5.
Le classi superiori e la questione
operaia
I ceti contadini, operai, artigiani
erano assai poco preparati ad accettare le esortazioni mazziniane.
Poteva almeno Mazzini sperare che la borghesia raccogliesse l'invito
che egli le rivolgeva di collaborare fraternamente col popolo per
promuovere il miglioramento morale e materiale?
Quasi tutti i seguaci di Mazzini,
docili alla sua parola d'ordine, si danno con fervore a svolgere il
suo programma in pro' delle classi operaie, tanto piú che ciò
non solo non esige che essi si distraggano dall'azione politica cui
soprattutto tengono, ma anzi permette loro di svolgere una propaganda
squisitamente politica sulla massa operaia, ossia su tutta una classe
sociale rimasta fino allora quasi completamente estranea al giuoco
dei partiti.
Per lo stesso motivo il programma
mazziniano trova larghi consensi in quel partito d'azione, cui
aderiscono, oltre ai mazziniani, quasi tutti i democratici, che
desiderano esercitare un'azione politica: e cioè repubblicani
intransigenti e repubblicani che, pur di veder compiuto il programma
unitario, son disposti a secondare la monarchia, se fa, e se no a far
da sé e magari anche contro la monarchia; ex repubblicani,
ormai definitivamente devoti alla monarchia, piú qualche
federalista disposto a rinviare i dibattiti sull'ordinamento
amministrativo del Regno a quando, con l'acquisto di Roma e della
Venezia, il programma nazionale possa dirsi compiuto; e a collaborare
intanto a questo scopo.
A quel motivo di consenso un altro se
ne aggiunge, fondamentale: ché, in sostanza, di programmi
concreti riguardanti la questione operaia non vi sono, allora, che
quello mazziniano, e quello, se programma lo si vuol chiamare, dei
moderati-conservatori. Quello mazziniano, preso in blocco, non
potrebbe essere accettato da qualunque democratico. Un libero
pensatore, ad esempio, o un monarchico, non lo sottoscriverebbe punto
per punto. Ma la necessità di prendere posizione contro le
concezioni sociali dei moderati e dei conservatori e il desiderio di
operare attivamente in pro' delle classi operaie, spinge molti
democratici ad aderire e a propugnare il programma mazziniano, non
insistendo su quei punti che li trovano dissenzienti. I mazziniani,
fortemente organizzati, agiscono su gran numero di associazioni
operaie, alle quali inoculano, goccia a goccia, il loro programma
sociale, teorico e pratico; quei democratici che non si sentono di
accordare la loro attività filoperaia nel quadro dell'azione
mazziniana debbono contentarsi di diffondere le loro idee in un
circolo ristretto o limitare la loro opera allo studio di particolari
aspetti tecnici della questione operaia e alla propaganda di
determinate istituzioni pratiche.
Mazzini si sdegnò quando,
alcuni anni dopo il 1860, vide molti democratici abbandonare il suo
programma per aderire a una nuova corrente, d'importazione straniera,
che veniva allora acclimatandosi in Italia: quella
dell'Internazionale. Quei democratici, dunque, lo tradivano o non
avevano mai compreso la portata del suo programma? Né
tradivano né davan prova di non aver compreso; ma si eran
tenuti stretti a Mazzini fin quando il suo programma era rimasto il
solo che un democratico militante, desideroso di non isolarsi,
potesse abbracciare; lo abbandonavano non appena un altro se ne
presentava, piú conforme alle loro personali vedute e
inclinazioni.
Ma di questo appunto e dell'apporto
dei democratici al movimento operaio tratta il presente lavoro.
I gruppi moderati e conservatori
durante tutto il decennio seguente alla unificazione del Regno sono
assorbiti dal problema di consolidare la compagine politica,
finanziaria, amministrativa del nuovo organismo unitario. Il loro
compito è arduo: ottenuto il riconoscimento del nuovo Stato
dalle potenze estere, occorre dar prova della sua stabilità,
facendo dimenticare l'agitato periodo della sua formazione e attuare,
con le annessioni di Roma e della Venezia, quel programma della
completa unità politica, che nel paese è bandito
clamorosamente dal partito di azione. Con questo partito bisogna
perciò mantenere buone relazioni, per potersi giovare delle
sue iniziative e delle sue audacie, esser pronti magari a spingerlo
nascostamente ad agire, perché le potenze estere abbiano
l'impressione che il governo italiano, pur deciso a contentarsi dei
risultati acquisiti fino al 1860, è costretto in certi casi a
seguire la travolgente volontà popolare; ma anche
sorvegliarlo cosí attentamente da essere in grado di arrestare
la sua azione, sciogliere le sue organizzazioni, smentire ogni voce
di accordo fra esso e il governo, al minimo segno di complicazioni
internazionali.
