V. La Comune di Parigi
1.
Le ripercussioni della Comune
La guerra del 1870 tra Francia e
Prussia sconvolse il movimento democratico europeo; vani erano stati
i Congressi per la pace, vano il tentativo di affratellare gli operai
di tutti i paesi compiuto dall'Internazionale: il grande sciopero dei
lavoratori che avrebbe dovuto impedire la conflagrazione non si
verificò.
Molte associazioni operaie italiane
pubblicarono bensí roventi quanto vani indirizzi contro la
guerra482. Il giornale «La Plebe» invitò i
popoli tutti a negare «ai governi ogni cooperazione per la
guerra. Essa rimarrà paralizzata». Fecero eco,
clamorosamente, le gazzette democratiche: ma il movimento, s'intende,
non ebbe alcun seguito positivo.
Risoltosi il conflitto con fulminea
rapidità, la novissima repubblica francese verso cui, ormai,
si volgevano le simpatie dei democratici di tutta Europa, traversò
un primo periodo di convulsioni sociali e politiche tremende che
culminarono nel sanguinoso esperimento della Comune di Parigi.
La Comune produsse in tutto il mondo
civile una grande impressione; in Italia poi se ne seguirono le
vicende con spasmodico interesse.
Reazionari, conservatori, moderati,
democratici costituzionali e repubblicani, internazionalisti, tutti
ritennero che le sorti del mondo intero dipendessero dall'esito della
lotta fra la Comune e Versailles. Tutti contribuirono a deformare la
realtà e le proporzioni di quell'episodio. La Comune non
apparve in Italia quel che fu effettivamente, un misto, cioè,
di eroismo e di barbarie, di idealismo e di follia, tentativo mezzo
nazionalista e mezzo anarchico, nato dalla disperazione e naufragato
negli eccessi della rivolta e della repressione. Su di essa si formò
immediatamente la leggenda: abbagliati dai proclami dell'effimero
governo parigino, tutti – partiti e individui –
giudicarono la Comune come un vero e proprio esperimento socialista;
e mentre alcuni, stupiti e sdegnati, non nascondevano un'intensa
preoccupazione, altri esultavano preannunciando un non lontano bis in
Italia. Chi proclamò che la Comune segnava il fallimento
dell'ideologia repubblicana, chi la sua piú bella aurora; chi
ne attribuí la causa all'assenza di una fede religiosa nel
popolo, chi a un'esasperazione del sentimento nazionale, chi a un
istintivo impulso popolare verso l'affratellamento delle genti sulle
rovine degli organismi nazionali. La speculazione partigiana non
solamente svisava i fatti realmente avvenuti, alterandone la
fisonomia e la portata, ma divulgava le notizie piú infondate,
contradditorie e inverosimili.
Fu davvero un grande abbaglio; poiché
di socialista a Parigi non ci furono, si può dire, che parole
e intenzioni; sí che quasi quasi si potrebbe rivendicare alla
repubblica romana del '49 maggiore sollecitudine per le sorti del
proletariato e una maggior mole di provvedimenti di carattere
sociale483. Comunque la Comune reagí, in Italia, su
tutti gli ambienti sociali, svegliando molte coscienze assopite e
gettandole in una profonda crisi, costringendo tutti i partiti a
prendere un deciso atteggiamento; fu la pietra di confronto sulla
quale tutti dovettero saggiarsi: pro o contro.
I giornali cattolici sfruttano a
proprio vantaggio il terrore che ha preso le classi medie: «Non
si capisce – scrive pacatamente "La Civiltà
cattolica" 6 maggio 1871 – che, senza dare nel comico,
[esse] pretendano di rimproverare, in nome della società e
della civiltà, gli aderenti della Comune di essere troppo
dialettici nell'applicare gl'insegnamenti e troppo attivi
nell'imitare gli esempi delle loro signorie liberali e conservatrici.
Noi soli che abbiam sempre detto o cattolici col papa, o barbari col
socialismo, abbiamo il diritto di giudicare e vituperar Parigi, senza
mutare improvvisamente il nostro modo di pensare».
La stampa conservatrice grida alla
fine del mondo. Ecco come «La Perseveranza», Milano, 26
marzo, definisce i comunardi: una «bordaglia immemore d'ogni
affetto di patria, pazza di furore, avida di lucri, insofferente di
freni, invidiosa, pervertita dai vizi, dai bisogni e da un sentimento
crudele che il godere sia il solo ed uguale diritto di tutti...»
