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I Congressi di Parma e di
Napoli
Nel corso del 1862 la parte
democratica, riafferrata in pieno dal problema politico, si era
interessata assai mediocremente del movimento operaio, o meglio non
se ne era interessata che per chiedere solidarietà attiva o
consenso generico nell'azione politica alla classe lavoratrice
organizzata.
Nel 1863 il suo atteggiamento si
modifica; essa ritrova un poco del suo antico fervore.
Il 3 gennaio esce a Milano, per
iniziativa di Mazzini, il primo numero di un piccolo giornale
operaio, «Fede e Avvenire». «Predicate agli operai
che lo aiutino – scrive Mazzini lo stesso giorno a Giannelli. –
Non badino al piccolo: se aiutati, lo ingrandiremo e ne faremo il
monitore della classe operaia»155.
I giornali operai mazziniani, che sono
una piccola legione, tra quelli fondati all'estero e in Italia prima
e dopo il 1860, ebbero tutti un tipo uniforme, immediatamente
riconoscibile. Su tutti Mazzini, ancorché non vi collaborasse
direttamente, imprimeva il suggello della sua prepotente personalità.
Era sempre lui che ne tracciava il programma e i limiti e ne
designava i redattori. Questi redattori venivano scelti fra i
discepoli piú ortodossi o erano assiduamente sorvegliati; gli
scritti editi di Mazzini erano la falsariga sulla quale si compilava
ogni numero; ogni fatto contingente veniva commentato ispirandosi
alle sue vedute generali.
«Fede e Avvenire», la cui
redazione settimanale è affidata a Levino Robecchi, è
infatti assai ottimista sulla possibilità di appianare le
questioni tra capitale e lavoro156, ripudia nettamente le
teorie socialistiche157 e ogni mezzo violento di
lotta158; ripone ogni fiducia nel progressivo diffondersi
dell'istruzione tra gli operai, caldeggia l'istituzione degli
arbitrati di lavoro, incoraggia le cooperative di consumo; insiste
sul dovere che hanno le classi operaie di interessarsi alle vicende
politiche del paese159 (e perciò, accanto agli
articoli di carattere economico, altri ne stampa o politici o
storico-patriottici) e le classi abbienti di interessarsi al
movimento operaio.
L'unica seria discordanza da Mazzini e
dalle sue dottrine, in «Fede e Avvenire», consiste nella
scarsa fiducia che questo mostra di riporre nella cooperazione di
produzione, per la quale dichiara piú d'una volta che le masse
operaie sono ancora assolutamente immature160.
Mazzini invece seguita a vedere in essa il mezzo piú
efficace per risolvere gradatamente il problema del lavoro. E proprio
nell'agosto 1863, plaudendo ad alcuni falegnami genovesi che hanno
emesso un prestito per ricavare la somma necessaria ad aprire per
conto loro un laboratorio di falegnameria, scrive ai redattori
dell'«Unità italiana»: «Desidero vivamente
il successo del loro disegno... L'unione del capitale e del lavoro
nelle stesse mani per mezzo d'associazioni volontarie è il
passo piú importante che l'epoca nostra deve muovere».
Mazzini sperava di fare di «Fede
e Avvenire» il monitore della classe operaia. Ma fosse
indifferenza degli operai o imperizia di redattori, certo è
che il giornaletto ebbe poca fortuna: nell'ottobre, quando si radunò
il X Congresso delle società operaie, aveva già cessato
le sue pubblicazioni.
Nonostante l'accordo intervenuto fra
le Commissioni permanenti elette a Firenze e ad Asti, nonostante che
quella di Asti avesse rivolto invito a tutte le società che
avevano protestato contro le deviazioni fiorentine di partecipare al
nuovo Congresso di Parma, per «cementare col fatto la
concordia»161, questo (riunitosi dal 9 al 12 ottobre)
riuscí assai poco numeroso: solo 60 società vi si
fecero rappresentare da 115 delegati.
I moderati, e in genere i nemici di
Mazzini, avevano fatto di tutto per mandarlo deserto162.
Il Congresso di Parma ebbe dunque
scarsa importanza; pochi furono i quesiti presentati alla
discussione, malamente dirette e inconcludenti le discussioni stesse.