Alle difficoltà politiche si
aggiungono quelle finanziarie. Il disavanzo cresce di anno in anno. I
bisogni da soddisfare d'urgenza sono immensi: creare l'esercito, la
marina, l'amministrazione civile, sviluppare le vie di comunicazione,
promuovere importanti lavori pubblici là dove l'unità è
male accetta e dove urge mostrarne i primi vantaggi, stroncare il
brigantaggio; organizzare un sistema tributario capace di assicurare
allo Stato, anche a spese della piú elementare equità
distributiva, le massime entrate; donde ingiustizie, assurdità,
tasse impopolarissime.
Ma la necessità piú
grave che li preme è quella che si concreta nell'espressione:
trasformare l'Italia in nazione. Si tratta di resistere alle forze
tutt'altro che trascurabili di disgregazione, di giungere, sia pure a
costo di un accentramento spietato, ad annullare gli attriti fra
regione e regione, a contemperare e a comporre le loro diverse
aspirazioni, tradizioni, esigenze nel quadro della nuova vita
unitaria.
Moderati e conservatori hanno dunque
altro da fare che pensare al problema sociale. Della cui esistenza,
del resto, essi non s'avvedono neppure, negli anni immediatamente
successivi al 1860; si eccettui qualche isolato pensatore. La
preoccupazione per la questione sociale comincia a diffondersi nella
nostra borghesia verso il 1868-69, di fronte ai pericolosi moti del
macinato, che rivelano la profondità del malcontento che agita
gli strati piú bassi della popolazione; si fa gravissima in
seguito allo scoppio della Comune di Parigi, che in Italia ha
ripercussioni assai vaste.
Riguardo al movimento operaio, sarebbe
opportuno fare una distinzione fra conservatori e moderati: in quanto
i primi negano, in sostanza, l'esistenza di una questione operaia e
affermano invece l'esistenza di un problema di carità e di
beneficenza; i secondi sostengono invece che una questione operaia
c'è, riconoscono che qualcosa per gli operai si deve pur fare
e si mostran disposti a considerar legittime alcune richieste
operaie. Ma le due posizioni non son troppo distanti, anzi vi si
passa per gradi intermedi e insensibili. Questo in teoria. In
pratica, poi, riesce impossibile isolare ed esaminare
partitamente un'azione filoperaia dei conservatori e un'azione dei
moderati. Partendo da premesse diverse, questi due gruppi (del resto
anche politicamente non nettamente distinguibili) giungono, in ultima
analisi, a conclusioni pressoché identiche.
Incoraggiano, d'accordo, la formazione
di società operaie: le quali hanno il diritto di sussidiare i
soci vecchi o ammalati, di aprire spacci cooperativi e soprattutto di
istituire corsi d'insegnamento e biblioteche: non davvero quello di
interessarsi seriamente delle condizioni economiche dei soci,
tentando di far migliorare i loro contratti di lavoro. Malvista è
la tendenza delle società verso una federazione nazionale, che
potrebbe dar loro una potenza assai pericolosa, né si ammette
che possano occuparsi di questioni politiche.
Conservatori e moderati
s'immobilizzano in questo programma minimo, che si è formato
in Piemonte prima del 1860; non comprendono mai la necessità
di rinnovarlo di fronte all'evoluzione rapidissima della classe
operaia: non s'avvedono che quel che poteva bastare agli artigiani
dispersi nei piccoli laboratori è insufficiente per gli operai
agglomerati nelle officine. Si direbbe quasi che di quell'evoluzione
non si rendano conto. La loro attività principale, anzi,
consiste nell'ostacolare in ogni modo l'azione di quei gruppi che
alla classe operaia presentano un programma piú largo, piú
vivo, un programma nel vero senso della parola, contenente cioè
una serie di proposte che s'innesti sul vecchio tronco delle
posizioni acquisite per rinnovarlo.
