passati sotto una disciplina piú dura e arbitraria? A Ponza, almeno, il domani seppur triste era certo, e la libertà s'avvicinava ogni giorno. Perché dunque si erano indotti a fuggire?

Disertarono alcuni, quella notte medesima: chi per puro terrore, chi nella speranza di guadagnarsi indulgenza con delazioni all'autorità, chi per profittare delle case deserte e delle donne indifese; qualcuno, nostalgico, prese la via del paese lontano, Puglie, Calabria, centinaia di miglia.340

 

Dietro quella cortina di monti, intanto, la bufera si andava addensando.

Gaeta era stata avvertita, in giornata del 28, dell'episodio di Ponza. Nonostante fosse domenica, il telegrafo, cui s'ebbe d'urgenza ricorso, funzionò egregiamente, recando la notizia dell'imminente sbarco alle autorità costiere, agli Intendenti, ai comandi militari. Quando i rivoltosi prendevan terra, già Salerno, sotto la cui intendenza era Sapri, era stata informata che i fuggiaschi di Ponza sarebbero, d'ora in ora, approdati; e quell'Intendente, senza indugio mobilitate le truppe, provvedeva d'urgenza a diramare l'avviso. Non era la mezzanotte di quella stessa domenica che due fregate trasportanti soldati, incuorati alla partenza dall'intervento del re in persona, lasciavan Gaeta per lanciarsi all'inseguimento del Cagliari; poche ore dopo un altro vapore con altre truppe. In due giorni, tra bastimenti effettivamente partiti ed altri mobilitati e sotto pressione, non meno di dieci unità vennero impiegate alla cattura degli evasi di Ponza!

Il Cagliari, insomma, aveva appena doppiato, sulla via del ritorno, il capo del golfo di Policastro, che già la Corte, il governo e tutte le autorità interessate sapevano dell'avvenuto sbarco. L'elemento primo di successo sul quale Pisacane contava, la sorpresa, veniva dunque a mancare del tutto. La mattina di lunedí 29, mentre due legni borbonici catturavano il Cagliari all'altezza di Capri, e i passeggeri e l'equipaggio subivan l'arresto,341 sei compagnie di cacciatori si mettevano in marcia da Salerno verso la regione di Sapri (oltre 150 chilometri!) e il Sottintendente di Sala, radunando tutti i distaccamenti militari e di guardia urbana che avea sottomano, li fondeva in un unico corpo di battaglia, avviandoli su Padula. Fra le popolazioni del distretto venne diffusa la voce che 300 briganti, evasi dal bagno di Ponza, si avanzavano da Sapri saccheggiando, uccidendo, stuprando; fidassero, «quei buoni villici», nel valore delle truppe reali accorrenti; e ove non si trovassero in grado di opporsi all'invasione dei malfattori, si concentrassero armati verso l'interno. Una vera e propria mobilitazione generale.342

 

E a Napoli? Cosa faceva Fanelli?

Nel pomeriggio di venerdí 26, il disgraziato aveva ricevuto l'ultima lettera di Pisacane. Invece di precipitarsi dagli amici per concretare immediatamente il da farsi, invece di spedire d'urgenza avvisi in provincia, invece insomma di utilizzare anche i minuti di quei due giorni che ancor gli restavano, Fanelli prese la penna e... scrisse a Pisacane, che pur sapeva già in viaggio! Scrisse concitato, risentito, fuori di sé: impossibile predisporre le cose pel giorno 28, impossibile prevenire in tempo i nuclei lontani, non tutti condotti a termine ancora i preparativi concordati. «Ardo per la sollecitudine, ammetto la fretta, ma il precipizio in cose di tale importanza... non è opera che approvo... Mi pareva bene morire in guerra; ma invece pare che lo debba di crepacuore, di bile, e di attacchi nervosi». E in un poscritto febbrile, a Mazzini, assicurandolo che comunque avrebbe fatto del suo meglio: «Onorevole maestro e fratello. Rifletto che questa mia non potrà pervenire all'amico a cui è diretta; perché a questa ora forse è già in via; perdonate il modo con cui è scritta. Addio di somma fretta».

Il giorno dopo — quando Fanelli, immerso nella piú nera disperazione, ancora non si è mosso — ecco gli giunge il dispaccio Mazzini. Non gli restano che ventiquattr'ore per dar fuoco alle polveri: ma con qual mezzo avvertire gli amici, almeno quelli in provincia di Salerno? Il Comitato, organizzatore di un cosí vasto moto, non ha neanche dei corrieri a disposizione! Fanelli aveva poi sempre mentalmente scaricato le difficoltà finali sulle spalle del supposto «capo militare» che avrebbe dovuto arrivare da Genova: di quali miracolistiche virtú risolutrici non lo riteneva egli capace, se avea di giorno in giorno rimandato, in sua attesa, l'adozione di certi minuti ma indispensabili provvedimenti che soprattutto esigevano gran tempo, e che alla vigilia del moto neppure il padreterno avrebbe ormai potuto condurre a buon fine! Questo capo non era giunto e non giunse; con esso venne a mancare a Napoli la volontà inflessibile di mantenere a ogni costo tutti gl'impegni assunti. Nel Comitato qualcuno espresse perfino dei dubbi sull'autenticità del dispaccio; e avanzando la comoda ipotesi che si potesse trattare d'un poliziesco tranello, si cavò dagli impicci, ecclissandosi. Cosí, discutendo, si persero altre ore preziose. Fanelli, pover'uomo, raccolse le sue poche energie e, in quell'ultimo giorno, superò se medesimo. Ma non era temperamento adatto a travolgere prevedibili, umane riluttanze e incertezze. «L'ora solenne è presta: apparecchiatevi a coglierla diffinitivamente», scrisse ad esempio a Giacinto Albini, che da Montemurro dirigeva il movimento in Basilicata. Apparecchiatevi? Ma se lo sbarco a Sapri doveva aver luogo di lí a poche ore! Ci voleva, al suo posto, un che ordinasse: radunatevi alla tal ora in tal luogo; marciate in direzione tale, fate cosí e cosí; un che dicesse: noi tutti stiamo per muoverci, se voi mancate siete un vigliacco.

E invece, in altra lettera (era già il due di luglio), Fanelli si raccomandava inutilmente cosí: «Per carità non tardate un momento; aiutate l'eroismo di quegli uomini preziosi, salvateli col vostro moto... insorgete, che noi insorgeremo appena ricevuto l'avviso della vostra insurrezione per rendere piú colossale il movimento». Ma Montemurro pensava: se non si muove Napoli, perché dovremmo sacrificarci noi?

I capi politici del movimento in provincia si trinceravano inoltre dietro un comodissimo alibi: anche a loro era stato promesso l'invio di tecnici militari per assumere il comando dei nuclei d'azione; questi non s'eran visti; e che, si pretendeva forse che delle personalità politiche si tramutassero in quattro e quattr'otto in caporali di truppa? Ohibò!

In alcuni centri anche importanti, poi, le comunicazioni del Comitato o non giunsero affatto, per incredibile trascuratezza degl'improvvisati corrieri, o giunsero quando era già troppo tardi. Il povero Fanelli, in quei giorni di passione, seguitava dunque a ricevere, anziché le attese conferme di quelli che egli, in perfetta buona fede, riteneva i suoi «ordini», tiritere accademiche sul modo da tenersi per organizzare una rivoluzione o risciacquate per la sua incapacità o, peggio ancora, recriminazioni per la «sua fretta»! In piú, pacatamente esposte, le ragioni buonissime per le quali questo o quel nucleo non s'era, armi alla mano, buttato alla campagna. Fanelli non impazzí, chi sa come, in quei giorni; ma la follia lo ghermí, senza rimedio, pochi anni piú tardi.343

A Napoli avrebbe dovuto aver luogo una grandiosa dimostrazione di popolo, di pieno accordo coi costituzionali; ma questi con un pretesto o con l'altro — non ci vedevano chiaro, volevano evitare a ogni costo spargimenti di sangue, preferivano scendere in piazza non appena dalla località dello sbarco giungessero notizie un po' piú incoraggianti — la rimandarono di giorno in giorno fino al 4 di luglio; il 4 di luglio, tenuto concistoro, buttarono all'aria ogni cosa.344 La polizia della capitale andava intanto ricercando e scoprendo a suo agio casse d'armi malamente celate qua e là, e si poneva indisturbata alla caccia dei complici di Pisacane. Il giorno 5 giunsero a Napoli pessime nuove di laggiú...

E sí che l'emozione prodotta in città dalle prime voci sullo sbarco e sull'episodio di Ponza, giunte nella tarda serata del 28 di giugno e subito diffuse nei caffè e nei teatri (particolarmente notato il precipitoso ritorno degli ufficiali in caserma), era stata grandissima: mancò, ecco tutto, chi sapesse, chi osasse trarne profitto. Durante il 29 le autorità notarono non senza preoccupazione «molti capannelli», e in questo o quel rione un'agitazione inconsueta; non si era perfino accreditata la voce di una imminente spedizione navale del regno sardo contro il Borbone?345 Ancora il 30 di giugno l'inviato piemontese segnalava al suo governo il «grande eccitamento degli animi» che seguitava a regnare in città. Piú esplicito di lui l'agente consolare inglese: «A giudicare dalle interviste che ho avuto con esponenti del partito liberale — egli scriveva —, dai sentimenti che per quanto a me consta animano in genere tutta la nazione, nonché dal dubbioso stato d'animo prevalente nell'esercito, io ritengo che, essendo ormai sprizzata la scintilla, tutto il paese andrà in fiamme; prevedo che un attacco come questo, d'un'audacia senza precedenti, compiuto contro una delle prigioni principali, di pieno giorno, vicino a Gaeta, sotto gli occhi stessi del re, deciderà il popolo a ricorrere alle armi pur di liberarsi da quest'oppressivo governo. È assai probabile che fra non molto abbia a dichiararsi in città un serio movimento popolare, il cosiddetto "Partito d'azione" è indaffarato a promuoverlo». L'eccitata missiva si conchiudeva asserendo che fra gli organizzatori della spedizione «erano alcuni dei piú abili e audaci ufficiali italiani, ex combattenti nelle rivoluzioni del 48», e dando al governo inglese le piú ampie assicurazioni che Murat e il murattismo non avevano assolutamente niente a che fare col movimento in parola, seppure volto a detronizzare re Ferdinando. Bene informato, il Console Barbar!

In tanta rovina di intese e di speranze, agli uomini del Comitato, allo stesso Fanelli mancò il cuore di mostrare, se non altro, personale coraggio, tentando a Napoli una di quelle azioni di sorpresa che avrebbero potuto, riuscendo, costituire un diversivo e alleggerire la pressione militare su Sapri; e comunque, anche fallendo, impedire al governo napoletano di menar vanto in Europa della esemplare quiete serbata dalla popolazione durante quel periodo di crisi. Perfino Fabrizi, che si erse poi sempre a difensor di Fanelli, da molti tenuto responsabile primo del disastro, avvertí l'obbligo di rimproverarlo: «Debbo dirlo, un atto puranco disperato di pochi, protesta d'onore e di dovere, rimprovero ed imputazione all'intrigo dei codardi, non avrebbe dovuto da qualche lato mancare, e forse chi sa che questo atto non salvasse il tutto, ma certo avrebbe salvato l'onore, se non di un popolo di sette milioni, almeno della sua attitudine allo avvenire. La mancanza d'ogni fatto, l'abbandono al martirio, in mezzo al silenzio, dei piú valorosi figli dell'Italia, per Dio, è uno spettacolo terribile e disperante».346

È vero che Fabrizi non si era mosso da Malta.

Alieno da intrighi, intanto, ignaro d'esitazioni, materialmente lontano, moralmente remoto addirittura da tutti costoro, colui che aveva virilmente promesso ed ora, senza curarsi di che facessero gli altri, manteneva a qualunque costo gli impegni assunti — Pisacane — pagava lo scotto, perduto fra le squallide giogaie d'intorno a Sapri.

 

La mattina di lunedí 29, assai per tempo, la colonna di insorti si pose in marcia verso l'interno della regione, seguendo la medesima angusta vallata che tre anni piú tardi, fra evviva e canti e presagi di vittoria, avrebbe percorso Garibaldi con i suoi volontari.347 Eran le sei quando — coperte tre miglia e saliti oltre quattrocento metri — si giunse al borgo di Torraca. A Torraca si celebrava, come se nulla fosse, la festività di S. Pietro: gran processione, la statua del santo solennemente trasportata per le vie del paese. Il sopraggiungere della masnada non parve impaurire nessuno: anzi alle grida sediziose molti fecero eco, e ci fu tra i paesani chi prontamente esibí coccarde tricolori; qualcuno vociò: Viva Murat. Corse del vino, qualche stretta di mano. Il cuore di Pisacane e dei suoi s'aprí un poco alla speranza: non che Torraca proclamasse la rivoluzione, ma li accoglieva almeno come cristiani!

