2.
I contadini
Quali probabilità avevano le
teorie e le vedute pratiche di Mazzini di venir comprese e accolte
dalle classi lavoratrici?
Per rispondere a questa domanda
bisognerebbe rendersi conto con sufficiente esattezza delle
condizioni materiali e morali nelle quali quelle classi versavano
intorno al 1860; ossia disporre di una serie di notizie quantitative
e qualitative, sistematicamente raccolte, intorno a questo argomento.
Tali statistiche mancano invece quasi assolutamente, o sono
inattendibili, o servono a illuminare solo qualche particolare
aspetto dell'argomento.
Noi non sappiamo neanche con esattezza
quale fosse, in quel tempo, la proporzione numerica fra le diverse
classi sociali. Secondo il censimento eseguito nel 18611,
l'Italia contava su 21777334 abitanti (escluse, s'intende, Roma e la
Venezia), il 75% circa di popolazione rurale (16284833 abitanti) e il
25% circa di popolazione urbana (5492501). Ma questa prima divisione
fondamentale considera popolazione agricola soltanto quella che vive
nei centri al di sotto di 6000 abitanti: in tal modo la massima parte
della popolazione dell'Italia meridionale – agglomerata in
grosse borgate superiori ai 6000 abitanti – non sarebbe
popolazione agricola!
Quanto alle professioni, il censimento
suddivideva gli italiani nel modo seguente: 7708631 dediti alle
industrie agricole; 3072025 alle industrie manifatturiere; 58551 alle
industrie minerarie, estrattive e di successiva lavorazione; 473574
ai servigi domestici; 305343 indigenti. Seguiva la considerevole
cifra di 7850574 abitanti classificati senza particolare
professione (donne di casa, fanciulli, ecc.), della quale non
sappiamo quanta parte attribuire al computo delle classi lavoratrici.
La popolazione dedita alle industrie agricole veniva distinta
nelle seguenti categorie: 16,53% agricoltori proprietari, diffusi
segnatamente in Piemonte e, in genere, nell'Italia settentrionale –
16,19% mezzadri, diffusi segnatamente nell'Italia centrale –
2,60% fittavoli, dei quali due terzi nelle sole province napoletane –
4,14% coloni, diffusi segnatamente in Piemonte, Liguria, Toscana e
province napoletane – 34,77% giornalieri, dei quali una buona
metà nelle province napoletane – 25,57% di condizione
non bene determinata2.
La miglior prova che queste cifre sono
poco attendibili si ha quando si confrontino con quelle riportate dai
censimenti successivi: vien fatto quasi di credere che non si tratti
dello stesso paese.
Anche le notizie qualitative, piú abbondanti e piú
attendibili, vanno utilizzate con molta cautela. Se non si vuol
cadere in grossolane generalizzazioni, non bisogna dare un valore
eccessivo a notizie frammentarie. Quando si trovi, ad esempio,
ricordato il salario di un bracciante in Piemonte, non si presuma di
ricavare da questo dato il salario medio dei braccianti in Italia. La
grande varietà delle condizioni economiche e morali degli
operai, degli artigiani, dei contadini da regione a regione, da
provincia a provincia e perfino da comune a comune della stessa
provincia ci deve rendere estremamente prudenti. Quale analogia si
poteva e si può stabilire fra le condizioni del mezzadro
toscano e quelle del piccolissimo proprietario piemontese? Tra la
vita e le possibilità del pastore di Maremma e del contadino
siciliano? Nessuna. Bisognerebbe indagare categoria per categoria,
vallata per vallata, e allora soltanto tentare la sintesi. Ma gli
studi particolari intorno ai lavoratori agricoli delle singole
regioni, nel periodo che va dal 1860 al 1875, sono scarsi, in genere
superficiali3.
Premute dalla necessità di
affrontare molti altri problemi urgentissimi in ogni campo, le nuove
classi dirigenti non ebbero tempo da dedicare al problema agricolo e
se ne occuparono solo in occasione dello scoppio di qualche sommossa
contadinesca, sfogo di malcontento, tragica nella sua vanità a
richiamare un passato ormai definitivamente tramontato. Interessava
assai piú il lento ma vigoroso sviluppo industriale del Nord;
nessuna azienda attirava cosí poco il capitale quanto le
aziende agricole.
Delle condizioni dell'agricoltura,
delle sue possibilità, delle sue necessità poco si
sapeva. I comizi agrari furono fondati solo nel 1866 e non
cominciarono che alcuni anni piú tardi a dare utili risultati.