«La Nazione», 3 maggio 1871, avverte gli smarriti lettori
che «il socialismo, il comunismo, tutti i deliri delle sette
piú sfrenate minacciano la società». Solo qualche
conservatore intelligente, anziché dolersi eccessivamente di
quanto avviene a Parigi, mostra di considerare la Comune come uno
sfogo di mali latenti, che, se non fossero venuti alla luce,
avrebbero forse costituito un ben piú serio pericolo per
l'avvenire. «La Francia combatte ora in Parigi una lotta
piuttosto europea che francese – scrive Ruggero Bonghi nella
Rassegna politica della "Nuova Antologia", maggio
1871 –; e vincendola, lascerà sconfitte... dottrine e
passioni che senza questa durissima prova l'avrebbero sordamente,
ostinatamente turbata assai piú». Si stia in guardia
però: ché l'Internazionale, ispiratrice della Comune,
non è diffusa solo in Francia, ma «si dirama in Italia,
anzi in ogni altra parte d'Europa».
I giornali democratici costituzionali
ammettono invece che, se si vuole impedire un esperimento socialista
in Italia, bisogna pensare piú seriamente alle classi
lavoratrici. A Parigi si vuole «abolire l'incomodo del tuo e
del mio... sostituire la forza al diritto; la barbarie alla civiltà»;
ammonisce «Il Monitore di Bologna», 25 marzo 1871; ma
aggiunge: «se vorremo confessare la verità,
riconosceremo che segni di spensieratezza, di apatia, di egoistica
indifferenza per la situazione materiale e morale degli operai, di
imprevidente e lungo abbandono di essi alla fallace guida di pochi
mestatori, settari, di timidezza ed impotenza durante la crisi, di
spirito riottoso e sofistico contro ogni governo durante la
prosperità e la calma, non mancano nelle classi medie delle
città italiane» (25 marzo, 11 aprile 1871).
Molto imbarazzata è la stampa
repubblicana, la quale non riesce ad assumere una posizione netta.
Come condannare in blocco la Comune repubblicana? Come non
riconoscere gli aspetti piú nobili dell'insurrezione? Bisogna,
d'altronde, difendere l'idea repubblicana pura dalle scorie
socialistiche, non lasciar credere e meglio cercar di smentire la
credenza ormai largamente diffusa che l'instaurazione della
repubblica porti sempre come naturale conseguenza agli eccessi
deplorati a Parigi. Tener testa ai moderati, trattenere i giovani
repubblicani, scomunicare i socialisti, ecco l'amaro compito
riservato alla stampa repubblicana, la quale finisce per trovarsi
vicina ai moderati e ai conservatori, mentre questi, come sogliono
fare sempre in tempo di crisi sociale acuta, parlano di riforme e
posano a democratici. Seguiamo «L'Unità italiana»,
24 marzo 1871: «Gli avvenimenti parigini si presentano come la
conseguenza naturale, necessaria, della provocazione e delle insidie,
che il governo dei capitolari tendeva alla repubblica». Il 26
marzo lamenta le «accuse atroci e insane calunnie onde son
fatti segno dai monarchici e dai falsi repubblicani i membri
componenti il governo rivoluzionario di Parigi». Il 29 marzo:
«L'assenza di un programma morale benefico a tutti, che
osserviamo nei proclami degli insorti, e il ristretto cerchio degli
interessi economici e particolari in cui si tennero isolate e quasi
trincerate le classi operaie in questi ultimi venti anni, ci fanno
temere che la questione materiale sia piú della morale il
movente del conflitto attuale». Il 2 aprile: «L'autonomia
comunale (come la intendono a Parigi) è lo sminuzzamento della
Francia, è la negazione del pensiero nazionale». Ma
ancora il 17 aprile, l'8 maggio difende la Comune, negando che
v'imperino il comunismo e la violenza organizzata. Il suo
atteggiamento è cosí incerto che, il 31 maggio, «Il
Corriere di Milano» può accusare «L'Unità
italiana» di voler giustificare gli eccessi di Parigi e scrive:
«se fossero essi dell'"Unità" al potere, chi
sa se Mazzini stesso non sarebbe arrestato come reazionario!»