Nel bel mezzo del paese qualcuno lesse alla folla il proclama insurrezionale. Diceva: «Cittadini — È tempo di porre un termine alla sfrenata tirannide di Ferdinando secondo. A voi basta volerlo. L'odio contro di lui è universalmente inteso. L'esercito è con noi. La capitale aspetta dalle provincie il segnale della ribellione per troncare in un colpo solo la questione. Per noi il governo di Ferdinando ha cessato d'esistere; ancora un passo ed avremo il trionfo; facciamo massa e corriamo dove i fratelli ci aspettano. Su dunque: chiunque è atto a portare le armi ci segua. Chi non è abbastanza forte per seguirci, ci consegni l'arma. Noi abbiamo lasciato famiglia ed agi di vita per gettarci in una intrapresa che sarà il segnale della rivoluzione e voi ci guardate freddamente come se la causa non fosse la vostra? Vergogna a chi potendo combattere non si unisce a noi; infamia a quei vili che nascondono le armi piuttosto che consegnarle. Su dunque, cittadini, cercate le armi nel paese e seguiteci. La vittoria non sarà dubbia. Il vostro esempio sarà seguito dai paesi vicini, il nostro numero crescerà ogni giorno ed in breve tempo saremo un esercito. Viva l'Italia».

L'accenno alla freddezza e viltà degli abitanti rivela che il proclama era stato probabilmente compilato, o corretto, la notte stessa, dopo l'esperienza di Sapri.

Ma nessuno, a Torraca, terminata la lettura, si mosse, nessuno mostrò di divider quell'odio per la sfrenata tirannide, da nessuno vennero armi. Come ignorare che piú in là, verso Sala Consilina, si andava febbrilmente operando il concentramento delle forze borboniche e che anche i componenti la locale guardia urbana vi si eran diretti?348 Gli stessi «liberali» del paese (ché alcuni ve n'erano, già noti alla polizia e attentamente sorvegliati) si rivelarono nell'occasione severi tutori dell'ordine, barricandosi in casa o prodigando tutt'al piú ai rivoltosi il prudente consiglio di abbandonare al piú presto una posizione cosí poco sicura.

Il contegno di alcuni della masnada, d'altronde, non era fatto per conciliar simpatie e incoraggiare adesioni; ché, col pretesto di requisire armi, non pochi s'introdussero nelle case private, impadronendosi di danaro e di oggetti. Se mai non fossero giunte ancora a Torraca le informazioni ufficiali sulla provenienza e lo stato civile della maggior parte dei seguaci di Pisacane, provvedevan costoro ad anticiparle! Né i capi, per quanto facessero, riparavano ad impedir ruberie e vandalismi o, una volta commessi, a indennizzare i queruli danneggiati.

Ripresa, senza entusiasmo, la marcia, gl'insorti imboccarono l'impervio sentiero che da Torraca, pei monti della Serra, mena al Fortino di Cervara (a 780 m. sul mare), punto di confine tra la Campania e la Basilicata. Il Fortino si trova sulla grande rotabile delle Calabrie, a mezza strada fra Lagonegro e Casalnuovo. Oltrepassato Casalnuovo e raggiunto il Vallo di Diano, ci si poteva gettare, a seconda dei casi, o verso l'interno, nel cuore della Basilicata, o verso il mare, in Cilento, oppure, continuando per la via consolare, direttamente su Eboli e Salerno.

«I faziosi — cosí deposero al giudice due evasi da Ponza, Venturini e Catapano — credevano di essere attesi nelle vicinanze di Sala da 2000 correligionari ed altri 500 in Padula (borgata importante fra Casalnuovo e Sala), dopodiché sarebbero piegati in Potenza da dove dietro la venuta dei Calabresi si sarebbero volti per la Capitale». C'era esagerazione nel numero, ma la deposizione era sostanzialmente esatta. Padula (lo avevano poco prima confermato alcuni di quei saggissimi liberali in Torraca) era un centro importante di cospirazioni settarie; resultava a Pisacane che vi si potesse contare, a dir poco, su «duecento militari, dei quali un terzo incirca munito di schioppi»; a Sala cento individui si sarebbero tenuti pronti ad agire; molti altri simpatizzanti si sarebbero racimolati nelle frazioni intermedie. Possibile che tutto questo, tutto, tutto, tutto fosse millanteria di loquaci capi popolo di provincia?

Ma gli organizzatori della spedizione non avevano tenuto conto di una circostanza di capitale importanza: e cioè che in quel periodo dell'anno, in quella regione, gran parte della popolazione maschile soleva emigrar nelle Puglie per la mietitura del grano.

La tappa Torraca-Fortino (12 miglia) occupò quasi l'intera giornata. I trecento, stanchissimi, tormentati dall'arsura, avanzavano con faticosa lentezza. «In quel tragitto — confidò poi uno di loro — patimmo tanta sete che credo fosse uguale a quella che soffersero i Crociati!»349 Sul far della sera, al Fortino, fu dato l'alt: gli uomini si accasciarono, affranti; i capi si radunarono nella miserabile osteria del luogo. Mancavano perfino i viveri: si dovette comprare della farina guasta e infornar quella, malamente impastata, per essere in grado, il giorno dopo, di proseguire la marcia.

Passarono di là due militari in congedo, che tornavano al paese d'origine: ecco l'occasione di saggiare lo stato d'animo delle truppe borboniche. La prova, se vogliam credere alla deposizione giurata dei due malcapitati, non fu incoraggiante; ché, invitati ad unirsi alla banda, essi tentarono di svignarsela. Ma non ci fu verso: «Carogne f..., avete finora servito il re, ora dovete servire a noi», avrebbe detto loro «uno di quei malviventi in tono di sdegno»; altri li avrebbero percossi. Meno male che un «galantuomo», che tutti chiamavano il «comandante», li trattò umanamente offrendo loro, nell'osteria, qualche ristoro.350

I capi tenevan consiglio. La fascia paurosa di silenzio seguitava ad avvolgerli: nessuna notizia degli amici, nessuna dei nemici; la gente loro manifestamente spossata, non in grado di certo di sostenere un conflitto un po' serio. Conveniva, cosí stando le cose, discendere, secondo il piano fissato, per la rotabile a Padula, presidiata dalle forze borboniche? O non piuttosto, allontanandosi immediatamente dalla vicinanza dei grossi centri abitati, guadagnare posizioni montuose in Basilicata e magari in Calabria, ove attendere in relativa sicurezza che pervenissero rinforzi? Nicotera e Falcone propendevano per questo diversivo; ma Pisacane, che ancora e nonostante tutto fidava negli appoggi rivoluzionari di Padula e Sala, fermamente si oppose. L'idea di una fulminea marcia da sud a nord, verso la capitale, lo ipnotizzava tuttavia, né lo atterriva minimamente la possibilità di un prossimo scontro con truppe borboniche anche superiori di numero: valeva cosí poco, l'esercito napoletano! La regione di Padula-Sala, d'altronde, per l'accurato studio topografico e logistico che n'avea fatto, gli era ormai familiare: mutare itinerario non sarebbe stato come affrontare l'ignoto?

Parve per un momento che trionfasse tra gli opposti pareri una tesi intermedia: giunse infatti al Fortino nel cuor della notte (chi sa come benedetto e festeggiato: era il primo segno di vita che, dallo sbarco in poi, fosse venuto a rincuorare la banda!) un emissario degli amici di Lagonegro. Questi mandavano a dire che il paese era sgombro di truppe, che gli «affiliati» eran molti e che i trecento v'erano attesi al piú presto. Ma Pisacane, dopo qualche esitazione, tornò al suo parere piú convinto di prima. Se a Lagonegro il partito era in piedi, perché dubitar che lo fosse, e ben altrimenti efficiente, a Padula e a Sala? Un successo a Lagonegro non avrebbe portato a nulla; un successo nel Vallo di Diano apriva invece la via di Salerno! Gli amici di Lagonegro, dunque, facessero massa e convergessero immediatamente, anche loro, su Padula: non bisognava lasciare il tempo alle truppe borboniche di concentrarsi in troppo gran numero.

Il dubbio, ahimè, non lo sfiorò neppure che i prodi rivoluzionari di Lagonegro, professantisi disposti a tutto pur di scuotere il giogo borbonico entro la cerchia del borgo natío, potessero essere campanilisti al punto da rifiutarsi di far dieci miglia per conquistare la libertà di Padula...

 

Che Pisacane fosse stato bene ispirato parve a tutti evidente quando, poco innanzi il mezzogiorno del 30, la banda fece il suo ingresso a Casalnuovo, a mezza strada fra il Fortino e Padula. Il paese era infatti in pieno tumulto; i gendarmi s'eran ritirati su Sala, la loro caserma era stata presa d'assalto, e una quantità di persone aspettavano adesso, festanti, i trecento. Scrosciaron gli applausi alla lettura dei proclami sediziosi, stemmi e insegne borboniche volarono in pezzi, vennero abbattuti i pali telegrafici, saltarono fuori armi in buon numero. I capi della spedizione ebbero un momento di vero ottimismo: eran dunque maturi alla rivoluzione, quei buoni casalnuovesi!

Il guaio si fu che quando la banda di lí a poco lasciò il paese, non uno di quei cittadini sí prodighi in evviva fu capace d'imbracciare il fucile e porsi al suo séguito. Un voltafaccia improvviso. Come spiegarlo? Pisacane, il quale partiva dalla supposizione che quella gente avesse l'odio antiborbonico nel sangue, non si trovava nelle condizioni migliori per scioglier l'enigma. Si cacciò in capo che qualche furtarello, qualche grassazione meschina commessa anche lí da rivoltosi isolati avessero alienato alla banda la simpatia di Casalnuovo; e risolvette di dare un esempio terribile, che valesse a tagliare alle radici quel male. Il disgraziato che pagò per tutti fu Eusebio Bucci, che aveva derubato di pochi centesimi una povera donna: tradotto innanzi al «Consiglio di guerra», venne, con poche o punte formalità, condannato alla fucilazione.351 La sentenza spietata si eseguí senza indugio, a un miglio da Casalnuovo. Povero ladro Bucci, la parte di combattente non era tagliata per te: oh quanto meglio se nessun Pisacane t'avesse dischiuso, a Ponza, le porte del carcere!

Poi fu ripreso il cammino. Padula, il centro piú ragguardevole fino allora toccato, venne raggiunto in serata.

Sapri, Torraca, Casalnuovo avevan crudelmente deluso le aspettazioni di Pisacane; ma eran piccoli borghi rurali, senza importanza. Il disinganno patito a Padula (nessun amico che si facesse vivo, salvo qualche liberale del tipo Gallotti, nessuna notizia delle attese bande sussidiarie, silenzio assoluto da Lagonegro) segnò invece di colpo il fallimento della spedizione, ormai difficilmente evitabile. Improvvisamente, nel terzo giorno da che v'eran sbarcati, i trecento sentirono infatti di essere in terra nemica, all'assoluta mercè del nemico. Perfino il fatto che la cittadina, naturalmente sgombra di truppe, non offrisse resistenza alcuna all'occupazione (marcata dalle solite requisizioni e sequestri, e dalla liberazione dei detenuti dal carcere), parve sottolineare la gravità della situazione, accrescendo l'angoscia di tutti. Altro che marcia trionfale! Intorno a Padula si andava serrando il cerchio di ferro delle forze borboniche: a Sapri, quella mattina medesima, eran sbarcate le truppe provenienti da Gaeta; a Sala, dove si concentravano i distaccamenti di gendarmeria e di guardia urbana del circondario, le compagnie di cacciatori, partite da Salerno, erano attese da un momento all'altro.

Nel cortile di casa Romano (designata in anticipo per quartier generale delle forze rivoluzionarie) gl'insorti inquietamente bivaccarono; finché, nelle prime ore del mattino seguente (era il primo di luglio), non venne segnalato l'avanzarsi di nuclei borbonici dalla parte di Sala. Terrore? Fuggi fuggi? Disordine? No: la stessa prossimità del pericolo, il suo concretarsi in alcunché di preciso e visibile, parvero anzi sollevare i trecento, che già, secondo il piano scartato due giorni innanzi, stavano per iniziare la marcia di ripiegamento sulla Basilicata. Era la fine di un incubo.

Gli ordini di Pisacane vennero puntualmente eseguiti: evacuato alla svelta il paese, gli uomini vennero piazzati in posizione elevata, disposti a battaglia. Nonostante tutto, il generale era tornato sereno e quasi ottimista: non che s'illudesse minimamente ormai sulla sorte del conflitto, se conflitto si fosse davvero impegnato; ma gli s'era risvegliata l'estrema speranza che, nel momento di scaricare le armi contro i loro fratelli, quei soldati (commilitoni di Agesilao Milano!) e soprattutto quelle guardie urbane, rivelando d'un tratto l'animo loro d'uomini liberi, o avrebbero rifiutato di battersi o addirittura fatto causa comune con loro. Gli ufficiali che guidan quelle truppe, egli andava dicendo, son miei antichi colleghi, so ben io come la pensano, mio fratello è tra loro, come dunque potete temere che intendano sterminarci? E a chi, nel recargli del cibo per la giornata, esprimeva il dubbio che dovessero poi mancargli il tempo e la voglia per consumarlo, egli, alludendo ai borbonici, ribatteva con un sorriso che voleva essere tranquillizzante: «Bene, mangeremo assieme».

