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Nello Rosselli
Saggi sul Risorgimento

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  • I. Italia e Inghilterra nel Risorgimento
    • I. La politica inglese in Italia nell'età del Risorgimento
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I.
Italia e Inghilterra nel Risorgimento

I.
La politica inglese in Italia nell'età del Risorgimento1

 

Il problema mediterraneo comincia a presentarsi all'Inghilterra fino dal principio del secolo XVI, fino da quando cioè essa pone le basi della sua potenza marittima e allaccia i primi rapporti commerciali con gli scali dell'Europa meridionale. Nella seconda metà di quel secolo, dominata dal conflitto anglo-spagnuolo che si risolve nel suo trionfo, l'Inghilterra vede questi suoi traffici nel bacino mediterraneo intensificarsi con ritmo costante. Durante il secolo XVII essa afferma con ripetute spedizioni navali il suo diritto e il suo interesse a prender parte alle lotte che si combattono fra Spagna, Francia, Olanda e Stati minori, per la supremazia o almeno per l'equilibrio nel Mediterraneo. Ma non è che nel secolo XVIII che, insediatasi dapprima a Gibilterra, indi a Minorca, l'Inghilterra diventa vera e propria potenza mediterranea, avviandosi rapidamente al deciso predominio in quel mare, che le permetterà di stroncare, sui primi del secolo successivo, il piano francese, e quindi innanzi di dominarvi, se non incontrastata, vittoriosa sempre.

L'Italia, per la sua posizione geografica e per la sua struttura, è in qualche modo il perno della politica mediterranea: fino dalla seconda metà del secolo XVI, dunque, l'Inghilterra guarda con interesse a questo paese, nel quale non ha (e non avrà mai) dirette aspirazioni territoriali, ma che considera, oltreché un ricco mercato di assorbimento per i suoi manufatti e in genere per le sue importazioni da altre parti del mondo, il piú idoneo pontile di sbarco per la diffusione delle sue merci in tutta l'Europa centro-meridionale. I migliori affari, in questo periodo, essa li conclude in particolare con i minori Stati della penisola, Toscana, Venezia, Piemonte, i quali, tutti circondati e stretti dall'Italia spagnuola, concedono senza troppe difficoltà le piú ampie facilitazioni commerciali pur di attirare o di riattirare nei loro porti le grandi correnti sviate del traffico. Colonie di mercanti inglesi si stabiliscono con profitto a Livorno e a Nizza. Ma è con lo Stato sabaudo che le relazioni si annodano specialmente cordiali: alle ragioni economiche che fanno di Nizza, in concorrenza con Genova, dapprima irretita nel giuoco spagnuolo, poi in quello francese, lo scalo migliore per i mercati dell'Italia settentrionale, verrà ben presto ad aggiungersi, infatti, l'interesse politico, che all'Inghilterra consiglierà di tenersi amico in ogni occasione il portiere delle Alpi, facendogli balenare la possibilità di lauti compensi territoriali, qualora tenga ben chiusa la porta ai Francesi.

Cosí per tutto il Seicento. La penetrazione pacifica dell'Inghilterra si svolge con crescente successo: l'Italia viene progressivamente inondata di prodotti inglesi; tra non molto si dirà con ragione che l'Inghilterra vi esercita un vero e proprio monopolio commerciale.

Via via che si accrescono i suoi interessi nel Mediterraneo e si consolida la sua potenza, l'Inghilterra sarebbe naturalmente indotta a desiderare, e quindi a favorire, un ordinamento italiano che escludesse il controllo assoluto della penisola da parte di uno o dell'altro dei grandi Stati mediterranei. Le ambizioni della Francia la obbligano invece a farsi conservatrice dello status quo: tra la Spagna, la cui potenza volge visibilmente al declino, e che comunque ha dovuto piegare dinanzi alla superiorità marittima inglese, e la Francia, forte come non mai, ed ora nuovamente mirante all'egemonia europea, l'Inghilterra non può infatti esitare a preferire la prima; tanto piú che, mentre questa non si oppone in sostanza alla sua penetrazione commerciale nella penisola, la Francia, che verso la fine del secolo XVII comincia a ravvisare appunto nell'Inghilterra il principale ostacolo alle sue mire espansionistiche, non mancherebbe certo, una volta padrona d'Italia o di una parte d'Italia, di chiudergliene le porte.

Ma la situazione si complica inaspettatamente non appena alla tradizionale rivalità franco-ispana accenna a sostituirsi (con Luigi XIV) un accordo fra quelle due potenze, tendenti ad assicurarsi l'assoluto controllo del Mediterraneo. Di questo pericolo l'Inghilterra, che non possiede ancora una sua base in quel mare, e che vitali necessità extramediterranee costringerebbero comunque a misurarsi con la Francia, si rende conto senza indugio e immediatamente si dispone a reagire. Ancora piú gravemente colpito, perché compresso e minacciato di schiacciamento ai due fianchi, si sente il duca di Savoia: gl'interessi inglesi e sabaudi, per quanto in sfere di ben diversa ampiezza, coincidono dunque perfettamente. Siamo al tempo delle prime coalizioni antifrancesi, sul cadere del secolo XVII, nelle quali Inghilterra e Savoia militano appunto nel medesimo campo.

Apertasi, poi, con la successione al trono di Spagna, la questione del possesso d'Italia, l'Inghilterra, conformemente al suo vecchio programma, propenderebbe a spartire quei dominî, ad esclusione sia dei Borboni che degli Absburgo, fra principi minori italiani o forestieri, in primo luogo i Savoia; senonché, piuttosto che vedervi insediato Luigi XIV o una sua longa manus, essa preferirebbe pur sempre che il regno di Napoli, la Lombardia, la Sardegna cadessero tutti in mano dell'Austria, con la quale non ha interessi in contrasto e che, soprattutto, non è e non aspira a diventare potenza marittima: tanto piú che anche in questo caso sarebbe possibile profittare del rimaneggiamento per assicurare allo Stato sabaudo un ingrandimento atto a conferirgli maggiore efficienza nella essenziale sua funzione di antemurale alla Francia. Con questo programma l'Inghilterra prende parte alla guerra. Non è in giuoco soltanto la posta italiana, né si combatte unicamente sul Po: eppure fino da allora, chi ben guardi, si delinea, rispetto all'Italia, quel giuoco d'influenze austro-franco-inglesi che poi si protrarrà in pieno secolo XIX, quel giuoco d'influenze del quale, dopo ripetute, dolorose esperienze, gl'Italiani, una volta maturi a risolvere in senso autonomo e unitario il loro problema nazionale, finiranno per profittare. La pace di Utrecht consacra il pieno trionfo della tesi inglese: l'Inghilterra, infatti, a parte i vantaggi diretti che ottiene, sia nel Mediterraneo (Gibilterra e Minorca), sia nell'Europa nord-occidentale, vede l'Austria subentrare alla Spagna in tutti i suoi possessi italiani, salvo la Sicilia (poi tramutata con la Sardegna) assegnata all'alleato sabaudo. La Francia resta fuori d'Italia: la quale esclusione costituisce ormai, per il gabinetto di Londra, una delle garanzie fondamentali per la pace d'Europa. Anche il successivo trattato di Vienna, per quanto concluso in assenza e, apparentemente, a scapito dell'Inghilterra, obbedisce in sostanza a questa direttiva suprema: giacché l'innegabile vantaggio che potrebbe pur derivare alla Francia dall'avvenuto insediamento sul trono di Napoli di un rampollo borbonico è ampiamente controbilanciato dal passaggio della Toscana, con i Lorena, sotto l'immediata influenza dell'Austria, e, ancora una volta, da notevoli concessioni territoriali fatte al Piemonte.