Gli è che il contegno assunto
da Mazzini di fronte alla Comune contrasta radicalmente per la sua
risolutezza con quello assunto, in un primo tempo, da quasi tutti gli
organi del suo partito: egli infatti, sdegnando prudenti calcoli
opportunistici, si è subito apertamente schierato fra i nemici
della Comune. Inflessibile è la scomunica che contro di essa
egli pronuncia perché ferrea e intransigente è la sua
fedeltà a un sistema politico morale e sociale, a tutto un
passato che sono in nettissima antitesi col pensiero e in parte anche
con l'azione degli uomini di Parigi484.
Intendiamoci: egli non condanna in
blocco Comune e comunardi; professa il piú sincero rispetto,
che s'innalza fino all'ammirazione, per quel manipolo di risoluti che
ha saputo suscitare la disperata resistenza del popolo di Parigi
contro l'Assemblea: «Date tributo meritato di lode fraterna –
scrive il 26 aprile 1871 – all'aspirazione repubblicana degli
insorti parigini: salutate come promessa pel futuro la forza
d'iniziativa popolare rivelata nel loro rapido ordinarsi a milizia e
governo»485.
Legge i documenti ufficiali, i
proclami della Comune «con tutta l'attenzione meritata da ogni
manifestazione di un popolo come quel di Parigi e da un moto condotto
con mirabile energia da uomini ignoti ieri e che hanno saputo in
pochi giorni e in una città esaurita dall'assedio tedesco,
creare ordinamento, mezzi ed esercito...»486.
La condotta del governo di Thiers e
dell'Assemblea nazionale suscita in lui un senso di vero e proprio
disgusto: «Noi deploriamo i fatti del Comune: biasimiamo
quelli dell'Assemblea di Versailles. Gli errori del primo scendono da
una fatalità di sistema, da idee che spettano a una Epoca
oggimai consunta: le colpe, perché colpe sono, dell'Assemblea,
derivano da interessi, presenti o futuri, temuti lesi i primi,
sperati soddisfatti dalla monarchia i secondi...»487.
«L'Assemblea e Thiers passeranno, checché oggi si dica,
ai posteri con una nota d'infamia. Firmarono tremanti una pace
vergognosa, che smembrava la loro patria, collo straniero, quando
dovevano mandare un grido solenne di resistenza collettiva alla
Francia e disperdersi poi nelle province per capitanarla»488.
Ma al di là e al di sopra degli
uomini, del loro coraggio o della loro virtú, sta la forza e
il valore delle idee che li muove. Mazzini irresistibilmente si volge
a quelle. Sono quelle idee degne che per esse si compia tanto
sacrificio, degne di sopravvivere alla inevitabile caduta della
Comune? Mazzini non dubita: il programma parigino è tale che,
ove anche non fossero in giuoco poderose forze contrarie, basterebbe
a condannare quel moto, a isolarlo, a pregiudicarne irreparabilmente
l'esito. E s'intende che cosí la pensasse il vecchio credente
nella missione delle nazioni cui il programma teorico della Comune
doveva apparire come un vero e proprio rovesciamento della sua
dottrina.
Egli partiva da una concezione di
progresso indefinito, regolato da leggi invisibili all'uomo, e ad
essa, o meglio al conseguimento dei fini provvisori che, in ordine al
progresso, è dato all'uomo, epoca per epoca, intravvedere,
ispirava e coordinava il suo sistema. Gli uomini della Comune
partivano invece dalla constatazione delle umane esigenze e da essa o
dal soddisfacimento di queste, in ordine al maggiore sviluppo
possibile delle facoltà dell'individuo, derivavano il loro
programma sociale, morale e politico. Mazzini, nello sforzo di
conseguire il fine, imponeva all'individuo una serie di doveri, ossia
di limitazioni della sua libertà e lo costringeva in una serie
di entità collettive, che dalla famiglia andavano all'umanità,
alle cui leggi doveva piegarsi. Gli uomini della Comune intendevano
invece adattare quelle entità all'individuo. Alla nazione
unitaria di Mazzini si contrapponeva la federazione dei liberi
comuni; al suo convincimento aver Dio assegnato ad ogni singola
nazione il compimento di una missione, si contrapponeva l'aspirazione
a un affratellarsi generale dei popoli, nella rinuncia a ogni
differenziazione. E via dicendo.