Ritornò fuori l'eterna questione della politicità163
e, per esempio, non si degnò d'attenzione un interessante
quesito presentato dalla Fratellanza artigiana di Lucca sulle cause e
i rimedi della disoccupazione operaia164; si ragionò
ancora, e naturalmente senza poter giungere a conclusioni pratiche,
sul problema dell'istruzione popolare165. Di questioni
importanti all'ordine del giorno non v'era che quella
dell'unificazione delle società operaie e un progetto per la
fondazione di una banca artigiana.
In favore dell'unificazione parlarono
Savi, Stampa e Guerrazzi. E fu lo Stampa a proporre ai congressisti
di dichiarare «che le Associazioni italiane proclamavano e
stabilivano un patto federativo, la cui azione fosse esercitata dalla
Commissione permanente, conservando a ciascuna società la
propria autonomia; che la Commissione... procedesse a formare un
regolamento da approvarsi dalle società». La proposta
venne votata alla quasi unanimità: solo sei o sette delegati
votaron contro, ritenendo che la unificazione avrebbe compromesso
troppo gravemente la vita autonoma delle singole società.
Stefano Boldrini, che era fra quelli, chiarí per tutti le
ragioni del dissenso. Quindi si ritirò dal
Congresso166.
Quanto alla proposta di fondare una
banca operaia, il congresso – dopo lunga discussione –
preferí affidar la cura di studiarne la possibilità e i
particolari tecnici a una speciale commissione, della quale fu
chiamato a far parte, con Broglio e Martinati, Carlo
Cattaneo167. La commissione avrebbe riferito nel successivo
congresso.
Ultima deliberazione fu quella di
fondare un giornale che fosse l'organo ufficiale delle società
operaie.
Quindi, eletta la nuova Commissione
permanente168 e spediti due indirizzi a Garibaldi169
e a Mazzini170, il congresso si sciolse171.
Mazzini, saputo che a Parma si era
deliberata la tanto auspicata unione in un solo fascio delle società
di mutuo soccorso, la fondazione di una banca e del giornale operaio,
rimase piú che soddisfatto, fiducioso che alle deliberazioni
sarebbero seguiti immediatamente i fatti.
«Potrò io mai assistere
personalmente ad una delle vostre riunioni? – scriveva l'11
novembre '63 alla Società degli ebanisti e falegnami in
Genova. – Potrò io mai, con una stretta di mano a voi
tutti che amo, rinvigorirmi di speranze e di affetti la vita
cadente?... Aiutando noi tutti al conseguimento del fine nazionale,
voi meriterete il conseguimento del fine sociale, che è vostro
diritto; e a conseguirlo v'è necessario svolgere il germe
cacciato dal vostro Congresso di Parma. Sollecitate i vostri
incaricati perché redigano lo statuto che deve costituire
praticamente la vostra federazione»172.
Ma, mentre la Commissione permanente
eseguí con molta rapidità uno degli incarichi
affidatile, dando vita, fin dal 3 gennaio 1864, al «Giornale
delle Associazioni operaie italiane decretato nel X Congresso degli
Operai tenuto in Parma», del quale assunse la direzione il
Savi173, la redazione dello statuto, invece, procedeva con
molta lentezza.
Mazzini che, come abbiamo veduto,
desiderava si accettasse senz'altro il suo abbozzo e si mettessero in
pratica le norme in esso contenute, s'impazientiva. «Perché
questa decisione, la piú importante che abbiate mai presa,
rimane inapplicata? – chiedeva alla Società dei legatori
di libri, in Genova, il 4 aprile 1864. – ... Perché un
lavoro di dieci giorni deve protrarsi per mesi?»174.
Gli è che se i tre mazziniani
(presto ridotti a due, per la morte del Cannonieri) che facevan parte
della commissione potevano contentarsi di porre la loro firma in
calce al suo progetto, non cosí la intendevano gli altri
membri. Ai quali, molto probabilmente, davan noia le considerazioni
religioso-morali che v'eran premesse, in quanto avrebbero potuto
allontanare molti preziosi elementi, concordi nel volere
l'emancipazione operaia, e non per questo disposti a trangugiare
formole religiose.