Il primo sforzo notevole fu compiuto con la Relazione sulle
condizioni dell'agricoltura (1870-1874)4; ma ci volle
l'inchiesta agraria, ripetutamente proposta dal Bertani alla Camera,
approvata nel 1872, svoltasi poco innanzi il 1880, per rivelare
agli Italiani le vere condizioni dei contadini5.
È dunque difficile trarre
conclusioni di carattere generale; difficile ovviare a quella assenza
di interesse, di curiosità per le condizioni delle
classi rurali, che caratterizza fra il 1860 e il 1870 i ceti
dirigenti del nostro paese. Molto utilmente però si possono
consultare i volumi della Inchiesta agraria, e qualche ricerca
compiuta da privati in anni posteriori (come le Condizioni
economiche ed amministrative delle provincie napoletane di
Leopoldo Franchetti e La mezzeria in Toscana di Sidney
Sonnino)6, perché le condizioni delle nostre campagne
non ebbero a mutare sensibilmente fra il primo decennio dell'unità
nazionale e il ventennio successivo.
Di qualche interesse è anche uno studio di Alessandro
Garelli su I contadini in Italia7, dal quale si
possono trarre le cifre dei salari percepiti dal bracciantato
agricolo nelle varie regioni. Molte cose si capiscono quando si
sappia che il servo di campagna guadagnava in Piemonte,
durante i mesi invernali, intorno a 75 centesimi al giorno, e che il
risaiuolo riscuoteva 400 lire all'anno, delle quali solo 60 in
denaro, il resto in vitto8.
Ma non intendo fermarmi troppo
sull'argomento: i contadini italiani non si possono far rientrare che
in minima parte nel quadro del movimento operaio fino al 1872, quando
con l'espressione movimento operaio si intendano gli sforzi che una
qualsivoglia categoria di lavoratori compie al fine di migliorare le
proprie condizioni. Il Bertani, in un discorso pronunciato alla
Camera il 7 giugno 1872, lo rilevò con molta chiarezza: «La
minor parte, la piú istruita, la piú educata della
classe operaia seppe già riunirsi in fasci, seppe già
discutere e farsi ascoltare, senza promuovere il minimo disordine;
mentre l'altra, la piú numerosa, la piú ignorante, la
piú abbrutita per l'isolamento a cui venne finora condannata,
non seppe congregarsi, intendersi e far valere minimamente i propri
diritti, e allorquando sparsamente ha protestato, lo fece sempre
colla violenza che pretende al diritto, e colla vendetta che colpisce
come ragione sommaria». E, dipingendo la tremenda miseria delle
classi agricole, concluse che ormai si potevano distinguere «anche
in Italia due razze d'uomini: quella del pane bianco e quella del
pane di colore»9.
Le moltitudini rurali italiane,
avvilite da una miseria e da una ignoranza degradanti, non
parteciparono in alcun modo agli sforzi per la unificazione
nazionale, o se manifestarono in qualche caso i loro sentimenti,
questi furono quasi ovunque e quasi sempre ostili alle «novità»
volute dai «signori», richieste dalle città e
imposte alle campagne.
Segnatamente per la popolazione
agricola del Mezzogiorno l'unificazione politica non significò,
di mutato, che una dinastia nuova messa al posto delle antiche, uno
sconvolgimento delle vecchie abitudini, l'introduzione di nuove tasse
e l'inasprimento delle già esistenti, la coscrizione, fin
allora ignota in gran parte d'Italia. Analfabeti e disperati, i
contadini non potevano apprezzare i vantaggi d'ordine morale, i germi
di rinnovamento, le speranze di un solido se pur lontano avvenire
economico, che l'unità andava elaborando. Avvertivano solo le
infauste ripercussioni immediate, che i mutamenti politici
determinavano entro la cerchia dei loro ristretti interessi. Perciò,
malcontento generale. E tendenza a lasciar sfruttare i loro rancori
dai sostenitori dei cessati regimi in cerca di una larga base
popolare ai loro programmi di restaurazione. I contadini meridionali
furono i primi a reagire, col brigantaggio, alle novità
politiche.