Sí che Mazzini non poteva non
scrivere489 che l'ordinamento teorico del Comune, se
applicato, «respingerebbe addietro fino al medioevo la
Francia490 e le rapirebbe, non per anni ma per secoli, ogni
speranza di resurrezione»; condurrebbe «allo smembramento
indefinito dell'autorità, al riconoscimento esclusivo
della sovranità nel menomo ente collettivo locale; e
quindi alla negazione assoluta della nazione»491 –
poiché «senza pensiero e senza fine comune, senza
unità di tradizione collettiva e quindi e anzitutto
senza unità d'educazione nazionale, non esiste
nazione...»492. Non poteva non dichiarare che le
conseguenze inevitabili se pur non tutte previste dell'organizzazione
della Francia in base ai principî della Comune sarebbero state
la fine del sentimento di patria, il restringersi e il frammischiarsi
dell'ambiente intellettuale e quindi l'abbassamento del livello di
coltura, il formarsi di piccole aristocrazie locali in lotta
egoistica fra di loro, la concorrenza illimitata fra i Comuni, fonte
d'impoverimento generale e impedimento a ogni grande impresa, il
progresso, infine, reso impossibile dal mancato coordinamento di
tutte le attività a un fine superiore comune e dall'anarchia
dell'educazione.
Condanna, dunque. Alla cui severità
contribuirono certo, oltre al sincero convincimento, preoccupazioni e
prevenzioni d'altra natura. Innanzi tutto la pregiudiziale
antifrancese, radicata sempre in Mazzini, radicatissima poi dal '49,
da quando cioè le armi francesi avevano soffocato la
repubblica romana. Dalla Francia ormai non può venire
all'umanità niente di nuovo e di buono. «Una Nazione che
ha dato l'ultima parola d'un'epoca non ha mai proferito la prima
dell'altra: la Francia che ha incarnato in sé sul finire del
secolo scorso le conquiste dell'epoca dell'individuo, non è
probabilmente chiamata a iniziare l'epoca
dell'associazione»493; la Francia, profondamente
inquinata di materialismo, non può rivelare al mondo la
nuova fede. Accanto a questa pregiudiziale, la naturale reazione
all'esaltamento della gioventú democratica italiana per le
gesta della Comune e il timore che la caduta di questa possa segnare
una crisi generale dell'idea repubblicana. «Oggi, v'è
troppo del ribelle, troppo poco dell'apostolo in noi. E
la bandiera dell'insurrezione ci affascina dovunque sorga e per
qualunque cagione... Ogni audace affermazione trova un'eco nell'anima
dei nostri giovani, non perché, scrutata maturamente, enunzi
una parte ignota finora di vero, ma perché audace»494.
Bisogna fronteggiarla con risolutezza questa pericolosa esaltazione e
costringere tutti a determinare il loro atteggiamento in base a un
esame coscienzioso del programma di Parigi; non elettrizzarsi perché
vi si vuol fondare la repubblica democratica, ma indagare che mai si
celi sotto quel nome.
I conservatori, d'altronde, quanti cioè ritengono sacro e
immutabile l'ordinamento dato all'Italia dopo il '60, con ogni cura
registrano gli eccessi e nella teoria e nella pratica commessi dalla
Comune, e li bandiscono per le gazzette con l'intento di screditare
ogni iniziativa repubblicana, che – sostengono – non può,
per sua natura, non condurre a consimili eccessi. Si lasci mano
libera a Mazzini e al suo partito e tra non molto – dicono
ancora – si avrà in Italia una seconda Comune. «Tutto
ciò – scrive Mazzini alla Stansfeld – reca gran
nocumento al partito repubblicano in Italia. L'intera stampa
monarchica da noi sta spaventando la gente con quelle che essa chiama
le inevitabili conseguenze della repubblica»495. Urge
dunque additare l'abisso che divide la concezione repubblicana
mazziniana da quella collettivista e federalista di Parigi.
Di ciò persuaso, Mazzini inizia
la sua battaglia contro la Comune; «La Roma del Popolo» è
il suo quartier generale e là, o intorno ad essa, in una
piccola schiera di amici, si preparan gli attacchi e le difese, si
approntano i mezzi pel combattimento, si unificano le iniziative, si
contiene e si rintuzza ogni offensiva avversaria.