Ond'è che ricorsero ad altri
lumi. Cattaneo, per via dell'incarico affidatogli dal Congresso di
Parma, era già allora entrato in relazione con alcuni
dirigenti del movimento operaio fiorentino. Questi gli avevano
sottoposto lo statuto della Fratellanza artigiana (che mirava, come
si ricorderà, a estendersi in tutta Italia), pregandolo di
darne un giudizio. Era quello statuto stesso che Mazzini, a suo
tempo, aveva elogiato e al quale si era, in sostanza, ispirato per il
suo progetto.
Cattaneo aveva risposto franco e senza
cerimonie, criticando con la consueta acutezza il documento. Aveva
detto175: «Mi sembraste piú solleciti di
costruire un grande edificio unitario e uniforme, che non di chiamare
l'artigiano a libera vita propria. Non so perché debba
dipendere dal nominale beneplacito di centoventimila soci176,
sparsi in centomila miglia di paese, ogni minima riforma nel
regolamento d'una trentina d'operai che col risparmio di tre o
quattro centesimi al giorno vogliono prestarsi mutuo soccorso... Vedo
soverchio apparato: maestri dell'arte, maestri del Comune, grandi
maestri, priori, primati, decurioni, centurioni, censori, triumviri,
direttori, sotto-direttori, delegati... Uno dei primi articoli dello
statuto prescrive ai soci come condizione d'ingresso che esercitino
arte o industria. Ma i nomi che vi sono firmati, sono quasi
tutti di avvocati, dottori e professori»; e aveva consigliato –
coerente a tutto il suo sistema di concepire la vita d'una
collettività, fosse essa una modesta associazione o un grande
Stato – di lasciare la massima autonomia alle singole
sezioni-società, abbandonando l'idea che si potesse dal centro
prestabilire e controllare la vita di tutte le lontane sezioni,
disapprovando il modo seguito per conceder sussidi: «io riprovo
tutto ciò che ha la vieta forma dell'elemosina e
dell'umiliazione. Voi dovete coltivare nel povero un sentimento di
modesta dignità». Da ultimo si era dichiarato contrario
alla politicità dei congressi operai: «Non tutti
quelli che hanno diritto a parteciparvi possono risolutamente e
impunemente porsi al seguito della vostra opinione, prima forse
d'averla potuta intendere ed apprezzare. Voi restringete dunque di
vostra mano l'ingresso a quelle società, nel cui seno la
vostra opinione dovrebbe acquistare spontaneo favore»177.
Queste idee eran cadute nel
vuoto178.
Ma anche i membri della Commissione
permanente incaricata di compilare lo statuto si rivolsero
(intermediario Gaspare Stampa) a Cattaneo perché desse loro un
consiglio in proposito.
Cattaneo, acconsentí, anzi
presentò loro addirittura un suo originale Regolamento per
la Federazione delle società operaie italiane (6 marzo),
del quale potevano liberamente usare, purché non facessero il
suo nome179.
Paragonare questo progetto con quello
di Mazzini del 1861 è cosa di estremo interesse, tanto e l'uno
e l'altro ci appaiono emanazione immediata, caratteristica,
inconfondibile di queste due personalità cosí
fondamentalmente diverse.
Mazzini premette agli articoli dello
statuto il seguente preambolo:
«Credenti in Dio,
«In una Legge Morale che ci
comanda di lavorare e progredire moralmente, intellettualmente,
economicamente pel bene comune,
«Nell'Associazione delle forze
come nel solo mezzo efficace a raggiungere quel fine...»
Cattaneo salta a piè pari ogni
astratta considerazione, non impone ad alcuno la credenza in
determinati articoli di fede, entra subito nel vivo dell'argomento:
«Le società operaie
italiane costituiscono un potere federale all'intento di provvedere
ai propri bisogni morali e materiali rappresentato da nove membri
eletti ogni anno in occasione del Congresso degli operai. Nel mentre
le società operaie costituiscono questa complessiva
rappresentanza, conservano la rispettiva autonomia nella interna
amministrazione».
Cattaneo sente la necessità di
contrapporre al potere della complessiva rappresentanza
l'autonomia delle sezioni; Mazzini – che parla invece di una
Commissione direttrice suprema – di questa autonomia non fa
menzione esplicita.
Mazzini assegna alla commissione il compito di promuovere fra gli
operai «le tendenze al dovere, al sacrificio giovevole a tutti,
all'unità tra le credenze e gli atti», di curare «quanto
può educarli alla coscienza della loro missione»;
Cattaneo non nomina mai le parole «dovere», «sacrificio»,
o simili; si limita a indicare quali sono i mezzi che possono
contribuire ad elevare il livello morale ed economico delle classi
operaie: scuole, biblioteche, banche artigiane, cooperative di
consumo.
