3.
La divisione delle forze
I delegati che si son ritirati,
protestando, dal Congresso di Firenze iniziano subito sulla stampa
amica una campagna contro la maggioranza del congresso e i suoi
deliberati «sovversivi».
«La Nazione» ospita con
molta compiacenza i loro sfoghi. Fin dal 30 settembre essa pubblica
una dichiarazione firmata da quarantaquattro rappresentanti di
società operaie, piemontesi le piú, liguri e lombarde
le altre, con la quale si protesta «in modo solenne e formale»
contro la votazione dell'ordine del giorno Montanelli «con cui
si verrebbe ad introdurre nelle società di mutuo soccorso un
principio politico che urta ed è eminentemente in opposizione
al vero, al solo, al grande principio che informa le società
stesse, che è quello del mutuo soccorso, della istruzione,
della educazione e dell'amore al lavoro, dalle quali cose e da non
altra qualsivoglia utopia può sorgere e grandeggiare in bene
della patria italiana, la vera forza e la ricchezza sí morale
che materiale». Seguono nei giorni successivi, sulla «Nazione»,
sulla «Gazzetta di Firenze», altre proteste con
motivazioni che offrono un grande interesse. Il presidente della
Società operaia di Valenza, ad esempio, si lamenta perché
si son volute mutare «le nostre adunanze in circoli politici,
in cui si agitano le medesime passioni che dodici anni fa rovinarono
l'Italia. Che cosa dirà ella, signor direttore, quando sappia
che il deputato di Cagliari si raccomandava ai suoi colleghi perché
non lasciassero sola la povera Sardegna, che va a vendersi a
qualcuno? quando si censura il Parlamento?»
In tutta la stampa s'accende una
polemica vivissima tra politici e apolitici, tra
moderati e uomini del partito d'azione.
«Noi non pensavamo –
sentenzia "La Nazione" il 20 settembre – che la
Toscana, dove le idee di libertà economica sono ormai passate
nel sangue di tutti, potesse venir prescelta a discutere di argomenti
pigliati a prestito dalla scuola socialista, o razzolati fra i
vecchiumi del protezionismo115 e usati sempre ad eccitare
nelle masse incivili passioni».
Il 2 ottobre vien pubblicato il
Proclama motivato di protesta dei deputati del Piemonte,
Lombardia, Emilia, contro il IX Congresso tenutosi a Firenze, in
cui si raccolgono e si sviluppano gli argomenti già esposti in
singole dichiarazioni; credevano quei deputati d'essere tutti sudditi
del re e invece, a Firenze, «sapemmo che eravamo nel regno
dell'idea, nell'impero dell'apostolo della sistematica rivolta al
governo, nella fucina delle sventure nazionali del '48 e del
'49»116.
L'esito del Congresso operaio, i
profondi dissensi che vi si sono rilevati costituiscono uno splendido
pretesto, per i moderati, per scatenare una nuova vivacissima
campagna contro Mazzini. Il quale – nessuno ora potrà
negarlo – vuole la rovina del paese, l'anarchia, e inizia
l'attuazione del suo programma col guastare le pacifiche società
operaie.
È curioso notare che, nel
congresso, non s'era fatto il nome di Mazzini che una volta sola. Ma
il silenzio sul suo nome, certamente da lui imposto, non impedí
che tutti comprendessero essere la battaglia impegnata su di lui e
sui suoi principi.
Il 3 ottobre «La Nazione»
gli dedica un articolo. Gli eventi del IX Congresso operaio
«chiariranno alle moltitudini... quanto sia sincero,
disinteressato, alto e diritto l'amore che loro professano a parole
certi tribuni della plebe»; per i quali il mutuo soccorso e la
previdenza «non costituiscono uno scopo, un'opera santa, da
proseguirsi da ogni anima generosa per il meglio delle classi
operaie, ma uno strumento d'opposizione al governo italiano, ma
un'arme di partito»; «egli è bene che la Nazione
sappia come la maggior parte delle società operaie non siano
punto disposte a divenire zimbello e strumento nelle mani del signor
Mazzini, e che d'ora innanzi o non interverranno piú ai
congressi o si metteranno d'accordo per escludere gli agitatori e gli
arruffapopoli».
I mazziniani non subiscono inerti la
raffica. Chiariscono e giustificano i deliberati del congresso,
provano la calunniosità delle accuse che vengono loro
lanciate. La Fratellanza artigiana, il 6 ottobre 1861, rilevando in
un manifesto come i «bianchi e i neri, i moderati e i retrivi,
i sedicenti liberali e gli assolutisti, si sono trovati uniti per
spargere che vogliamo trasformare le associazioni di mutuo soccorso
in congreghe politiche e usurpare perfino le prerogative dello
Stato», si domanda se la causa del loro atteggiamento non debba
attribuirsi, piuttosto che a ragioni di principio, al loro dispetto
nel vedere le associazioni operaie aderire sempre piú numerose
ai partiti di opposizione. Gli odierni apolitici, infatti,
«sono gli stessi che nel Congresso del '58 proponevano
affiliare codeste associazioni alla politica Società
nazionale, fondata a fini esclusivamente politici». L'origine
dei dissensi poi sta nella proposta, votata dal Congresso di Milano
di chiedere al Parlamento il suffragio universale117.
