IV. Anni di crisi (1868-70)
1.
L'ambiente sociale nel 1868
Il 1868 è anno di miseria e di
profondo malcontento per le classi lavoratrici italiane. La crisi
economica che ormai da otto anni travaglia il paese e che la guerra
del '66 e il corso forzoso decretato in quell'anno hanno notevolmente
aggravata, si ripercuote disastrosamente su tutti i ceti,
diminuendone le entrate e inasprendone i pesi. I vari ministeri che
si sono succeduti al potere, tutti animati da una coraggiosa volontà
di risanare il bilancio dello Stato e di promuovere la prosperità
economica del paese, hanno perseguita e perseguono tuttavia una
politica ferrea, antidemagogica, elevando gradatamente il tasso delle
imposte, riducendo al minimo le spese superflue; hanno sfidato e
sfidano l'impopolarità.
Nel '68 l'industria è in crisi,
il paese subisce i danni del cattivo raccolto del '67, la
svalutazione della moneta porta a un ristagno di tutti gli affari e
intralcia il commercio d'importazione e di esportazione: i generi di
prima necessità rincarano e mentre l'imposta sulla proprietà
fondiaria sale al 16,25% e quella di ricchezza mobile stabilita nel
'66 a un tasso dell'8% pesa insopportabilmente sul bilancio di tutti
i salariati, i salari operai si mantengono a un livello bassissimo.
In tutto il paese, tra gli operai e tra i contadini, serpeggia un
pericoloso fermento che si manifesta con frequenti clamorose proteste
e che si teme possa trascendere a qualcosa di molto grave.
Alla tassa di ricchezza mobile, che le
classi lavoratrici si rifiutano di pagare, si aggiunge, sui primi
dell'anno, la minaccia di una nuova imposta che graverà
soprattutto sulla gente povera: quella sul macinato. Tra il gennaio e
il marzo al Parlamento si discute sulla opportunità o meno di
introdurla (ministro delle Finanze è il Cambray-Digny); i
deputati di Sinistra si preoccupano delle conseguenze che essa
potrebbe determinare, portando le grandi masse alla
disperazione338. Crispi pronuncia parole minacciose nella
seduta del 25 gennaio 1868: «Ci dite che noi vogliamo offendere
l'ordine pubblico. Ma, signori, io condanno l'illegalità nel
popolo come la condanno nel governo. Nondimeno io ho un'altra teoria,
la quale non può disconoscersi in un paese libero. Quando
il governo è uscito dalla legge, io riconosco nel popolo il
diritto di resistenza»339. E il 18 marzo definisce
il macinato come «un'imposta progressiva, non in proporzione
della ricchezza, ma in proporzione della miseria. Essa colpisce il
pane, l'alimento della vita. Ora, chi non sa che il pane entra per
nove decimi nell'alimentazione del povero, e per un decimo solo o
poco piú nella tavola del ricco... Il pane, o signori, è
rincarato dopo il 1860 per le condizioni politiche e economiche
dell'Italia; rincarato anche di piú dopo il 1866 per la carta
moneta. Con la vostra legge diverrà una merce preziosa,
difficile ad acquistarsi dal povero le cui risorse sono
limitate»340.
I giornali democratici e i nuclei
operai cercano di far pressione sulla Camera perché il
progetto venga respinto. «L'imposta sul macinato – scrive
"L'Avvenire dell'Operaio", Torino, 23 febbraio 1868 –
rovinerà l'Italia, e potrebbe far nascere gravi
disordini»341. Il Consiglio centrale delle società
operaie italiane (ossia la Commissione permanente, eletta nel
Congresso di Napoli) dirama nel marzo una circolare a tutte le
società affiliate affermando che «questa tassa percuote
non la fortuna proporzionata dei cittadini, bensí in modo
progressivo la maggior fame del proletariato»; e propone di
promuovere una protesta collettiva. «Lo Zenzero primo»
(Firenze, 4 marzo), lancia un grido d'allarme: «Il popolo ha
fame, il popolo langue per l'abbandono, per la miseria, per la
mancanza di lavoro»342. La società torinese
L'Avvenire dell'Operaio (fondata nel gennaio 1868 con l'intento di
riunire in un solo fascio «una classe numerosa, sorgente della
principale ricchezza della Nazione, la quale non conosce ancora
abbastanza i grandi principî dell'associazione ed i mutamenti
civili e politici»343, formula un indirizzo alla Camera
(8 marzo 1868) nel quale avverte che la tassa «potrebbe anche
bene servire di pretesto ai nemici della nostra unità, e
specialmente ai principi spodestati per far nascere gravi disordini e
mandare in rovina l'edificio italiano». E ancora «Lo
Zenzero primo», il 10 marzo: «O pane o morte! – è
sempre il grido straziante delle moltitudini... La rivoluzione
sociale è sull'undici once per esplodere». E l'11 marzo:
«Noi raccomanderemo sempre al popolo l'obbedienza alle leggi.