Mentre Cattaneo vuole che la
rappresentanza curi la diffusione del mutuo soccorso «nelle
classi agricole, finora quasi dimenticate»180, Mazzini,
che di queste ultime sembra ignorare fin'anco l'esistenza, affida
alla commissione l'incarico di promuovere agitazioni volte a ottenere
il suffragio universale e una riforma tributaria.
Il confronto è
sommario181, ma significativo.
Mazzini ha tradotto nello statuto il
nucleo delle sue idee religiose, politiche, sociali. Egli vuol
fondare una grande Associazione operaia mazziniana; si sente ispirato
da Dio e crede perciò alla superiorità assoluta del suo
programma: logicamente quindi tenta di imporlo182.
Cattaneo, positivista, con un rispetto
della libertà che non soffre eccezioni, si tratti di grandi o
di piccoli interessi, ha indicato le poche norme indispensabili al
coordinamento dell'azione operaia in tutto il paese, cui le singole
società debbono sottostare, senza per questo rinunciare alla
propria autonomia.
I due uomini sono tutti nelle poche
linee di questi loro progetti.
In possesso dei quali i membri della
Commissione permanente eletta a Parma si posero all'opera per
assolvere il compito loro affidato, e non dovette esser cosa facile
compilare, d'accordo, un testo definitivo. Ma sulla fine di luglio
del 1864 la loro fatica era giunta al termine e il nuovo Atto di
fratellanza comunicato alle società perché lo
ponessero in discussione.
In sostanza la commissione si attenne
al progetto mazziniano, valendosi dell'altro come d'un vaglio critico
cui sottoporne ogni punto. Questo lavoro di assottigliamento e di
correzione non fu lieve: il tono caldo e ispirato dello statuto di
Mazzini venne concretato, spianato, si direbbe, al contatto delle
espressioni precise e dimesse di Cattaneo. Si tagliò il
preambolo morale-religioso, si tolsero le allusioni al suffragio
universale e alla riforma tributaria. Si presero a prestito dal
progetto di Cattaneo l'assicurazione della indipendenza di ciascuna
sezione e l'idea di diffondere il mutuo soccorso tra le classi
agricole «troppo neglette finora»; si mantenne l'articolo
riguardante le relazioni da promuoversi con le associazioni
straniere, e si rifuse in modo assai felice quello sulla fede
nazionale183; si mutò forma, non la sostanza, di
qualcuno fra i convincimenti iniziali, e s'aggiunse un
paragrafo affatto nuovo, che non so in qual misura potesse garbare a
Mazzini, sulle «petizioni da inviarsi al Parlamento a pro'
degli interessi e dei diritti delle classi operaie». Mazzini
aveva parlato di agitazione legale; i prudenti commissari
scelsero la formola petizione184.
L'XI Congresso delle società
operaie, convocato a Napoli per il 25 ottobre 1864, fu chiamato a
discutere e ad approvare questo Atto di fratellanza.
Si può dire che in ciò
solo consista l'importanza del congresso il quale, per gli
avvenimenti politici che di poco lo avevano preceduto e che avevano
distratta la generale attenzione (Convenzione di settembre e
fatti di Torino) si perse nell'indifferenza sia dei democratici sia
dei moderati. Il fatto è che della questione operaia le classi
colte s'interessavano in periodi di bonaccia politica: la
dimenticavano completamente quando altre preoccupazioni premevano.
Le società rappresentate furono
sessanta: i rappresentanti in grande maggioranza mazziniani e
garibaldini185.
Votati i soliti indirizzi e ordini del
giorno di carattere politico186, si discussero tre quesiti
assai interessanti: uno sull'attribuzione esclusiva dei lavori
pubblici agli operai italiani187; il secondo sull'opportunità
di organizzare un'inchiesta sui salari
agricoli-industriali188; il terzo, presentato dalla Società
generale di mutuo soccorso e d'istruzione degli operai di Trani, e
per essa dal suo delegato, Gennaro Bovio, era cosí concepito:
«Può convocarsi a quando a quando un congresso
internazionale fra le società operaie delle diverse nazioni,
acciò provvedendo a' loro comuni bisogni, ne detti un comune
regolamento, che sempre piú ne avvicini a quell'unità
morale fra le nazioni o popoli, ch'è la piú sublime
ispirazione del nostro secolo?»