Dall'aprile in poi non esce, si può
dire, numero della «Roma del Popolo» che non contenga un
articolo di Mazzini, direttamente o indirettamente dedicato agli
avvenimenti di Francia, alle loro cause, alle loro ripercussioni in
Italia.
Ma osserviamo ora il contegno dei
giornali filocomunardi. «Il Gazzettino rosa» di
Milano496, alle prime notizie della insurrezione parigina, 21
marzo 1871, saluta «con profonda gioia la coraggiosa e
nobilissima iniziativa della generosa Parigi». Parigi resisterà
e «fonderà il reggimento democratico, modello ed esempio
per le altre nazioni d'Europa, oppresse dai privilegi delle caste che
sostengono il monarcato»; tiene a proclamare la sua solidarietà
con la causa disperata, ridendosi dei «giornali consorteschi
(che) sbattuti come i loro padroni dalla bufera che mugge a Parigi,
credono di additarci alla esecrazione del mondo, dichiarandoci
fautori della insurrezione repubblicana» (31 marzo 1871).
E il 1° aprile, rivolgendosi ai
privilegiati: «Voi già tremate. Sotto la veste
della spavalda insolenza l'anima vile traballa di paura. Anche qui in
Italia, dove la forza popolare vive potente e sarà un giorno
terribile, voi sentite i sintomi della ribellione delle masse che
mugge come lava vulcanica sotto la crosta di apparente
tranquillità... Dietro i giornali che voi sequestrate, dietro
gli individui che voi cacciate in carcere stanno le legioni
onnipotenti per numero e per vigore di braccia, ordinate sotto un
vessillo, la Libertà, e quelle legioni sono il popolo,
la X incognita... Salve, o aurora di libertà, io ti
veggo già spuntare sull'orizzonte nel colore della fiamma».
Non può certo, il «Gazzettino», applaudire a tutti
gli atti della Comune, ma, nelle sue grandi linee, essa ha «diritto
alla simpatia dei repubblicani di tutto il mondo» (7 aprile
1871).
Accanto al «Gazzettino»,
si schierano in pro della Comune molti altri fogli repubblicani: tali
«Il Presente» di Parma, «Il Lavoro» di
Bologna, «Il Romagnolo» di Ravenna497, «Il
Rubicone» di Cesena498, «La Trasformazione»
e «La Democrazia» di Messina499, «La
Libertà» di Pavia.
La Comune di Parigi assorbe dunque
l'attenzione generale; tutti cercano di scoprirne e spiegarne le
cause.
Ora che il problema dell'unità
nazionale è stato, con l'acquisto di Roma, provvisoriamente
risolto, la questione sociale, che fino allora è stata
generalmente considerata di trascurabile entità, assume, fra
tutte le altre che premono il paese, somma importanza; non è
chi non avverta ormai i sintomi piú o meno palesi di una crisi
che travaglia la società, non è chi non si ponga la
domanda: come e in che senso si risolverà tale crisi? Problema
formidabile e pauroso che preoccupa quanti si sono illusi che, una
volta raggiunto il suo assestamento politico, la nazione si sarebbe
avviata verso un periodo di vita facile, segnato da continui
progressi in ogni campo, tra la soddisfazione e il consenso di tutti
i cittadini. La Comune rappresenta un brusco risveglio.
Nella minoranza mazziniana,
insoddisfatta della soluzione data al problema politico e
instituzionale, quelli che si limitano a domandare la repubblica e a
promuovere agitazioni in tal senso, sono incalzati e travolti da una
frazione sempre piú numerosa, poiché attira via via
tutti i piú giovani elementi, la quale si disinteressa della
attività del partito e guarda assai piú lontano,
sostenendo che repubblica o monarchia non mutano né posson
mutare le sorti della maggior parte degli italiani. Sono i giovani
che han dato il nerbo alle imprese garibaldine nel '62, nel '66 e nel
'67 e non hanno mai avuta la soddisfazione di vedere il successo di
alcuna di quelle imprese; sono i giovani cui Mazzini ha insegnato che
non bisogna mai contentarsi della realtà acquisita e che non
intendono adagiarsi nel pacato acquisto dell'unità: accorsi,
nel '70, sotto le insegne di Garibaldi, in Francia, obbedendo
all'impulso romantico del loro spirito hanno ora sete di un nuovo
ideale.