Ed ecco la guerra accanita contro i
mazziniani, che apparentemente ha solo motivi politici. È bene
ricordare che, fino al 1871, moderati e conservatori confondono
tranquillamente Mazzini con i socialisti e i comunisti44. Il
fatto è che essi non misurano la gravità della
questione operaia; quando ne sentono parlare, rispondono che con
l'istruzione diffusa si rimedierà a tutto; ed è giusto
riconoscere che alla scuola, in quegli anni cosí gravidi di
avvenimenti e saturi di preoccupazioni, dedicarono ogni loro
sforzo45.
Solo il progressivo consolidarsi della
organizzazione operaia e il manifestarsi e il prevalere in essa di
tendenze estreme aprirà finalmente gli occhi ai moderati e ai
conservatori; la minaccia di gravi turbamenti sociali li costringerà
a considerare la questione operaia tra le piú urgenti che
premono il paese e a uscire definitivamente nel suo confronto dalle
loro superatissime posizioni46.
Leggere gazzette, opuscoli, libri
dedicati al popolo e scritti da uomini di destra, tra il '60 e il '70
(dal 1871 in là le cose mutano), è quanto mai
istruttivo; meraviglia il vedere con quale paternalistico semplicismo
si affrontasse una questione cosí complessa. Alla ignoranza
dei proletari fa perfetto riscontro la incoscienza della borghesia.
Quel che non si riesce a capire è che quelle pubblicazioni
trovassero tra gli operai pazientissimi lettori47. Si
invitano i lavoratori a star tranquilli, a non dar retta agli
interessati inventori di una questione sociale. Col lavoro, col
risparmio, con la temperanza miglioreranno le loro condizioni
economiche; pazzesco è richiedere aumenti di salario. O non
sanno gli operai che questi si ripercuotono ipso facto sul costo
della vita, che son dunque miraggi fallaci? Si inscrivano pure nelle
società di mutuo soccorso, frequentino le scuole serali,
tutt'al piú fondino una cooperativa di consumo, ma non pensino
ai gravi problemi, alla soluzione dei quali provvedono, con loro
sacrificio, e con desiderio di giovare a tutti, le classi
dirigenti48. Qualche eccezione non vale a modificare
sostanzialmente questa impressione complessiva.
Il clero, che delle novità
politiche ha pagato tutte le spese e che sogna la restaurazione dei
regimi caduti, rigidamente fondati sulla religione cattolica e
consacrati dalla legittimità, non risparmia occasione per
creare seri imbarazzi al nuovo governo monarchico, nella speranza di
determinare una crisi definitiva. Raccoglie perciò intorno
alla propria formidabile organizzazione quanti rimpiangono l'Italia
preunitaria, quanti, visti rovinati i loro interessi dal nuovo
regime, lo subiscono in silenzioso rancore: e non sono questi una
esigua frazione delle nostre classi possidenti e intellettuali.
L'alleanza clerico-reazionaria rappresenta perciò un grave
pericolo per la sicurezza e la stabilità del nuovo ordine di
cose.
Questi gruppi di estrema destra fanno
una vivacissima propaganda tra i contadini ignoranti, sfruttando,
inasprendo, incanalando in determinata direzione il malcontento
profondo, che le novità politiche hanno accentuato.
Ma sanno anche misurare con accortezza
l'importanza che l'elemento operaio va assumendo nel paese e
intravedono la possibilità di farsene un potente alleato nella
loro lotta contro il nuovo regime. Ottimo mezzo di propaganda sono le
numerose piccole pubblicazioni periodiche, delle quali essi
dispongono e che son diffuse in ispecie tra le classi piú
povere. Ed ecco che giornaletti, almanacchi, opuscoli, volantini
s'interessano improvvisamente delle disgraziatissime condizioni dei
lavoratori e ne dipingono quadri addirittura strazianti.
Si compiange il povero popolo che,
nella speranza di migliorare il suo stato, ha dato credito ai
banditori del nuovo regime. E invece: «dopo aver fatto sgabello
col suo corpo a chi agognava ricchezze e poteri, egli ha visto il
miserabile sfuggito come un lebbroso, la povertà perseguitata
e punita come un delitto». Lo avevan proclamato sovrano, prima
della rivoluzione, per conquistare il suo favore; ora «il
popolo sovrano, dal suo trono dove te lo avevano insediato, te lo
piantano a sedere a bischetto»49.
