2.
L'urto tra mazziniani e
conservatori
Il movimento operaio italiano prende
un deciso sviluppo col 1861: in quest'anno sorgono 49 società
nuove: 4 in Piemonte, 11 in Lombardia, 3 in Liguria, 5 in Emilia, 14
in Toscana, 4 nelle Marche, 5 in Umbria, 1 in Abruzzi, 1 in Puglia, 2
in Sicilia86.
Alcune, fin dalla loro fondazione, si
prefiggono scopi assai piú vasti del semplice mutuo soccorso,
e si organizzano in maniera da poter raccogliere gran numero di soci.
Tale la Società operaia di Napoli, che sul cadere dell'anno ne
conta già 2860, divisi in 20 corpi di mestiere87; la
Società operaia di Arezzo, quella di Ancona, quella di Genova,
la Rigenerazione proletaria di Torino, che unisce operai e
contadini88, la Società operaia di Bologna che tenta
la fondazione di un giornale operaio89.
Un'importanza speciale riveste la
Fratellanza artigiana, fondata a Firenze nel febbraio 1861 per
iniziativa di elementi democratici mazziniani (Dolfi, Cironi,
Giannelli) e non mazziniani (Montanelli, Vannucci); la Fratellanza ha
un vastissimo programma d'azione, che si riassume nel primo articolo
del suo statuto: «In nome della Patria, dell'Umanità e
del Progresso, gli artigiani d'Italia, usando le libertà che i
tempi nuovi concedono, fanno fratellanza per cooperare al
miglioramento intellettuale, morale e materiale della loro classe,
mediante la istruzione, il soccorso reciproco e il credito». Si
diffonde rapidamente in tutta la Toscana, tendendo ad «associare
l'istruzione all'educazione, il lavoro al capitale», a riunire
quanti «sudano nelle officine e nei campi in uno stesso
principio di amore fraterno»90. Esercita il mutuo
soccorso, apre scuole serali e festive, istituisce corsi speciali di
economia. Sulla fine del 1861 conta già 1500 soci.
Il 1861 è anno di miseria per
le classi operaie. Rincarano i generi di prima necessità, ma
non aumentano i salari. Di qui scioperi e agitazioni. Si comincia a
Napoli, nel febbraio, con lo sciopero degli arsenalotti; seguono a
Castellamare di Stabia i tumulti di quattrocento operai licenziati;
nel maggio scioperano i fornai di Torino; nel giugno gli operai di
una fabbrica di vasellami a Napoli e i fornai a Firenze; nel luglio
gli operai addetti ai lavori ferroviari a Napoli; a Messina, nel
luglio, i conciapelli fanno una dimostrazione di protesta; a Napoli,
nell'agosto, i tipografi; a Bologna e in varie altre città
dell'Emilia, nel settembre, si verificano gravi tumulti contro la
carestia; seguono, nell'ottobre, scioperi a Genova (falegnami), a
Napoli (facchini) e a Milano (nastrai); nel novembre, ancora a Genova
(calzolai) e a Palermo (sarti); nel dicembre a Napoli (vetturini) e a
Firenze (operai delle strade ferrate). Repressioni piú o meno
violente, arresti in gran numero troncano quasi tutte le agitazioni.
Gli operai scioperanti, che non dispongono di casse di resistenza
dalle quali attingere sussidi, riprendono il lavoro al piú
presto per non trovarsi alla miseria. Le domande di diminuzione
dell'orario lavorativo non vengono accolte: i proprietari sanno che
non hanno nulla da temere dalle maestranze impotenti e che lo
sciopero non può prolungarsi che per pochissimi giorni.
Solo gli operai nastrai della ditta
Visconti (Milano), che sono apertamente sostenuti dalla loro società
di mutuo soccorso, e che possono perciò restar senza lavoro
per tre settimane, ottengono una completa vittoria; il proprietario
concede loro il richiesto aumento di salario. È un esempio per
le altre categorie di lavoratori.
Desta meraviglia il notare che il
maggior numero di scioperi operai si verifica nel Sud d'Italia e
specialmente a Napoli; non certo sotto il cessato regime borbonico le
classi lavoratrici avevano appreso a esercitare questa evoluta forma
di protesta.