Il governo di Londra è ormai definitivamente interessato al mantenimento dello status quo nella penisola: l'ordinamento del 1738, infatti, non gli conviene soltanto sotto il rapporto politico, ma anche sotto il rapporto commerciale, in quanto né l'Austria in Lombardia, né il Borbone di Napoli, né, tanto meno, gli altri Stati italiani possono rappresentare per l'Inghilterra dei concorrenti temibili. Austria e Borbone, anzi, prendendo possesso dei rispettivi dominî, che trovano dissanguati dalla secolare occupazione spagnuola, non solamente necessitano delle forniture inglesi, ma, come il Piemonte, trovano il loro vantaggio nel favorire, in via di massima, l'espansione economica di quell'unica potenza mediterranea che ha tutto l'interesse di garantirli reciprocamente nel pacifico possesso dei loro territori. Ogniqualvolta dunque si presenterà una crisi mediterranea minacciante lo status quo italiano, la politica dell'Inghilterra sarà quella di stringere i propri rapporti con l'Austria da un verso, col regno di Sardegna dall'altro, in modo da opporre una resistenza efficace all'ingresso nella penisola di altre forze straniere. Questa politica presuppone naturalmente l'esistenza di rapporti, se non proprio di amicizia, almeno di normale collaborazione tra Austria e Sardegna (cosa non sempre facile ad ottenersi, ché a Torino non si può non guardare con gelosia e anche con diffidenza a chi detenga la Lombardia); come altresí presuppone – e questa condizione si verificherà quasi costantemente, ma non senza clamorose eccezioniopposizione d'interessi e quindi tensione di rapporti tra Francia ed Austria. Se l'Austria, d'altronde, profittando della stragrande superiorità di forze, attenterà all'indipendenza degli altri potentati italiani, l'Inghilterra avrà buon giuoco, per contrastare queste sue mire, sia ricattandola con lo spettro di un possibile intervento francese, sia favorendo i perpetui disegni d'ingrandimento del Piemonte, sia finalmente incoraggiando i risentimenti antiaustriaci, che alla metà del secolo, come ognun sa, già cominciano a serpeggiare fra gl'Italiani.

Questo meccanismo appare in piena funzione fin dalla guerra di successione d'Austria: la guerra, si sa, sconvolge profondamente la carta d'Italia, ma nella pace del 1748, mentre l'Austria, sotto gli auspici inglesi, vien reintegrata in quasi tutte le sue posizioni italiane e la Sardegna compie un nuovo passo innanzi verso il Ticino, la Francia continua pur sempre ad essere esclusa d'Italia.

Negli anni successivi, gigantesco sforzo del sistema franco-spagnuolo per escludere dal Mediterraneo la grande, la sempre piú minacciosa competitrice: l'inaudito rovesciamento delle alleanze (Francia ed Austria e poi Spagna e Russia e Svezia contro Prussia e Inghilterra) fa che l'Inghilterra, paralizzata nel Mediterraneo, veda completamente annullata la sua influenza in Italia; ma ancora una volta la pace (di Parigi) ristabilisce nel Mediterraneo la situazione antecedente alla guerra, e ancora una volta chi paga le spese è la Francia. Solo la crisi d'America, in tutta l'immensa sua gravità, potrà far che, dopo tanto lottare per l'equilibrio mediterraneo, l'Inghilterra, troppo fidando nelle posizioni raggiunte, trascuri i suoi interessi nel nostro mare: ed ecco che subirà senza reagire, e forse senza intenderne tutta la portata, lo scacco dell'insediamento francese in Corsica, ed ecco che perderà Minorca e verrà furiosamente assalita a Gibilterra. La pace del 1783 non potrà che consacrare la sua retrocessione nel Mediterraneo, il primo suo passo indietro dopo una serie ininterrotta di affermazioni e di conquiste. Dura lezione, ma non senza benefici effetti: il governo di Londra esperimenterà infatti, una volta per sempre, che il padrone del Mediterraneo è il padrone del mondo; e da allora in poi si regolerà in conseguenza.

L'umiliazione dell'Inghilterra, d'altronde, trova qualche compenso nelle incessanti vittorie riportate nel campo commerciale: dal 1700 al 1787, il valore delle sue esportazioni si è quintuplicato nel mondo, e in Italia in particolare si è straordinariamente accresciuto. Allarmate voci italiane, ma piú ancora francesi, si alzano con sempre maggiore frequenza a denunziare il danno gravissimo che alla penisola deriva dal controllo economico inglese; e già molti lamentano che dalla soggezione spagnuola gl'Italiani non si sian liberati che per cadere politicamente in quella dell'Austria, commercialmente dell'Inghilterra. Nuove stazioni commerciali inglesi sono state fondate, infatti, a Messina, a Napoli, a Cagliari, che aggiunte a quelle piú vecchie di Livorno, di Savona, di Nizza, inevitabilmente concorrono a deprimere le poche industrie locali esistenti, a scoraggiare l'impianto di nuove, a spremere con gli alti prezzi una clientela già impoverita. Ond'è che la Francia, svolgendo nella penisola la violenta e tenace sua propaganda anglofoba, non manca d'argomenti per insinuare agl'Italiani che la rinascita politica del loro paese è impedita, oltre tutto, e forse prima di tutto, dalla presenza di questa piovra insaziabile.

