2.
La rivolta contro il macinato
Nel mentre, sul cadere del 1868, si
avvicina la data fissata per l'introduzione della nuova tassa sul
macinato, la situazione delle campagne italiane appare veramente
preoccupante. È vero che la crisi industriale e commerciale si
ripercuote assai piú sugli operai e sugli artigiani che sui
contadini; ma non bisogna dimenticare, fra questi ultimi, la numerosa
categoria dei braccianti agricoli, le cui condizioni di lavoro
rassomigliano per molti versi a quelle degli operai, senonché
vivendo dispersi, lontani dai grandi centri di popolazione,
trascurati dai partiti politici, i braccianti non si trovano, come
gli operai, in grado di far valere la forza del numero per resistere
ai ribassi di salario o agli eccessivi prolungamenti degli orari di
lavoro. Nessuna forma di previdenza li soccorre; i buoni o i cattivi
raccolti si traducono immediatamente in alti e bassi, ma piú
bassi che alti, dei loro salari371.
L'inasprimento delle tasse e la
coscrizione rendono piú acuto il loro malcontento e tormentano
al tempo stesso i piccoli proprietari, i piccoli affittuari e i
mezzadri, i quali tutti cominciano ormai a guardare al passato come
ad un periodo di benessere perduto; il clero dà esca
all'inquetitudine.
Nei regimi caduti, il parroco di
campagna funzionava infatti da elemento moderatore e ispirava la
rassegnazione; nel nuovo s'è mutato in elemento perturbatore,
che semina nel cuore dei fedeli lo spirito di rivolta.
Il contadino non si limita piú
alla rassegnata deplorazione del suo miserevole stato; è
stanco, è sfiduciato, troppe circostanze cospirano a farlo
disperare dell'avvenire; cova nel cuore la rivolta e si propone di
conquistarsi con la violenza un po' di benessere.
Studiata in fretta nei particolari
dell'esecuzione, nonostante tanto clamore di proteste, la tassa sul
macinato entrò in vigore agli ultimi di dicembre del 1868. La
leggerezza con la quale se ne compilò il regolamento era tanto
piú colpevole quanto piú evidente da ogni parte
appariva che, all'atto della sua applicazione, essa avrebbe condotto
a seri guai.
Il 24 dicembre il ministro
dell'Interno (Cantelli) invia a tutti i prefetti un telegramma che
tradisce la piú viva preoccupazione: «Attuazione legge
macinato segna momento importantissimo nell'assetto finanziario e
politico del regno. Partiti estremi si sforzano di turbarlo,
eccitando interessi, passioni, pregiudizi. Spetta ai signori prefetti
rendere vana l'opera sovvertitrice col prevenire ogni
disordine»372.
I primi tumulti si verificano il 26
dicembre tra i contadini del Veronese; si allargano quindi
rapidissimamente alla Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia. La
«Gazzetta ufficiale» del 1° gennaio, per
tranquillizzare il pubblico turbato dalle notizie esagerate, fa noto
che «in dodici province l'applicazione del macinato non ha
dato luogo a inconvenienti. In altre province si manifestarono
dei torbidi che fortunatamente non ebbero serie conseguenze»;
ma si parla già di alcuni morti in quel di Reggio Emilia. Nei
giorni successivi le cose si aggravano. In molte località i
mugnai, i quali dovrebbero esigere il sopraprezzo sulla macinazione,
o fanno causa comune coi rivoltosi o, nel timore d'avere a subire le
conseguenze dell'ira popolare, chiudono i mulini. Qua e là si
parla proprio di «sciopero dei mugnai»373. Torme
di contadini invadono in Emilia municipi e mulini, si precipitano
tumultuando nella città di Parma, mentre le campane suonano a
stormo. A Pavia tutti i fornai ricevono una circolare inviata da un
Comitato rivoluzionario che li invita a rifiutare qualsiasi accordo
con le autorità, a desistere da ogni trattativa onde non
ricadano sopra di essi le conseguenze del loro «passo mal
fatto»374. Tumulti sanguinosi si verificano nei
dintorni di Pontassieve e nelle province di Torino e di Bologna; piú
gravi nelle province di Reggio Emilia e Parma. A Boffalora sopra
Ticino viene appeso sull'albo comunale un cartello con la dicitura:
«Abbasso il macinato – chi mi toccherà il sacco di
farina – farà la morte del Prina»375. In
alcuni comuni i contadini si dànno a costruir barricate. La
«Gazzetta ufficiale» del 4 gennaio segnala assembramenti
e dimostrazioni in provincia di Cuneo, Verona, Pavia, Cremona,
Piacenza, Modena, Bologna, Lucca, Arezzo. Il 5 gennaio il governo
emana un decreto per cui nelle province di Bologna, Parma, Reggio
Emilia, i poteri vengono passati al generale Raffaele Cadorna.