Qualcosa di vero c'era senza dubbio,
in questa affermazione; difatti, in un'altra protesta contro il IX
Congresso, firmata dai delegati della Società operaia di
Torino, si trova espressa l'opinione che il voto universale sia
«dannoso alla patria ed agli operai, ed utile solo ai
reazionari ed ai mestatori politici che, sperando il popolo dimentico
del passato, sia per nuovamente accordarle [sic] quella
popolarità da loro in altri tempi sí male
usata»118.
Non dunque soltanto divergenze sulla
politicità o meno delle società operaie ma, piú
largamente, sul programma mazziniano.
Col Congresso fiorentino –
scrive «La Nazione», 13 Ottobre 1861 – «la
guerra civile, per ora morale, doveva entrare col signor Mazzini in
quei tranquilli ritrovi e funestarli. Egli incominciò a
scriver lettere da ogni parte, e dove sperò trovar proseliti
ad inviare emissari. Accarezzò le ambizioni, e fece credere a'
semplici ed onesti operai, a' fornai ed a' calzolai di essere
economisti e scrittori, e dié loro a firmar articoli di
filosofia socialista, di scienze morali, di legislazione, di
economia...»119; è dovere degli onesti quello di
rivelare «tutto intero il programma del partito d'azione,
capitanato dal Mazzini», che, in sostanza, si riduce a voler
disfatta l'Italia, provocando nel suo seno lotte fraterne e guerre
esterne120. Se bisogna «guardarsi dagli agenti
dell'Austria, da quelli del cardinale Antonelli, non bisogna
dimenticare i socialisti del Mazzini, gli usurpatori di camicie
rosse».
La polemica dilaga, s'invelenisce.
«L'Unità italiana»
ribatte una ad una le affermazioni dei moderati, facendo notare che
le società operaie dissidenti appartengono al solo Piemonte:
«ciò che prova una volta di piú l'antagonismo, in
cui il Piemonte s'è messo di fronte a tutta
l'Italia»121 – invita gli operai italiani a
scegliere fra il programma mazziniano e quello dei moderati, i quali
pretendono che i lavoratori «si occupino esclusivamente degli
interessi materiali... senza mai osare di lagnarsi se il governo
conduce a perdizione il paese»122.
Intervengono nella polemica perfino
giornali stranieri. «La Patrie», portavoce dei clericali
francesi, scandalizzata per le proteste contro l'occupazione francese
di Roma che non sono mancate nel Congresso operaio, loda senza
riserve quanti hanno voluto apertamente separarsi da chi «minacciava
di mettere a fuoco e fiamma col socialismo, col comunismo... l'Italia
tutta»123.
Ai dissidi di partito si aggiungono
quelli, piú meschini, di persona. Dolfi, Macchi, Sbarbaro,
Fava s'accapigliano per le gazzette, rinfacciandosi il contegno
tenuto al congresso: Macchi è tra i secessionisti; Sbarbaro,
che ha partecipato a tutte le sedute, si è poi associato ad
essi124. Una profluvie di opuscoli riesamina a fondo, in
vario senso, la vexata quaestio della politicità125.
Mentre i moderati e i mazziniani
s'accapigliano, la stampa clericale si gode lo spettacolo: l'esito
del Congresso di Firenze prova ancora una volta che, quando si è
imboccata la via della rivoluzione (e sono i moderati che l'hanno
imboccata, a suo tempo), non ci si può fermare quando e dove
si vorrebbe: c'è una logica della rivoluzione. I mazziniani –
scrive «La Civiltà cattolica» nel dicembre 1861 –
«tengono il disopra, e a vero dire hanno dato saggio di molto
miglior logica e di migliore accorgimento che non i proseliti del
ministero»126.
Se i secessionisti appartengono quasi
tutti a società piemontesi, pure l'assidua propaganda che essi
fanno muove alla ribellione contro il Congresso di Firenze anche
gruppi d'operai d'altre regioni; perfino a Firenze una settantina di
soci della Fratellanza artigiana presentano le loro dimissioni
dichiarandosi «disposti sempre per altro ad iscriversi ad una
società di mutuo soccorso la quale offra garanzie certe di non
servire a intenti settari e personali ambizioni»127. E
s'intende che i moderati trovano subito modo di contentarli, fondando
nel '61 stesso, in Firenze, una Società operaia, che il
mazziniano Minuti accusa di non aver altro scopo che quello di
«dividere le forze artigiane e tenerle lontane da ogni azione
politica e sociale»128. A Livorno, la Società
degli artigiani muratori inserisce nel suo Statuto un articolo in
base al quale la Società «esclude la politica, la quale
distoglie dal lavoro, accende quistioni e discordie, e rende
l'artigiano ozioso e superbo»129.