Manca ormai a questa gioventú
«l'alimento agitatore delle cospirazioni e delle spedizioni di
volontari pel compimento della unità nazionale, quell'alimento
che la preservò dall'ingolfarsi nell'abisso della noia, degli
egoismi, dei piaceri sensuali, delle miserie dell'anima, e l'aveva
educata alle aspirazioni alte e alle opere generose»; cosí
scrisse Osvaldo Gnocchi-Viani, che visse personalmente questa
crisi500. L'inadeguatezza del mazzinianismo alle aspirazioni
di questa gioventú appare ormai evidente.
Già da un pezzo la formola Dio
e popolo, battuta in breccia dalla propaganda materialistica, era
stata dimezzata da molti repubblicani, i quali non riconoscendole
ormai che un valore storico, ritenevano tuttavia di potersi chiamare
ancora mazziniani, sebbene non credenti in Dio; ma ora per la prima
volta essi eran costretti a constatare che il dissenso in materia di
fede religiosa importava un dissenso fondamentale e insanabile anche
nella valutazione della realtà politica e sociale. Di fronte a
un avvenimento contingente si accorgevano di avere, negli anni
immediatamente precedenti, distrutto in se stessi le fondamenta del
sistema mazziniano; ora soltanto misuravano la distanza, che si era
venuta, a loro insaputa, frapponendo fra essi e Mazzini. Nel
programma mazziniano mancava ormai un mito, mancava un
orizzonte lontano e magari irraggiungibile cui tendere. Il mito
di Mazzini era stato l'unità d'Italia e Mazzini aveva avuto la
fortuna di vederlo realizzato bruscamente, per quanto non secondo le
sue aspirazioni, per un colpo di bacchetta magica. Dopo il '60,
nonostante il rinforzo dato alla parte di rivendicazioni sociali, il
suo programma era rimasto, agli occhi dei giovani, come svuotato:
incomprese le sue aspirazioni religiose, poco chiara la sua visione
della trasformazione sociale, troppo modesto il piano di riforma o di
rivoluzione politica. Ai giovani pareva e parve soprattutto nel '71
che il mazzinianismo avesse terminata la sua trentennale funzione di
propulsore della vita italiana.
Sono interessanti a questo riguardo le
parole di una recluta socialista del 1871. Scrive Andrea Costa:
«Mazzini soprattutto si alienò la parte piú calda
e generosa della gioventú, cresciuta alla scienza nuova,
infierendo contro alla Comune caduta, e attribuendo in gran parte
alle teorie materialistiche, la disfatta della Francia... Ricordate,
o compagni, il '71 e il '72? Come aspettavamo trepidanti le nuove di
Parigi – come cercavamo gli statuti di quella potente
Associazione internazionale – come leggevamo con ansia ciò
che i giornali stessi degli avversari ne scrivevano? Meravigliosa fu
la rapidità con cui si propagò in Italia il nuovo
spirito... Noi ci gettammo in quel movimento spinti assai piú
dal desiderio di romperla con un passato che ci opprimeva e non
corrispondeva... alle nostre aspirazioni, piuttosto che dalla
coscienza riflessa di quel che volevamo. Noi sentivamo che l'avvenire
era là; il tempo determinerebbe a quali idee ci
ispireremmo»501.
Elettrizzati dalla scintilla parigina,
presi d'entusiasmo per il programma dottrinario della Comune, questi
giovani fanno quel che possono per difenderla e – dopo la sua
caduta – per diffonderne i principî. Tutti affermano che
la Comune è nata dall'Internazionale e che i dirigenti di
questa Associazione hanno effettivamente diretto il grande
esperimento: quei giovani guardano perciò con simpatia
all'Internazionale, scorgendo nell'avvenire di lotta che essa
promette, lo sfogo della brama d'azione che li divora e che Mazzini
non sa piú o forse non vuole piú utilizzare;
l'Internazionale promette un riesame ex novo di tutti i problemi,
intende trasformare radicalmente l'assetto della società, e
con ciò comprende e supera quanti s'immobilizzano dietro
modeste questioni contingenti che riguardano la politica interna dei
vari paesi.