Il 5 gennaio a Milano vien diffuso un
foglio volante, del quale ecco i brani piú significativi:
«Milanesi! – L'imposta sulla fame, l'imposta sulla
miseria, sulla disperazione ha prodotto gli effetti che si
prevedevano. A Parma, a Reggio, in moltissimi altri paesi d'Italia il
sangue cittadino fu versato. I bravi soldati d'Italia, furono anche
una volta... strumento nelle mani del governo ad una irragionevole e
brutale repressione... Noi non abbiamo che una parola a dirvi: le
fucilate di Parma sono una minaccia anche per voi. Provveda dunque
ciascheduno al proprio interesse ed al proprio onore e all'interesse
d'Italia tutta... Chiunque senta dignità di cittadino
italiano, chiunque senta che l'Italia fu fatta dal popolo e per il
popolo, pulisca il suo fucile e tenga asciutta la polvere. – Il
Comitato segreto repubblicano»376.
A Vernao il 6 gennaio i contadini,
tumultuando, gridano: «Abbasso i ricchi!»377.
Parma, il 7 gennaio, è in piena insurrezione; la truppa si
batte sanguinosamente con un gran numero di contadini. Ad Ancona
viene affisso il seguente manifesto: «Non pagate le imposte se
volete aver la repubblica»378.
A San Giovanni in Persiceto (Bologna)
duemila contadini invadono gli uffici pubblici, dànno al fuoco
le carte, saccheggiano alcune case private; scontratisi con la forza
pubblica, lasciano morti e feriti sul terreno379. Lo stesso
avviene a Cento, a Pieve, in altri comuni minori. A Milano e
provincia – riferiscono alcuni giornali – viene affisso
il seguente manifesto: «Macinato – Abbasso il governo
italiano! Mora quell'infame mugnaio che ci ruba il pane di bocca, che
ci leva la religione, e che ci ammazza in inutili guerre i nostri
figliuoli: – W. il governo austriaco! W. il papa! W. il pane
senza la tassa del macinato! W. la rivoluzione! W. il popolo
italiano! Rivoluzione, o italiani; se no, siamo perduti»380.
«La Nazione», 6 gennaio,
dichiara che i disordini sono provocati da mestatori politici, i
quali fanno credere ai contadini che la nuova tassa sia una
invenzione del governo per affamare la povera gente; infatti laddove,
come nel Mezzogiorno, l'imposta sul macinato è già
conosciuta, poiché era in vigore sotto i cessati regimi, i
contadini si mantengono – afferma sempre «La Nazione»
– piú che tranquilli.
Ma l'8 gennaio giunge notizia che a
Potenza, a Trani, a Molfetta i mugnai scioperano; il giorno dopo che
in un comune di Terra di Lavoro (Alife) le donne hanno inscenato una
dimostrazione381. A Campobasso i contadini tumultuano,
gridando: «W. Vittorio Emanuele; abbasso il municipio e i dazi
doganali; vogliamo pagare, ma quanto possiamo».
A Carmignano (Pistoia) il 12 gennaio
trecento montanari occupano il municipio, bruciano le carte e il
ritratto del re e dichiarano per iscritto che non desisteranno dai
tumulti fin quando non avranno ottenuto: 1) soppressione del
macinato; 2) abolizione del maestro e della maestra di scuola,
l'istruzione resa ai parroci; 3) diminuzione degli stipendi di alcuni
impiegati comunali; 4) abolizione del dazio sui maiali382. In
parecchi piccoli centri dell'Abruzzo e delle Calabrie, intanto, la
resistenza contro la tassa si fa accanita383.