È vero che le condizioni
generali di malessere diffuse nel proletariato italiano in quell'anno
si aggravano nel Sud pel concorso di altre circostanze. Ma non pare
(né parve ai contemporanei) che ciò bastasse a spiegare
il seguito ininterrotto di scioperi91. Chi li suggeriva agli
operai meridionali? Si pensò – e forse in parte con
ragione – che ci fosse la mano dei reazionari.
«La Nazione» (Firenze, 11
luglio), a proposito dello sciopero degli arsenalotti e operai delle
ferrovie napoletane, disse chiaro che essi eran dovuti alle mene dei
mandatari del Borbone, e approvò il governo che affrontava
energicamente la situazione. «La Nazione», organo
conservatore, aveva tutto l'interesse a denigrare le sommosse
operaie92, ma è sintomatico che della stessa opinione
fosse «Il Popolo d'Italia», giornale garibaldino di
Napoli, il quale (21 febbraio) cosí scriveva: «Numerosi
arresti si sono fatti questa mane fra gli operai dell'arsenale,
addosso ai quali si trovavano armi diverse e revolvers. Ecco una
nuova opera della reazione, una nuova congiura degli eterni nemici
della Nazione. Pensi il clero alla grave responsabilità che
pesa su di lui, perché è a lui che si fan rimontare le
prime fila di questa cospirazione...»
Questi giornali riferivano voci e
impressioni allora molto diffuse; che le loro induzioni avessero un
qualche fondamento di verità non par dubitabile. Se infatti
gli operai napoletani avessero ricorso spontaneamente allo sciopero,
in base a un convincimento in essi radicato della efficacia di questa
forma di lotta, come mai negli anni successivi, con l'indebolirsi
della reazione politica, vedremmo progressivamente diminuire, se non
quasi cessare affatto gli scioperi, mentre si moltiplicavano,
diventando un'arma consueta di lotta, nelle altre regioni?
Nell'attesa del IX Congresso delle
società operaie, che deve riunirsi a Firenze nel settembre
1861, Mazzini intensifica i suoi rapporti con le società di
mutuo soccorso; vorrebbe che il congresso portasse alla unificazione
delle forze operaie di tutta Italia. Il suo progetto è inviso
alle società che subiscono l'influenza di elementi moderati;
preoccupa le autorità.
«Condizione indispensabile di
prosperità per le società di mutuo soccorso –
scrive il ministro Manna nella relazione alla Statistica del 1862
– parmi essere il decentramento; voglionsi cioè
mantenere le associazioni di cui è cenno, isolate città
per città, borgo per borgo, villaggio per
villaggio»93.
Mazzini non mirava soltanto a rivelare
agli operai il segreto della loro forza, derivante da una
organizzazione nazionale; ma anche – e soprattutto – a
servirsi dei nuclei operai per il compimento della unità
politica; scorgeva in essi l'unico mezzo per infondere in larghi
strati della popolazione quella passione nazionale che egli
considerava il primo gradino della emancipazione delle moltitudini.
Le società operaie, inoltre, erano, dovevano essere, il punto
d'appoggio per la prossima inevitabile rivoluzione repubblicana.
Questa la ragione fondamentale del suo
febbrile interessamento alla organizzazione dei lavoratori. Bisognava
non dar quartiere ai sostenitori della apoliticità
delle società operaie, poiché chi vuol distrarre
l'attenzione e l'interesse del lavoratore dai problemi politici del
paese (sostiene Mazzini), gli nega il principale mezzo di
emancipazione e di elevazione morale, proclama la sua inferiorità
e, in ultima analisi, danneggia l'intera nazione, rendendo
indifferente alle sue vicende l'elemento piú numeroso della
società94.
Viene a sapere che la Fratellanza
artigiana di Firenze cerca di promuovere una federazione di tutte le
società operaie; e subito ne scrive (l'11 marzo) ad Andrea
Giannelli: «Il lavoro artigiano impreso a Firenze, se ben
diretto, può diventare importante. Aspetto a vederlo per
giudicarne meglio»95. Ma il tentativo non riesce per la
diffidenza che le società nutrono l'una verso l'altra, per gli
screzi che dividono i dirigenti della Fratellanza96.