Divisi in due colonne, guardie urbane e gendarmi avanzavano con evidente cautela. S'arrestarono a rispettosa distanza, aprirono il fuoco: un fuoco blando, incerto, inoffensivo; a sentire gli spari si sarebbe detto una caccia. Durò cosí per due ore. Pisacane avrebbe potuto benissimo, profittando della superiorità numerica, ordinare l'attacco a fondo o proseguire nella ritirata già predisposta; ma era sicuro che gli urbani non aspettassero se non il momento opportuno per abbracciare la causa della rivolta. Temporeggiò. D'un tratto, invece, sopraggiunsero le soldatesche del colonnello Ghio, il fronte borbonico s'avvicinò, la fucileria si fece intensa; molti rivoltosi caddero feriti od uccisi, il pericolo d'un accerchiamento completo si fece imminente. Le guardie urbane gareggiavano d'accanimento coi regolari. Pisacane si perse d'animo: quanto piú ostinatamente s'era ribellato fino allora a quel crescendo di disinganni che avevano accompagnato la marcia su Sapri, tanto piú tragicamente essi lo percotevano adesso, culminando, sintetizzandosi quasi, in quelle raffiche micidiali. Smarrí l'usata energia. Presentiva la fine: di sé, dei suoi, d'una Idea.

La resistenza fu rabbiosa, in qualche punto anche eroica; ma bisognò ben presto desistere: troppo schiacciante era la superiorità del nemico. E allora, la resa? Ma la resa significava indubbiamente fucilazione pei capi, ergastolo per tutti gli altri. Ritirata, dunque: abbandonare quella maledetta regione per rifugiarsi in qualche località meno esposta, tagliata fuori dalle grandi vie di comunicazione. Data la posizione delle truppe borboniche, l'unico scampo possibile era ormai quello in direzione nord-ovest, verso il Cilento, cioè: il Cilento, terra classica delle rivolte. Ma sotto il grandinar delle palle la ritirata divenne fuga, scompiglio, si salvi chi può. Gli sciagurati seguaci di Pisacane, fuorché un centinaio che gli si strinsero disperatamente d'intorno, gettaron le armi, follemente correndo chi incontro al nemico, chi verso l'aperta campagna, chi a rintanarsi tra le case di Padula. Battaglia? No, caccia, massacro: feriti sgozzati, prigionieri inermi passati per l'armi, i fuggitivi rincorsi e atterrati. Trentacinque, che in cerca di scampo traversavano precipitosamente il paese, infilarono, inseguiti, un vicolo cieco: impossibile uscirne, si addossarono allora, terrorizzati e inebetiti, al muro terminale, e i fucili borbonici, puntati e scaricati al sicuro, nel cumulo, li abbatterono urlanti come cani randagi, un dopo l'altro, gli uni su gli altri.

Pisacane, Nicotera, Falcone, quel centinaio dei migliori con loro, capaci ancora d'orizzontarsi, si gettavano intanto, distanziando con la rapida corsa il nemico, per una viottola che, traversato il Vallo di Diano, menava a Buonabitacolo, verso il Cilento. Formavano un piccolo corpo, ancora relativamente omogeneo, ma privo o quasi di munizioni, senza conoscenza dei luoghi, spossato. Se le truppe borboniche li avessero inseguiti, era finita per loro. Ma il colonnello Ghio — il quale, secondo fu ripetuto allora da molti, aveva sostituito all'ultimo momento, nel comando di quelle truppe, lo stesso fratello di Pisacane, da re Ferdinando generosamente esentato352 — aveva anche troppo da fare, quel giorno, a redigere un bollettino della vittoria da trasmettersi a Napoli, che fosse degno del memorabile evento. Era un pezzo che all'esercito borbonico non toccava la gloria d'una battaglia vinta, e cosí a buon mercato, tre morti e sei feriti in tutto... Né volle mancare altresí di presenziare, in veste di trionfatore, alle solenni festività religiose ordinate per quella sera medesima dall'arciprete di Padula, per render grazie al Signore.

(Il giusto destino castigò tre anni dopo quel Napoleone: il quale, promosso generale, doveva arrendersi, in Calabria, alle bande garibaldine, con diecimila uomini, senza neanche combattere!)353

 

«Non è facile provocare l'insurrezione di un popolo che, per quanto saturo d'odio, ha l'inveterata abitudine di sfogarlo soltanto a parole; l'impresa, verosimilmente, non condurrà che al sacrifizio della vita di questi uomini coraggiosi e disperati, i quali l'hanno arrischiata nel pazzo tentativo di conquistare al loro paese la libertà e la pace. In questo stesso momento, sulle colline di Calabria o nei boschi del Salernitano, centinaia di uomini dai piedi sanguinanti, affamati, sofferenti, errano col moschetto e il pugnale, affrontando ogni ostacolo e ogni pericolo, spinti dalla disperazione loro e dalla miseria insopportabile della loro patria. La vita per essi non ha alcun valore. Esuli rovinati, tornano a casa per farsi fucilare...»

Cosí, con fantasia commossa e pietosa, intuendo a tanta distanza la tragicità della loro situazione e la vigliaccheria dei loro compatrioti, un giornalista inglese scriveva di Pisacane e dei compagni suoi, due giorni dopo la loro fuga da Padula. Né mai descrizione romanzesca ammannita al pubblico inglese, sempre ghiotto di thrills, corrispose piú esattamente di questa a una spaventosa realtà.

Buonabitacolo: non suonava promessa quel nome? Sembrava infatti abbastanza probabile, dato il concentramento di Padula, che si sarebbe potuto sorprendere il paese sguernito di forza; a Pisacane risultava inoltre, dai pochi appunti fornitigli a Napoli, che la lista dei «sospetti in linea politica» vi fosse particolarmente abbondante. Chi sa, pensava, mentre coi suoi disgraziati compagni arrancava a quella volta, chi sa che a Buonabitacolo non s'abbia finalmente a trovar qualche aiuto; ma certo potremo riposarvi, e avremo cibo, e qualcuno di là saprà guidarci in salvo. Ma alle soglie di Buonabitacolo, minacciosamente vietanti l'ingresso e la sosta, vegliava un manipolo di guardie urbane. Rapide le comunicazioni nel regno di Napoli! Attaccarle? Sarebbe stata follia: quei cento superstiti del disastro di Padula stentavano a reggersi in piedi. Proseguire, dunque, in quella marcia estenuante che durava da ore e ore? Ma dove vettovagliarsi e come rintracciare la via, mentre già calava la notte? Ebbero il torto di non diffidare d'un pastorello, incontrato un po' troppo per caso, che spontaneamente si offerse di condurli per vie traverse al paese di Sanza, poche ore di strada. Errarono a lungo, dietro a lui, in una zona montuosa tormentatissima, senza riuscire a raggiunger la meta; anzi la guida confessò a un certo punto d'aver smarrita la strada. Non si resero conto che poche ore potevan decidere dalla loro salvezza: non inghiottivano cibo e soffrivan la sete dall'alba di quella giornata terribile! S'adagiarono in terra. Gli orrori veduti, l'incertezza del loro domani, la spossatezza medesima tolsero loro anche il conforto e il ristoro del sonno.

Erano in piedi, di nuovo, sul fare del giorno seguente. Sanza non era lontana: in poche ore guadagnarono una piccola altura sovrastante il paese. Erano affamati e sfiniti, ombre di uomini; non volevano né saccheggiare né uccidere, non si sognavano neanche piú di «fare la rivoluzione». Domandavan di vivere, ecco, d'essere aiutati a fuggire: come non li avrebbero quei terrazzani soccorsi, che soccorrevano per tradizione perfino i briganti, e dato loro del pane e dell'acqua e insegnata una via di salvezza?

Ma ecco dall'abitato farsi innanzi una piccola squadra d'urbani, undici uomini in tutti. Coraggiosi, quei difensori del regime borbonico! Appena riconosciuta la banda, spianarono i fucili, tirarono senza esitare. Sessanta dei rivoltosi si ritirarono immediatamente e, girando il colle, fecero per avvicinarsi al paese; qualche minuto piú tardi sventolavano, in segno di resa, delle pezzuole bianche. Gli altri — il gruppo dei provenienti da Genova — restavano fermi sotto la gragnuola di colpi. Concitato colloquio tra i capi; poi Nicotera si staccò, rincorse i fuggenti. Perché mai capitolare, in cento che erano? Delusione su delusione, era vero; ma non si poteva, alla peggio, lasciando Sanza, proseguire il cammino? O almeno mantenersi in gruppo, per trattare una resa onorevole?

Ma s'intese in quel mentre il perché dell'audacia spiegata dagli undici urbani: nel paese le campane suonavano a stormo; il parroco, d'accordo col comandante le guardie urbane, radunava a precipizio la gente. Una torma di briganti — egli si pose a gridare, e le concitate parole trovavano conferma ed acquistavan forza nel crepitio delle fucilate — calava su Sanza per spogliarvi le case, oltraggiare le donne, attaccare il colera. Buona caccia per chi li atterrasse, quei galeotti fuggiti dal bagno, ricolme le tasche di danaro rubato; il re, per sovraprezzo, pagherebbe ogni testa a peso d'oro. E brandiva la croce, eccitando abilmente ora la cupidigia, ora il timore, ora lo zelo religioso dei suoi parrocchiani ignoranti. Povera gente di Sanza, perché non avrebbero dovuto credergli? Ammazza ammazza, sono i briganti che vogliono il sangue del popolo! I lupi rapaci! Gli assassini, gli untori! Contadini, artigiani, boscaioli, parve che con improvviso furore si risvegliassero in loro istinti e tendenze selvaggi, sopiti da secoli. Corsero alle case, s'armarono d'ogni arnese che capitò sottomano, che fosse massiccio o tagliente, roncole, falci, randelli, spiedi; e seguíti dal prete, aizzati dalle donne, si buttarono su per l'erta, a sterminare i briganti.

Pisacane, che avrebbe resistito fino all'ultimo sangue a uomini pagati per difendere i Borboni, che aveva poco prima sussultato di sdegno quando i piú tra i suoi s'eran vilmente arresi, ora ordinò — e fu l'ultimo ordine suo, né alcuno osò trasgredirlo — che non si reagisse.

Era il «popolo» che si precipitava su di loro, urlando, avido di strage; il popolo schiavo e sfruttato ch'egli aveva voluto redimere, e perciò s'era mosso da lungi e aveva affrontato le pene di quel tremendo calvario. Ma certo, quando avesse veduto «i briganti» immobili e inermi, si sarebbe fermato e avrebbe gettato gli strumenti del lavoro, con sacrilegio infame impugnati per dar la caccia all'uomo. Ed egli, Pisacane, avrebbe parlato e detto loro chi fosse e come mai venuto, lui colonnello e nobile, a combattere un re che era il loro comune tiranno; avrebbe saputo esaltarli nella speranza di un regime migliore, tutto del popolo, tutto pel popolo. Fors'anche li avrebbe infiammati con la lettura del suo proclama, quello di Torraca, di Casalnuovo: «Cittadini — È tempo di porre un termine alla sfrenata tirannide di Ferdinando II... Su dunque, chiunque è atto a portare le armi»...

Le avevano impugnate, finalmente, le armi: né solo gli uomini, ma perfino le femmine, e gl'indemoniati ragazzi; e tutti insieme si rovesciavano, con incontenibile slancio satanico, su di lui, sui pochi compagni.

Oh, quelle parole accese ch'egli stesso, forse, dodici mesi prima, aveva scritto per la Libera Parola; «se nel paese classico di Fra Diavolo, di Rinaldini, del Passatore e dei Lazzarini... non sorge nell'anima di alcuni strenui giovani il generoso pensiero di farsi i Fra Diavoli e i Lazzarini della libertà, di tentare e soffrire per l'indipendenza d'Italia quanto Gasparone, De Cesaris e migliaia dei loro simili hanno tentato e tentano tutt'oggi per un pugno d'oro... oh allora, ogni parola è inutile...»

Atroce presentimento: ora gli toccava in sorte anche la fine ignominiosa del brigante.

Lo colpiron di fucile, al fianco sinistro; Pisacane piegò a terra. «... Siete assassini, si dice che mormorasse, mi derubate, ed ora mi uccidete: conducetemi alla giustizia»...354 Non un barlume di estrema speranza, non la fierezza d'un dovere compiuto, e neanche il conforto della cristiana rassegnazione potevano rianimarlo o rendergli sereno il passo estremo. Non era questa la sognata ebbrezza della morte in battaglia. Misconosciuto, tradito dai suoi conterranei, confuso in una turba vile di galeotti, forse anche raddoppiava il suo affanno la coscienza della tremenda responsabilità che gl'incombeva proprio di fronte a questi umilissimi tra i suoi seguaci. Disperatamente deluso, solo nell'anima, tra gli urli selvaggi di quelle furie e il bestemmiar delle vittime, per cui neppure nel dolce pensiero della sua Silvia lontana e ignara gli era dato quietamente chiuder gli occhi alla luce, volle almeno morir di sua mano. Gli eran quasi sul capo, ormai, roncole, falci, spiedi, pronti ad abbatterlo come belva famelica, calata dai monti a devastare gli ovili: impugnò fermo la sua pistola, e con un colpo si sottrasse allo scempio.

