4.
La crisi del 1862
La situazione politica del 1862
consigliò quei democratici mazziniani e non mazziniani che si
erano divisi nell'ottobre del 1861 sulla questione della politicità
delle società operaie, di procedere a una sollecita
riconciliazione, superando dissensi che avrebbero avuto ragione
d'essere solo quando si fosse realizzato il comune programma
politico; dissensi che, in sostanza, servivano soltanto al giuoco dei
moderati.
Era caduto il Ricasoli dalla
presidenza del Consiglio (3 marzo); e gli era succeduto un uomo
piuttosto ben visto dalla sinistra d'azione: Urbano Rattazzi. Il
Rattazzi inaugurò una politica di evidente favore verso questo
partito, che allora lavorava intensamente per la liberazione di Roma
e della Venezia e che, con l'aperta raccolta dei volontari, con le
dimostrazioni quotidiane nelle grandi città, con una
vivacissima campagna di stampa, cercava di trascinare il paese alla
guerra.
L'accordo fra i democratici, diciamo
cosí, di Firenze e quelli di Asti, si operò
spontaneamente, poi che gli uni e gli altri si trovarono a lavorare
assieme in quella Società emancipatrice, che si era fondata il
10 marzo 1862, mercè l'unione di tutte le associazioni
democratiche concordi nel programma: Roma e Venezia137; poi
che molte Società operaie, dell'una e dell'altra tendenza,
ebbero fatta adesione alla stessa Società emancipatrice. Una
pubblica dichiarazione dell'avvenuto accordo non s'ebbe che qualche
mese piú tardi138.
Fino a tutto aprile Rattazzi seguitò
a incoraggiare il partito d'azione perché osasse; o lo lasciò
fare in piena libertà. Nel maggio, improvvisamente, costretto
dalle necessità della politica estera e preoccupato della
risolutezza dei propositi garibaldini, sempre schiavo degli alti e
bassi del suo temperamento incerto e irresoluto, troncò ogni
parvenza di accordo, con gli arresti dei nuclei di volontari, fatti
eseguire a Sarnico e a Palazzuolo.
La Società emancipatrice, che
era il focolare dell'agitazione, fu sottoposta a una sorveglianza
strettissima, mentre tutti i nuclei democratici che ad essa aderivano
– fra cui molte società operaie – erano guardati
con grandissimo sospetto. Ai primi di giugno Rattazzi presentò
alla Camera un progetto restrittivo della libertà di
associazione.
Le condizioni del paese si facevano
sempre piú gravi per l'agitazione generale; e la minaccia di
una sedizione armata si andava precisando, col viaggio e la
permanenza di Garibaldi in Sicilia, con la partenza di gruppi di
giovani per il Mezzogiorno, con i tumulti quotidiani nelle grandi
città. Il ministro moltiplicò gli arresti, i sequestri
di giornali avanzati, le perquisizioni in case private e nelle sedi
di varie società, sospette di favorire il movimento
insurrezionale. E finalmente, con decreto 20 agosto 1862 sciolse la
Società emancipatrice e tutte le organizzazioni aderenti.
Molte società operaie, ormai
quasi completamente trasformatesi in nuclei politici, furono
inquisite, costrette a sospendere la loro attività139;
alcune vennero addirittura sciolte.
La Società operaia di Reggio
Emilia lamentò che, con lo scioglimento, venisse «a
mancare intieramente il soccorso ai veri bisognosi e ai poveri soci
ammalati»; Grilenzoni, che ne era il vicepresidente, diresse al
Rattazzi una fiera lettera: «O abolite lo Statuto, signor
ministro, se vi credete da tanto, o dovete religiosamente osservarlo
il primo. Se vuolsi il dispotismo, si abbia il coraggio di
proclamarlo»140.
Il 29 agosto s'ebbe il dolorosissimo
scontro di Aspromonte.
Il successo dei mazziniani che, in
sostanza, eran riusciti a convertire alla loro tesi i democratici
contrari alla politicità delle società operaie, era
dunque durato ben poco. Trionfavano i moderati, che avevano ora buon
giuoco nell'accusarli di subordinare gli interessi operai ai loro
fini politici partigiani. E al punto di vista dei moderati
s'avvicinarono ora anche molti nuclei operai che avevan patito le
conseguenze del rigore governativo o avevano avuto comunque agio di
constatarne gli effetti.