Il 20 giugno torna alla carica col
Giannelli, incitandolo a lavorare attivamente in seno a quelle
società operaie delle quali fa parte, nella imminenza del
congresso: questo deve risultar «composto di uomini nostri –
aver quindi in mano nostra la classe operaia da un punto all'altro
d'Italia. Per questo è necessario ch'io sia certo della
maggioranza dei delegati delle società; certo che accetteranno
i nomi ch'io, senza mostrarmi, suggerirei. Questo vi spieghi perché
io, noncurante di chi oggi dirige, insistessi che tutti i nostri,
invece di tenersi in disparte, si cacciassero nelle società
della loro circoscrizione. È necessario formare una
maggioranza. Raccolgo ora liste e dati statistici delle società
operaie da Milano a Palermo»97.
Il 13 settembre – mancano
quattordici giorni alla inaugurazione del congresso – Mazzini
si dichiara soddisfatto del lavoro compiuto. Egli spera che il
congresso risulterà composto in maggioranza di uomini suoi;
che approverà perciò l'unificazione delle società
operaie98. In tal caso è necessario uno statuto, che
dia le direttive fondamentali per lo svolgimento della organizzazione
in tutta Italia. Allora si rivolge nuovamente a Giannelli: «manderei
io segretamente le basi dello statuto, tanto che costituisse un atto
di iniziativa della classe operaia in Europa»; e gli suggerisce
tre nomi di uomini fidati ai quali il congresso potrebbe affidare
l'incarico di rediger lo statuto (ossia, come vedremo, di accettare
quello da lui proposto)99.
Poteva a buon diritto dichiararsi
soddisfatto. In un anno aveva annodato relazioni con numerosissimi
nuclei operai, era riuscito a farsi nominare, con i suoi piú
fidi, socio onorario in molte società; moltissime società
nuove si erano rivolte a lui per consigli; col 18 settembre «L'Unità
italiana», che era il suo organo ufficiale, dedicava il numero
domenicale agli operai, corredandolo di articoli sulle questioni del
lavoro e di un largo notiziario sulla vita delle società di
mutuo soccorso.
Solo il Piemonte, con la sua poderosa
organizzazione, era rimasto estraneo a questo lavoro di propaganda.
Al Congresso di Firenze furono
delegati da 124 società operaie 250 rappresentanti, dei quali
168 erano soci effettivi (operai e artigiani), gli altri soci
onorari100; ma quelli che in realtà vi presero
parte furono solo 199. Conosciamo i loro nomi101; è
impossibile però classificarli tutti secondo il partito cui
appartenevano, la maggior parte di essi non avendo lasciato memoria
di sé in nessun campo. V'erano, tra gli altri, il Dolfi, il
Mazzoni, il Savi, Felice Casaccia, Felice Dagnino, Girolamo Astengo,
Siro Fava, appartenenti all'estrema sinistra mazziniana; Mauro
Macchi, repubblicano federalista; Agostino Depretis, deputato di
sinistra costituzionale; Gaspare Stampa, di idee non precise, ma
tuttavia aderente alla sinistra d'azione; Pietro Sbarbaro per sua
natura fuori d'ogni disciplina di partito; Francesco Domenico
Guerrazzi102, i due fratelli Boldrini e Giuseppe Montanelli,
democratici moderati.
Delle 124 società
rappresentate, oltre metà appartenevano al Piemonte (67); 16
alla Liguria, 16 alla Lombardia; erano poi rappresentate alcune
società toscane, emiliane, umbre, laziali, napoletane e sarde.
La Commissione permanente aveva
ricevuto centotredici quesiti da proporsi alla discussione. Undici di
essi concernevano questioni politiche e la commissione, per evitare i
guai del Congresso di Milano, li aveva scartati103. Sugli
altri (salvo alcuni riguardanti l'amministrazione delle società)
val la pena di fermarsi un istante, per rendersi conto del modo col
quale venivan prospettate le questioni del lavoro dai fautori del
movimento operaio.