I primi sintomi di una nuova vita
nelle campagne, dopo la unificazione nazionale (sintomi che si
andavano però manifestando e sviluppando con una straordinaria
lentezza), furono avvertiti da Jacini; il quale notò –
nel 1887 – come il nuovo regime politico incominciasse a
scuotere l'apatia dei contadini. «Nessuno potrebbe sostenere
con fondamento – scriveva – che trenta o quarant'anni fa
essi vivessero piú agiatamente che oggi», ma, in allora,
né i proletari «né altri pensavano che gente
della loro condizione potesse star meglio. Quindi non facevano
sentire alcun lamento... Insomma, trenta o quaranta anni addietro,
mancava alle plebi rurali la chiara consapevolezza della loro
inferiorità economica; e, nel loro silenzio, era lecito
supporre che non stessero male». «Quel po' di
miglioramento verificatosi a vantaggio della popolazione rurale
sarebbe stato apprezzato e accettato con gioia da lui [dal
contadino], se il suo stato psicologico non avesse subito
modificazioni. Senonché sarebbe assurdo supporre che di questa
trasformazione politica della nazione italiana... non dovesse
naturalmente sentirne il contraccolpo anche il popolo rurale».
E ancora: «Si può quindi concludere essere indiscutibile
che il popolo delle campagne stia ora peggio che per lo passato, non
perché sieno effettivamente peggiorate le condizioni, ma
perché trenta o quarant'anni fa non agognava ad alcun
cambiamento, mentre oggi invece, sotto forme vaghe e indeterminate,
aspira ad un mutamento consentaneo alla profonda trasformazione
politica avvenuta in Italia»10.
Al tempo in cui Jacini scriveva, due
fatti cominciavano a scuotere l'apatia del contadino e a fargli
intravedere un avvenire migliore: nell'Italia settentrionale
l'industrialismo, che attirava molti agricoltori verso i piú
alti salari della città e determinava perciò un rialzo
nelle mercedi anche nelle campagne; nell'Italia settentrionale e
meridionale, l'emigrazione.
Ma la grande industria, inesistente o
quasi prima del 1860 – solo la lavorazione del lino, del
cotone, della seta aveva cominciato a organizzarsi industrialmente
nel decennio precedente – non aveva ancora raggiunto, fra il
1860 e il 1870, un grado di sviluppo tale da poter influire
sensibilmente sulle condizioni economiche dei lavoratori. L'unità
nazionale, con l'apertura di un largo mercato di sbocco, non piú
interrotto da continue barriere doganali, aveva posto le premesse
indispensabili al suo incremento; ma altre circostanze (le peripezie
finanziarie del nuovo regime, la debolissima rete ferroviaria, la
perdita di alcuni mercati stranieri, la ripercussione di crisi
internazionali, e via dicendo), dettero a questo incremento un ritmo
dapprima lentissimo. Le difficoltà piú gravi furono
superate fra il '6o e il '66. E solo dopo il '70 la grande industria
poté compiere, nel Nord, un rapido e definitivo balzo in
avanti.
L'emigrazione, nello stesso periodo,
era fenomeno di modestissime proporzioni, se pure con tendenza a un
continuo sviluppo. Nel 1862 gli emigranti furono 35000; nel 1870,
14300011. Dal Mezzogiorno emigrarono circa 1000 persone nel
1862, 25000 nel 1871.
Nessun beneficio, dunque, almeno fino
al 1872, valeva a rinnovare la vita del contadino italiano e a
saldarla, per coincidenza d'interessi, a quella della
nazione12.
Passivo accasciamento o disperati
tentativi di rivolta, piú o meno sfruttati a fini politici:
ecco a che si riduceva la sua partecipazione alla vita pubblica.
Ignorava qualunque forma di organizzazione politica o economica: nel
1862 esistevano solo 27 società di mutuo soccorso costituite
fra contadini o miste di contadini e operai, con 3126 soci. Di esse,
13 appartenevano al Piemonte, 10 alla Lombardia, 2 alle
Puglie13. Stabilite nei piccoli centri, raccoglievano
specialmente braccianti, i quali, per le condizioni del loro lavoro,
sentono piú di ogni altra categoria di agricoltori la
necessità di un'organizzazione.
Concludendo, mi par lecito affermare
che, studiando la prima fase della organizzazione delle classi
lavoratrici in Italia, si possano trascurare le masse rurali. Queste
sono state in tutti i paesi le ultime a trovare la forza di
associarsi e di attirare sui propri bisogni l'attenzione durevole
delle altre classi sociali: la loro dispersione, mentre da un lato
rende difficile l'opera di propaganda degli organizzatori, dall'altro
fa sí che tardi a determinarsi nei contadini l'idea che,
collegandosi, essi possano disporre di una forza imponente. Lo stesso
Mazzini non affrontò mai di proposito il problema delle
moltitudini rurali: considerava le campagne come il serbatoio delle
reazioni antinazionali; un moto rinnovatore non poteva, secondo lui,
né iniziarsi né diffondersi nelle campagne.
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