Verso il 15 i tumulti cominciano a
declinare; l'ordine si va ristabilendo quasi dappertutto. Un mese
dopo serpeggia di nuovo qualche torbido, specie nell'Emilia: cosí
a Reggio, a Pian di Voglio (14 febbraio) dove si deplorano scontri
cruenti con le truppe, a Imola. Il fatto piú grave e piú
caratteristico si verifica nei dintorni di Reggio. Due fratelli
Manini, figli di Angelo, capo del partito repubblicano in Reggio, si
uniscono ai ribelli del contado, assumendone il comando (primi di
febbraio). Formano cosí una vera e propria banda, che si reca
ai molini a rompere i contatori, a ritirare il denaro eventualmente
versato dai contadini per la tassa (denaro che viene restituito ai
contadini stessi), che affronta audacemente i carabinieri e le
truppe. «Dopo 3 giorni – narra Giuseppe Pomelli in un
interessante libro di ricordi384 – i contadini
vedendosi isolati e le città tranquille, scoraggiati e delusi
ritornarono alle loro case. I fratelli Manini però, essendo
troppo compromessi, assieme a pochi altri non cedettero, ma se ne
andarono alla macchia seguitando a molestar carabinieri e truppe».
Finalmente, arrestato il padre (considerato come «il Mazzini di
Reggio»)385, perduta ogni speranza di veder allargato
il moto di rivolta, i fratelli Manini si lasciarono arrestare;
l'amnistia dell'ottobre 1870 li liberò dal carcere386.
La banda, con la quale il Pomelli
stesso si tenne in contatto, ebbe colore repubblicano o almeno fu da
tutti ritenuta per tale perché repubblicani erano,
notoriamente, i suoi capi387.
Tirando le somme, gli effetti della
sommossa erano stati tutt'altro che lievi. Nella sola Emilia erano
rimasti uccisi 26 contadini; i feriti, tra contadini e militari,
salivano a 55; nel solo circondario di Bologna, si erano eseguiti
1127 arresti. Sempre nell'Emilia si dovettero istruire 129 processi
con 2226 imputati; su 2172 imputati, 108 eran proprietari, 261
artigiani, 569 mezzadri, 1234 braccianti e giornalieri388.
Secondo statistiche apparse in vari giornali i morti, in tutta
l'Italia, erano stati 257, i feriti 1099, gli arrestati
3788389.
Da osservare: nessun disordine nelle
grandi città; gli operai non si muovono. Sono i contadini che,
riunendo le forze di tre o quattro paesi vicini, si muniscono degli
strumenti rurali, disarmano, quando possono, la guardia nazionale e
procedono alle violenze.
I tumulti scoppiarono spontaneamente o
furono istigati e diretti da elementi appartenenti ad altri ceti
sociali? Sui giornali si scatenarono violentissime polemiche, quelli
di sinistra e clerico-reazionari sostenendo che erano scoppiati
spontaneamente in alcuni luoghi e si erano poi diffusi per la
speranza dei contadini di riuscire a far ritirare l'imposta; i
giornali ministeriali accusando i repubblicani, oppure i neri e i
retrivi, o tutti assieme di averli organizzati e diretti.
Che le condizioni economiche dei
contadini fossero cosí disastrose da poter trasformare la loro
tradizionale apatia in una disperata e spontanea volontà di
rivolta, non è dubbio.
Nella Relazione della Commissione
d'inchiesta sui casi dell'Emilia pel macinato390 si
ricercano le cause determinanti delle sommosse; quella sulla quale
piú si insiste – per quanto si dia molto peso anche alla
campagna condotta dai partiti estremi e alla inerzia colpevole degli
elementi liberali e moderati – è appunto il triste stato
delle masse. Secondo i calcoli ufficiali, la media delle imposte,
tasse, diritti comunali e provinciali che si esigevano da ogni
cittadino bolognese nel 1858 era di L. 26 a testa, di L. 18 da ogni
modenese e reggiano, di L. 20 da ogni parmense. Nel 1867, le medie
son cresciute rispettivamente a 43, 36, 34.
Perché l'Emilia è stato
il centro della rivolta? Perché – spiega un redattore
della «Gazzetta dell'Emilia», 9 gennaio 1869 –
prima del 1860 «la popolazione della campagna godeva della
predilezione di quei governi ed in ciò tengo per fermo vi
fosse sagacità politica degna di essere da noi meglio
imitata».