Noi lo esortiamo a subire i sacrifizi che gli vengono imposti,
piuttosto che compromettersi con sommovimenti condannati dal Codice
penale. Ma al tempo stesso però diremo a quei che vogliono a
tutti i costi la tassa sul macinato: Signori! guardate ove mettete i
piedi... Badate che per mantenere l'ordine nella Sicilia e buona
parte del Napoletano vi ci vuole un numero esorbitante di truppe...
badate che la campagna brontola! e che vi sono sparsi in quella degli
uomini che accarezzano il passato, i quali, volere o no, hanno presso
i campagnoli, chi piú, chi meno, voce in capitolo e forse piú
di quello che non crediamo».
Ma gli elementi responsabili della
Sinistra, se pure indignati col governo monarchico, comprendono che
eventuali moti di rivolta si risolveranno non a danno della monarchia
soltanto, bensí della nazione, e forse a pregiudizio
dell'unità. Mazzini esclude che il malcontento economico possa
portare alla rivoluzione. «La miseria crescente –
scrive a un'associazione democratica il 28 marzo 1868 – e le
ingiuste tasse aspreggiano le moltitudini e le fanno proclivi ad
ascoltare il linguaggio di chi attribuisce quei mali alla tentata
unità»344. E tre giorni dopo, all'amico Andrea
Giannelli: «La miseria crescente, il macinato se approvato,
ecc., aumenteranno il malumore; ma le ragioni materiali hanno fatto
sommosse, non mai rivoluzioni»345.
Nonostante tante proteste e velate
minacce e avvertimenti, tra i foschi presagi della stampa e il
malcontento delle classi lavoratrici, la tassa proposta viene alfine
approvata (marzo 1868)346.
Gli operai e gli artigiani di città
si sfogano chiedendo aumenti di salari, inscenando dimostrazioni e
intensificando il movimento di resistenza.
«Le Siècle», 20
aprile 1868, scrive che «gli scioperi divengono minacciosi in
Italia». Gli scioperi del 1868 nei grandi centri si
differenziano infatti da quelli degli anni precedenti, in quanto
rivelano una tendenza nuova a estendersi da una categoria di operai a
molte altre categorie, nella stessa località: si verifica il
primo sciopero generale.
Cosí a Torino, ai primi di
aprile, lo sciopero degli operai dell'Arsenale, che non intendono di
pagare l'imposta di ricchezza mobile, si estende ai ferrovieri e ai
lavoranti nella manifattura dei tabacchi347.
Verso la metà del mese, a
Bologna, per l'identico motivo, scoppia lo sciopero generale che si
sostiene per due giorni (14-15 aprile)348. Altri scioperi,
altre agitazioni di particolare gravità si verificano nel
gennaio a Sordevole349, nel marzo a Pavia350,
nell'aprile a Livorno, nel giugno a Milano, nel luglio a
Pistoia351.
Non mancano altri segni eloquenti dei
progressi compiuti dagli operai nella via della resistenza: a Bologna
l'8 agosto 1868 si riuniscono 150 operai sarti, che fondano una cassa
di resistenza con l'intento di proclamare appena possibile uno
sciopero per ottenere un aumento di salario352; a Feltre si
riunisce il I Congresso dei tipografi, che s'impernia sulla
imposizione della tariffa353; e a Oggiono i filatori di seta
si uniscono in una lega di resistenza354.
I giornali conservatori e moderati
sono allarmatissimi. «La fiducia di tutte le cose –
scrive "La Perseveranza" – va scemando ogni giorno...
un'irritazione d'indefinibile malcontento occupa gli animi...
l'avvenire prossimo si presenta minaccioso sempre di piú».
«La Nazione», commentando
lo sciopero di Bologna, dice qualcosa di molto interessante (16
aprile 1868): «I disordini di Bologna appariscono, pel loro
carattere e pel loro procedimento, un episodio di quel tristo dramma,
che da qualche tempo si svolge in Inghilterra, in Francia, in Belgio,
in Svizzera, in Baviera, si può dire ormai in ogni parte
d'Europa. Qualche luce su questo episodio possono gettare per
avventura le rivelazioni che contenevano in questi giorni i fogli di
Ginevra. Secondo quei fogli, lo sciopero nel Cantone continuava, e lo
attribuivano esclusivamente alle triste arti dell'Associazione
internazionale dei lavoratori colà stabilitasi... Si leggano i
ragguagli dei disordini bolognesi, e si vegga se i procedimenti non
si somiglino nei due paesi...» È dovere l'esaminare
d'urgenza «se fra le piaghe delle questioni politiche non se ne
asconda una piú terribile, questa, che vuol essere
inesorabilmente risoluta, sotto pena di catastrofi, a cui non si può
pensare senza raccapriccio: la questione sociale»355.