Falcone, il piú giovane, che gli era accanto e che a malincuore aveva obbedito al suo ordine di non resistenza, vistolo cadere, si uccise a sua volta; Foschini, sembra, si cacciò nel cuore il pugnale. Altri sei del gruppo di Genova vennero massacrati intorno a loro; Nicotera, accorso, gravemente colpito, venne lasciato per morto. Dei dispersi, chi trucidato, chi, ferito o malconcio, catturato; e i morti, per l'insanire dei colpi, cento volte morti. Non un solo ferito fra i popolani di Sanza; la cui rabbia di sangue, se non l'avesse impedito un capitano Musitano sopraggiunto al comando di poche truppe borboniche, non avrebbe risparmiato neppur gli arrestati! Non si voleva finire lo stesso Nicotera perché rifiutatosi di gridar «viva u' re»?

Ultimata la strage, i poveri corpi non furon neanche sepolti, ma, in omaggio al preteso interesse della salute pubblica (cui non nocque per altro la spogliazione accurata!) vennero immediatamente bruciati in un immenso rogo.355 Solo inumato, si disse, Pisacane, per volontà pietosa di quel Musitano, memore d'esser stato alla Nunziatella, vent'anni prima, suo compagno di studi.

Terminava cosí la spedizione di Sapri.

 

Dichiarazione dei capi urbani di tutto il distretto, all'indomani della vittoria: «I popoli affidati alle cure dell'adorato Ferdinando II, non vogliono che lui assoluto al governo del Regno, perché da lui ottengono il bene con la salvezza dell'onore e della proprietà». (È vero che tre anni dopo accoglievano con immenso entusiasmo il «liberatore» dell'efferrata tirannia, Garibaldi...)

Rapporto sullo «scontro» di Sanza del giudice regio: «Il clero prestossi anch'esso piamente, mostrando al pubblico nel momento in cui ferveva la pugna le sacre immagini dei protettori S. Sabino e S. Antonio di Padova». (È vero che il clero di quella regione, da tempo minacciato di inchiesta e sanzioni per notoria, scandalosa condotta privata, cercava ogni occasione per riacquistare le grazie della suprema autorità...)

Seguí, s'intende, un'abbondante distribuzione di ricompense, promozioni e onorificenze. Ma non tutti rimasero contenti; tra gli altri il molto reverendo don Domenico Castelli, arciprete di Sanza, il quale si rammaricò col direttore di polizia che, mentre la «gloria» del massacro risaliva unicamente a lui e ai suoi parrocchiani, altri se la fosse attribuita e ne avesse ritratto vantaggi: sí che nessuno aveva pensato a rimeritare i suoi «poveri figliani, che eransi esposti al pericolo della vita... mentre ebbero molti colpi di archibugi; e per miracolo della Vergine di Loreto loro tutelatrice e protettrice non furono colpiti... Ed essi loro dopo tanti sforzi e pericoli, posti in non cale, sono rimasti dispiacentissimi, e molti avveliti!»356

 

Mentre la diplomazia e la stampa napoletana menavano gran vanto del tentativo abortito, inferendone la provata solidità del regime;357 mentre la polizia borbonica incrudeliva contro i sospetti complici della spedizione, e a Salerno s'istruiva il mastodontico processo contro i superstiti; mentre Fanelli (miracolosamente sfuggito alle ricerche) e i «rivoluzionari» di provincia si palleggiavano accuse e recriminazioni; mentre i «costituzionali» napoletani declinavano pubblicamente ogni loro responsabilità nella sciagurata impresa; negli ergastoli, nelle isole di relegazione, dove tante fiorenti energie si consumavano invano, calava ancora una volta, piú tetra, l'ombra della delusione. Sarebbero dunque tutti morti là dentro senza veder la fine di quell'iniquo regime e riacquistare la libertà perduta? Disperato Pisani perché il Cagliari non avesse fatto scalo a Ventotene, «siamo proprio — scriveva agli amici di Napoli — in un orgasmo che ci divora»; fremente Magnone, detenuto a Salerno: «Io mi sento ardere le vene e le ossa dalla febbre d'azione. Ma non v'è speranza che mi togliessero da questa bolgia... Pensate escogitare come farci uscire di qui...» Indignato invece Settembrini: «Sono addoloratissimo — cosí alla moglie — e maledico quegli scellerati che sotto specie di libertà, standosi da lontano, mandano giovani generosi a morire, anzi ad esser macellati... Povero paese, lacerato in mille guise dagli sciocchi e dai tristi... Quanto sangue, quanti mali, quante lagrime per queste imprese sconsigliate»; e dopo qualche giorno: «Ho un peso sull'anima, che m'opprime: e l'ergastolo mi sembra piú tormentoso, e chiuso, e stretto, e pesante». Severo, come lui, Silvio Spaventa nel biasimare «il colpo che ci fa perdere il frutto di dieci anni di persecuzioni sofferte e il vantaggio d'una situazione che si rendeva ogni giorno piú difficile pel governo. Pazienza!»358

 

E a Genova? Pervenutovi il sospirato dispaccio convenzionale da Napoli annunziante lo sbarco di Pisacane a Sapri (dispaccio spedito da un dipendente del consolato inglese!)359, il 29 di giugno era scoppiato, come è noto, per poi miseramente fallire, il tentativo insurrezionale; lo stesso giorno a Livorno: né qui s'addice di ricalcare narrazioni esaurienti, per ritracciare e dell'uno e dell'altro la precipitosa parabola. Mazzini sfuggito alle rabbiose ricerche condotte in tutt'Italia;360 arresti a migliaia in Piemonte e in Toscana, espulsioni numerosissime, processi. Ecco — oltre ai morti e ai feriti di Livorno — il triste bilancio della doppia avventura.

La notizia del disastro di Sanza giunse a Genova con grande ritardo.361 Fino all'ultimo si era sperato nel successo e quasi tutti i giornali — compresi quelli che avevano stigmatizzato con roventi espressioni i tentativi di Genova e Livorno — avevano diffuso in proposito notizie ottimistiche, commentandole in tono di ostentata simpatia: intere provincie in rivolta nelle Due Sicilie, le truppe borboniche unitesi agli insorti, clamorose dimostrazioni a Napoli. L'8 di luglio, quando pure già tutti conoscevano la verità tristissima, l'Italia del Popolo insinuava che le notizie del disastro fossero state diffuse da Napoli «per ispaventare gli animi nostri e fare esaltare quelli dei realisti».

La disgraziata Enrichetta aveva trascorso quei giorni in una inesprimibile angoscia; solo di tanto in tanto l'impenitente ottimismo di Jessie White era riuscito a sommergere sotto ondate esaltatrici di speranza e di fierezza i suoi tristi presagi. In giornata del 29 le avevano comunicato il telegramma da Napoli; poi era stato l'eccitamento effimero del moto genovese, lo stordimento per la sua rapida fine, l'ansia per gli arresti e le fughe. Il 2 di luglio l'amico De Lieto aveva potuto comunicarle i primi particolari sul «felice» sbarco della spedizione a Sapri. Seguirono altri due giorni senza alcuna notizia se non le poche, contradittorie, stampate dai giornali; brutto segno, comunque, la loro stessa incertezza. E quel vuoto pauroso che le si faceva d'intorno, amici in prigione, altri celati, altri timorosi di recarsi da lei! Il 4 di luglio, mentre la White veniva senz'altro arrestata,362 la polizia si presentava a perquisire la casa di Enrichetta sotto pretesto che essa «si faceva centro dei complici del tentativo di sommossa avvenuta in questa città la notte dal 29 al 30 p. p. Giugno per diramare le notizie dell'andamento delle cose ai diversi complicati». Al primo scorgere gli sbirri, Enrichetta tentava invano di far sparire, gettandole dalla finestra, due lettere, una delle quali compromettente per l'amica inglese. La polizia le sequestrò insieme ad altre due lettere di Cosenz, a varie ricevute sospette e a una nota cifrata. La povera donna, pur intuendo quel che la perquisizione significava per lei, ebbe la forza di rispondere con disinvolta accortezza alle domande rivoltele. Passarono altri sei giorni d'inferno: l'11 luglio venne il colpo di grazia. In quel giorno — riferí poi la torinese Gazzetta del Popolo (16 luglio) — «si recavano in casa della Signora Di Lorenzo il Giudice del sestiere S. Vincenzo; il Vice console di Napoli ed il loro codazzo. Il giudice appena entrato disse per tutto saluto alla sconsolata compagna di Pisacane, che essendo morto Carlo Pisacane egli doveva mettere i suggelli alla sua roba nell'interesse dei suoi eredi: ed il vice console profittando dello sbalordimento, del dolore della Signora, si recò nella camera da letto, ne frugò ogni cosa, ne trasse delle lettere... Ora la sfortunata compagna di Pisacane, ridotta ad uno oscuro salotto d'entrata, avendo tutte le altre camere suggellate, fu costretta a disertare da casa sua cercando un ricovero altrove...»363

Sequestrate tutte le carte del suo diletto Carlo (minute di scritti politici, lettere di Cattaneo e, cocente per lei, la «confessione» che ella gli aveva mandata a Lugano, nell'ottobre '50), portati via tutti i libri, cacciata essa stessa fuori di casa, priva del conforto degli amici migliori, senza risorse economiche, con la piccola Silvia malaticcia, e, in un ambiente cosí stretto e severo come il Piemonte d'allora, senza neanche la suprema fierezza di venir rispettata qual vedova di Pisacane, Enrichetta si trovò, indifesa, alla mercè della polizia e, peggio, della loquace stampa. Ne compiangeva piú che ogni altro la durissima sorte (cui era essa stessa — per allora! — miracolosamente scampata) Rosetta, l'amica di Pilo, lamentando che sui giornali si fosse «scritta e pubblicata la loro storia amorosa; e anzi quella povera donna venisse anche disprezzata da molti, e chiamata donna venduta e di mondo».364 E nonostante tutto Enrichetta non poteva, non voleva, non sapeva credere a quel che era accaduto: si difendeva contro l'atroce dolore, respingendolo, negandolo. «La povera Enrichetta... ancora non crede tutto quel che le dicono. Come sarà terribile il giorno in cui se ne persuaderà», scriveva Mazzini ancora il 14 luglio. Ed essa stessa, il 13 d'agosto, a Rosolino Pilo, rivelandogli tutta la sua tragedia interiore: «Sono 48 giorni dacché il mio Carlo m'abbandonò, si dice ch'ei sia morto da 41 giorni, ed io nol posso ancora credere... Ho perduto l'uomo impareggiabile! Ed è molto crudele che la sua morte non ha giovato menomamente al nostro paese!... Ei non prevedeva; ma io sí, e glielo dissi l'ultimo giorno, ma il povero Carlo era afferrato, non poteva piú ragionare... Saprete tutte le sevizie che mi sono state usate... Oh come era illuso il povero Carlo su tutto!... Le voci, che corrono qui ora, sono che Carlo vive; ma io nol credo... Alle volte mi balena il pensiero che forse ei voglia provarmi e vedere se era vera la sua convinzione che anche la sua morte mi avrebbe giovato...»

Tornata nella sua casa, questa divenne — col progressivo normalizzarsi della situazione genovese — luogo di riunione degli amici di Pisacane, e in genere dei mazziniani e dei fuorusciti napoletani. Enrichetta, nel perpetuo va e vieni degli amici, che in quelle stanze si recavano (notava la polizia) «come se vi fosse la tomba di Pisacane», riusciva a stordirsi se non a trovar distrazione. Ma non piacque la cosa alle autorità piemontesi; ed ecco lo sfratto da Genova! La poveretta vi si oppose fin che poté, accampando tutti i pretesti possibili, e principalmente la delicata salute di Silvia; ma dopo che nel gennaio '58, nel corso di una nuova perquisizione, le si rinvenne una lettera firmata Mazzini, il provvedimento non fu piú revocabile.365 Nell'aprile '58 dové dunque trasferirsi a Torino, sempre sorvegliatissima:366 quanto piú sola, nella capitale, e quanto piú morto, ivi, e dimenticato dovea sembrarle il suo Carlo! La polizia attestava come essa vivesse ritiratissima, poco frequentata dagli emigrati, «anzi poco curata, e generalmente disprezzata pe' suoi antecedenti poco morali sebbene l'amica da lunghi anni di colui che viene portato alle stelle dai Mazziniani».

Non le concessero di ritornare a Genova che sulla fine del '58.367 «Pensa solo all'educazione della figlia, scriveva quell'Intendente, non vede che le famiglie Boldoni e Camozzi e qualche altro emigrato; non pensa alla politica, vive di aiuti che riceve dalla famiglia del marito e dei frutti di un suo capitaletto di 3000 lire».