Perché a Parma o nel parmense
si sono svolti gli episodi piú gravi? Perché –
dice alla Camera il deputato Paini, nella seduta del 25 gennaio 1869
– questa città versa in una «condizione sociale
infelicissima, condizione economica che non ha riscontro in
alcun'altra provincia del regno. Parma, fino dal 1859, epoca in cui
cominciò a far parte del regno, è soggetta a un
deperimento economico continuo, di cui non abbiamo ancora raggiunto
l'esito estremo... Questo decadimento ha spostato, ed è
naturale, parecchi interessi, ha lasciato senza lavoro la numerosa
classe operaia che si agita intanto in un malcontento legittimo: la
parte colta ed intelligente della popolazione, immiserita anch'essa,
ha perduto la calma, e non sa e non può moderare l'opinione
pubblica»391.
Il macinato non è, dunque, che
la goccia la quale fa traboccare il vaso del malcontento popolare;
l'origine dei tumulti, perciò, si può anche spiegare
senza ricorrere all'ipotesi di incoraggiamenti e di provocazioni da
parte di elementi estranei alle classi contadine; ma non si spiega in
tal modo quel non so che di preordinato, di organizzato, di
disciplinato, direi, pur nel disordine, che innegabilmente si
riscontra nei moti: insomma, la strategia della rivolta392.
Bisogna per forza ammettere che i contadini tumultuanti, consci o
inconsci, abbiano trovato alleati piú o meno numerosi e
potenti, piú o meno disinteressati negli altri ceti sociali.
Alcune circostanze parrebbero
confermare le accuse contro i clerico reazionari; altre, quelle
contro i repubblicani. Tra le prime sta il fatto, eloquentissimo, che
i tumulti si verificano e, salvo eccezioni, restano limitati nelle
campagne. Nelle campagne, a quel tempo, non si poteva davvero parlare
di influenze di partiti politici e tanto meno di quello repubblicano
che, seguendo Mazzini, mirava soltanto a prevalere nei centri; esse
erano invece il feudo tradizionale dell'organizzazione clericale. I
parroci erano certamente in grado di sorvegliare la massa contadina,
di constatarne lo stato d'animo, di esercitare su di essa una
influenza durevole; se, come apparve purtroppo chiaro nei primi
giorni del 1869, i contadini giungevano quasi a rimpiangere i tempi
andati, bisogna dire che trovavano nella maggioranza di quei parroci,
ossia nella quasi esclusiva rappresentanza di una classe piú
elevata con la quale vivevano a contatto, non soltanto comprensione,
ma anche, e piú spesso, solidarietà attiva393.
Né si dica che era naturale che i moti si sviluppassero solo
nelle campagne, dappoiché i soli contadini avevano a soffrire
della nuova tassa; che questa pesasse su di loro piú che su
qualunque altra classe sociale, è vero, poste le scarse
possibilità che essi avevano di trovare compensi al nuovo
aggravio; ma il rincaro del pane, nelle città, non era
anch'esso un fatto sufficiente a provocare le proteste piú
vive della massa operaia?
Accompagna inoltre quasi tutti i
tumulti – specie nell'Emilia, dove essi sono piú
violenti, appaiono piú organizzati e durano di piú –
il grido di W. il papa; o W. la religione; W. l'Austria; W. Francesco
V394; in alcune località, tra schiamazzi e
devastazioni, i contadini dànno segni di profonda devozione al
papa. Cosí a San Giovanni in Persiceto, penetrati nel
municipio e trovato in granaio un polverosissimo busto in gesso del
papa, «lo hanno preso e con molti segni di riverenza portato al
parroco»395. Altrove i contadini armati pretendono che
vengano restituiti ai preti certi privilegi che sono stati loro
tolti. Il manifesto affisso a Milano accusa i mugnai – nella
cui persona è simbolizzata, per l'occasione, la nuova classe
dirigente – di levar la religione. Si vuole infine
notare che i moti – diffusi in tutta Italia – principiano
e assumono particolare gravità in quelle regioni che sono
state soggette al dominio temporale del papa.
Come si difendono i clericali?