Rinascita italiana, e anche indipendenza italiana: parole, concetti e aspirazioni che da una piccola cerchia di gente colta si erano andati negli ultimi tempi diffondendo in una sfera piú ampia di politici, di pubblicisti, di commercianti, di aristocratici, prendendo l'abbrivo dalla cessazione del dominio spagnuolo, favoriti e incoraggiati altresí dalla nuova politica riformatrice audacemente svolta da alcuni principi italiani. Miraggi e speranze cui anche l'azione ormai tutta italiana e volta all'Italia dei re di Sardegna, valeva a conferire slancio e concretezza e quasi un presentimento di effettuabilità; mentre sul fuoco soffiava, come si è detto, la Francia, insofferente della sua esclusione dalla penisola, ben certa che un eventuale rivolgimento antiaustriaco (e in conseguenza anche antiinglese) non avrebbe potuto essere che d'ispirazione e di segno francese e non avrebbe potuto non condurre, sia pure per vie indirette, ad un aumento dell'influenza sua. Notarono, i diplomatici inglesi, questo nuovo fervore italiano, questa diffusa aspettazione di un avvenire diverso e migliore, questi primi accenni a uno spontaneo confluire di volontà principesche e di esigenze dei ceti piú elevati della popolazione italiana? E fino a qual punto seppero tenerne conto nello svolgimento del loro giuoco politico?

Si può dire che quasi non se ne accorsero, e che agli effetti pratici non ne tennero, comunque, il minimo conto. Tutto ciò non era ai loro occhi che vacua retorica o pretesto e artificiosa creazione della propaganda francese. Le riforme principesche erano una cosa, e andavano incoraggiate se non altro perché valevano a radicare nel terreno italiano quelle dinastie di recente importazione, e quindi ad aumentare le garanzie di conservazione dello status quo; un'altra cosa erano i sogni utopistici di una nazione italiana. La caratteristica dei diplomatici inglesi non eran allora, come non fu mai nel seguito, l'antiveggenza, la facoltà cioè, o almeno il desiderio, di anticipare il possibile corso degli avvenimenti futuri coordinando e tentando di interpretare i segni incerti e magari contraddittori del presente. I diplomatici francesi, imaginosi e attivissimi, stavano sempre all'erta, e figurandosi che ogni giorno si presentassero per la Francia superbe occasioni, che bisognava non lasciarsi sfuggire; ogni loro rapporto dall'Italia conteneva quasi sempre, è vero, una versione arbitraria e parziale degli avvenimenti del giorno, ma almeno vi si notava un perenne sforzo di penetrazione e di sintesi dei mille dati d'ogni sorta che cadevano sotto al loro mobilissimo sguardo; continuamente costoro facevano e disfacevano l'Italia, pronti a trarre partito anche dalle circostanze piú avverse. Gli osservatori inglesi non tenevano davvero il Foreign Office in cosiffatta perpetua agitazione, né ambivano punto di esporsi, come i loro colleghi e antagonisti, a essere il piú delle volte smentiti, nelle loro previsioni, dal corso degli avvenimenti: cauti e riservati, ripetevano per lo piú, nei loro rapporti, quello che nelle varie corti si diceva ufficialmente o veniva loro comunicato da personaggi autorevoli; non interrogavano mai il paese, e, se anche si occupavano di letteratura o avevano contatti con gli uomini di scienza, non mescolavano mai le nozioni che da queste letture o incontri potevano loro derivare con la politica o con la diplomazia. E perciò quello che maturava nel sottosuolo italiano e che, pur manifestandosi talvolta per segni anche evidenti, non formava oggetto di comunicazioni e di transazioni ufficiali, generalmente sfuggiva loro, e comunque essi non sapevano apprezzarne l'importanza o il valore di sintomo. Vero si è che intanto, da essi protetti, prosperavano in tutta Italia gli uffici consolari e le agenzie commerciali inglesi.

I documenti provano, insomma, che durante l'intero corso del secolo XVIII, o almeno fino agli ultimissimi anni, l'Inghilterra ufficiale (giacché si vuole qui parlare sempre e soltanto di quella, tralasciando d'indagare i rapporti, tutt'altro che remoti, fra cultura inglese e cultura italiana, e le vivissime simpatie per l'Italia, non solamente artistiche e letterarie, diffuse nel gran mondo inglese) ignorò candidamente l'esistenza di un «problema» italiano: ed è inutile dire che se in qualche caso essa si trovò a dover sancire, o proporre, o combattere rimaneggiamenti in un senso o nell'altro della carta d'Italia, ciò fece non preoccupandosi affatto che questi corrispondessero a un piano conforme agl'ideali dei piú progrediti fra gl'Italiani, ma solo in quanto essi contribuivano a mantenere o a turbare l'equilibrio della penisola, e quello generale mediterraneo, e favorivano o compromettevano il quieto e proficuo svolgersi della attività commerciale britannica.

Un vero problema italiano, in senso nazionale, non si pose del resto all'Inghilterra, come è ben noto, neanche in quei venticinque anni dell'ultimo Settecento e del primo Ottocento, che furono dominati dal gigantesco tentativo della Francia rivoluzionaria e napoleonica di realizzare, specie nel bacino del Mediterraneo, le antiche aspirazioni della distrutta monarchia borbonica. Nel corso di quella lotta, che segna la conclusione di un secolo e mezzo di rivalità franco-inglese, l'Inghilterra, invariabilmente alla testa delle successive coalizioni antifrancesi, e, in Italia, solidale di ogni effettivo o potenziale nemico o vittima della Francia, può anche farsi, come occasionalmente si fa, predicatrice e suscitatrice di idealità «italiane» in contrasto con le imposizioni e le depredazioni francesi, agitando magari anche la bandiera dell'autonomia e della indipendenza nazionale, e promuovendo, nelle regioni italiane libere dalla soggezione francese, ampie riforme progressiste; salvo però a farsi, con altrettanta spregiudicatezza e risolutezza, se e quando ciò possa giovare alla causa suprema, puntello e stimolo di reazione, e a sostenere, di contro alla propaganda rivoluzionaria francese, la necessità e la ineluttabilità di un ritorno, sic et simpliciter, all'ordinamento territoriale sancito nei trattati della prima metà del secolo XVII. Politica dell'opportunismo integrale, giustificata soltanto se la si confronti con quell'unico fine che in realtà si proponeva, e al cui perseguimento ogni altra considerazione doveva subordinarsi: il fine non pure di distruggere la nuova egemonia francese, ma di rendere impossibili per l'avvenire nuovi tentativi in quel senso, sia da parte della Francia che di qualunque altra potenza europea. Nelson a Napoli nel '99, Bentinck in Sicilia nel '12 sembra, , che rappresentino due mentalità diametralmente opposte, due sensibilità, e insomma due epoche: l'ancien régime, e il secolo della religione liberale. Ma nella realtà e l'uno e l'altro, e con loro la folta schiera dei diplomatici e dei militari e degli agenti segreti britannici che percorrono l'Italia in quegli anni, non sono che due momenti di un unico processo dialettico, non hanno di mira che un solo obiettivo al cui raggiungimento, nelle diverse circostanze di tempo e di luogo, piegano con mirabile duttilità (per noi latini ragione di sincera meraviglia e di scandalo) i mezzi in loro potere e il loro linguaggio e le loro ideologie.