In queste condizioni era assolutamente
impossibile convocare il Congresso operaio. La Commissione permanente
eletta a Firenze fu costretta a riconoscerlo: «lo stato
d'assedio proclamato nelle province napoletane e siciliane –
scriveva – non permetterebbe a un terzo d'Italia d'esser
rappresentato in questa assemblea e la maggior parte delle
società della Lombardia, della Liguria, della Toscana,
dell'Emilia, della Romagna e della Sardegna non sarebbero al grado di
nominar delegati, essendo state sciolte con una ordinanza
ministeriale del 23 agosto p. p.»141.
Nonostante questa crisi, il 1862 non
segna affatto una sosta nel movimento di organizzazione operaia.
La statistica delle società di
mutuo soccorso eseguita in quell'anno ci dà minuti ragguagli
in proposito: in tutto il 1862 eran sorte 93 società nuove,
delle quali 14 in Piemonte, 19 in Lombardia, 5 in Liguria, 10 in
Emilia, 17 in Toscana, 10 nelle Marche, 4 in Umbria, 1 in Abruzzo, 4
in Puglia, 2 a Napoli, 4 in Sicilia. Sí che in tutt'Italia, le
società esistenti al 31 dicembre 1862 erano 445. E bisogna
tener sempre presente che le cifre della Statistica sono indice di un
movimento assai piú esteso142.
Di queste 445 società, un 400
circa raccoglievano lavoratori manuali – intendo operai,
artigiani e contadini; le altre eran costituite fra piccoli
impiegati, commessi, artisti. Il maggior numero delle società
s'addensava nell'Italia settentrionale: contro 165 che ne contava il
Piemonte e 83 la Lombardia, le province napoletane non ne contavano
che 19 e 8 la Sicilia e 3 la Sardegna.
Il patrimonio globale di 408 di queste
società ammontava a L. 2715748 (ossia L. 6631 come capitale
medio di ogni società), che solo per metà era stato
raccolto con le contribuzioni dei soci effettivi143.
S'intende che le società piú ricche erano quelle del
Nord, e specialmente quelle piemontesi, da piú lungo tempo
fondate.
Un fenomeno molto interessante e
significativo è quello dei soci onorari: su 121635 soci
appartenenti a 408 società, ben 10027 erano onorari.
Bisognerebbe poter distinguere, tra di essi, i personaggi politici
influenti, da quei soci facoltosi che avevano incoraggiato
finanziariamente il sorgere delle società e che in certo modo
ne garantivano il bilancio. Ma i dati che possediamo non sono cosí
particolareggiati da permettere tale indagine. Si può dire
soltanto questo: che le società influenzate dai mazziniani
eleggevano di solito a soci onorari personalità politiche
della sinistra; le altre, quelle influenzate dai conservatori e dai
moderati, preferivano appoggiarsi a personalità locali, per
niente in vista nella lotta politica, ma larghe in appoggi
finanziari144.
Curioso notare che i soci onorari
spesseggiavano là dove il movimento operaio era piú
florido e dove, per altri aspetti, la classe operaia appariva piú
evoluta: la Lombardia. In questa regione i soci onorari costituivano
un settimo dei soci effettivi (3031 su 23861); in Sicilia invece un
quarantaseiesimo, in Sardegna un quarantatreesimo; in Emilia la
percentuale era altissima145.
Questo fatto, che può sembrare
incomprensibile, si spiega con la maggiore partecipazione delle
società lombarde ed emiliane alla politica attiva. L'eleggere
a socio onorario Garibaldi o Mazzini o Saffi o Bertani o Quadrio non
costituiva già di per sé una chiara presa di posizione
nel campo politico?
Una speciale attenzione meritano le
società operaie professionali, che – secondo la
Statistica – ammontavano a 121146. Intorno ad
esse cosí si esprimeva la Commissione superiore di vigilanza
delle società di mutuo soccorso, in un rapporto stampato nel
1863: «L'unione degli artigiani della medesima professione,
mentre agevola l'attuazione e l'ordinamento di una società di
reciproco soccorso, ne prepara pure l'alterazione e gli abusi.
Poiché l'intimità induce la tentazione di occuparsi di
interessi d'altra natura e d'altra importanza, oltre di quelli
concernenti il soccorso ai malati e agli infermi»147.