Va notata subito una cosa. Ed è
la scarsità dei quesiti presentati dalle società
piemontesi, che pure costituivano la maggioranza di quelle aderenti
al congresso: gli è che i moderati, cui esse obbedivano,
ammaestrati dall'esperienza milanese, erano ormai diffidenti di
fronte alle nuove tendenze che s'andavan facendo strada nel movimento
operaio; seguivano preoccupati la intensa attività di Mazzini
e ora concentravano i loro sforzi nel mobilitare quanti piú
potevano fautori del loro programma, i quali vigilassero
sull'andamento del congresso, pronti a levare una solenne voce di
protesta nel caso, molto probabile, che i democratici intendessero di
ripetere la manovra dell'anno precedente. C'erano grosse questioni
preliminari da discutere: i quesiti passavano in seconda linea.
I democratici fecero invece un
notevole sforzo perché il congresso riuscisse un'ordinata
esposizione di tutti gli aspetti piú importanti del problema
operaio, di fronte al paese. Il gruppo di quesiti da essi presentato,
insieme ai pochi dei piemontesi, raggiunse pienamente lo
scopo: tali quesiti toccavano il problema delle relazioni fra
capitale e lavoro (istituzione dei probiviri), del miglioramento dei
salari104; suggerivano l'impianto di banche di credito sul
lavoro e di cooperative di produzione, sostenevano la necessità
di un intervento collettivo delle Associazioni per ottenere una
riduzione delle ore di lavoro e un regolamento sull'impiego dei
fanciulli nelle fabbriche; proponevano si istituissero sussidi di
disoccupazione, si cercasse di ottenere dal governo per le società
operaie almeno la preferenza nell'accollo dei lavori pubblici;
mostravano inoltre l'opportunità di promuovere un'inchiesta
generale sulle condizioni della classe lavoratrice in Italia,
spingevano all'unificazione delle società operaie, ponevano il
problema dell'istruzione del proletariato, suggerendo l'istituzione
di scuole speciali, di corsi di economia, di premi ad autori di libri
popolari, di restrizioni da farsi nelle società agli operai
analfabeti; domandavano infine che i congressi si componessero in
maggioranza di veri operai e che venisse fondato un monitore della
classe lavoratrice. Due quesiti proponevano che le società
operaie unissero i loro fondi per acquistare terre incolte da
affidarsi pel dissodamento e la cultura a operai
disoccupati105.
C'era dunque di che alimentare un
magnifico Congresso; bisognava metter da parte ogni altra
preoccupazione e tentar di risolvere alcuni di quei problemi; cosí
soltanto i numerosi borghesi radunati a Firenze avrebbero potuto
rendersi veramente utili alla classe operaia. Ma la questione della
politicità, sulla quale s'imperniava il profondo
dissidio tra democratici e moderati, impedí il pacifico
svolgersi dei lavori.
Il congresso si inaugura il 27
settembre 1861. Il giorno prima, la fiorentina «Nazione»
chiarisce il punto di vista dei moderati: troppi e non tutti
strettamente attinenti al mutuo soccorso sono i quesiti presentati;
si lodano gli organizzatori, che hanno bandito i quesiti di natura
politica, provando cosí di aver compreso «quanto non
solo inutile ma dannoso sarebbe stato seguire i consigli che dava
alla Società di Bologna il Mazzini». Se le società
operaie di mutuo soccorso «si convertissero in conventicole
politiche, la loro natura sarebbe falsata, il loro scopo mancherebbe,
la loro prosperità sarebbe compromessa dal sospetto e dalla
diffidenza, che sono la morte della carità».
L'articolo termina con l'augurio che nel congresso non si abbia a
«deplorare la diffusione di false dottrine economiche, che per
ora in Italia non sono penetrate nel popolo. V'hanno quesiti, dal
modo di svolgere dei quali dipende il vedere se si vogliono o tener
lontane dagli operai o infiltrare in essi certe massime, che può
glorificare la scuola socialista, ma non può non condannare
chiunque, non diremo profondo, ma sia alcun poco iniziato nello
studio dei sani principî economici».