Leggiamo «L'Ancora»,
Bologna, 9 gennaio 1869: «Questa povera gente che si vede
tassato perfino il tozzo di pan nero onde sfama a mala pena se stesso
e la propria famiglia, non ha mancato di far conoscere per molte vie
che tale imposta è impopolare, gravosa...» La si è
voluta imporre ad ogni costo. I contadini «non sanno ragionare
a tutto filo di logica e di prudenza; sentono la necessità di
protestare in qualche guisa contro tante esosità... Ricorrono
spontanei e adirati ai mezzi che loro sono piú alla mano e che
quasi diremmo siano loro naturali... Non riuscendo ad ottenere una
pronta soddisfazione, trascendono a qualche via di fatto... E si va a
vedere e a udire uomini e giornali, che si dicono seri ed imparziali,
attribuire quei moti spontanei e quelle proteste naturalissime,
strappate dalla piú dura necessità, ai preti, ai
parrochi, e alla reazione, che sotto mano stimola ed eccita i
contadini a sollevarsi per un intendimento al tutto politico e
reazionario?... Del resto costoro non hanno tutto il torto. La
reazione si avanza ogni giorno piú, ed essi che veggono... le
masse imponentemente agitarsi e minacciarli del loro rozzo furore,
vogliono sfogare la loro rabbia impotente contro poveri preti ed
innocenti parrochi, per non dire a loro stessi e agli altri che
comincia anche per loro il giorno tremendo del giudizio e del
castigo».
Difesa debole quando gli accusatori
possono addurre tutta una serie di prove buone a dimostrare, se non
altro, che i parroci hanno tenuto, di fronte ai moti, un
atteggiamento di neutralità piuttosto benevola; e rinfacciare
la campagna di stampa che i clerico-reazionari hanno condotto nei
mesi precedenti alla rivolta, campagna nella quale hanno sorpassato
ogni limite di equità e di prudenza.
Chi scorra infatti le collezioni dei
giornali clerico-reazionari non può non pensare che quella
profusione di articoli fieramente avversi alla introduzione della
nuova tassa – dipinta come un sopruso senza precedenti, un
furto legalizzato, il preveduto smascheramento del nuovo regime –
non mirasse a qualche intento pratico, non rispondesse in qualche
modo a una parola d'ordine diffusa dall'alto; né può
dare un eccessivo peso alle postume sdegnate dichiarazioni di
innocenza di quegli stessi giornali. Per fermo nella introduzione del
macinato vi fu chi vide l'occasione propizia per sferrare la nuova
offensiva antiunitaria, o almeno per creare un serio imbarazzo al
regime usurpatore.
Sarebbe erroneo ritenere che i
clerico-reazionari organizzarono la rivolta; ma non v'è
dubbio che fecero quanto stava in loro per renderla possibile, avendo
cura di non assumere mai responsabilità precise e accertabili:
non v'è dubbio che contribuirono potentemente a creare
l'atmosfera della rivolta. Sulla rivoluzione puramente economica
s'innesta, cioè, la reazione politica. Perché nel
Mezzogiorno d'Italia l'introduzione del macinato provoca scarse
reazioni in confronto al resto della penisola? Perché la
rivolta sociale-politica contro il nuovo ordine di cose si è
già avuta, lunga e tremenda, dal '61 al '66, col brigantaggio
e con la ininterrotta serie di disordini che ha conturbato la vita
meridionale. Basti pensare alla rivolta palermitana del 16-23
settembre 1866 (L'anarchia dei sette giorni)396.
Altre circostanze indurrebbero a
gettare una parte di responsabilità sui
repubblicani397, ossia, come si diceva allora, prima
dell'affermazione dell'Internazionale e del socialismo: i rossi.
Basta ricordare il manifesto affisso ad Ancona, quello di Milano,
quello di Pavia; le grida di W. la repubblica, emesse in varie
località398, la banda Manini, certi scritti apparsi su
giornali repubblicani399, certi discorsi, infine, che alcuni
deputati repubblicani hanno pronunziato alla Camera, durante la
discussione sul macinato. Ma l'atteggiamento di Mazzini basta ad
escludere ogni partecipazione degli elementi responsabili del partito
ai moti di rivolta.
Il Pomelli, che è un testimonio
non sospetto (non solamente fu in relazione coi rivoltosi di Reggio
Emilia, ma narra i fatti del '69 in un volume dal titolo Patrioti
e soldati reggiani del Risorgimento!), a proposito della banda
Manini, scrive: «Un momento piú favorevole per fare la
rivoluzione non poteva esserci; invece non solo i capi mazziniani
consigliarono la calma, ma Mazzini stesso scrisse lettere che a me
furono fatte leggere, nelle quali addirittura combatteva quel moto e
calorosamente raccomandava di non parteciparvi ma anche di cercare di
farlo cessare»400.