La propaganda di Bakunin, potentemente
aiutata dall'avvento della Comune, comincia a raccogliere frutti
abbondanti, minacciando a Mazzini il crollo irrimediabile di quel che
è stato, per lunghi anni, il suo quasi monopolio della
questione sociale in Italia.
Ma questa crisi della gioventú
mazziniana non si sarebbe verificata o si sarebbe contenuta entro
limiti assai modesti se l'atteggiamento di Garibaldi non l'avesse
incoraggiata e aggravata.
Garibaldi, trascinato dal suo focoso
entourage, e trascinando a sua volta un gran numero di
dubbiosi, partecipa di tutto cuore all'infatuazione per la Comune. La
bella parentesi d'armi della spedizione in Francia si è
chiusa, ed egli è tornato a Caprera, indignato per la condotta
del governo francese, che ha piegato vergognosamente di fronte al
nemico. La sua simpatia e la sua ammirazione si volgono ora alla
resistenza disperata che i parigini tentano contro i prussiani e
contro i versagliesi. Tra le grandi figure non socialiste d'Europa,
egli è quasi il solo che, nell'imperversare della reazione
anticomunarda, osi andare contro corrente; colpito per la prova di
energia data dal popolo di Parigi, soddisfatto nel suo vago
umanitarismo da alcuni punti programmatici della Comune, egli non
guarda che alle grandi linee del movimento. Scrive agli amici
nizzardi, il 2 maggio 1871: «Ciò che spinge i Parigini
alla guerra è un sentimento di giustizia e di dignità
umana; è la grande famiglia nominata Comune che vuole fare e
mangiare la pissaladiera senza domandare il permesso a Pechino
o a Berna; non è già il comunismo come vogliono
definirlo i neri detrattori del proletariato, cioè i
partigiani del sistema, che consiste nel render ricchi i poveri ed
impoverire i ricchi»502. I difensori della Comune sono
«i soli uomini che in questo periodo di tirannide, di menzogna,
di codardia e di degradazione hanno tenuto alto, avvolgendovisi
morenti, il santo vessillo del diritto e della giustizia»,
scrive il 2 ottobre503. Deplora i loro eccessi, li
attribuisce al fatto che il popolo parigino si è lasciato
trascinare «dalle ciarle dei dottrinari»; ma la reazione
sanguinosa che li soffoca gliene fa dimenticare i lati piú
condannabili; due anni dopo dirà addirittura che «la
caduta della Comune di Parigi fu una sventura mondiale»504.
L'atteggiamento di Garibaldi è dunque nettamente antitetico a
quello di Mazzini e ci spiega in che maniera molti giovani
repubblicani trovino il coraggio e la franchezza di separarsi
nettamente da Mazzini.
Un dissidio fra Garibaldi e Mazzini si
era determinato fin dal 1848505. Dal '48 al '71 era stato un
continuo alternarsi di periodi nei quali l'avversione fra i due
appariva insanabile e di periodi nei quali finalità comuni li
avvicinavano provvisoriamente, inducendoli a sorpassare i molti e non
lievi dissapori506.
La ragione fondamentale del dissidio,
dopo il '60, era probabilmente questa: che Mazzini rimproverava a
Garibaldi di volersi atteggiare a uomo politico e di voler tener lui
le redini del movimento democratico, mentre gli mancavan le doti
naturali e la piú elementare preparazione indispensabili a
questo fine507; Garibaldi dal canto suo non sapeva tollerare
l'autoritarismo di Mazzini e, pur non disconoscendo le sue qualità
politiche, deprecava i suoi metodi d'azione provatamente rovinosi,
scherniva il suo programma politico e sociale. Le possibilità
d'intesa fra i due si eran fatte sempre piú difficili: e
finalmente, nel 1871, il dissidio scoppiò aspro e palese come
mai per l'innanzi, per gli opposti atteggiamenti assunti da Mazzini e
Garibaldi di fronte alla Comune di Parigi, con gran sorpresa e dolore
di molti democratici italiani, cullatisi fino allora, chi sa come,
nella dolce illusione di un perfetto accordo tra il braccio e
la mente del Risorgimento italiano, ormai entrambi capi
riconosciuti del movimento democratico508.
|