Gli si è parlato di patria.
Quale patria? Santa cosa essa è «quando, madre amorosa,
provvede egualmente benefica a tutti i suoi figli e vuole in eguali
proporzioni distribuiti i premi, i compensi, i sacrifici. Dove però
sotto il nome di patria si consumano i piú neri eccessi, dove
la libertà si vende e si traffica..., dove ogni giorno si
assiste al miserando spettacolo di vedere il galantuomo nudo e
lacero e il ladro e il farabutto in carrozza, qual senso può
aver mai questa parola sulle ingannate moltitudini?»50.
L'uguaglianza dei cittadini non è
stata riconosciuta che nel sistema tributario. Son passati i tempi
nei quali solo gli abbienti erano sottoposti a tasse; ora «si è
piantata la massima che tutti i singoli cittadini, avessero o no
ricchezze, dovessero essere tributari dello Stato»51.
I rivoluzionari di ieri, conservatori
dell'oggi, hanno invocato la formazione del nuovo Stato unitario in
base al principio liberale e inalzato il dio della libertà
all'onor degli altari. Ora che hanno ottenuto il loro intento
vorrebbero metterlo da parte. Ma questo dio – osserva La
Giovane Italia, almanacco per il 1862 – è logico e
intende riconoscere a tutti il diritto di adorarlo e di oprare in suo
nome. Egli parla cosí : «Predicaste la libertà,
la fratellanza ed il vostro dire mi piacque; siate dunque tutti
fratelli. Voi proletari faccio ministri del mio supremo volere.
Andate, dividete, spartite; se essi... non cedono alla forza delle
teorie da essi predicate, sgominate tutto, confondete, sperperate, ed
in mio ed in loro nome superando gli ostacoli, versate sangue,
trucidate»52.
Il principio liberale ha vinto:
bisogna ormai che trionfi.
Poiché i cessati regimi eran
solidamente basati sulla religione, la guerra che contro di essi si è
condotta è stata, in sostanza, una guerra alla religione. Per
distruggere nelle masse l'attaccamento a quei regimi, si è
cercato di sradicare la loro fede religiosa. Orbene, questa
costituisce l'unico conforto per chi soffre; si tolga alle plebi il
freno della religione ed esse cadranno in preda al piú
assoluto materialismo, domanderanno conto dei loro diritti conculcati
e seguiranno chi nella violenza additerà loro l'unico mezzo
per abbattere i privilegi sociali.
«Chi ha allevato questo popolo
senza Dio, senza religione, educato alla sfrenatezza? Chi ha imbevuto
questo popolo di una falsa idea di libertà? Chi gli ha
ripetuto all'orecchio le mille volte che egli è indipendente,
e sciolto dai legami dei pregiudizi antichi?... Non sono stati i
moderni padroni? Il popolo gli ha intesi, e docile si mostra alle
loro istruzioni; ed avendo imparato che la libertà consiste
per l'uomo nell'operare a suo talento, fa ogni sforzo per porre alla
pratica anche questa dottrina»53.
Dal liberalismo antireligioso al
socialismo il passo è breve e inevitabile. Combattere il nuovo
regime equivale dunque a «salvare l'Italia dal
socialismo»54. Questa, com'è noto, è la
sintesi di tutta la propaganda clerico-reazionaria; ma che essa fosse
precisamente ispirata e diretta a questo salvataggio non si direbbe
davvero. Certo sortí tutt'altro effetto. Quando si scrive che
se la classe operaia «cosí mal conosciuta, cosí
iniquamente spregiata, cosí barbaramente, nel tempo della
libertà e della filantropia, tiranneggiata ed
oppressa»55, se, insomma, il popolo che si logora «la
vita per provvedere agli agi ed al lusso del milionario»56
imparasse una buona volta a conoscer la sua forza e ad usarne «non
sarebbe tanto spesso calpestato, deriso e ingannato»57,
si giunge non a salvare un paese dal socialismo, ma anzi, o cosí
sembra, a precipitarlo nel medesimo.