Il diffidente compiacimento della
«Nazione» dura ben poco. Si è appena inaugurata la
prima seduta che i deputati delle società operaie di Cagliari
e Sassari presentano la seguente interrogazione:
«Se la Sardegna venisse,
fors'anche da una nuova falange di 229, smembrata dall'Italia, e se
lo straniero si attentasse di occuparla, vi obbligate voi a
protestare contro il fratricidio, e ad impedire, con tutti i mezzi
dipendenti dalle associazioni operaie, che l'usurpazione venga
consumata? Accorrete voi in aiuto dell'isola sorella, in virtú
dello stesso principio di mutuo soccorso che lega i membri delle
vostre associazioni?»106.
Circolavano, in quei giorni, voci
allarmistiche su una probabile cessione della Sardegna alla Francia:
mazziniani e garibaldini avevano scatenato una campagna vivacissima
contro Napoleone III e il governo di Torino, accusandoli di
ostacolare il compimento dell'unità italiana, di voler
mutilata l'Italia, macchinando altri baratti sul genere di quelli di
Nizza e Savoia. Con l'interrogazione dei sardi, nettamente
antigovernativa, s'impone la questione politica e il dibattito di
partito.
Vincenzo Boldrini, tra il tumulto
suscitato dall'interrogazione, sostiene che bisogna dapprima e una
volta per sempre stabilire se al congresso si può o non si può
discutere di politica. Uno dei sardi tenta dimostrare – e
l'assunto era certamente ardito – che la questione dell'isola
non è punto politica, bensí proprio di mutuo soccorso,
perché si tratta d'impedire il passaggio di fratelli dalla
libertà al servaggio. La confusione nell'assemblea aumenta.
Mentre il presidente sospende la seduta, molti delegati escono
protestando. Ad evitare guai piú grossi, lo stesso delegato
sardo propone ai congressisti di limitarsi a dichiarare che «chiunque
proponesse la cessione della Sardegna sarebbe dichiarato traditore
della patria, il che ritiene impossibile», e che si passi ad un
altro argomento.
Ma niente può ormai arrestare
la battaglia appena iniziata.
Guerrazzi, il quale è
favorevole alla politicità delle società
operaie107, dichiara ritenere questione di moralità
che la discussione non si chiuda in modo equivoco: il congresso deve
pronunciarsi esplicitamente su tale problema. Sbarbaro sostiene
invece che le controversie politiche costituiscono il maggior
ostacolo all'incremento del mutuo soccorso nonché alla
progressiva soluzione dei problemi del lavoro108, controbatte
il Guerrazzi109, Vincenzo Boldrini espone un punto di vista
conciliativo: gli operai non debbono disinteressarsi delle questioni
politiche, ma non devono neanche mutare in comizi politici i loro
congressi annuali. Replica ancora lo Sbarbaro110 e finalmente
il Montanelli, in vena di conciliazione, escludendo che i congressi
possan mai farsi mancipi di politica partigiana, presenta un ordine
del giorno tutt'altro che chiaro, tutt'altro che risolutivo, anzi
suscettibile di opposte interpretazioni, il quale, s'intende, vien
frettolosamente approvato con 72 voti favorevoli e 30 contrari.
«L'assemblea dichiara: che le questioni politiche non sono
estranee ai suoi instituti quante volte le riconosca utili al suo
incremento e consolidamento».
Nella votazione non vi sono astenuti:
dunque quasi un centinaio di congressisti è assente. E le
cronache dei giornali riferiscono che i piú si sono ritirati
durante la tumultuosa discussione politica, protestando per la
illecita deviazione dall'ordine dei lavori.
Col ritiro di quasi la metà dei
delegati, il IX Congresso operaio perde quell'importanza che, nella
intenzione degli organizzatori, e soprattutto dei mazziniani, doveva
rivestire. La grandissima maggioranza dei delegati rimasti è
costituita da democratici.
Se ne sono andati, in blocco, i
rappresentanti delle società piemontesi, la piú parte
moderati, gli altri democratici non mazziniani.