Ma oltre alla missione di educar Silvia (che nel '60 Nicotera, liberato dalla galera, adottò come figlia ed ebbe poi sempre carissima, fin quando, ancor giovane, essa morí, nel 1890)368, altri due grandi scopi aveva allora la grama vita di Enrichetta: la pubblicazione dell'ultima opera di Pisacane, lasciata da lui mal compiuta e scorretta,369 e il soccorso materiale e morale ai superstiti di Sanza, invidianti, nei durissimi ergastoli, Pisacane caduto.370

 

Cavour, sinceramente indignato contro le delittuose iniziative di quell'«infame cospiratore, vero capo di assassini e demonio» che rispondeva al nome di Mazzini (tanto da augurarsi di vederlo un bel giorno «appiccato sulla piazza dell'Acquasola»), esprimeva al governo napoletano la sua solidarietà; e intanto anche la falange dei patrioti costituzionaleggianti e un'ampia frazione degli stessi repubblicani si levavano a rumore, scagliando furiose invettive contro il grande fuggiasco: fu un plebiscito d'odio che avrebbe sommerso per sempre, fuori di Mazzini, chiunque.371 Né solo le vecchie accuse d'incapacità e di codardia gli piovvero addosso: ché si giunse perfino a stampare aver egli saputo provveder con vantaggio a' suoi meschini privati interessi mentre il Cagliari navigava alla volta di Sapri!372 Mazzini, per fortuna di tutti, non esclusi coloro che piú rumorosamente maledicevano a lui, teneva duro; amareggiato, deluso, ferito nell'anima, stringeva le mascelle e tirava innanzi; pareva non avvertisse neanche il coro delle imprecazioni! «Come potete ideare — scriveva a un'amica, in settembre —, ad ogni ritorno, ad ogni anno, s'aggrava piú sempre su me quel tedio della vita che non ha nome ed al quale porrei in qualche modo una conclusione, se qualche affetto non mi confortasse a durare». Ma poi, stupenda ripresa: «Le cose d'Italia sono com'erano; i tentativi falliti sono conseguenza di casi che possono riprodursi, ma che non cangiano la natura delle condizioni generali. Si può fare. Vi sono elementi piú che sufficienti. Una vittoria li porrebbe tutti in moto. Con questa convinzione, è dovere il tentare sempre; e se riesco a raccogliere mezzi sufficienti ritenterò». Cecità? O, come si volle da alcuni, insensibilità di fronte al disastro? Non gli pesava dunque il corpo straziato di Pisacane? Anzi lo risuscitava, l'amico perduto, facendo del suo nome un'idea, lui solo! Gli si gridava il crucifige, ed egli, (in ottobre) in una circolare del partito d'azione, osava scriver cosí: «Il sacrificio eroico d'uno dei migliori nostri, Carlo Pisacane, ha suscitato simpatie universali. A noi, fratelli suoi nell'Associazione, impone un nuovo dovere di costanza e di attività. Noi non siamo uomini se non ci adoperiamo a compirlo».373

Chi dava tanta prodigiosa forza a quell'uomo precocemente invecchiato, malato e incanutito? Morale eroica! A Rosolino Pilo — altra sua «vittima predestinata» — scriveva: il colpo è gravissimo, «ragione di piú perché noi rimaniamo fermi sulla nostra via di predicazione e d'azione». La disfatta, le ingiurie lo trasumanano, moltiplicano all'infinito la sua attività, dànno un commosso fremito d'ali alla sua prosa. Processo di Genova? «Badate — fulmina i magistrati — che a giudici Italiani i quali nel 1858 pronunziassero: gl'Italiani che volevano morire o vincere con Pisacane per la libertà della Patria meritano il patibolo o la galera, né Dio né gli uomini perdoneranno». Sottoscrizione per far la dote a Silvia?374 Opera santa, Italiani, «ma ricordatevi, che se santo è l'aiuto agli orfani dei martiri del paese, piú santo è l'impedire che martiri siano, e ricordatevi che, se mezzi maggiori concedevano a Pisacane l'inoltrarsi securo fin dove popolazioni numerosamente accentrate e meno ignoranti potevano secondarlo, fors'a quest'ora egli sollevava da Napoli tutte le popolazioni che s'agitano tormentate fra le Alpi e il Faro». E via e via, in un crescendo allucinante che ai contemporanei dové sembrare monomaniaco. C'è un momento nella vita delle nazioni schiave «nel quale ogni tentativo, fallito o no, giova visibilmente alla causa del popolo che combatte. L'Italia ha raggiunto questo periodo». Fino a quei commossi Ricordi su Pisacane, culminanti nella espressa certezza che se l'amico «avesse potuto, cadendo, mandarci un ultimo grido, questo grido ci avrebbe detto: rifate, tentate, tentate sempre fino al giorno in cui vincerete».

Perché Pisacane morto era per lui, ormai, quel che Jacopo Ruffini, i Bandiera, Tito Speri, morti, erano stati: una pausa di sbigottimento, di dubbio, di rimorso; poi un nuovo balzo in avanti, quasi disperato, piú risoluto che mai. Era la grande sua idea che cacciava sempre piú fonde le radici nel tessuto vivo della nazione italiana. Alla testa d'una colonna di martiri, egli, cui pur pareva che incombesse da un dí all'altro la fine, respinta solo da una volontà indomita, poteva ormai parlare parole solenni: non s'incarnavano in lui, con i diritti e le aspirazioni dei vivi, i diritti e le aspirazioni dei compagni caduti?

Quanti, nei necrologi stampati per Pisacane o in intimi sfoghi, avevano deprecato il suo vano sacrificio!375 Perfino Enrichetta: «è molto crudele che la sua morte non ha giovato menomamente al nostro paese». Mazzini solo misurava e capiva.

Il viandante ansioso di varcare il torrente getta pietre una sull'altra, nel profondo dell'acqua, poi posa sicuro il suo piede sulle ultime, che affiorano, perché sa che quelle scomparse nel gorgo sosterranno il suo peso.

Pisacane, anche lui, pareva sparito nel nulla. Ma sulla sua vita, sulla sua morte poteva posare, e posa, uno dei piloni granitici dell'edificio italiano.






p. -

301 Sull'ora della partenza del Cagliari, qualche discordanza. Ma dovette aver luogo poco innanzi alle sette pom., come si rileva dalle deposizioni dell'equipaggio, rese a Genova nel '58, e dal Ministro sardo di Grazia e Giustizia trasmesse all'Hudson (Rec. Off., F. O., 167 | 100).



302 Dalla Gazzetta del Popolo, Torino, 2 luglio '57: «poco prima della partenza si presentarono trenta passeggeri, non dello Stato, e che parevano formare una sola compagnia»; ma la Gazzetta dà questa notizia quando si è già diffusa la voce dello sbarco a Sapri.

La lista dei passeggeri del Cagliari, 25 giugno, nell'Archivio di Stato, Torino, Mat. pol. int. in gen., m. 17).



303 Il testo del biglietto della White in Resoconto, 236. Nicotera, nell'interrogatorio 8 agosto '57, dichiarò che la W. lo aveva scritto «perché si era fatto credere che (il macchinista)... lungi dal condiscendere, avrebbe fatto saltare in aria il vapore» (Ivi, 589).



304 Il biglietto di Mazzini è stato pubblicato dalla WHITE MARIO (In memoria, ecc., 9). Ma la ristampa, pubblicata adesso di su l'autografo nell'Ed. Naz. degli Scritti di Mazzini, offre — se ce ne fosse bisogno — nuova conferma della disinvoltura con cui essa dava alla luce i preziosi documenti storici da lei posseduti.



305 Rosetta a Pilo, 25 giugno '57: «La notte scorsa... sentii che faceva un vento fortissimo». Secondo VENOSTA, invece, il mancato incontro sarebbe stato motivato da una fitta nebbia (81).



306 Gazzetta del Popolo, 8 luglio '57: «A Portofino, punto dove si fanno molti contrabbandi, i doganieri hanno sequestrato diverse casse di fucili».



307 Pilo non si rimise piú da quel colpo: ne fanno fede le sue lettere, documento, da allora in poi, di un'anima travagliata da una incontenibile angoscia. La sensazione d'aver suo malgrado danneggiato la causa di P. e contribuito alla sua perdita, gl'infusero una disperata volontà di agire e di sacrificarsi per lo stesso ideale: non eran passati tre anni che, precedendo i Mille, egli cadeva eroicamente in Sicilia.



308 Anche sull'ora dell'ammutinamento sul Cagliari, qualche discordanza: ma ebbe luogo poco innanzi alle nove pom., come si rileva dalle deposizioni, cit., dell'equipaggio del Cagliari (Rec. Off., 1. c.).



309 Badino, fuochista del Cagliari, depose (l. c.) che i rivoltosi eran vestiti «con berretto rosso e camicia rossa»; lo confermarono Travi e Boffa, camerieri di bordo. Questa circostanza, unita all'altra, fantastica, ma ampiamente diffusa nella stampa del tempo, che il Cagliari cioè battesse bandiera rossa, impressionò sinistramente gli stessi ambienti liberali in Italia e fuori d'Italia. Bandiera rossa è simbolo «di socialismo», notava severo il Morning post, 7 luglio, «e queste non sono le misure gentili che ci vogliono per attirare a confederazione il popolo italiano». I governi italiani possono essere reazionari e corrotti, «ma quando si pensa a rovesciarli a mezzo di pirateria e proclamando comunismo e repubblica rossa..., gl'italiani, per quanto mal governati, preferiranno tenersi i guai attuali piuttosto che precipitare verso altri ignoti». E l'8 luglio (alla bandiera rossa accostando il Testamento di P.): «tale è il terrore del socialismo e dell'anarchia che perfino negli Stati continentali del re Siciliano, la gente è piuttosto disposta a sopportare la tirannia di un solo che quella di molti. Sono ben pochi, o non esistono affatto, i partigiani... del comunismo tanto a Napoli che in Sicilia».



310 I marinai del Cagliari deposero tutti di essere stati minacciati colla pistola alla mano, di essere stati tenuti, nel resto del viaggio, quali prigionieri, di esser stati costretti a far tutto quello che i rivoltosi ordinavano, compreso il gridare «viva la repubblica, viva l'Italia». Uno di essi, durante l'ammutinamento, prese tanta paura che avrebbe voluto gettarsi in mare! (Rec. Off., l. c.).

Falcone (pratico d'inglese) s'incaricò di consegnare il famoso biglietto ai macchinisti inglesi. Deposizione Badino: il capo macchinista venne minacciato «che se le macchine si fossero guastate gli andava la vita»; ond'è che egli lo vide «rallentare alquanto la forza alle macchine per tema che prendendo qualche disastro, non si credesse fatto a bella posta, ed effettuassero le loro promesse quei rivoltosi». Un altro fuochista fece osservare che la macchina era vecchia e si era già piú volte guastata...



311 Carlo Noce, da Genova, di anni 34, era il cuoco di bordo. La sua dep. nel Rec. Off., 1. c.



312 Qualche differenza fra RONDINI e BILOTTI nel precisare il numero e i nomi dei firmatari della Dichiarazione. Alcuni di costoro deposero poi di aver firmato senza leggere... (Resoconto, 522).

Secondo la deposizione del fuochista Rebora, avendo P. riunito l'equipaggio del Cagliari «che mostravasi poco affezionato a quel loro nuovo governo», e intimato «che si farebbero saltare le cervella a chi si fosse mostrato renitente», il nostromo richiese, e ottenne, altro attestato scritto, a giustificazione dell'equipaggio.



313 Altra deposizione di uno dei marinai: «Ordinarono che si bordeggiasse sul Monte di Portofino (sic) senza far cammino dicendo che aspettavano una barca... e vi si stette sino allo spuntar del giorno, e poi si diressero a capo Corso dell'isola di Corsica..., ma neanche là si trovò».



314 Secondo Danèri (RONDINI, 8) sarebbe stato Mazzini, prima della partenza della spedizione, a consigliare che, in caso di mancato incontro con le barche di Pilo, si perdessero «due giorni in alto mare per aspettare la notte del 29 e sbarcare a Lerici i 25 uomini quasi tutti di quel paese, provocare una insurrezione, riunire il maggior numero e marciare su Genova...»



315 Che il carbone mancasse dimostra il fatto che a Ponza s'imbarcò molta legna da ardere (MARIO, In memoria, 17). Nelle cit. depos. Saponi e Rebora si legge anzi che «prima di arrivare al capo Corso trovarono una barca napoletana..., speravano che fosse carica di carbone per approvisionarsene perché ne eravamo un poco mancanti..., ma quel legno era carico invece di granturco»; non sembra però notizia attendibile.



316 Che il Cagliari fosse adibito a trasporto di armi, abbiam visto, lo sapevano tutti, fuorché P. e Mazzini. Il 5 luglio, ad es., il Console inglese a Cagliari informava il suo Ministro degli Esteri che, nel suo precedente passaggio da quel porto (17 giugno), il Cagliari recava a bordo un ingente carico di armi (Rec. Off., F. O., 70 | 293).



