3.
Gli operai e gli artigiani
Per quanto riguarda i lavoratori delle
città, le informazioni statistiche sono un poco piú
abbondanti che non per i contadini. Il meccanismo stesso
dell'industria, che tende a uniformare le condizioni e i contratti di
lavoro per le medesime categorie, nelle diverse località;
l'accentramento degli operai e degli artigiani; la loro tendenza ad
associarsi favoriscono, dentro certi limiti, l'indagine statistica.
Le preoccupazioni che questo loro accentramento suscita nelle classi
dirigenti e negli agitatori politici sospinge questi e quelle a
studiare le condizioni, a curare i bisogni, a indagare le intenzioni
di questi gruppi sociali.
Quali erano le loro condizioni morali
e materiali?
Nel 1861, la percentuale degli
analfabeti in tutto il regno era altissima14: su 100
abitanti, solo 21,8 sapevano leggere e scrivere o leggere soltanto;
su una popolazione totale di 21777334 abitanti cioè, solo
477463315.
Togliamo di mezzo i fanciulli al di
sotto dei cinque anni; restano, su 9402677 maschi, 6402325 analfabeti
(il 68,1%), e su 9414971 donne, 7651177 analfabete (l'81,3%). Questa
percentuale si abbassa nelle regioni dell'Italia centrale e
settentrionale, raggiunge un livello altissimo nel Mezzogiorno; in
Sicilia, sempre nel 1861, l'86% dei maschi e il 95% delle femmine era
analfabeta.
Il numero delle scuole era
assolutamente inadeguato; nel 1861, tra pubbliche e private, le
scuole elementari sommavano a 28524; 11 per ogni 100 kmq; 13 per ogni
10000 abitanti16. Gli allievi delle scuole elementari erano
1008672.
Molto istruttivo è esaminare la
distribuzione geografica delle scuole elementari; il solo Piemonte ne
possedeva rispetto al totale generale (8467) circa un terzo e gli
scolari piemontesi costituivano, naturalmente, un terzo del totale
degli scolari italiani (361 970). La Sicilia, con una superficie
maggiore della Lombardia e una popolazione di poco inferiore,
possedeva sette volte meno scuole della Lombardia (946 contro 7069) e
quasi dodici volte meno scolari (25033 contro 302372)17.
Il Piemonte contava 247 scuole ogni
1000 kmq; la Sicilia 33, la Sardegna 26, l'Umbria 48, le province
Napoletane 5318.
Tremenda sproporzione che solo in
lunghissimi anni si riuscí ad attenuare19. Il
proletariato italiano, sotto questo rapporto, era allora senza alcun
dubbio fra i piú arretrati in Europa.
All'altissimo livello
dell'analfabetismo, bisogna aggiungere quello bassissimo dei salari.
Purtroppo mancano statistiche
sistematiche dalle quali si possano ricavare notizie valide per tutto
il paese. E se arduo è ricostruire le condizioni economiche
degli operai industriali, addirittura impossibile è il farlo
per gli artigiani, ossia per tutti quei lavoratori (ed erano allora
la grande maggioranza) che lavoravano in piccolissime aziende non di
carattere industriale, o per proprio conto. Le ragioni sono evidenti.
Dobbiamo dunque contentarci di dati
non omogenei, di impressioni sommarie, che si riferiscono
esclusivamente agli operai delle industrie. Nella maggior parte degli
stabilimenti e delle grandi e piccole aziende, l'orario di lavoro era
stabilito da un regolamento. Dove non si praticava il cottimo,
l'orario medio oscillava intorno alle 11-12 ore; in qualche caso si
giungeva alle 14, eccezionalmente alle 16; raramente si scendeva alle
10-820. Alcune agitazioni operaie erano volte alla conquista
delle 12, le piú delle 10 ore di lavoro21.
Il salario medio non si può,
per mancanza di dati, stabilire con precisione. Conosciamo dei
minimi, conosciamo dei massimi. Ma quanti operai percepivano il
salario massimo, quanti quello minimo?
Guadagnavano – intorno al 1860 –
meno di L. 1,00 al giorno gli operai di alcune cartiere lombarde, i
tessili non specializzati di alcune fabbriche lombarde e biellesi,
gruppi di minatori in Sardegna. Da L. 1,00 a L. 1,50 (per non citare
che qualche esempio) altre categorie di tessili nel nord d'Italia e a
Napoli, i manovali muratori in Piemonte e in Lombardia, gli operai
non specializzati delle officine ferroviarie, i nastrai e pellai di
Milano, alcune categorie di operai zolfiferi in Romagna, ecc. Sono
notizie che si ricavano di qua e di là, da piccole inchieste,
dai registri di qualche fabbrica, dalle relazioni di qualche società
operaia, dai giornali.
Si trovano salari massimi (per operai
specializzati) di L. 2,86 (industrie tessili), di L. 2,42 (industria
edilizia), di L. 2,00 (industria della carta), di L. 3,39 (miniere),
di L. 3,25 (arsenali), di L. 5,25 (officine ferroviarie). Ma è
evidente che il salario minimo è quello percepito dalla
maggioranza degli operai. La mia impressione (valga quel che valga) è
che il salario medio degli operai intorno al 1861 oscilla fra L. 1,20
e L. 1,5022.