Lo studio della politica inglese in Italia dagli anni delle prime campagne napoleoniche alla vigilia del Congresso di Vienna non ha dunque molto valore per la determinazione di quelle che furono nel seguito le sue linee di sviluppo o, diciam pure, le sue costanti. Non è che una grande parentesi entro la quale lo sconvolgimento totale dell'equilibrio mediterraneo fa che l'Inghilterra non veda salvezza, sia nell'ordine politico che in quello economico, se non, come si è detto, nel ritorno allo status quo ante, respingendo, in definitiva, nonostante provvisorie apparenze in contrario, qualunque forma di compromesso. Senonché si deve considerare come la politica economica svolta dalla Francia in Italia, e in particolare la proclamazione del blocco continentale, con l'impoverire la nostra penisola e col sottrarle i benefici tradizionali del commercio inglese, tanto d'importazione che d'esportazione, vengano a porre in mano dell'Inghilterra argomenti eloquentissimi e popolarissimi di propaganda antifrancese, pienamente coincidenti col perseguimento dei suoi propri interessi commerciali. L'Inghilterra, che dalla Sardegna sabauda, dalla Sicilia, da Malta dirige il grande traffico di contrabbando in Italia, è naturalmente e sistematicamente portata a incoraggiarvi ovunque quelle stesse idealità liberali, quelle stesse aspirazioni nazionali o d'indipendenza che i Francesi hanno agitato un decennio innanzi per conquistare la solidarietà o assicurarsi l'acquiescenza degli italiani alla politica di eversione dell'antico ordinamento territoriale e politico. Le parti si sono adesso invertite: e quella assimilazione medesima che piú o meno spontaneamente l'Italia ha fatto in quegli anni dei principî della rivoluzione francese, fa che la propaganda inglese (cui, entro certi limiti di sostanza e di forma, si associa e partecipa il governo di Vienna) trovi un terreno singolarmente preparato ad accoglierla, a farla sua propria, a nutrirsene; e susciti in molti Italiani la speranza e, piú, la persuasione che, una volta abbattuto l'ordinamento francese, saranno proprio quei principî che presiederanno all'instaurazione dell'ordine nuovo. Questo processo di conversione all'Inghilterra di quegli appunto fra gli Italiani che, sul cadere del secolo XVIII, hanno piú entusiasticamente abbracciato le idee nuove venute di Francia, si precisa e si accentua nell'ultimissima fase delle guerre napoleoniche. Nei primi mesi del 1814, in Italia, non si parla che di libertà e di indipendenza. S'intende perciò quanto grave e amara dovesse essere la delusione del ceto pensante italiano di fronte alla fredda realtà del Congresso di Vienna e all'abbandono, anzi al «tradimento», dell'Inghilterra. Ma se in alcuni dei patrioti questa delusione e il disgusto che ne derivò superarono ogni altra impressione e vietarono ogni speranza superstite, generandosi una diffidenza invincibile per la «perfida Albione», in molti altri andò radicandosi invece la consolante opinione che l'Inghilterra medesima fosse stata tradita, e sorpresa la sua buona fede, e che le fosse stato forza piegarsi, suo malgrado, ai superiori interessi della coalizione europea; e che perciò, negli anni avvenire, l'Inghilterra non avrebbe lasciato mezzo intentato per favorire in Italia l'affermazione, lo sviluppo e il trionfo finale delle idealità liberali e nazionali.

Del radicarsi di tali aspettazioni e, per converso, di tali risentimenti, anche la tarda diplomazia inglese non poteva mancare di accorgersi e di farne il suo conto; e in quanto non conveniva in alcun modo scoraggiare una fiducia che era pur sempre «una carta in mano» e che nell'avvenire avrebbe potuto dare i suoi frutti, e in quanto premeva, d'altra parte, anche ai piú modesti fini di una ripresa e di un incremento del traffico commerciale, di dissipare quei risentimenti. In questo senso si può anche dire che l'eredità di quegli anni di crisi europea pesò sugli svolgimenti ulteriori della politica inglese in Italia, e in parte ne influenzò le movenze, e in qualche caso perfino giunse a forzarne il ritmo, il corso e gli obiettivi.

Ma, in tesi generale, se l'Inghilterra si era già affermata nella seconda metà del secolo XVIII come la potenza piú interessata al mantenimento dello status quo mediterraneo, si deve dire che l'esperienza napoleonica valse soltanto a trasformare questa sua esigenza in un inderogabile dogma. La conservazione della pace e dell'ordine, o – come allora si diceva – del «riposo d'Europa», questo è l'unico argomento che ormai potrà spingere il governo inglese alla guerra: che vuol dire che anche in questa occasione il Foreign Office giudicava il nuovo assetto territoriale del continente di sua piena soddisfazione. Nel Mediterraneo, in particolare, il suo prestigio politico aveva infatti raggiunto il vertice della parabola: il possesso di Malta e delle isole Jonie, il controllo cioè anche del bacino orientale di quel mare, non erano in realtà che le due piú vistose pedine venute a rinforzare il suo giuoco. Non meno cospicui erano i vantaggi indiretti che aveva saputo conseguire. E a chi mai, se non in primissimo luogo all'Inghilterra, doveva l'Austria il riacquisto integrale dei suoi possedimenti italiani, con l'aggiunta di Venezia? A chi il Piemonte la sospirata annessione di Genova? E quando mai per l'innanzi aveva il pontefice romano contratto tanto debito di gratitudine ed espressa cosí viva e sincera la sua riconoscenza alla protestante Inghilterra? Chi, se non l'Inghilterra, aveva salvato ai Borboni il trono di Napoli e garantito loro il possesso di quella Sicilia che essi, e non essi soltanto, avevano a piú riprese temuto che l'Inghilterra non avesse difeso se non per riservarne a se stessa il possesso?

Generosa politica, certo; ma insieme, si ripete, pienamente corrispondente agl'interessi inglesi. L'Austria forte, intanto, era un vecchio precetto pel Foreign Office, cui adesso aumentavan valore le preoccupazioni vivissime che a Londra cominciava a destare la politica russa. Giacché se da tempo ormai la Russia si volgeva all'Europa, non mai come negli ultimi anni essa aveva portato il suo gran peso nelle vicende continentali, non mai mirato cosí visibilmente agli Stretti. Non era l'Austria il naturale baluardo antirusso e non assicuravano le secolari sue aspirazioni balcaniche quella rivalità fra le due potenze che all'Inghilterra, sollecita di una libera via per l'Oriente, stava massimamente a cuore?