I clerico-reazionari speravano, con
questa propaganda, di attirare al loro programma di restaurazione dei
regimi caduti larghi strati della borghesia pavida e credente e le
classi povere immiserite e ignoranti.
L'unico risultato concreto che
raggiunsero fu invece quello di esasperare nelle classi povere il
naturale rancore contro gli abbienti, avviando i lavoratori verso
l'idea e la pratica della lotta di classe58 e di accentuare
il loro indifferentismo di fronte alle vicende politiche del paese e
la diffidenza istintiva verso i poteri dello Stato, ritenuti
espressione degli interessi antitetici ai loro delle classi
privilegiate.
Nelle classi superiori, dunque, non
v'erano che i democratici che s'interessassero vivamente e
spontaneamente del problema operaio. Ma in Parlamento le
rappresentanze dei democratici, dai repubblicani intransigenti ai
monarchici convinti, non fecero nulla, o quasi nulla, in pro' delle
classi operaie, limitandosi ad agitarsi in favore del suffragio
universale59 o a protestare periodicamente contro la gravezza
e la sperequazione delle imposte.
Ruggero Bonghi, scrivendo alcuni anni
piú tardi, rivendicò «alla parte moderata,
liberale, monarchica» quanto era stato fatto dal '60 in poi in
favore del proletariato, e accusò la Sinistra di aver
sfruttato il movimento operaio a fini rivoluzionari60. Ma,
dal '60 al '72, c'era poco da rivendicare in fatto di provvidenze
filoperaie; e lo dimostra la quasi inesistente legislazione del
lavoro61.
Sul diritto d'associazione non esistevano allora speciali
disposizioni e un disegno di legge presentato con fini restrittivi
nel 1862 dal Rattazzi non venne discusso.
Alle coalizioni e agli scioperi si
riferivano gli articoli 385 e 386 del codice penale che punivano
accordi tra i datori di lavoro tendenti a costringere ingiustamente
gli operai a una diminuzione di salario o ad accettare il pagamento
in derrate; e accordi tra gli operai tendenti a sospendere, impedire
o rincarare i lavori senza ragionevoli cause. È inutile
notare l'elasticità di queste disposizioni, basate sulla
dubbia interpretazione da darsi all'avverbio ingiustamente o
al qualificativo ragionevole, che costituivano a volta a volta
la determinante del reato o la sua giustificazione. Le pene comminate
erano piú gravi per gli accordi tra operai che non per quelli
tra datori di lavoro62.
Nel 1861 venne istituita una Cassa
invalidi per la gente di mare, ma cosí mal congegnata che
tutto il carico dei premi era addossato agli equipaggi.
Anche la conciliazione e l'arbitrato
industriale erano affatto ignoti alla legislazione italiana del
tempo; la legge sui probiviri, dopo una ridda di progetti e di
discussioni, passò soltanto nel 1893.
Nessun provvedimento sull'emigrazione;
nessuna limitazione all'arbitrio dei privati, che sfruttavano come
una qualunque industria redditizia l'ignoranza dei contadini,
imbarcati per lontani paesi, col miraggio di guadagni fantastici. Le
disposizioni della legge di PS emanata il 20 marzo 1865 intorno alle
agenzie pubbliche riguardavano anche le agenzie di
emigrazione, sottoponendole alla sorveglianza della polizia; ma con
prescrizioni affatto insufficienti. Solo nel '73 furono emanate
disposizioni molto piú precise ed efficaci63.
Questi e non altri (s'aggiungano la
legge sul Tavoliere di Puglia e sulla Sila, il progetto d'inchiesta
agraria e pochi provvedimenti atti a migliorare, in qualche località
determinata, le condizioni delle classi povere) furono i
provvedimenti presi dalla Camera italiana, in dodici anni di
attività, a favore del proletariato. In fatto di legislazione
sociale l'Italia era allora tra i paesi piú arretrati del
mondo; la gravità dei problemi politici e finanziari che le
classi di governo dovettero affrontare e risolvere giustifica solo in
parte questa completa indifferenza di fronte ai bisogni e alle
aspirazioni dell'elemento piú numeroso della
società64.
Era questo l'ambiente in cui Mazzini
organizzava, subito dopo il 1860, la propaganda del suo programma
sociale.
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