Vi fu dunque tra Mazzini e una parte
dei suoi gregari un dissenso sull'atteggiamento da prendersi di
fronte alla marea montante del malcontento per l'introduzione della
nuova tassa.
Scoppiata piú o meno
spontaneamente, è certo che la rivolta prese forme e
proporzioni dai contadini stessi e dal governo non prevedute. E fu
allora che alcuni nuclei repubblicani, agendo di propria iniziativa,
cercarono di utilizzarla ai propri fini, sperando di convertirla in
rivoluzione. Si tratta soprattutto dei piú giovani elementi
del partito i quali, dopo Mentana, sospirano il momento nel quale
Mazzini darà il segnale della rivoluzione; di essa hanno
sempre sentito parlare e della necessità di basarla
solidamente su larghi strati della popolazione. Ora che una
vastissima rivolta, determinatasi all'infuori della loro iniziativa,
infierisce in ogni parte d'Italia, par loro certo che l'atteso
momento sia giunto. Ma i dirigenti del partito, pur seguitando da
anni a predicare la rivoluzione e a incitare individui e gruppi a
tenersi pronti, non pensano affatto a una rivoluzione di contadini
ignoranti e inferociti. È vero che con poco sforzo
riuscirebbero a trasformare la rivolta dei contadini in una, ben piú
pericolosa, di operai e di artigiani nelle città, agitando la
bandiera della repubblica e soprattutto quella delle riforme sociali.
Ma è da discutersi se fosse allora davvero intenzione dei
repubblicani di provocare la rivoluzione401. Mazzini si
preoccupa soprattutto della unità; considerate tutte le forze
centrifughe che sono in giuoco, sa che una piccola scossa può
comprometterla seriamente. Se proprio si guarda alla sostanza delle
cose, bisogna riconoscere che, dalla unificazione politica in poi,
Mazzini fu un elemento di conservazione assai piú che di vero
rinnovamento. Parla di rivoluzione, caccia questa parola in tutti i
suoi scritti, ma non pensa a organizzarla sul serio; capisce che cosí
bisogna fare per tenere la coesione nella Sinistra e per non
lasciarsi sfuggire gli elementi piú giovani e attivi: è
la parola d'ordine, nulla piú. E intanto, fin quando i giovani
intellettuali e gli operai staranno stretti intorno alla rivoluzione
di Mazzini, l'unità e l'ordine sociale potranno dormire sonni
tranquilli.
Ma alcuni fra gli elementi piú
giovani, piú accesi del partito, di fronte allo scoppio di un
moto cosí vasto contro il governo monarchico, non si curarono
degli ordini impartiti dai dirigenti e si buttarono nel pieno della
rivolta per guidarla a fini repubblicani.
L'episodio della banda Manini è
tipico. E cosí si spiegano i manifesti dei comitati segreti
repubblicani, comitati forse, nella realtà, inesistenti, ma
espressione della frenesia di molti repubblicani per slanciarsi nel
moto.
Certo che l'inerzia dei dirigenti il
partito contribuí a rafforzare in molti giovani quella
sfiducia in Mazzini e nella sua rivoluzione, che Bakunin aveva
saputo, per primo, ispirare e che eventi posteriori aggravarono e
portarono a una crisi definitiva.
A parte tutto ciò, è
certamente un fatto sintomatico e degno di rilievo che operai e
artigiani, tra i quali era diffuso il rancore contro le classi
dirigenti, e principiava a determinarsi una netta coscienza di
classe, siano rimasti affatto immobili di fronte ai moti campagnuoli.
Ostilità tradizionale del popolo di città a quello di
campagna? Intuizione del fondo reazionario, quindi dello scopo piú
politico che sociale del moto? Queste ragioni influirono certamente
sul contegno degli operai; come anche, sia pure in misura minore, il
disinteressamento se non la condanna dei moti da parte dei
mazziniani, ai quali obbediva la maggior parte delle società
operaie non legate al governo (tra l'altro era difficile che i
mazziniani, per due terzi massoni, si alleassero alle mene dei
clericali). Ma bisogna pure riconoscere che il contegno degli operai
attestava un maturo senso della realtà; essi comprendevano
ormai l'inutilità di certe rivolte incomposte; l'esperienza
andava loro insegnando altri piú proficui e meno rischiosi
mezzi di lotta; avevano appreso che il loro nemico non era il
governo, che i mutamenti di regime politico avevano una ben scarsa
ripercussione sulle loro condizioni. Loro nemico era l'iniquo assetto
sociale, loro uniche armi l'associazione e la resistenza.