Un mese prima che il Congresso di
Napoli si adunasse, a Londra era sorta l'Associazione internazionale
dei lavoratori189. Di questo fatto alcuni delegati del
Congresso napoletano eran certamente stati informati, forse dal
Mazzini o forse da un suo intermediario190. Perciò,
dopo che l'ebbero appoggiata Savi, Asproni e Fanelli, la proposta del
Bovio venne approvata con molto calore e si deliberò di far
rappresentare gli operai italiani al I Congresso dell'Internazionale
che era stato indetto per il 1865 a Bruxelles, sempre che fossero
disponibili mezzi sufficienti a fronteggiare le spese di viaggio di
un rappresentante.
Molti altri quesiti, davvero non
indegni d'esser presi in esame, non vennero discussi; vertevano sulla
durata del lavoro, sulla proposta di assegnare un premio annuale agli
operai per sollecitarli a compiere il loro dovere, sulla
partecipazione agli utili, sulla protezione da accordarsi agli operai
cui venisse diminuito il salario, sulla secolarizzazione
dell'istruzione, sul suffragio universale; un quesito sul contratto
d'impiego proponeva una multa a carico del capofabbrica che «licenzia
capricciosamente un giovine che adempie al proprio
dovere»191.
L'Atto di fratellanza,
attentamente discusso e riveduto, venne approvato nell'ultima seduta.
La Commissione permanente192 fu incaricata di comunicarlo a
tutte le società operaie, invitandole a farvi atto di
adesione193.
Il 27 ottobre, commentando i lavori
del congresso, «Il Popolo d'Italia» scriveva che i suoi
benefizi dovevano «stimarsi immensi».
«L'aspirazione di tanti anni si è realizzata. Uno
statuto fu approvato, che se non è perfetto, è però
un'opera che racchiude i germi del progresso morale e perciò
politico ed economico. La libertà vi è adottata come
mezzo e come fine. Noi speriamo che sarà fedelmente applicato,
e nell'applicazione vi sarà anche maggiore diffusione di
libertà. È necessario di darsi ogni sollecitudine per
allargare un'istituzione che trasforma la plebe in popolo provvido e
pensante».
Giustissimo. Ma quante società
avevano approvato quello statuto? Sessanta: neppure un decimo di
quelle esistenti in Italia.
Mazzini, ancora una volta, si rallegrò
moltissimo. L'Atto di fratellanza votato a Napoli non era
parola per parola quello da lui proposto. Ma, insomma, non conteneva
nulla che egli non potesse approvare; l'unione di tutti gli operai
italiani in un unico fascio, possibilmente devoto a lui, gli pareva
cosa imminente.
Ancora una volta, le sue speranze
dovevano andar deluse. La Commissione permanente, composta di membri
residenti in città lontane l'una dall'altra, privata con la
morte del Savi (avvenuta nei primi mesi del 1865) del piú
attivo elemento, non perfettamente concorde su varie questioni anche
importanti, concluse ben poco. Per tutto il 1865 non si parlò
di unificazione. Le condizioni sanitarie del paese impedirono la
riunione del XII Congresso.
Nel '66 si cominciarono a raccogliere
le prime adesioni all'Atto; ma il lavoro venne interrotto
dalla guerra, la quale uccise il giornale delle associazioni operaie,
costrinse a rimandare la convocazione del congresso, assorbí
tutta l'attività dei promotori del movimento operaio.
Dopo la guerra, Mazzini riprese la
intransigenza repubblicana, mobilitando tutti i suoi uomini per
l'attuazione del suo programma politico. Fino al 1871 né egli
né in genere la parte democratica ebbero tempo di dedicarsi,
con l'ardore del 1861, alla questione del lavoro. La diminuita
attività di Mazzini in questo campo determinò un
rilasciamento anche tra le fila moderate: nessuno, cosí
pareva, minacciava adesso di far deviare i lavoratori dai pacifici
esperimenti di mutuo soccorso e di cooperazione.