Ma quel che c'interessa non è
il dato del salario nominale. Ci preme farci un'idea delle
condizioni di vita della classe operaia. Di qui la necessità
di estendere il nostro esame ai prezzi dei generi di consumo, o
almeno (poiché difettano, al solito, per questo periodo,
statistiche precise, che rilevino la media dei prezzi sul mercato
italiano) del principale genere di consumo: il frumento.
Il confronto fra questi prezzi e la
cifra dei salari ci permette di farci un'idea abbastanza concreta
della realtà – tanto piú quando si ponga mente
alla maggiore importanza che il frumento rivestiva nel bilancio
operaio di una sessantina di anni or sono che non in un bilancio
odierno23.
Nel 1862 il prezzo medio del frumento
era di L. 28,52 al quintale.
A un operaio che guadagnasse L. 1,30
al giorno (e, per citare un esempio concreto, un operaio
tessile)24 eran necessarie circa 22 giornate di lavoro per
acquistare un quintale di frumento. Il consumo medio di frumento per
abitante è stato calcolato, grosso modo, in kg 128
annuali25. Ed è evidente che questo dato sarà
superiore al vero per le classi agiate, inferiore – se pur di
poco – per le classi lavoratrici, il cui alimento fondamentale
e, in qualche caso (in quegli anni) quasi esclusivo è
costituito appunto dal pane. Col prezzo corrente nel 1862,
quell'operaio, supponiamo con tre persone a carico, doveva dunque
lavorare circa 111 giorni per guadagnare le 145 lire necessarie al
solo frumento per la famiglia; e si noti che frumento non significa
ancora pane!
Se dunque dal salario annuo
dell'operaio (per 300 giorni lavorativi, a L. 1,30 al giorno, L. 390)
si detraggono L. 145 per il solo frumento, vien fatto di domandarsi
in qual modo l'operaio avrà potuto provvedere alla casa, al
companatico, al vestiario, alla luce, alle tante altre spese
indispensabili26.
Non si può dunque tacciare
d'esagerazione quanto affermano Geisser e Magrini, a conclusione
delle loro ricerche: «Ben vero, i salari di mezzo secolo
addietro appariscono ad un saggio pauroso di depressione».
Non bisogna poi dimenticare
l'elevatissimo numero di donne impiegate nell'industria. Pietro
Ellena accertava nel 1875 che nelle industrie seriche, su 200393
operai, si contava il 60,10% di donne; nelle industrie laniere su
24930 il 31,15%; nelle industrie del cotone su 54041, il 50,53%;
nelle industrie della carta su 17318, il 41,27%27.
Nel '62 troviamo donne che lavorano 10, 11, 12 ore con salari di
50, 60, 70 centesimi al giorno; massimo, in pochissimi casi
raggiunto, L. 1,20, 1,25.
Grandi masse di fanciulli d'ambo i
sessi erano impiegati nelle fabbriche, nelle miniere, ovunque, senza
alcun controllo, senza alcuna protezione legislativa. Sfruttati come
uomini adulti e pagati in modo irrisorio.
Di queste condizioni culturali ed economiche delle nostre classi
operaie intorno al '60 – qui di necessità solo per sommi
capi accennate – non può non tener conto chi studia le
prime fasi del movimento operaio italiano; solo la conoscenza di
quelle condizioni può spiegare perché mai esso,
paragonato con i contemporanei movimenti operai di quasi tutti gli
altri Stati d'Europa, appaia tanto piú fiacco, immaturo,
incerto e disunito.
La organizzazione operaia non sorge e
non si consolida, o almeno sorge e si sviluppa stentatamente là
dove manchi un certo grado di benessere materiale, oltre che di
maturità intellettuale delle classi lavoratrici. Gli operai
analfabeti affidano in assai piú larga proporzione che non i
loro compagni dotati di un certo grado d'istruzione la direzione
programmatica e pratica della organizzazione a elementi provenienti
da altri ceti sociali, i quali quasi sempre, consci o inconsci,
perseguono fini diversi da quelli ai quali la massa organizzata
mirerebbe, se sapesse e potesse muoversi secondo i suoi soli istinti.
Certe forme di organizzazione piú complessa ed efficace,
infine, certi metodi di lotta piú fruttuosi non vengono
compresi e seguiti se non da chi disponga di un certo grado di
cultura, di un minimum di capacità intellettuale: quel
minimum, precisamente, che faceva difetto, intorno al '60, alla massa
operaia italiana.
Quando si meditino i dati della
ignoranza e della miseria che opprimevano le nostre classi
lavoratrici in quel tempo, vien fatto perfino di maravigliarsi del
relativo successo incontrato fra di esse dal mutuo soccorso e dalla
cooperazione. Piú ancora ci si domanda in qual modo larghi
strati dell'elemento operaio sian giunti, dopo il 1860, ad acquistare
una coscienza, e sia pure una vaga coscienza, del loro stato, dei
loro bisogni e dei loro diritti.
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