Il 28 settembre s'inizia la
discussione sui quesiti, quando ormai l'importanza e l'interesse che
essa poteva rivestire sono in gran parte caduti, col dileguarsi delle
possibilità di un esauriente scontro d'idee e di programmi fra
moderati e democratici. Le risoluzioni si seguono monotone e
prevedibilmente vane, a conclusione di discussioni generalmente
affrettate e incolori. Da rilevarsi qualche accenno, lievissimo
invero, a una differenza di valutazione delle concrete questioni del
lavoro fra i delegati borghesi e quelli operai. Discutendosi per
esempio di come si possa ottenere il riscatto delle plebi, mentre i
primi dichiarano di fidar soprattutto nella diffusione
dell'istruzione, nella concessione del suffragio universale e nella
unificazione delle società operaie, due operai sostengono che
è vano parlar d'istruzione quando i lavoratori non hanno tempo
per istruirsi; e un altro avverte che finché i ragazzi saranno
costretti dalla necessità ad impiegarsi nelle officine sarà
difficile pretendere che si istruiscano. Ma nell'ordine del giorno
che poi tutti i delegati votano concordi si dà piú peso
alle opinioni dei borghesi intellettuali:
«L'Assemblea delle società
operaie, riconoscendo non potersi ottenere il sollecito e completo
riscatto delle plebi senza sviluppare ed estendere l'associazione
mediante l'unificazione delle società, procurare il suffragio
universale e l'istruzione obbligatoria e secolarizzata, delibera di
eleggere una commissione incaricata di avvisare ai modi piú
convenienti per ottenere l'uno e l'altro».
Due borghesi e un operaio (Savi,
Mazzoni e Franchini), mazziniani tutti e tre, vengono incaricati di
studiare le modalità della unificazione delle società
operaie e un regolamento generale.
La discussione piú concreta ed
utile è, fra tante, quella che si svolge sul problema dei
salari; è questo un problema universalmente sentito, urgente:
che i salari siano insufficienti è innegabile. Le agitazioni e
gli scioperi scoppiati nel paese ne sono una prova.
E i congressisti, consci della
situazione, sentono la necessità di evitare lunghi discorsi e
di fare invece proposte precise111.
Guerrazzi e Bianchi (di Sestri
Ponente) propongono la creazione di una banca di credito
artigiano112; Geimonat (di Genova) caldeggia la istituzione
di cooperative di produzione; Sbarbaro suggerisce che le società
operaie si tengano in continuo contatto per informarsi reciprocamente
sulle condizioni del mercato del lavoro nella propria regione, sí
che gli operai possano sapere dove abbondano e dove scarseggiano le
domande di lavoro. Pedretti (di Torino) espone un suo grandioso piano
per la fondazione di una società industriale con capitale
versato dalle società operaie, che abbia per scopo la
soluzione progressiva e integrale del problema del lavoro, attraverso
l'impianto di banche operaie, di case operaie, di cooperative, di
istituti per l'istruzione tecnica e via dicendo113. Fra gli
operai, Franchini è per le cooperative di consumo; Alessio (di
Genova) sostiene che necessità preliminare è la
riduzione dell'orario di lavoro. Di queste e di altre proposte tien
conto l'ordine del giorno conclusivo presentato da Guerrazzi,
Sbarbaro e altri quattro delegati. Ordine del giorno che è la
sintesi del congresso e che rappresenta uno sforzo notevole di
concretezza e di praticità, per quei tempi, di fronte a un
problema cosí grave e complesso.
«Il Congresso, considerata la
questione dei salari urgentissima, proponendola allo studio della
Commissione e di tutti i soci, dichiara funesto essere agli operai
ogni sciopero ed ogni mezzo violento. Vero e sicuro modo di rialzare
le condizioni materiali dell'operaio essere il progresso,
l'accrescimento e l'organamento delle società operaie. E
provvisoriamente, doversi ricorrere nelle contingenze dei casi a
interporre uomini probi e retti scelti nel seno della società
e tra gli amici degli operai per ottenere equi e cristiani
provvedimenti a proposito dell'accrescimento dei salari e della
riduzione delle ore di lavoro, come pure domandare l'abrogazione di
quegli articoli del codice penale che puniscono le coalizioni degli
operai. E raccomandare la formazione dei comitati di previdenza».
Il congresso si chiude, dopo che si è
proceduto alla elezione della nuova Commissione permanente, a formar
la quale vengono chiamati, s'intende, tutti democratici, i piú
appartenenti alla sinistra mazziniana, con Garibaldi in testa.
Su 13 membri, 3 soli
operai114.
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