Altro punto obbligato della politica inglese restava l'ingrandimento sabaudo. Non già che la condotta del governo di Torino, in qualche caso troppo palesemente opportunistica, fosse sempre stata tale, anche durante l'ultima crisi, da meritare la riconoscenza dell'Inghilterra; ma le stesse ricorrenti debolezze sabaude per il vicino francese non additavano forse la gravità del rischio che si correva lasciando a guardia delle Alpi un portiere male in gambe? Il caso di Cherasco non era stato una lezione per tutti? Ond'è che l'Inghilterra aveva perfino caldeggiato, durante le conferenze di Vienna, l'annessione della Lombardia al Piemonte, previo compenso all'Austria in Italia o, meglio, fuori d'Italia, e alla Francia, eventualmente, in Savoia. Questa combinazione si era rivelata impossibile, ma l'annessione di Genova era stata operata proprio con questo fine, nonostante le proteste della repubblica, che dopo cinquant'anni pagava il fio d'aver venduto alla Francia la Corsica, quella Corsica ond'era uscito Napoleone: l'annessione di Genova al Piemonte assicurava d'altronde alla flotta inglese, in caso di guerra, un rifugio sicuro, nel contempo sottraendo alla Francia la piú efficiente e pericolosa sua base di appoggio nella penisola; in tempo di pace, poi, il porto di Genova in mani amiche non solamente equivaleva al controllo commerciale della intera vallata del Po, ma costituiva un eccellente punto di partenza per un piú razionale e integrale sfruttamento dei mercati svizzeri e tedeschi.

Quanto agli Stati della Chiesa, non era soltanto la spina irlandese che aveva spinto il Foreign Office a propiziarsi in ogni senso il Vaticano, appoggiandone le rivendicazioni territoriali: il problema cattolico a Malta ed in altre colonie costituiva infatti un potente incentivo all'adozione di quella stessa politica; non mai si era stati tanto vicini ad un ristabilimento delle normali relazioni diplomatiche fra Londra e Roma, interrotte ab antiquo.

E finalmente, che gl'interessi inglesi imponessero, piú che non consigliassero, la restaurazione borbonica sul trono di Napoli, resulta evidente a chi rifletta ai lauti proventi che l'Inghilterra aveva cavati dal mezzogiorno d'Italia fino da quando vi si era stabilita la dinastia borbonica. Subito dopo la restaurazione, che aveva fatto del residente inglese il padrone di Napoli, non venne firmato, del resto, fra i due governi, un accordo commerciale cosí apertamente parziale per l'Inghilterra che non a torto i migliori napoletani ravvisarono in esso, nel seguito, una delle cause precipue del deficiente progresso economico del loro paese? Quanto alla Sicilia, non c'era via di scelta: questa isola, sotto l'aspetto commerciale, si era trasformata ormai in una mezza dipendenza inglese; le principali aziende, commerciali, minerarie e industriali, due su tre erano inglesi; ma inglese, sotto il rapporto politico, l'isola non avrebbe potuto essere. Di chi dunque? Indipendente, no: ché, nella sua debolezza, avrebbe esercitato un'eccessiva attrazione sugli appetiti francesi, fors'anche russi, e comunque troppo facile esca avrebbe fornito ad un conflitto fra le potenze marittime. E se doveva andare annessa a qualche minore potenza, non era meglio ridarla ai Borboni cui dopo tutto si era mantenuta fedele e che per la sua vicinanza grandissima ai loro dominî di terraferma l'avrebbero piú facilmente potuta difendere?

 

Dal 1815 ai primi mesi del 1859, l'Inghilterra, dunque, consacra ogni sua energia alla salvaguardia dello status quo territoriale italiano, di continuo turbato e minacciato da una serie di fattori interni ed esterni. Interni, l'inquietudine crescente degli strati socialmente piú elevati della popolazione italiana, tra i quali sempre piú si diffonde, dopo l'esperienza francese, l'intolleranza degli anacronistici regimi dispotici e della diretta o indiretta dominazione straniera; il malcontento del ceto commerciante per le divisioni della penisola che, concretandosi in varietà di leggi e di regolamenti, in pluralità di barriere doganali e di sistemi monetari, in molteplicità d'intoppi alla circolazione, si risolvono in un gravissimo danno alla loro attività e alle loro iniziative; e finalmente le gelosie fra i principi italiani, o aventi dominio in Italia, travagliati pressoché tutti da smanie d'accrescimento. Fattori esterni, per non citarne che due, operanti negli anni immediatamente successivi al Congresso di Vienna, la sollecita ripresa della politica francese mirante a sostituire la propria influenza a quella dell'Austria presso le varie corti italiane e, in caso d'insuccesso, a screditare nella popolazione i regimi esistenti; e la piú che dubbia attività liberale e costituzionale svolta dagli agenti politici russi: ai quali due fattori ben presto si aggiungeranno gli errori compiuti dall'Austria nell'amministrazione dei suoi possessi italiani.

Gli sforzi dell'Inghilterra per neutralizzare l'azione sovvertitrice di questi diversi elementi si esercitano naturalmente in piú direzioni e variano d'intensità a seconda delle mutevoli esigenze della politica inglese su altri scacchieri, ed altresí a seconda dei programmi politici dei vari gabinetti che si succedono a Londra; ma seguono pur sempre alcune direttive essenziali. Per sopire l'irrequietezza dei ceti colti italiani (tra i quali è pure frequente il richiamo all'esempio politico inglese, invocandosi in particolare il precedente della costituzione siciliana del '12, modellata su quella britannica, garantita agl'isolani da un rappresentante del governo di Londra e poi abrogata con l'aperto assenso del costui successore), il Foreign Office si fa, a Vienna, a Torino, a Firenze, a Roma, a Napoli, consigliere instancabile di progressive e caute riforme amministrative e politiche, che mentre valgano ad esaudire i voti piú ragionevoli della parte migliore della cittadinanza, mirino ad occupare, e quindi a sottrarre al facile e pericoloso esercizio della critica, quelle energie nuove che il periodo francese ha rivelato e messo in valore. Per contentare i ceti commercianti (le cui lagnanze trovano eco nei rapporti dei suoi consoli e nelle sempre piú vivaci rimostranze della colonia inglese in Italia) il governo di Londra, quale che possa essere l'esempio contrario che esso offre con la sua propria legislazione, fa continue, energiche pressioni perché gli Stati italiani, attenuino la politica protezionistica ovunque instaurata dopo la crisi europea, e magari provvedano a stringere fra di loro intese commerciali (ciò che, fra parentesi, assai gioverebbe allo sviluppo dei traffici inglesi...) Negli ambienti del Foreign Office, nel contempo, comincia ad acquistare qualche credito una corrente secondo la quale l'Inghilterra dovrebbe prepararsi a favorire, in un piú o meno lontano avvenire, e unicamente per via di negoziati pacifici, una semplificazione della carta d'Italia basata sull'assorbimento, da parte degli Stati piú forti, delle piccole formazioni del centro della penisola e ancora, e in primo luogo, sulla dilatazione piemontese in Lombardia: rimuovere insomma dall'edificio, per salvarne la stabilità, le parti piú evidentemente caduche.