317 La squadra inglese si ancorò a Livorno la mattina del 27 di giugno. Secondo la cit. dep. Saponi, il Cagliari l'avrebbe incontrata «verso la Bastia». Il 4 agosto '57 la Gazzetta del Popolo scriveva: «Ognuno ricorda che allo scoppio del tentativo, la flotta inglese... trovavasi nelle acque di Toscana. La stampa retrograda suppose dunque tosto che nella congiura vi fosse la zampa dell'Inghilterra... In questa versione l'incapacità di Mazzini di raccozzare meglio che tre dozzine di congiurati sarebbe il vero motivo del malumore della stampa inglese contro i mazziniani». La Gazzetta definiva stravagante tale versione. Il 15 luglio il Morning Post stupiva che la stampa clericale piemontese «ardisse accusare il governa reale (inglese) di complicità con la sanguinaria setta mazziniana, e... mescolare i nomi di lord Lyons, della diplomazia inglese, della squadra inglese del Mediterraneo ecc. allo scopo di dimostrare con ciò che l'Inghilterra... ha incoraggiato e favorito gli assassini di Livorno e i mancati saccheggiatori di Genova».

Il Console inglese a Napoli dava a lord Clarendon il 30 di giugno una notizia, se vera, assai grave, ma che non ebbe conferma; e cioè che il Cagliari avrebbe navigato, fino a Ponza, battendo bandiera inglese (Rec. Off., F. O., 70 | 293).



318 MAZZIOTTI, 178, 182 dà vari nomi di relegati politici (civili e militari) trovati da P. a Ponza.



319 La coraggiosa signora era Rosa Mascherò, genovese, per tutto il viaggio dimostratasi simpatizzante coi rivoltosi. (VENOSTA, 87. Per il viaggio del Cagliari, il V. ha potuto disporre della relazione di un testimone oculare).



320 Il comandante la guarnigione di Ponza denunziò poi «la condotta indegna del sergente Camarda (che comandava allora la Gran Guardia) ... che si diede ai rivoltosi». Nello stesso rapporto (da Ponza, 4 luglio) si legge che «era il tenente Balsamo non sano di mente, si mostrò attaccato ai propri doveri, ma morí qual visse». Povero Balsamo! Ed era stato l'unico ufficiale che avesse opposto resistenza ai rivoltosi! La rel. D'Ambrosio nell'Archivio di Stato, Napoli, Ministero di Polizia, f. 550.



321 Sulla resa del castello corsero versioni discordi. VENOSTA, e poi altri, la attribuirono a un ordine del comandante, fatto prigioniero e trasportato a bordo del Cagliari.



322 Il lamentevole caso degli agenti della pubblica forza in un Rapporto del caposquadra di polizia al giudice del Circondario, 12 luglio '57 (Archivio di Stato, Napoli, Min. di Pol., f. 550).



323 La nota ufficiale dei fuggiti da Ponza nell'Archivio di Stato, Napoli, l. c.



324 Fu Carmine Alifano, interrogato dall'Intendente di Avellino il 17 di luglio, che inventò la storiella dei relegati costretti a seguire P. sul Cagliari (Archivio di Stato, Napoli, l. c.).



325 La deposizione Signorelli (resa a Catanzaro, 7 luglio) nell'Archivio di Stato, Napoli, l. c.



326 A giudicare da una lettera di Pisani a Fanelli, da Ventotene, 29 giugno, sembrerebbe che il Cagliari avesse fatto tappa, per una mezz'ora, inosservato dai relegati, a Ventotene (DE MONTE); ma era chiacchiera di relegati eccitati e male informati.



327 Anche sull'ora della partenza del Cagliari da Ponza, versioni discordi. «Verso la mezzanotte», dice il Giornale del Regno delle Due Sicilie, 30 giugno; alle tre e mezzo scrive Bilotti, a p. 167; sulle ore della sera, scriveva Agresti a Fanelli, 30 giugno.



328 Una seconda barca venne o dal Vitiello o da altri spedita, la notte stessa, a Ventotene (lettera cit. di Agresti, 30 giugno).

È il LACAVA che ha stabilito la responsabilità del parroco Vitiello, scagionando cosí da una insinuazione del Venosta il relegato politico De Leo, colpevole tutt'al piú di leggerezza, per aver comunicato al Vitiello notizie riservate da lui apprese appunto pel suo carattere di relegato.



329 Le chiacchiere piú assurde si accreditarono allora sul modo tenuto dagli iniziatori della spedizione per concertarsi coi relegati. Uno di essi (relegato comune, naturalmente) assicurò, nell'interrogatorio subíto il 4 di luglio a Mormanno, che Nicotera «otto giorni prima era stato nell'Isola vestito da prete, e fingeva adoperarsi alla confessione e si racconta che in tal modo concertò qualche cosa!» (Arch. di Stato, Napoli, l. c.). — Piú credibile informazione è quella fornitaci dalla WHITAKER (op. cit., 258) secondo cui un Giuseppe Caputo, commilitone di Agesilao Milano, sarebbe stato confinato a Ponza sui primi del '57. Nel corso della sua traduzione nell'isola «egli fu tenuto alcuni giorni in prigione a Napoli e... entrò in comunicazione con la società segreta, stabilendo coi suoi organizzatori che avrebbe preparato una insurrezione a Ponza». Al Caputo, che poi partí da Ponza col Cagliari e fu ferito e arrestato e a suo tempo rispedito nell'isola, attribuisce effettivamente la W. il merito della sollevazione dei relegati. Del Caputo v. la deposizione al processo di Firenze, in Resoconto, 84.



330 Era, questo D'Ambrosio, quello stesso ufficiale che nel '51 aveva steso la già cit. e ridevole Relazione della campagna militare su Roma?



331 Se le autorità borboniche seppero il vero sull'episodio di Ponza, non cosí, more solito, lo seppe il pubblico grosso; al quale si dette a bere (Giorn. del Regno d. Due Sicilie, 30 giugno) che i «veterani» avevano opposto disperata difesa, tanto che «taluni ribaldi... pagarono il fio del loro misfare, restandone degli uccisi (?) e de' feriti».



332 Ma non tutti quei militari in punizione eran farina da far ostie! Un Rocco La Cava, ad es., nominato caposquadra nella prima compagnia, non solamente si offrí, appena arrestato, di fare amplissime rivelazioni, ma altresí di riferire all'autorità inquirente, «quando gli si usassero considerazioni», le eventuali confidenze dei suoi compagni di causa! Lo spingeva a ciò fare il desiderio di «dare al reale governo un attestato che un inganno mi trasse dall'isola» (Resoconto, 462).



333 Gli incitamenti di P. ai suoi seguaci nella dep. cit. di Signorelli Rocco.



334 È Danèri che ci informa della proposta di Falcone e Nicotera.



335 Nonostante il carcere sofferto senza colpa, i marinai del Cagliari serbarono cordiali rapporti coi superstiti della spedizione, tanto che, giunta la loro liberazione (il 12 giugno '58), indirizzarono a Nicotera una lettera di simpatia, augurando «giorni migliori sí a voi che alla patria comune» (MARIO, In mem., 20). Vero però che, reduci a Genova, non si mostrarono eroi nelle loro deposizioni al patrio governo!



336 Del Mercurio (Marcori secondo altri) v. la deposizione nel processo di Firenze del 1876 (Resoconto, 73).



337 Oltre ai feriti, sembra che a Sapri si rifiutasse di sbarcare, «facendo da pazzo», un altro componente del primo gruppo partito da Genova (Depos. Boffa, nel Rec. Off., l. c.).



338 Le parole incitatrici di P. vennero riferite da Michele Esposito, uno dei relegati a Ponza, arrestato a Montemurro (Arch. di Stato, Napoli, l. c.).



339 BILOTTI, generalmente equanime e bene informato, scrive (189) che i Gallotti eran cosí avversi alla dinastia borbonica che... ignoravan perfino il nome della madre di re Francesco, cui, nel '59, rivolsero una supplica... Ma la prova non è troppo suadente. Sussiste che, in una delle tante suppliche umiliate al trono, essi giunsero al punto di dichiarare che «si aspettavano una Croce d'onore, per esser fuggiti al sentire lo sbarco, avvisare la forza di Lagonegro che fosse marciato contro...» (Arch. di Stato, Napoli, Min. di Pol., f. 551). E BILOTTI scrive (199) che, al Fortino di Cervara, P. «da nessuno ebbe visite, fuorché da due dei figli del barone G. Gallotti... i quali poco dopo si distaccarono, forse con la promessa di affrettare l'arrivo di uomini e di vettovaglie»! Povero Pisacane!



340 «Questi — scriveva il corrispondente da Napoli del Morning Post, alludendo alle ruberie e peggio commesse da elementi sbandati della masnada pisacaniana — questi, suppongo, sono i segni fraterni dei socialisti» (13 luglio).



341 La cattura e il conseguente sequestro del Cagliari dettero luogo, è noto, a una celeberrima questione di diritto internazionale, dibattutasi a lungo fra Torino e Napoli, la quale destò il piú vivo interessamento dei vari gabinetti europei, e segnatamente di quello inglese. L'Inghilterra, infatti, pretese riparazioni da Napoli per la illegale detenzione dei macchinisti inglesi del Cagliari. La questione, che dette la stura a numerosissime pubblicazioni politiche e giuridiche, ufficiali e non ufficiali, si chiuse poi con la sconfitta della tesi napoletana. — Quanto al Cagliari, nell'ottobre 1860 Garibaldi dittatore assegnava alla Soc. Rubattino, che n'era l'armatrice, un'indennità di 450.000 franchi.



342 La rapida azione svolta dalle autorità borboniche per schiacciare la tentata insurrezione, conferma che a Napoli una impresa del genere era attesa da tempo. Da ogni parte d'Italia (e segnatamente da Genova) affluivano in quei giorni nella capitale borbonica notizie atte a facilitare e rendere piú efficiente la repressione (si ricevevano perfino notizie da Londra su spedizioni di armi per l'Italia in partenza dalle fabbriche inglesi... Arch. di Stato, Napoli, Min. di Pol., f. 550). I dispacci del Console inglese a Palermo (4, 11 luglio) dimostrano che il governo borbonico aveva da tempo preso le sue precauzioni (Rec. Off., F. O., 70 | 291). Quanto allo spionaggio esercitato a Genova, v. i Rapporti d'un confidente a Cavour, giugno-luglio 1857, pubbl. da LUZIO (420-430); e le notizie raccolte da MORANDO, op. cit., secondo cui Pisacane avrebbe precipitato l'azione proprio perché accortosi del tradimento d'un dei suoi fidi (forse lo stesso estensore dei cit. Rapporti?) Il traditore sarebbe poi stato aggredito e ucciso, due anni dopo, a Lugano, da G. B. Capurro, uno dei compromessi nei fatti di Genova.



343 Fanelli morí nel 1877 in una casa di salute, «tormentato da gravi disturbi nervosi, ma non pazzo» (TEOFILATO, op. cit.). Soffriva di «una specie di sovraeccitazione nervosa che lo rendeva melanconico, sospettoso» (Fabrizi al processo di Firenze, in Resoconto, 115).



344 Fanelli ad Albini, 4 luglio '57: «Noi questa sera faremo la parte nostra cominciando con una imponente dimostrazione che porteremo all'azione». Ma la dimostrazione (Console Barbar a Clarendon, 9 luglio) «non venne effettuata in seguito al fallimento del tentativo in Calabria e per avere uno del partito informato la polizia in proposito» (Rec. Off., F. O., 70 | 289). Su quei giorni di passione per Fanelli e sul comportamento dei moderati, cfr. specialmente l'op. cit. di FABRIZI.



345 Era l'Italia del Popolo, Genova, 7 luglio, che in una corrispondenza da Napoli riferiva la voce ivi diffusasi di una spedizione navale sarda.

In un rapporto del Prefetto di Polizia al suo Direttore, Napoli, 11 luglio '57, si legge che vicino a Capodimonte vennero trovate armi bianche e bandiere tricolori. «In conclusione però si può francamente ritenere che gli agitatori, i quali avean concepito la stolta mossa rivoluzionaria la sera dei quattro, scorati dall'imponenza della forza, la quale con tutta diligenza piazzata nei luoghi minacciati, li costrinse (sic) a gittar le armi nel pozzo, e le bandiere in una campagna poco lontana» (Arch. di Stato, Napoli, Min. di Pol., f. 551).