In realtà, anche nel 1863-64
l'apporto dei democratici al movimento operaio era stato di scarsa
entità. Il loro sforzo maggiore era consistito nel radunare i
due Congressi di Parma e di Napoli, non inutili davvero, non privi di
discussioni vivaci e interessanti. Peccato non avessero compreso
essere assai piú opportuno transigere sulle questioni di
principio, evitando le solite gazzarre sulla politicità o
sull'apoliticità e affrontare con volontà di risolverle
una o pochissime questioni d'indole pratica, delle piú urgenti
che premevan la classe operaia, cattivandosene cosí la
simpatia e la riconoscenza. La classe operaia, invece, si era
mantenuta piuttosto estranea a quei congressi; e ai democratici che,
dopo avervi partecipato, se ne tornavano soddisfatti alle loro sedi,
convinti d'aver fatto fare un gran passo alla questione del lavoro e
d'aver presenziato alla piú importante ed efficace
manifestazione del movimento operaio italiano, non si può dire
fosse mal diretta la mordente critica che ad esso rivolgeva, nel
1871, il russo Michele Bakunin:
«Il fatto è che il moto
degli operai italiani, grazie ai soporiferi che Mazzini lor
somministra, è stato finora nullo. Essi han dormito e durante
il loro sonno grave e doloroso, solo Mazzini e i mazziniani sonosi
agitati, e, come spesso accade a persone che han poca critica, essi
han preso il moto loro proprio pel moto di chi era loro
d'attorno»194.
Nella qual critica è uno spunto
di verità commisto a due affermazioni inesatte: la prima della
nullità del moto operaio, la seconda che solo i mazziniani si
fossero in pro' di quello agitati. Basterà esaminare i
progressi della organizzazione operaia nel 1863-64 per persuadersene.
In quei due anni si erano costituite
76 nuove società di mutuo soccorso, delle quali –
importa il notarlo – 10 nelle province dell'Italia meridionale
continentale, 12 in Sicilia195.
Le cooperative di consumo avevano
preso un grande slancio. Un giornale operaio ne elencava 58 nel
1865196; al qual numero andavano aggiunti molti spacci aperti
dalle società di mutuo soccorso per i propri soci, da
considerarsi vere e proprie cooperative. Il fenomeno cominciava ad
imporsi all'attenzione dei competenti in questioni economiche; i
quali, cercando di rendersi ragione della fragilità estrema di
tutti questi tentativi, volsero lo sguardo a quel che nello stesso
campo s'era fatto negli altri paesi. Ed ecco il Luzzatti, il Revel,
il Viganò, il Rota, il Boccardo a spiegar l'errore di
costituire cooperative col sistema della vendita a prezzo di costo;
ecco il formarsi di cooperative sul modello inglese (vendita a prezzi
di mercato e ripartizione proporzionale degli utili fra i soci),
delle quali i due primi esempi si ebbero nel 1864 a Sampierdarena e a
Como197.
Un grande successo (grande se
paragonato alle difficoltà che presentava la sua attuazione)
andava incontrando l'idea della cooperazione di produzione; tanto piú
notevole quanto piú spontaneamente si determinava in alcuni
gruppi operai, premuti dalla disoccupazione, il proposito di
ricorrervi.
La Società degli operai
lavoranti in pettini – fondata nel '62 a Milano – s'era
consolidata e aveva, nel '63, emesso un prestito da collocarsi tra
operai, per aumentare il suo capitale. Nel 1863 si era aperto a
Genova lo Stabilimento degli artisti tipografi, il cui capitale era
stato costituito con l'emissione di 250 azioni da L. 78, pagabili a
L. 0,50 la settimana198; e un forno sociale a
Ferrara199. Anche la Società degli operai uniti di
Alessandria aveva sui primi del '64 emesso un prestito a fine di
aprire un mobilificio sociale200. Nel febbraio un gruppo di
lavoranti calzolai, a Genova, aveva inaugurato un
laboratorio201. La Fratellanza artigiana di Firenze aveva
accordato un prestito di L. 5000 a una società cooperativa fra
muratori e stabilito di incoraggiar sempre nella misura del possibile
tentativi analoghi compiuti da suoi soci202. I lavoranti
caffettieri di Genova avevano aperto una fabbrica di birra e gazosa
nell'agosto 1864; non era mancato loro il consueto incoraggiamento di
Mazzini: «Non vi stanchino le prime difficoltà –
egli scriveva loro il 25 agosto 1864. – La cooperazione di
tutti le supererà. Voi avete in mano la piú santa causa
che esista, quella dell'indipendenza del lavoro. Il problema fu
agitato clamorosamente e con modi pericolosi in Francia, con poco
frutto. Date voi, operai d'Italia, la gloria alla patria vostra di
sciogliere questo problema col fatto, coi vostri sacrifici, colla
vostra economia, senza ire funeste tra classe e classe, colla quieta
costanza di chi vuole davvero»203.