Quanto agli attriti e alle gelosie fra i principi italiani, l'Inghilterra si presenta quasi costantemente in veste di mediatrice e di promotrice di accordi; amica dell'Austria, ma diffidente essa stessa di certa sua politica invadente, agisce energicamente su Vienna in senso moderatore, e anzi, ogniqualvolta se ne presenti il destro, non manca di prepararla al sacrificio, sempre piú opportuno e un o l'altro indispensabile, di una porzione dei suoi dominî italiani; a Firenze si studia di eccitare lo spirito di indipendenza; di Parma e Lucca non ha quasi mai ragione di occuparsi; con Modena, antesignana della politica reazionaria, finirà col rompere affatto. A Torino, generalmente antiaustriaca, e anzi freneticamente tale, prende le difese dell'Austria; salvo a riesumare e svolgere essa stessa le tradizionali cause di attrito fra i due paesi, nei rari casi in cui Torino inclini ad eccessiva intimità con l'Austria. A Roma e a Napoli, nei cui confronti non tarda ad adottare un'attitudine visibilmente scettica quanto ai sistemi di governo che vi prevalgono e alla possibilità di promuoverne l'evoluzione, combatte di volta in volta il prevalere d'influenze straniere esclusive o tendenti all'esclusività.

Restano, una volta rimosse le vaghe inquietudini per le non chiare tendenze della politica russa in Italia (ciò che si verifica tra il 1819 e il 1820), le preoccupazioni costanti per la politica francese: alle quali il Foreign Office reagisce secondo le direttive tradizionali, seppure il suo giuoco si faccia piú scaltro e affinato. In questo senso non sarebbe forse avventato considerare come un successo, e quasi un capolavoro della diplomazia inglese, la spedizione francese di Ancona nel '32. Sul momento, invero, ben pochi intuirono quale interesse potesse mai spingere il Foreign Office a lasciar siffattamente mano libera alla Francia: non era un canone della politica inglese quello di non consentire in alcun caso un insediamento francese in Italia? Ci si attese a uno sbarco inglese a Civitavecchia, si fantasticò di un preteso piano rivoluzionario franco-inglese. Non fu che parecchio tempo piú tardi che i piú si resero conto dei riposti motivi di quella strana e inusata passività inglese: quando cioè poterono considerare la profonda impopolarità che da quella spedizione era derivata alla monarchia di luglio in Italia, ed anzi alla vera e propria distruzione del «mito» francese che essa aveva operato fra noi. Entro certi limiti, si potrebbe dire altrettanto per la seconda spedizione francese negli Stati romani, nel '49, sebbene opposto in apparenza ne fosse l'oggetto. Ché se ci si obiettasse che in realtà il merito del finale insuccesso francese (se merito fu) risale piuttosto, nell'uno e nell'altro caso, al ministero degli esteri austriaco, risponderemo che, a parte la conservazione dello status quo italiano, che ne usciva profondamente turbato, quelle due spedizioni, attraverso l'occupazione di due vitali punti strategici nell'Adriatico e nel Tirreno, venivano a modificare altresí l'intero equilibrio mediterraneo: un fatto, questo, relativamente al quale l'Inghilterra non poteva certo contentarsi dei sottili affidamenti dell'Austria, potenza quasi esclusivamente terrestre, ma le bisognava regolarsi da sé, consultando soltanto i suoi propri interessi. Il caso del 1859, del resto, può prestarsi, come vedremo, ad analoghe considerazioni.

Insomma, è pur sempre il timore di una durevole espansione della Francia in Italia, o anche soltanto di un considerevole aumento della sua influenza fra noi, che, unitamente alla non mai trascurata considerazione dei suoi interessi commerciali, ci la chiave della politica inglese nella penisola, dal 1815 in poi. Le conferme, o le prove, non mancano, e sono nella mente di ognuno. Crisi del 1820-1821: l'Inghilterra, seppure non si assenti del tutto dalla trattazione degli affari italiani, ed anzi si esprima e si muova, in quella occasione, secondo schemi suoi propri, sforzandosi di pacificare l'Italia mercé misure di conciliazione soltanto, ed enunciando la tesi del non intervento, dopo tutto lascia mano libera all'Austria. Perché? Perché l'assiste la sicurezza che la Francia non si muoverà; perché di fronte agli Stati italiani in subbuglio non si erge che l'Austria. I suoi interventi effettivi, risoluti e diretti, l'Inghilterra li riserba per quando si profili il pericolo di una complicazione francese. 1830: rivoluzione di luglio: minaccia grave, nei mesi seguenti, di una discesa francese contro gli austro-sabaudi sul Po; il Foreign Office agisce prontamente ed energicamente a Parigi, a Vienna, a Torino, e ad esso si deve, o massimamente si deve, se la pace d'Europa è salvata. 1831-32: crisi romana: l'Inghilterra, dopo aver lasciato impegnare la Francia, non esita a varcare ufficialmente la soglia del Vaticano e si fa centro di un'azione diplomatica volta alla trasformazione del governo papale; comunque, contribuisce efficacemente a risolvere per vie pacifiche la pericolosa vertenza austro-franco-romana. 1838: il re delle Due Sicilie, che dopo tutto è il sovrano assoluto di uno Stato indipendente, si attenta a cedere ad una compagnia francese il monopolio degli zolfi: l'Inghilterra immediatamente protesta, fa la voce grossa, e tra lo stupore del mondo non s'acquieta fin tanto che il pericolo della prevalenza economica della Francia in Sicilia non sia eliminato del tutto. 1840: crisi europea determinata dalle complicazioni orientali: l'Inghilterra dimentica affatto le non lievi cagioni di attrito che nei quattro o cinque anni precedenti hanno intorbidato le sue relazioni col Piemonte, e per assicurare l'attiva cooperazione (o almeno la benevola neutralità armata) di questo Stato alla sua politica di accerchiamento e d'immobilizzazione della Francia, protettrice di Mehemet Alí, gli fa, in pieno accordo con l'Austria, profferte e promesse, né solamente di garanzia territoriale; nel contempo, timorosa dell'intimità franco-napoletana, rivelata dalla questione degli zolfi e, piú, dall'ufficiale mediazione della Francia nella disputa anglo-napoletana, tenta un ravvicinamento col governo delle Due Sicilie, mentre dichiara all'Austria che essa stessa si assume il mantenimento dello status quo e dell'ordine in Italia.