346 Son note le polemiche vivacissime cui il contegno di Fanelli dette luogo quando, nel 1860, i superstiti di Sapri vennero liberati dalla galera. Addirittura feroce si mostrò con lui Nicotera, che per altro non era andato immune da censure severe per la grande loquacità dimostrata durante l'istruttoria salernitana. Seguirono incidenti personali anche violenti nel '60 e nel '64, giurí d'onore, interventi conciliativi di Garibaldi, Mazzini, Fabrizi, pubblicazioni di documenti sulla spedizione di Sapri (FABRIZI, DE MONTE, VENOSTA), riavvicinamenti subitanei (come quello fra Nicotera e Fanelli, appunto, in occasione della campagna elettorale del '65 a Napoli). Fanelli era sinceramente convinto di avere fatto tutto il possibile e piú del possibile per assicurare il successo dell'impresa pisacaniana; e aveva ragione, tenuto conto delle sue limitate capacità, e avevan torto coloro che gli davan del traditore. La parola piú equa, nel dilagar di tanta polemica, fu quella pronunciata da Mazzini, che attribuí l'inazione di Napoli, oltreché alla riluttanza dei moderati, al «difetto d'iniziativa» congenito al carattere di Fanelli, «difetto che un discorso di mezz'ora con lui basta a rivelare»; e concludeva, invitando il F. a cessar le diatribe, consacrando invece la «vita a qualche fatto generoso ed energico». Consiglio che il F., già dei Mille, seguí; tanto è vero che nel '66, nonostante la contrarietà e lo sdegno di Bakunin, che non sapeva perdonare certi sentimentalismi nazionali, volle prender parte alla guerra. Nel '57 «era arrivato troppo tardi», ora non voleva mancare al posto del sacrificio e del dovere (NETTLAU, 74). — Quanto al giudizio di Nicotera su Fanelli, giusto è ricordare che esso si era formato unicamente in base agli elementi fornitigli da terze persone con le quali aveva potuto corrispondere dalla galera. Gravissima ad es. la lettera scrittagli il 10 agosto '58 dal Pilo («Oh! che vigliaccheria, che nullità ho constatato nel Wilson — nome di guerra di Fanelli — e nei suoi compagni. Per Dio! non credevo mai che la somma delle cose stesse nelle mani di un uomo tanto meschino di cuore, d'ingegno e d'ardire»...) Fabrizi, nel mandare a Garibaldi la sua Relazione, lo assicurava invece (8 febbraio 1864) esser Fanelli «giovane della piú alta stima... pronto a tutto, sensato, attivo» (Museo del Ris., Milano, Arch. garibaldino, c. 829).



347 Sullo sbarco di Garibaldi a Sapri nel 1860 e le impressioni provate da lui e dai suoi seguaci ripensando a Pisacane, cfr. MARIO, Bertani, II, 185-186. Eran con Garibaldi anche Cosenz e Bertani!



348 Il Giornale del Regno d. Due Sicilie, 3 luglio, sottolineava la valorosa condotta degli Urbani, tanto piú apprezzabile, osservava, che essi «trovavansi quasi tutti in quella stagione alle messi»; eppure, «trascurati i propri interessi, corsero ad amarsi ed a combattere».



349 La dep. Venturini ecc. nell'Arch. di Stato, Napoli, l. c. I particolari sulla sete sofferta dai componenti la banda in VENOSTA, 90.



350 Uno dei due soldati era Domenico Ciampi, da Tufo; sue le parole riportate (all'Intendente di Avellino, 11 luglio; Archivio di Stato, Napoli, Min. di Pol., f. 550).



351 Contrario alla pena di morte nel codice civile, P. l'aveva sempre trovata indispensabile invece in quello militare (Saggi, IV).



352 Debbo la notizia dell'aver re Ferdinando sostituito F. Pisacane col Ghio, a Jack La Bolina, che la tiene da fonte ritenuta attendibile.



353 Nel 1860, a Napoli, Bertani fece arrestare il Ghio, che figurava comandante la piazza; ma il governo dittatoriale lo rilasciò, troncando il processo che contro di lui era stato iniziato (FALDELLA, op. cit., 255).



354 Le ultime parole pronunciate da P. in VENOSTA, 99. Altre versioni sulla morte di P. in RONDINI, NISCO, ZINI (Storia d'Italia), FOSCHINI. Quella seguíta nel testo è ormai generalmente ammessa ed è quella suffragata da piú numerose testimonianze. A tergo di una cartella stampata di una Lotteria a beneficio di G. Nicotera (lotteria probabilmente organizzata a Milano nel 1859) si legge esser stato P. «ucciso, tagliato a pezzi e gettato in mare» (il mare a Sanza?!) Il biglietto, del valore di «franchi 2», è in mio possesso.



355 La giustificazione del rogo e della conseguente impossibilità di procedere al riconoscimento dei cadaveri, in una missiva dell'Intendente del Principato citeriore al Direttore di Polizia, da Salerno, 25 luglio 1857 (Arch. di Stato, Napoli, l. c., f. 551).



356 L'esposto di don Castelli (30 ott. '57) venne pubblicato da D. MAZZONI in Il Risorg. ital., 1920, 400.



357 Sulla Gazzetta d'Augusta, 24 agosto '57, compariva ad es. un articolo tendente a dimostrare, in base agli ultimi avvenimenti, «ciò che la diplomazia non ha voluto comprendere..., vale a dire che il Regno di Napoli non ancora offre un terreno atto a rivoluzioni. Vero è che si trovano anche lí dei malcontenti, come ve ne sono in Germania, in Francia e in Inghilterra. Ma le masse del popolo e quelli che posseggono beni sono tranquilli e buoni, e affezionati al Re, e ancorché sperassero in qualche miglioramento, sono ben lungi dall'attenderlo da insurrezioni». Ahimè, è che questo articolo era stato redatto a... Caserta, da un tal La Grange, il quale, il 7 sett. successivo, si affrettava a compiegarne la traduzione al Direttore di Polizia... (Arch. di Stato, Napoli, Min. di Pol., f. 551).

Sulla fuga di Fanelli preziose notizie si ricavano dal carteggio di uno che la sapeva lunga in proposito, il Console inglese a Napoli! Scriveva infatti egli al suo collega a Smirne, 20 luglio '57, che tre napoletani (Fanelli e la coppia Dragone) «ai quali m'interesso, essendo riusciti con grande difficoltà a sottrarsi alle grinfie della polizia, che li perseguita per le loro opinioni liberali», avevan preso imbarco, alcuni giorni innanzi, su uno shooner inglese, il Rival, diretto appunto a Smirne. Procurasse il collega di facilitare loro lo sbarco, tenendo conto che essi eran sforniti di passaporto. Il 26 agosto seguente il Console a Smirne informava a sua volta il Governatore di Malta essere i tre felicemente pervenuti a Smirne; adesso il Fanelli intendeva proseguire, via Malta, per l'Inghilterra, con l'intenzione di proseguire là i suoi studi di... architettura. Lo scrivente aveva perciò ritenuto opportuno di munirlo di un passaporto provvisorio (connotati: anni 30, statura alta, capelli neri, occhi idem, naso regolare, bocca idem, di professione scritturale), qualificandolo «impiegato di questo Consolato». Rispondeva il f. f. di segretario del Governatorato di Malta, da La Valletta, 24 settembre: Fanelli ha ottenuto il permesso di sbarco «con la precisa intesa che avrebbe lasciato Malta di sua iniziativa entro sei settimane»; sembra che adesso abbia mutato intenzione, ma sarà imbarcato d'autorità. Il Console a Smirne è vivamente pregato di non rilasciare mai piú passaporti per Malta a persone che non hanno diritto di prendervi residenza. Il 30 nov. il Governatore di Malta in persona informava il Ministro delle Colonie che Fanelli si era ostinato a non voler partire. «Io ho cercato, da che son qui, di arginare la tendenza a far di Malta un luogo di convegno per gente che cospira contro il proprio governo, e Fanelli è considerato qui come un agente di Mazzini. Per questo motivo... l'ho fatto proseguire per l'Inghilterra a mie spese». Acclusa la ricevuta di 12 sterline! (Rec. Off., C. O., 158 | 182).

Il Morning Post del 20 di luglio pubblicava una Dichiarazione dei Napoletani, in data di Napoli 4 luglio, in cui si leggeva che essi non altro volevano che la costituzione, e non avevano niente a che fare col «pazzo attentato» che ha «riempito i Napoletani di stupore e di sospetti di nuove manovre poliziesche». Degli sbarcati, si precisava, «due soli eran regnicoli» (tre, per la verità).



358 Le parole di Spaventa in lettera al fratello, 16 agosto '57 (CROCE, 235).



359 Il testo del telegramma, indirizzato a un tale Massoni a Genova, era il seguente: «Le vostre tratte furono pagate a giorni si pagherà il saldo». Risultò alla polizia napoletana che speditore del telegramma figurava certo Giovanni Bazigher; orbene il suo nome, o un nome esotico molto simile al suo, si era trovato segnato sul taccuino rinvenuto sul cadavere di P.; e un Bazigher era impiegato quale usciere al Consolato inglese di Napoli! Edotto della strana concomitanza dal conte Bernstoff, che a Londra — in assenza di un rappresentante napoletano — curava gli interessi del governo delle Due Sicilie, il Ministro degli Esteri inglese richiese schiarimenti al suo agente in Napoli (29 luglio). Questi rispondeva (8 agosto) essere il B., effettivamente usciere della Legazione inglese da 33 anni, e ora in servizio presso il Consolato; avere il B. ammesso, durante un interrogatorio severo, di aver spedito un telegramma per conto di un tale Alfonso Praito, suo conoscente, ma di essere interamente all'oscuro del suo contenuto; aver egli ciò fatto perché il P. era sconosciuto all'ufficio telegrafico e non poteva perciò spedire dispacci. Aggiungeva il Console che, in merito alla circostanza del taccuino di P., bastava a toglierle qualunque importanza la considerazione che il B. era analfabeta, e cioè nella impossibilità di tener rapporti con P. Il B. d'altronde giurava di non averlo mai neanche sentito nominare. — Ribadí Clarendon (24 agosto): Praito esisteva davvero o era un nome fittizio, come pretendeva il governo napoletano? Barbar rispondeva esser sua impressione che il Bazigher fosse stato messo in mezzo da qualche conoscente indelicato. Ma Clarendon non ammetteva scappatoie: voleva conoscere intera la verità (23 settembre). Finalmente il Barbar, incalzato anche dal governo napoletano (nota Carafa 25 sett.), rispondeva al Clarendon cosí (10 ott.): «Ho di nuovo interrogato il Bazigher, e questi dichiara di aver conosciuto Praito circa 6 anni addietro, in relazione a certe lettere che venivan spedite da Malta e Genova all'indirizzo di Praito, sotto coperta pel fu sir William Temple; nello stesso modo lettere di Praito venivan trasmesse ai suoi corrispondenti in quei luoghi pel tramite della Missione. P. si diceva un commerciante e fu per questo che B. consentí a favorirlo recando un suo dispaccio all'ufficio telegrafico...»; ma adesso il P. risultava scomparso da Napoli. «Con molta difficoltà... son riuscito a sapere — continuava Barbar — da persone connesse col partito liberale che... il nome di Praito è fittizio, essendo il suo vero nome Luigi Dragone, e che egli ha parenti in città che verrebbero completamente rovinati se il suo nome venisse a conoscenza del governo napoletano». Barbar si guardava bene però dall'avvertire Clarendon che il Dragone era riuscito a fuggire da Napoli unicamente per merito suo! Fu giuocoforza a Clarendon tener per sé le gravi rivelazioni di Barbar; ma mentre il governo napoletano seguitava a dare infruttuosamente la caccia al presunto Praito, pur intuendo che il Consolato inglese dovesse saperla assai lunga, il Ministro inglese (giudicata «improper» la condotta di Bazigher, cui certo, egli osservava, eran noti e il vero nome di Praito e la natura del telegramma) ordinava una severa inchiesta interna sulla questione della corrispondenza settaria spedita pel tramite della missione inglese. Dei resultati di questa inchiesta ho già tenuto parola nella nota a pag. 227. Ulteriori documenti verranno dati altrove alla luce. (Per tutto ciò, cfr. Rec. Off., F. 0., 70 | 288, 289, 290; C. O., 158 | 184, 186). Molta corrispondenza su questo episodio trovasi anche nell'Archivio Ministero Esteri, Roma (Corr. politica Min. Esteri Due Sicilie, IX, 4, cart. X). Si veda altresí quanto scrisse Danèri a proposito degli avvenimenti di Genova del 9 di giugno: «Pisacane scrisse un biglietto all'usciere del Consolato inglese in Napoli perché avvertisse Fanelli».



360 Son note le ricerche compiute a bordo della nave inglese Corinthian per scovarvi Mazzini. Su questo episodio il Rec. Off. (F. O., 67 | 227; 70 | 288, 289, 290) conserva numerosi documenti. Alla luce dei quali e di quelli poco piú su pubblicati sembrano invero piuttosto fuor di posto i furori del Console Barbar per la visita a bordo del Corinthian ordinata dalla polizia napoletana senza darne avviso, come d'obbligo, a lui! Il Barbar suggeriva al suo governo che si facessero rimostranze; ma il Ministro degli Esteri giudicò saviamente che era meglio rinunciarvi...



361 Il 2 luglio — il giorno stesso di Sanza! — l'Italia del Popolo dava le prime incerte notizie sull'avventuroso viaggio del Cagliari; il 3, fra discordi informazioni, anche la prima voce dell'avvenuto disastro; tre giorni appresso riportava le notizie correnti in città, secondo le quali «le truppe spedite dalla capitale per disperdere la colonna comandata dal col. Pisacane si sarebbero miste alla stessa. Si aggiunge ancora che piú provincie fossero in piena rivolta». Il 7 di luglio, l'Italia del Popolo stampava addirittura essere Napoli insorta, la caserma degli Svizzeri saltata, re Ferdinando ucciso!