Mazzini incoraggiava e scriveva
lettere di plauso. Luzzatti, Viganò, Revel ed altri studiavano
il miglior ordinamento pratico delle cooperative di produzione e in
conferenze, in congressi204, in opuscoli e volumi esponevano
i risultati delle loro ricerche agli operai. L'esempio dei prodi
pionieri di Rochdale divenne, per mezzo loro, famoso in Italia,
proverbiale tra gli operai.
Nel 1864 s'era avuto la prima
rivelazione e il primo sviluppo delle banche di credito sul lavoro;
merito anche questo di quel piccolo gruppo di studiosi entusiasti.
Nel giugno si erano aperte le due prime banche a Lodi e ad Asola; di
poi non era passato un mese che non segnasse un incremento di quella
utile istituzione205.
Ma, accanto a quest'ultima forma
cooperativistica, esempio di quella collaborazione fra borghesia e
proletariato, della quale un altro aspetto ci è rivelato dal
fiorire dei giornali operai206, s'eran sviluppate nelle
classi lavoratrici anche altre forme di organizzazione autonoma.
A Firenze e a Napoli, nel 1864, si
eran fondate quelle Società fra i tipografi, già
esistenti a Milano, a Torino e a Genova, che funzionavano come vere e
proprie casse di resistenza207. A Genova e a Nervi si erano
costituite le Associazioni di mutuo soccorso fra gli operai
vermicellai, che avevano iniziata la loro attività chiedendo
miglioramenti nel contratto di lavoro e promuovendo lo
sciopero208. A Biella nel 1864 la Società di mutuo
soccorso fra i tessitori aveva preteso che i proprietari
s'impegnassero a non licenziare alcun lavorante senza una causa
«giudicata legittima dal Comitato degli operai» e a non
ammettere altri apprendisti che i figli degli operai stessi; intimato
il licenziamento di un capo operaio che non aveva voluto saperne
d'iscriversi alla società209. Ad Alessandria la
Società fra i lavoranti falegnami aveva domandato per i propri
soci una diminuzione nell'orario di lavoro e sostenuto che i
proprietari non avevano diritto di assumere al lavoro operai non
inscritti alla società210.
Gli scioperi si eran succeduti con
grande frequenza, assumendo proporzioni sempre piú vaste,
rivelando una organizzazione sempre piú accurata e previdente.
Su cinque scioperi scoppiati nel 1863,
dei quali ho trovato particolareggiate notizie, uno aveva impegnato
quasi tutta la maestranza tipografica di Milano211, uno
l'intera categoria dei falegnami e muratori di Torino212, un
terzo ottocento operai metallurgici in quel di Napoli213.
Su dieci scioperi dichiarati nel 1864,
uno, gravissimo e di non breve durata, era stato proclamato da
migliaia di operai tessitori a Biella e nel Biellese214; un
altro da cinquecento operai delle strade ferrate, a
Firenze215.
Queste risolute tendenze della classe
operaia avevano cominciato a preoccupare non poco gli ambienti
intellettuali. Le prove di resistenza date dagli scioperanti avevano
indotto a considerare con serietà quali erano le cause e quali
potevano essere i rimedi a questo stato di cose. Perfino alcuni
giornali conservatori s'eran messi a studiare la questione con
pacatezza e con desiderio di obiettività216. Si era
sentita la necessità di fare una distinzione nettissima tra
sciopero e sciopero. Non si poteva condannarli a priori tutti, se si
voleva, per esempio, essere ascoltati nella deplorazione degli
scioperi violenti che, di quando in quando, scoppiavano nel
Mezzogiorno217.
Lo sciopero cominciava ad acquistar
diritto di cittadinanza nella consuetudine delle lotte del lavoro.
Non si poteva dunque dire che il moto degli operai italiani fosse
«nullo».
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