Gli avvenimenti del '46-47 offrono all'Inghilterra un'occasione mirabile per perseguire questo suo giuoco politico e insieme per raccogliere in Italia amplissima popolarità, facendo dimenticare agl'italiani decenni d'indifferenza per le loro aspirazioni nazionali. Cobden, lord Minto: l'occasione è eccezionale perché tali aspirazioni si presentano, allora, in contrasto non pure con l'Austria (la quale, stringendosi con la Russia e con la Francia, tradisce la funzione assegnatale dall'Inghilterra), ma altresí con la Francia, in eclissi conservatrice. L'Inghilterra appare, e in qualche misura è davvero, l'arbitra della penisola. Gli evviva all'Inghilterra non sono che un sinonimo degli evviva all'Italia degl'Italiani; da Torino a Napoli si moltiplicano e s'inseguono le riforme principesche tenute a battesimo dai diplomatici inglesi; questi riparano in fretta alla ottusità dimostrata dai loro predecessori o da essi stessi negli anni della vigilia, uscendo fuor dal chiuso delle corti e dei ministeri e allacciando relazioni con uomini nuovi, che, pur non coprendo posti ufficiali, esercitano da tempo un'indiscussa autorità morale sui loro concittadini, e sono adesso alla testa dei vari partiti; e già il Foreign Office ritiene che sia giunto il momento opportuno per negoziare una revisione dell'assetto italiano in base ai suoi vecchi disegni, e già s'adopra a quell'uopo, quando – febbraio 1848scoppia la rivoluzione a Parigi, con le conseguenze che tutti sanno: automaticamente la Francia si pone e s'impone come la protettrice naturale d'ogni movimento progressista nella penisola, automaticamente essa riprende in Italia le posizioni perdute. L'Inghilterra, assalita dal dubbio di avere negli ultimi due anni lavorato, in realtà, a pro della sua grande antagonista, fa precipitosamente (e con l'usata disinvoltura) macchina indietro, si riaccosta all'Austria, tende tutte le sue energie all'intento di sopire l'effervescenza italiana. Scoppiata poco dopo, e a suo dispetto, la guerra austro-sarda, sua mira suprema sarà quella d'impedire un intervento francese: ed anche per questo, seppure invano, essa si sforzerà di far comprendere all'Austria la convenienza di una sollecita cessione della Lombardia al Piemonte, indipendentemente dalle sorti del conflitto. Mediazione inglese, armistizio. Nel '49, riaccesasi, contro gli amichevoli e insistenti suoi consigli a Torino, la guerra, il Foreign Office, sia perché tien fermo alla direttiva d'un Piemonte efficiente, sia perché nutre sempre il timore di un possibile intervento francese, s'adopra a Vienna per far rispettare la linea del Ticino. La crisi è finalmente superata: l'Inghilterra del marzo '49 non è certo sulla linea del '47, delle prime settimane del '48; la sua popolarità effimera è naturalmente svanita del tutto; eppure essa non sente di aver perduto la partita. Il mancato intervento nel nord della penisola di una Francia tornata alle tradizioni rivoluzionarie è quel che le basta; né, come già si è osservato, le duole o le nuoce che la seconda repubblica vada a spegnere a Roma la face della libertà.

Ma veniamo alla crisi risolutiva. Il programma di Plombières non contraddirebbe nella sostanza alle note vedute inglesi sul problema italiano, se – a parte la prevista cessione di due provincie italiane alla Francia – esso non contemplasse il possibile insediamento di dinastie francesi o devote alla Francia, a Firenze e a Napoli; piú ancora se non implicasse la guerra. Di fronte alla guerra, e alla guerra francese, il Foreign Office punta i piedi: tanto piú che il terzo Napoleone si è assicurato il preventivo consentimento russo. Non mai come in quei primi mesi del '59 la causa italiana ebbe cosí cattiva stampa in Inghilterra, governo tory e opposizione whig. È forse la caduta del ministero conservatore, l'avvento del binomio Palmerston-Russel che rovescia questa presa di posizione? Neanche per idea: l'Inghilterra inverte la rotta non appena si avvede che la guerra sul Po, con le complicazioni che suscita nell'Italia centrale, promette di liquidare, nella penisola, la Francia, ricattata dalla Prussia e profondamente agitata, nell'interno, della rivolta dei conservatori cattolici. Villafranca non è davvero un successo inglese, ma innegabilmente lo è lo sfruttamento che di Villafranca l'Inghilterra conduce con abilità consumata e una duttilità che si riallaccia alle migliori sue tradizioni politiche. Ora che il programma revisionista inglese, seppure dilatato al di di ogni previsione, si attua a dovere: e cioè a tutte spese della Francia. Né importa se l'Austria esce da quella guerra mutilata: da tempo il Foreign Office è andato avvertendola, infatti, che la potatura di un ramo gioverà a rinforzare il suo stracco organismo; da tempo essa anticipa il vantaggio che all'Inghilterra deriverà dalla conseguente maggiore efficienza dell'Austria nel settore balcanico. Se nell'Italia centrale le restaurazioni restano un pio desiderio, questo è in gran parte merito inglese; come merito inglese è la spinta alle annessioni, sbaragliamento definitivo di effettivi o supposti piani di Napoleone in vista di sostituire al granduca un suo luogotenente. Gl'Italiani sanno di dovere agli amici inglesi se quel promettente principio dell'opera di riconquista della loro indipendenza e, ormai, della loro unità nazionale, ha potuto attuarsi senza provocare ritorni offensivi dell'eterno nemico e fors'anche dell'alleato di ieri.