362 Comprensibile il tormento di Jessie White (che poi, nella non breve prigionia, forní bella prova di fermezza, non disgiunta, è vero, da esaltazione) per non poter «mantener la promessa che feci... di non perdere di vista nessuno di loro». Sulle vicende della White il Rec. Off. conserva numerosi documenti, dai quali resulta che né il Console inglese a Genova né il Ministro a Torino credettero opportuno di far passi in suo favore, ritenendo piú che dimostrata la sua condotta politicamente scorretta. Dalla lettera Brown a Hudson, Genova, 4 luglio, resulta che, a detta dell'Intendente, la White, arrestata, si sarebbe qualificata addirittura «moglie di Mazzini». Offertale la liberazione, purché abbandonasse immediatamente il territorio piemontese, la W. superbamente dichiarò di voler dividere il fato dei suoi compagni di causa. Il 14 nov. Hudson informava il suo governo che la W. era stata posta in libertà, con 5 giorni di tempo per lasciar il Piemonte; la scarcerazione veniva motivata col fatto che si era trovata la W. piú esaltata che colpevole. (Rec. Off., F.O., 67 | 227). FALCO, 280 sg., ha pubblicato interessanti documenti sulla carcerazione della W. Una pepata lettera di lei a Garibaldi, dal carcere, trovasi in LUZIO, 408.



363 L'arrendevolezza delle autorità sarde ai voleri napoletani parve indizio di inqualificabile debolezza alla Gazzetta del Popolo. «Del rimanente, essa osservava, con che diritto permettere anche al vice console di leggere tutte le carte per cercare di servire il governo napoletano... se queste contenevano il nome di qualche napoletano dimorante in Napoli.. Oh! è un orrore!»

La casa — faceva osservare la Gazz. del Pop. — era intestata alla Di Lorenzo. E anzi P. figurava di pagarle dozzina...

Nel corso di un'altra perquisizione subíta il 17 luglio, alla Di Lorenzo si sequestravano, tra le altre cose, due brevi mss. di Pisacane: un foglio col titolo Principii sui quali è d'uopo fondare le istituzioni militari d'Italia: e un ms. di 30 fogli intitolato Principii fondamentali del nuovo patto sociale e costituzione provvisoria d'Italia.



364 Scriveva ancora Rosetta, il 13 luglio '57: «P. ha abbandonato una donna, la quale aveva per lui abbandonato la sua famiglia; ha lasciato una bambina, che sarà infelice senza padre...; ti pare che abbia fatto bene? No, e tu facevi lo stesso, se il caso non te lo impediva...»

Anche nei Cenni premessi ai Saggi si legge (I, XVIII): «Si serbò anzi per lunga pezza speranza che il P. potesse essere scampato alla strage dei suoi».



365 Sui rapporti fra Mazzini ed Enrichetta dopo il fatale luglio '57, cfr. Epistolario di MAZZINI (S.E.I.). Il 19 ott. Mazzini riceveva da lei una lettera «scritta in tono di profonda angoscia»; ai primi di novembre corse corrispondenza fra i due e fra Mazzini e la White in merito alla miglior residenza per Enrichetta se davvero sfrattata dal Piemonte: Inghilterra o Svizzera? Enrichetta scartava a priori l'Inghilterra (Mazzini alla Hawkes, 3 nov.). Nello stesso mese — mentre nasceva, per dissiparsi quasi immediatamente, un pettegolezzo fra i tre a proposito di certe osservazioni mosse da Mazzini sui rapporti sentimentali fra la W. e Alberto Mario, mal riportate, sembra, da Enrichetta — Mazzini lanciava in Inghilterra l'idea di coniare per sottoscrizione popolare una medaglia in onore di P. La medaglia non venne poi eseguita, nonostante che venisse raccolta una bella lista di sottoscrizioni, che Mazzini si proponeva di mandare «come ricordo», «come una specie di consolazione» a Enrichetta: alla «moglie di P.», cioè. Il 17 dic., scrivendo alla Hawkes, Mazzini lamentava che di tre lettere da lui dirette ad Enrichetta, questa ne avesse ricevuta una sola: «Si vede che a Genova trattengono le mie lettere». Altro che trattenerle! Lo sfratto di Enrichetta venne motivato unicamente in base alla sua corrispondenza con Mazzini.



366 Nella lettera famosa Al Conte di Cavour, Mazzini stigmatizzava con roventi espressioni lo sfratto della «vedova» di P. contro il quale nessuna voce si era levata alla Camera. È vero che un nugolo di deputati di sinistra avevano assediato di raccomandazioni e di proteste l'Intendente di Genova (cfr. LUZIO), ma nessuno di essi aveva creduto di deplorare pubblicamente l'odioso provvedimento. — Dello sfratto dava notizia il Console napoletano a Genova al suo Ministro degli Esteri, l'8 marzo '58, adducendo però d'ignorare dove la «famigerata» donna si sarebbe recata. «Sembra però che è andata o andrà in Inghilterra» (Arch. Min. Est., Roma, Corr. politica Min. Esteri Due Sicilie, Busta IV, f. 26) Era la White che consigliava Enrichetta a recarsi in Inghilterra; altrove «colla sua tempra, senza amici, morrebbe di dolore (FALCO).

Il 20 maggio '58 il Ministro dell'Interno sardo comunicava al Questore di Torino che, «sulla fiducia che la Sig.a Enrichetta Di Lorenzo non dia luogo ad osservazioni sulla sua condotta, e relazioni», la si autorizzava a prolungare il suo soggiorno nella capitale (Arch. di Stato, Torino, Emigrati, nominativo Di Lorenzo).



367 Di Enrichetta e Silvia tornate a Genova non molte notizie ci restano: senonché figurano entrambe alla prima prova dell'inno di Garibaldi eseguita l'ultimo giorno del 1858 in casa Camozzi (LOERO, 39). Silvia venne per allora sistemata nel Collegio delle Peschiere, diretto da Mercantini, il cantore della spedizione di Sapri.



368 Sull'adozione di Silvia da parte di Nicotera, notizie in VENOSTA, FALDELLA, nella MARIO, In memoria, e Bertani. Nell'ottobre '60 Silvia figura con Nicotera a Napoli: Garibaldi le aveva fatto assegnare una pensione di 60 ducati al mese; ed essa (con letterina 15 ottobre, che si conserva, con altre, nel Museo del Ris. in Milano, Arch. garibaldino, c. 585) ne lo ringraziava, aggiungendo: «Mi dispiace d'essere cosí piccina perché non posso esprimervi l'affetto e l'ammirazione che sento per voi che tanto bene avete fatto al nostro paese. Spero che presto scaccerete da Roma e Venezia gli stranieri, ed allora il mio papà Nicotera manterrà la promessa che m'ha fatto di condurmi da voi che desidero immensamente vedere». L'altra lettera a Garibaldi è del 3 gennaio '64, sempre da Napoli, ed esprimeva auguri e sensi di caldo patriottismo; da essa resulta che Enrichetta viveva accanto alla sua Silvia, accanto ai Nicotera. Saluti di Enrichetta e di Silvia trasmetteva ancora, a Garibaldi, Nicotera, il 23 dicembre di quell'anno (l. c., c. 554); invece, in altra lettera del 10 ott. '66, quelli solo di Silvia. Era morta in quel frattempo Enrichetta? O forse era tornata alla famiglia maritale?

Di una gentile intromissione di Silvia, memore delle paterne idealità socialiste, presso il genitore adottivo, ormai Ministro, in pro degli anarchici arrestati a Benevento nel 1877, dette notizia il MONTICELLI (ORANO, 214-215).



369 Sui timori del governo piemontese per l'annunciata stampa dei Saggi di Pisacane, cfr. LUZIO.



370 Sulle pietose cure da Enrichetta prestate fino al 1860 ai superstiti di Sapri languenti nelle carceri borboniche, v. MARIO, Bertani, I, 248. Enrichetta ringraziava Bertani (maggio 1860) per una cospicua offerta «per i nostri prigionieri», scusandosi di aver lasciato passare un giorno a causa di una indisposizione di Silvia. A pro di Nicotera molto si adoperò anche Mazzini. La corrispondenza con lui era facilitata dal guardiano dell'ergastolo e dal Console sardo a Trapani (MARIO, In Mem., 27).



371 Si potrebbero riempir pagine e pagine col solo passare in rassegna le diatribe antimazziniane seguite al luglio '57, piú acri e piú diffuse che dopo lo stesso febbraio '53! Pochi intuirono quanto grande Mazzini uscisse da quell'ennesima sconfitta; tra i pochi, G. Modena. Senza i suoi tentativi «iti a vuoto» — egli scriveva l'11 luglio '57 — «Cavour non poteva dir altro a Parigi, come avvenire d'Italia, che essa produce bozzoli, fichi e maccheroni deliziosi» (Pol. e arte, 204).



372 Era la Gazzetta del Popolo, 13 agosto '57, che riferiva l'odiosa calunnia su Mazzini sollecito dei suoi interessi pecuniari durante il compimento della spedizione di Sapri; tali rivelazioni si concludevano, degnamente, cosí: «Il sig. Mazzini è un rivoluzionario che grida agli altri avanti ma che quanto a lui pensa di salvare la pancia per i fichi». L'Indipendente, Torino, 9 luglio, scriveva «che nella storia non vi ha tiranno che abbia versato tanto sangue come Mazzini; questo sciagurato è circondato da una immensa quantità di capi mozzi di giovani da lui portati al patibolo».

A rivendicare l'onore di Mazzini pensava un giornale inglese, l'Illustrated London News, 11 luglio '57, il quale asseriva che se le imprese del giugno '57 avessero sortito buon esito, Mazzini e compagni sarebbero stati salutati da tutti come gli eroi dell'epoca. «Tutto il mondo vede e ammira l'altezza cui s'è inalzato l'Imperatore dei Francesi col colpo di stato...; e tutti possono figurarsi l'abisso di miseria e di degradazione cui quell'illustre personaggio sarebbe pervenuto se la sua audacia non fosse stata ricompensata da un completo successo. Cosí è col sig. Mazzini e con i cospiratori italiani — con questa differenza che essi lottano per la libertà e non per il soggiogamento della loro patria».

Del coro d'invettive antimazziniane si faceva eco il Ministro inglese Hudson, osservando, in un dispaccio del 10 di luglio, che «Mazzini, come al solito, procurava di tenersi lontano da ogni pericolo», che i suoi piani rivelavano «la solita presunzione e ignoranza» di un uomo «malvagio, orgoglioso e senza scrupoli» (Rec. Off., F. O., 70 | 295).

Marx — che nutriva per Mazzini il piú franco disprezzo — si limitò a registrare la sua ultima impresa con poche parole di compatimento: «Il Putsch di Mazzini assolutamente nel vecchio stile ufficiale. Avesse almeno lasciato fuori Genova!» (a Engels, 6 luglio — Briefwechsel, Stuttgart, 1921, II, 168). Ben altrimenti sensibile di fronte a quella prova di sfortunato coraggio un altro rivoluzionario socialista, Alessandro Herzen; il quale, premesso che non intendeva giustificare il piano di Pisacane, evidentemente intempestivo, cosí scriveva: «Questi uomini ci sopraffanno con la grandezza della loro tragica poesia, la loro terribile energia fa tacere qualunque biasimo o critica. Non conosco esempi di piú grande eroismo, né fra i greci né fra i romani né fra i martiri del cristianesimo o della riforma. ... La morte di P. e quella di Orsini furon come due spaventosi schianti di fulmine in una notte soffocante» (Mem., III, 70).



373 Con P. «noi abbiamo perduto un uomo che valeva per sé una Legione», scriveva Mazzini a Dragone, il 26 febbraio '58.

La circolare del Partito d'Azione in PALAMENGHI CRISPI, 542-44.



374 Furon Bertani, Medici, Cosenz e Boldoni che presero l'iniziativa di raccogliere fondi per costituire una dote a Silvia Pisacane. Ma la scarsità delle offerte — determinata in parte dallo scandalo che la pubblicazione del Testamento e dei Saggi sollevò fra gli stessi emigrati e in seno alla sinistra piemontese — consigliò gl'iniziatori a rinunciare alla dote, provvedendo invece a stipulare una assicurazione in pro della fanciulla, con contro-assicurazione in favor della madre (MARIO, Bertani, I, 245-248, 270; PALAMENGHI CRISPI, 439-441; MARIO, In mem., 27). La somma raccolta fu di 3134 franchi (Bertani a Plutino, 13 dic. 1859, OLIVIERI, 96-97). — Mazzini scriveva a Lemmi, 30 novembre '57, che avrebbe contribuito alla sottoscrizione, per quanto fosse meglio «provvedere a che l'Italia dia, emancipata, la dotazione».



375 A criticare le operazioni di P. furono buoni tutti: Cadolini (Mem., 215, 267), Carrano (L'Italia dal 1789 al 1870, IV, 260), Macchi (SAFFIOTTI, 773), Musolino (a Ricciardi, 11 luglio '57), Ruggero Settimo (AVARNA, 237) ecc. Il Ministro inglese a Torino deplorava anche lui che P., «coraggioso personalmente e assai competente nel suo ramo di scienza militare», avesse ceduto a Mazzini, col quale non andava affatto d'accordo (Rec. Off., F. O., 70 | 293).





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