Quali sono questi interessi d'altra
natura? Rispondono per noi le società di mutuo soccorso
dei tipografi di Torino e di Milano, dei nastrai di Milano, che, in
base ai loro statuti, sussidiavano i soci scioperanti; le varie
società fra lavoranti cappellai che, il 25 marzo 1862, si
riunivano ad Intra per discutere interessi comuni a tutta la
classe148, la Camera di unione degli onesti giovani
panettieri di Catania che, per evitare la disoccupazione, sottoponeva
tutti i panettieri a un rigoroso turno di lavoro149. Questi
interessi d'altra natura sono dunque le casse di resistenza, gli
scioperi, gli sforzi di organizzazione autonoma, la tendenza a
liberarsi da ogni controllo di elementi appartenenti alla borghesia
intellettuale, l'accogliere e l'adottare tutte quelle forme di lotta
che si mostrano adeguate a raggiunger miglioramenti economici.
Purtroppo la Statistica del
1862 non dà precise notizie sul numero di queste società
professionali; nelle Considerazioni generali preliminari vi si
accenna solo genericamente: senza dubbio i dati mancavano anche alle
autorità per il silenzio molto comprensibile mantenuto dalle
società incriminate.
Società professionali o
cumulative estendevano poi la loro attività in molti altri
campi attigui al mutuo soccorso; quali fondavan scuole serali o
festive, quali biblioteche, quali giornali, quali funzionavano da
casse di prestito per gli operai, garantendosi sul loro salario.
Ventisei di esse avevano istituito spacci cooperativi – detti
Comitati di previdenza – ad uso dei soci150.
Fu questa una prima fioritura della
cooperazione di consumo, la quale per altro ebbe durata brevissima.
Il sistema amministrativo sul quale quasi tutte le cooperative sorte
in questo periodo si fondavano era quello di vendere a prezzo di
costo: sistema apparentemente eccellente, apparentemente piú
vantaggioso di qualunque altro per il consocio acquirente; in realtà
rovinoso, in quanto la singola cooperativa, rinunciando ad accumulare
un piccolo capitale ricavato dal giornaliero guadagno, si trovava poi
impreparata e impotente a superare eventuali crisi, carestie o
rinvilii improvvisi – e falliva. Solo due anni piú tardi
fu riconosciuta la bontà di altri sistemi.
La cooperazione di produzione
seguitava a muovere, con molta lentezza, i suoi primi passi. La
Società italiana degli operai uniti, in Torino, aveva aperto
un laboratorio di falegnameria, a disposizione dei soci
disoccupati151.
Nel novembre, era sorta a Milano la
Società degli operai lavoranti in pettini. Alcuni di essi,
licenziati dai loro padroni per mancanza di lavoro, avevano
impiantato una propria officina nella quale potevano lavorare circa
venti operai. Nei giorni festivi, da principio, tutti i soci avevano
prestato gratuitamente alcune ore di lavoro, provvedendo in tal modo
all'acquisto di utensili e delle materie prime. In pochi mesi
l'attivo aveva raggiunto le 4000 lire152.
Erano esempi bellissimi di coraggiosa
iniziativa153.
Non bisogna dimenticare, in questo
quadro sintetico, un'ultima nota interessante: la diffidenza che gli
operai nutrivano contro le macchine, delle quali, proprio in quegli
anni, nell'Italia settentrionale e sporadicamente nel resto della
penisola, s'andava operando l'introduzione. In nessun paese del mondo
la trasformazione del lavoro da manuale a meccanico s'operò
senza incontrare ostinate resistenze nelle masse lavoratrici, che in
essa scorgevano una causa di diminuzione nell'offerta di lavoro e
quindi di ribasso nei salari. Bisogna dire che in Italia tali
resistenze non esorbitarono, salvo eccezioni, dai limiti di una ben
comprensibile richiesta di garanzie. Qualche caso eccezionale verrà
in seguito illustrato154.
Il movimento operaio, dunque, non
aveva subito soste nel 1862, anno di grave crisi per la democrazia.
Un numero sempre maggiore di lavoratori s'andava affacciando,
attraverso all'associazione, alla vita pubblica, perdendo il senso
funesto del proprio isolamento e acquistando coscienza dell'esistenza
di grandi interessi collettivi. Mutuo soccorso, cooperazione,
istruzione erano le tre vie fondamentali attraverso le quali questi
operai andavan compiendo la loro trasformazione.
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