È il primo grido d'allarme
sull'Internazionale.
La quale, all'estero, faceva progressi
giganteschi: interi gruppi di leghe operaie in Svizzera, in Germania,
nel Belgio, in Austria aderivano alla nuova potenza; tra la borghesia
e tra gli stessi operai cominciavano a formarsi e a circolare
leggende sulla sua misteriosa forza e sui suoi mezzi colossali. I
governi cominciavano a impensierirsene seriamente e studiavano il
modo di neutralizzarne l'opera. La Francia scelse la via delle
persecuzioni e dei processi, e fu tanto di guadagnato per la réclame
dell'associazione.
In Italia, la propaganda
internazionalistica muoveva i suoi primi passi mercè
l'attività degli amici di Bakunin il quale, nel luglio 1868,
aveva domandato di essere iscritto nell'Internazionale, insieme a
moltissimi membri della sua Fratellanza, rendendosi conto
dell'importanza che andava assumendo la grande associazione e della
opportunità di farne parte per tentar di imporle il suo
programma. Una delle prime sezioni regolari che vennero fondate in
Italia fu quella di Sciacca in Sicilia, dovuta all'attività di
Saverio Friscia, il quale si occupava della propaganda nell'isola.
Nell'agosto, anche la società operaia I figli del lavoro, di
Catania, deliberava di aderire all'Internazionale e di inviare il
Friscia in propria rappresentanza al prossimo congresso che doveva
radunarsi a Bruxelles. Votava inoltre un indirizzo che terminava con
queste parole: «Fratelli operai riuniti a Bruxelles, accettate
il nostro saluto, la nostra adesione e la nostra promessa di
contribuire ai lavori tendenti a preparare la emancipazione del
proletariato e a riunire l'umanità sotto la bandiera della
democrazia. Per questo saremo con voi ora e sempre»356.
Sorsero altre sezioni nel 1868? Lo
ignoriamo. Nel Congresso di Bruxelles (5-13 settembre) un membro del
Consiglio generale, Eugenio Dupont, dichiarò, in assenza di
qualunque delegato italiano357, di rappresentare «le
sezioni italiane dell'Italia continentale». Ritengo che a
questa dichiarazione non si debba annettere gran valore: molto
probabilmente i nuclei della Fratellanza bakunista, laddove
esistevano ancora, si misero in relazione col Consiglio generale;
molto probabilmente identiche relazioni strinse il circolo Libertà
e Giustizia di Napoli358. Questo e quelli contavano fra i
loro membri alcuni soci dell'Internazionale, ma non per questo si
consideravano o venivano considerati ufficialmente come sezioni. Ciò
è confermato dal fatto che nessun accenno a sezioni italiane
dell'Internazionale si trova nell'archivio del Consiglio generale e
dalla stessa comunicazione ufficiale del Consiglio generale al
congresso, laddove ebbe a dichiarare – contentandosi
forzatamente di affermazioni generiche – che «la classe
operaia italiana va ogni dí costituendo la sua individualità,
emancipandosi dai vecchi partiti politici»359.
Il movimento internazionalista in
Italia era dunque ancora assai debole; e non certo in grado –
come insinuava «La Nazione» – di provocare e
alimentare scioperi.
Si cita generalmente come prova e
nello stesso tempo incentivo alla diffusione delle idee socialiste in
Italia nel 1868, il giornale «La Plebe», fondato appunto
il 4 luglio di quell'anno da Enrico Bignami360. Ma chi ne
consulti la prima annata dovrà convenire che «La Plebe»
era nient'altro che un giornale repubblicano e libero pensatore, come
già piú d'uno se ne stampava in Italia361. La
grande importanza che giustamente gli si assegna deriva
dall'atteggiamento da esso assunto tre anni piú tardi; quando
il Bignami, giunto dopo lenta evoluzione e appassionato studio degli
scrittori di cose sociali a una sua concezione socialistica che
niente aveva di comune col facile rivoluzionarismo degli improvvisati
bakunisti, fece del suo giornale l'organo di quella corrente
evoluzionista (piú maloniana che marxista) che, nei suoi
successivi sviluppi, doveva incontrare tanto successo fra i
socialisti italiani.