Tanto scalpore, discussioni tanto
accanite non possono non sboccare in qualcosa di concreto che
ribadisca la netta divisione determinatasi nel campo operaio. I
secessionisti, ossia gli antimazziniani, propongono la convocazione
di un controcongresso operaio, considerando come non avvenuto quello
fiorentino. La Società operaia di Torino, che lancia l'idea,
spiega che i pochi delegati rimasti a cianciare a Firenze «a
vece di essere operai erano nella massima parte avvocati,
giornalisti, romanzieri o marchesi». «Le esorbitanze
state dette o scritte a nome nostro nel preteso Congresso di Firenze
da uomini di un partito funesto all'Italia ed avverso alla
maggioranza della Nazione, dove non ci attirarono addosso il
ridicolo, ci provocarono contro la disapprovazione
generale»130.
E mentre Mazzini, scrivendo agli
operai di Parma, il 25 ottobre 1861, accenna ai «pazzi ed
imprudenti sospetti, seminati sulla vostra via da uomini che
dovrebbero salutare il vostro risveglio con orgoglio» nonché
«agli errori di alcune vostre società che, illudendosi a
poter migliorare le sorti materiali del popolo separatamente,
condannerebbero senza avvedersene le associazioni operaie ad essere
associazioni di ciechi e meccanici strumenti di
produzione»131 – molte di queste associazioni
accolgono con favore la proposta torinese; e il luogo di questa vera
e propria dimostrazione antimazziniana viene fissato ad Asti.
I mazziniani, per burla o per stizza,
chiamano questo controcongresso, che s'aduna il 10 novembre, il
Sonderbund astigiano, paragonandolo alla lega fondata nel 1846 in
Svizzera tra i cantoni cattolici contro la progressiva unificazione
federale.
Vi partecipano 106 società,
delle quali 84 piemontesi, 6 emiliane, 5 liguri, 5 toscane, 5
lombarde e una di Napoli132. Si discute e si approva il
seguente ordine del giorno: «L'assemblea di Asti, mentre
dichiara che lo scopo delle società di mutuo soccorso non è
la trattazione della politica, e che per la propria conservazione e
l'incremento del bene popolare, debbono anzi astenersene, non ammette
dubbio che l'operaio possa con ciò essere buon cittadino».
Si nomina quindi una Commissione (composta in maggioranza di
democratici), perché faccia noti questi deliberati agli uomini
di Firenze.
In tal modo, con una profonda
divisione di forze, tra ire e recriminazioni, si risolve il tentativo
di Mazzini volto a unificare, sotto la sua indiretta influenza, i
nuclei operai d'Italia. L'esule, che tante speranze ha fondato sui
risultati del Congresso di Firenze, ne è addoloratissimo; ma è
uomo che l'insuccesso non ha mai scoraggiato, anzi ritemprato di
forze. Giudica gli ultimi avvenimenti come sintomi della immaturità
del movimento operaio italiano e della necessità in cui questo
si trova d'esser guidato da mano saldissima. Perciò, mentre
s'affanna a tener vive e a moltiplicare le relazioni con le società
amiche, mentre, in ogni lettera che scrive, trova modo di far
rilevare quanto sia degradante per l'operaio il concetto che di lui
mostrano di avere i moderati133, Mazzini, attuando i
propositi espressi innanzi il congresso, si mette in comunicazione
con quei tre suoi amici, che sono stati incaricati di elaborare lo
statuto per le società operaie unificate.
I dissensi rivelatisi a Firenze, le
diatribe sui giornali, il Congresso di Asti, sono presto dimenticati.
«Noi non dobbiamo solamente curare il progresso operaio –
scrive a Savi, Mazzoni e Franchini il 29 novembre – ma tentare
che, mentre non esiste in Italia iniziativa di sorta, questa
unificazione operaia riesca tale da costituire una iniziativa tra le
classi operaie europee»; e presenta loro un abbozzo di statuto
«da discutersi tra voi tre», dichiara in capo alla
lettera; ma qualche riga piú giú: «Vi scongiuro
quindi ad accettare, quando la coscienza ve lo permetta, il mio
linguaggio». L'abbozzo di statuto, successivamente riveduto e
corretto, è in sostanza quello stesso che verrà poi
approvato nel Congresso di Napoli (1864) e, con piú solennità,
in quello di Roma del 1871134.
C'era molto da lavorare, in mezzo ai
nuclei operai, e grande era il bisogno che giovani, fidenti elementi
della borghesia intellettuale si avvicinassero al popolo per
comprenderne la miseria, gl'infiniti bisogni, per migliorarlo e
anche, sí, per esserne migliorati: poiché nell'operaio
si trova «ciò che è piú raro trovarsi in
oggi – la spontaneità degli affetti, la schiettezza
disinteressata delle impressioni, l'abitudine della
moralità»135.
«Accostatevi fidenti al popolo,
o giovani, e se a lui infonderete virtú di piú buone e
larghe idee, ne trarrete copia interminabile di energici e schietti
sentimenti. È l'ideale che divengano uno chi pensa e chi fa».
Cosí, proprio l'ultimo giorno del 1861, Mazzini scrive
all'Associazione giovanile abruzzese136.
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