Nei giorni seguenti ai disordini i
giornali fanno un gran parlare di questione sociale e di
socialismo; si accenna ad anarchici, a rivoluzionari, a
socialisti. Tutto ciò è giustificato dalla gravissima
preoccupazione diffusa tra i proprietari agricoli402 e da
alcuni episodi: assalti alle case dei ricchi, saccheggi, insulti ai
signori. «La Nazione» grida l'allarme; si è
proclamato «che era venuto il momento per i proletari di
comandare e di avere»; «un pericolo gravissimo minaccia
il paese»403.
Alla Camera tutti ragionano di
socialismo. Il deputato Torrigiani invita il governo a studiare
urgentemente le ragioni della rivolta, tenuto conto «dell'urto
e dell'antagonismo manifestatosi tra le classi sociali dei
proprietari e dei coloni». Egli è impensierito
soprattutto per l'apparizione di «un sintomo nuovo nelle nostre
popolazioni, il quale accenna al morbo del socialismo, di cui
l'Italia aveva deplorato altrove i sinistri, ma erasi tenuta incolume
e lontana»404. Il ministro delle Finanze –
Cambray-Digny – rispondendo al Torrigiani che «ci metteva
ieri dinanzi agli occhi il fantasma del socialismo», ammette
che effettivamente «qualche piaga ha mostrato di esistere».
L'onorevole Bargoni scopre anch'egli «i germi latenti di una
questione sociale» ma confida che il governo aiutato da tutti
saprà volgerli al bene.
Si scatenano aspre polemiche tra
rossi, neri e moderati: gli uni son colpevoli di tutto perché
fanno una propaganda d'odio; gli altri perché non si occupano
del problema sociale. I cattolici speculano sul terrore che ha invaso
la borghesia italiana: quanto è accaduto è la logica
conseguenza degli avvenimenti di molti anni addietro, quando i
governanti attuali facevano essi i rivoluzionari, per spogliare i
legittimi principi e rovesciare il potere temporale405.
Socialismo e socialisti: vien fatto di
pensare se questi ultimi o meglio i seguaci di Bakunin in Italia
abbiano avuto qualche parte nei moti di rivolta. Questo è da
escludersi assolutamente: intanto, nessuno vi accenna; e le minacce
ai proprietari vanno considerate come lo sfogo di brutali istinti
delle masse, improvvisamente e per breve ora trovatesi prive di freno
e padrone del campo. I bakunisti italiani lasciarono compiersi questo
tragico tentativo che non avevano preveduto senza tentar di
sfruttarlo. Bakunin si occupa della rivolta del macinato... l'anno di
poi, come storico e come misuratore degli istinti rivoluzionari delle
masse in Italia. «Il movimento affatto spontaneo406
dei contadini italiani l'anno passato, movimento provocato dalla
legge che ha colpito con un'imposta la macinazione del grano, scrive
a un amico francese, ha dato la misura del socialismo rivoluzionario
naturale dei contadini italiani»407.
Questo lungo discorso sui tumulti pel
macinato era necessario per chiarire lo stato d'animo delle masse
rurali ed operaie, degli ambienti governativi e parlamentari,
dell'opinione pubblica moderata e conservatrice408 di fronte
alla questione sociale.
In quei tumulti bisogna ravvisare:
l'ultimo tentativo reazionario compiuto dai sostenitori dei cessati
regimi; il primo sfogo del malcontento nelle masse rurali del nord e
centro d'Italia; la prima occasione nella quale le sfere ufficiali
s'accorgono dell'esistenza di un problema sociale, la prima grossa
paura che li coglie a tale riguardo; la prova dell'insignificante
sviluppo della propaganda bakunista in Italia, ma nello stesso tempo
della esistenza di molti elementi e di molte circostanze favorevoli a
tale sviluppo; la dimostrazione di una relativa maturità
dell'elemento operaio e artigiano.
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