Il Congresso internazionalista di
Bruxelles segnò, come ebbe a scrivere Mazzini, la fine del
primo periodo di vita dell'Internazionale362, essa ormai non
era piú una lega di organizzazioni operaie autonome, concordi
nell'intento generico di promuovere la emancipazione della classe
operaia; ma una grande organizzazione, con una fisonomia sua propria,
un programma ben determinato in base al quale precisava agli aderenti
gli scopi, i limiti e le modalità della lotta contro le classi
possidenti; un partito operaio che aveva per fine la proprietà
collettiva e per mezzo la lotta di classe363.
Scrivendo nel '71, Mazzini contrappose
in certo modo questo periodo di vita nuova inaugurato dal Congresso
di Bruxelles al primo periodo, a quello che aveva veduto e tollerato
la convivenza e l'urto di dottrine diverse, francesi, inglesi,
tedesche e, in qualche misura, italiane; e affermò che il
secondo fu quello che, dritto dritto «condusse ai tristissimi
recenti casi... L'imperfetta dottrina lasciava un vuoto; e in quel
vuoto entrò l'anarchia, entrò la negazione d'ogni
permanente elemento sociale, entrò l'ira, entrò
l'esagerazione che fa ingiusto il giusto e che cova in fondo a tutti
i partiti».
Ma il giudizio cosí severo di
Mazzini era un giudizio a posteriori. Nel 1868 egli medesimo vedeva
le cose con piú ottimismo; scriveva infatti all'amico
Campanella, il 14 novembre 1868: «L'Associazione
internazionale, buona nel concetto, è dominata un
po' troppo da un Marx, tedesco, piccolo Proudhon, dissolvente,
odiatore, che non parla se non di guerra da classe a classe. La
sezione inglese è buona. Il resto val poco. Non può
condurre a gran che. Corrispondenza di simpatia, ma senza
impegnarsi in cose che non faranno se non a rapir tempo e denari agli
operai nostri. Ne riscriverò, del resto. Intanto, di' questo
alla consociazione»364.
A pochi giorni di distanza dal
Congresso di Bruxelles si radunò a Berna, per la seconda
volta, quello per la pace (21-25 settembre). Bakunin vi partecipò
insieme a molti suoi amici, tra i quali gli italiani Fanelli,
Friscia, Tucci, Gambuzzi. Quest'ultimo lesse una diffusa relazione
sulla questione politica, presentando anche, sull'argomento, una
risoluzione di netta ispirazione bakunista. Essa mirava
infatti «a un federalismo estremamente largo, per cui i grandi
Stati di Europa si sarebbero ricostituiti sul principio
dell'autonomia dei comuni in ciascuna provincia e di queste in ogni
nazione; l'applicazione di questo principio doveva fornire la
soluzione di tutte le difficoltà attuali della politica
estera... e permettere la fondazione della Confederazione degli Stati
Uniti d'Europa»365.
Bakunin, che s'ingannava sui veri
sentimenti dei congressisti, fu assai piú esplicito. Suo scopo
era quello di trasformare la Lega della pace in una specie di sezione
intellettuale dell'Internazionale; egli ne sarebbe stato a capo e
avrebbe cosí potuto rappresentare, in seno alla Associazione
dei lavoratori, una parte molto piú considerevole che non
potesse allora, in qualità di semplice socio. Pronunciò
quattro poderosi discorsi sul socialismo – acerba critica al
comunismo autoritario, esaltazione del collettivismo federalista e
libertario – e con questi s'illuse di persuadere gli
astanti366. I quattro discorsi, invece, urtarono
profondamente i congressisti, democratici borghesi, facendo cadere
tutte le speranze di Bakunin il quale dovette senz'altro ritirarsi
dal congresso con i suoi amici. Assillato sempre dall'idea di farsi
una forte posizione nell'Internazionale, deliberò allora,
d'accordo con quegli amici, di fondare una Alleanza internazionale
della democrazia socialista, che fosse la esplicazione palese della
Fratellanza segreta, e che, mantenendone il programma, si dichiarasse
parte integrante dell'Internazionale367.
La diffusione dei principî
dell'Alleanza in tutti i paesi d'Europa venne affidata ai membri
della Fratellanza segreta; Bakunin stesso iniziò in Italia
un'attivissima propaganda, suggerendo la costituzione di un Comitato
centrale per l'Italia composto, in assenza di Fanelli368, da
Gambuzzi, Friscia, Dramis, Mileti e Mazzoni369. Col Gambuzzi
in special modo si tenne a questo proposito in strettissimo
contatto370.
Bisognava ora che il Consiglio
generale dell'Internazionale accettasse l'adesione della nuova
società: la storia delle relazioni tra l'Internazionale e
l'Alleanza è la storia della reciproca diffidenza tra Marx e
Bakunin, gelosi ciascuno dell'influenza dell'altro.
Marx in un primo momento rifiutò
di accogliere quella che gli parve un'infida adesione (22 dicembre
1868).
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