Quanto agli avvenimenti del 1860, essi, certo, colsero di sorpresa il Foreign Office, come del resto anche la Francia e tutte le cancellerie europee. Francia e Inghilterra da tempo si trovavano con Napoli in relazioni assai tese; senonché, mentre questa non ad altro mirava che ad una radicale riforma in senso costituzionale del governo borbonico, quella (come si è già ricordato) era sospettata di spiare e possibilmente anticipare la decadenza della dinastia borbonica per soppiantarla con un ramo collaterale della sua casa regnante. Ond'è che, allo scoppiar della crisi, il Foreign Office, già indignatissimo per la pattuita cessione alla Francia di Nizza e della Savoia, si adombrò soprattutto per il timore di nuovi intrighi francesi. Di poi, assicurato che non un palmo di territorio nazionale sarebbe stato d'ora innanzi barattato o ceduto, non solamente si acconciò all'occupazione della Sicilia, ma lasciando via libera, di contro alle vedute e alle proposte francesi, al passaggio dei volontari da quell'isola sul continente, si fece apertamente solidale dell'estremo colpo inferto ai Borboni. Di qui, nella stessa Inghilterra, ed anzi in altissimo luogo, dubbi e scrupoli e rimbrotti al ministero: d'altronde ben presto caduti. E infatti la diplomazia inglese aveva offerto in quella congiuntura una luminosa conferma delle proprie capacità: che non consistevano proprio, ripetiamolo ancora, nella fertilità delle iniziative e nell'acutezza delle previsioni, ma per l'appunto nel sapersi rapidamente acconciare all'inevitabile, ricavando tutto il vantaggio possibile da esso, come, e piú, dai fatti compiuti. Tardi, ma sempre in tempo, il governo di Londra aveva dunque percepito come la costituzione di un nuovo Stato unitario nel Mediterraneo (costituzione che, per parte sua, esso non aveva mai auspicatoritenuto possibile) non solamente non avrebbe leso i suoi permanenti interessi, ma anzi, e per il modo e per le circostanze medesime attraverso le quali si andava verificando, e per la speciale situazione diplomatica che ne veniva a determinarsi in Europa, e per le inderogabili esigenze del nuovo Stato, li avrebbe singolarmente favoriti, aumentando, di conseguenza, la sua influenza nel Mediterraneo; e come, per contro, il perdurare di una causa permanente di disordine e d'inquietudine nel mezzogiorno d'Italia avrebbe finito per offrire alla Francia l'occasione e il pretesto non solamente per esercitare a Napoli un'influenza forse esclusiva, ma piú vastamente, per sostituirsi all'Austria nel controllo di un'Italia divisa, e, verosimilmente, discorde.

Quanto all'orientamento politico del nuovo Stato unitario, dati evidenti permettevano di presumere che, almeno in una prima fase, esso non avrebbe potuto appoggiarsi né su Parigi né su Vienna. Finché la Venezia ed altre province incontestabilmente italiane restavano in mano dell'Austria, il pericolo di una eccessiva intimità italo-austriaca non era neanche da prendersi in considerazione; la virulenza del problema romano e la stessa difficoltà di comporlo valevano d'altronde ad accertare che, ove pure non avessero agito in quel senso altri e piú gravi e permanenti motivi, il fatale compimento ultimo del programma unitario si sarebbe ormai svolto contro la Francia. Ma poi: quali interessi avrebbero potuto anche nel seguito legare siffattamente Italia e Francia da costituire una seria minaccia alle posizioni inglesi nel Mediterraneo? La Corsica e Nizza in mani francesi rivestivano in questo senso, agli occhi inglesi, lo stesso valore che la Venezia o il Trentino in mani austriache; la spartizione, già iniziata, delle coste dell'Africa settentrionale avrebbe inevitabilmente formato oggetto di controversie non lievi tra Francia e Italia, specie dopo che il taglio dell'istmo di Suez, avviato nel '59, avesse restituito al Mediterraneo gran parte della perduta importanza; anche l'inevitabile concorrenza in Levante avrebbe messo di fronte Francia e Italia. La Francia aveva ben piú vasti interessi nel mondo che non l'Italia, né solo sul Mediterraneo gravitava la sua potenza; ma l'Italia, dovunque avesse scorto interessi suoi da tutelare, dovunque avesse fermato lo sguardo, avrebbe fatalmente incontrato la «sorella latina» sul suo cammino. A chi dunque si sarebbe rivolta per tutelare la sua sicurezza e per essere assistita nello svolgimento di un programma di modesta, graduale espansione? I politici inglesi capivano perfettamente che, tra la Francia e l'Austria, la nuova potenza non avrebbe potuto appoggiarsi che all'amica Inghilterra; e caso mai, per parte di terra, alla Prussia, allora in pieno cammino ascensionale; capivano altresí che, posto l'immenso e indifeso e in parte indifendibile suo sviluppo costiero, l'Italia sarebbe stata costretta, in caso di guerra generale, o addirittura a schierarsi dalla parte della potenza piú forte per mare o almeno ad impegnarsi nei suoi confronti ad una benevola neutralità. Insomma, l'Italia sabauda, nel piú complesso giuoco europeo della fine del secolo XIX, era dall'Inghilterra destinata a calcare, volente o nolente, le orme tradizionali dell'antico Piemonte; senonché ben altro avrebbe potuto essere, all'occorrenza, l'apporto del nuovo Stato, in paragone dei servizi necessariamente modesti resi nei secoli da quello che n'era stato il nucleo originario; come ben altra s'annunziava la stabilità del suo giuoco politico.

Del resto la nuova Italia, mancante di materie prime, poverissima di capitali, sprovvista di un'adeguata marina da guerra e mercantile, bisognosa di farsi al piú presto una sua attrezzatura industriale e di dare incremento alla sua produzione agricola, e di ottenere perciò vasto credito, se non altro per dare lavoro all'esuberante sua popolazione, questa Italia senza dubbio si sarebbe dimostrata una preziosa cliente dell'Inghilterra; e anche questa era una considerazione non priva d'importanza per i politici inglesi.

Gli avvenimenti degli ultimi decenni del secolo XIX, e quelli dei primordi di questo nostro, attestano che il Foreign Office, pur (concludendo) assai poco benemerito della unificazione italiana nel periodo della sua penosa maturazione, non si era sbagliato quando, all'ultimo, le aveva impresso la spinta definitiva. Spetta ai politici odierni e agli storici di domani di valutare fino a qual punto le vitali necessità dell'Italia grande potenza, in un'Europa profondamente sconvolta dalla crisi del '14-18, e nella quale tutti i problemi di equilibrio sono rimessi in questione dall'avvenuta rivoluzione nelle armi e nei mezzi di trasporto, possano ulteriormente coordinarsi con gl'interessi essenziali dell'impero britannico.






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1 L'autore di questo articolo sta per pubblicare in volume la prima parte di un suo studio, compiuto nel periodo del suo alunnato alla Scuola di Storia Moderna in Roma, condotto su documenti degli archivi di Londra, Torino, Firenze e Napoli, intorno alla politica svolta dall'Inghilterra in Italia fra il 1815 e il 1847 [Inghilterra e regno di Sardegna dal 1815 al 1847, a cura di P. Treves, Torino 1954]. In questi rapidissimi appunti egli ha inteso di prospettare storicamente il problema dei rapporti Italia-Inghilterra quale si pone fino dal secolo XVII e di chiarire, della politica inglese, le premesse fondamentali e taluni sviluppi piú caratteristici fino alla crisi risolutiva dell'unità italiana. Sia qui detto che la Scuola di Storia Moderna ha cercato, fin dal suo nascere (anno 1926) di promuovere lo studio della storia d'Italia nel piú ampio quadro della storia europea [L'articolo comparve nella «Rivista storica italiana», 1936].





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