Il problema mediterraneo comincia a
presentarsi all'Inghilterra fino dal principio del secolo XVI, fino
da quando cioè essa pone le basi della sua potenza marittima e
allaccia i primi rapporti commerciali con gli scali dell'Europa
meridionale. Nella seconda metà di quel secolo, dominata dal
conflitto anglo-spagnuolo che si risolve nel suo trionfo,
l'Inghilterra vede questi suoi traffici nel bacino mediterraneo
intensificarsi con ritmo costante. Durante il secolo XVII essa
afferma con ripetute spedizioni navali il suo diritto e il suo
interesse a prender parte alle lotte che si combattono fra Spagna,
Francia, Olanda e Stati minori, per la supremazia o almeno per
l'equilibrio nel Mediterraneo. Ma non è che nel secolo XVIII
che, insediatasi dapprima a Gibilterra, indi a Minorca, l'Inghilterra
diventa vera e propria potenza mediterranea, avviandosi rapidamente
al deciso predominio in quel mare, che le permetterà di
stroncare, sui primi del secolo successivo, il piano francese, e
quindi innanzi di dominarvi, se non incontrastata, vittoriosa sempre.
L'Italia, per la sua posizione
geografica e per la sua struttura, è in qualche modo il perno
della politica mediterranea: fino dalla seconda metà del
secolo XVI, dunque, l'Inghilterra guarda con interesse a questo
paese, nel quale non ha (e non avrà mai) dirette aspirazioni
territoriali, ma che considera, oltreché un ricco mercato di
assorbimento per i suoi manufatti e in genere per le sue importazioni
da altre parti del mondo, il piú idoneo pontile di sbarco per
la diffusione delle sue merci in tutta l'Europa centro-meridionale. I
migliori affari, in questo periodo, essa li conclude in particolare
con i minori Stati della penisola, Toscana, Venezia, Piemonte, i
quali, tutti circondati e stretti dall'Italia spagnuola, concedono
senza troppe difficoltà le piú ampie facilitazioni
commerciali pur di attirare o di riattirare nei loro porti le grandi
correnti sviate del traffico. Colonie di mercanti inglesi si
stabiliscono con profitto a Livorno e a Nizza. Ma è con lo
Stato sabaudo che le relazioni si annodano specialmente cordiali:
alle ragioni economiche che fanno di Nizza, in concorrenza con
Genova, dapprima irretita nel giuoco spagnuolo, poi in quello
francese, lo scalo migliore per i mercati dell'Italia settentrionale,
verrà ben presto ad aggiungersi, infatti, l'interesse
politico, che all'Inghilterra consiglierà di tenersi amico in
ogni occasione il portiere delle Alpi, facendogli balenare la
possibilità di lauti compensi territoriali, qualora tenga ben
chiusa la porta ai Francesi.
Cosí per tutto il Seicento. La
penetrazione pacifica dell'Inghilterra si svolge con crescente
successo: l'Italia viene progressivamente inondata di prodotti
inglesi; tra non molto si dirà con ragione che l'Inghilterra
vi esercita un vero e proprio monopolio commerciale.
Via via che si accrescono i suoi
interessi nel Mediterraneo e si consolida la sua potenza,
l'Inghilterra sarebbe naturalmente indotta a desiderare, e quindi a
favorire, un ordinamento italiano che escludesse il controllo
assoluto della penisola da parte di uno o dell'altro dei grandi Stati
mediterranei. Le ambizioni della Francia la obbligano invece a farsi
conservatrice dello status quo: tra la Spagna, la cui potenza volge
visibilmente al declino, e che comunque ha dovuto piegare dinanzi
alla superiorità marittima inglese, e la Francia, forte come
non mai, ed ora nuovamente mirante all'egemonia europea,
l'Inghilterra non può infatti esitare a preferire la prima;
tanto piú che, mentre questa non si oppone in sostanza alla
sua penetrazione commerciale nella penisola, la Francia, che verso la
fine del secolo XVII comincia a ravvisare appunto nell'Inghilterra il
principale ostacolo alle sue mire espansionistiche, non mancherebbe
certo, una volta padrona d'Italia o di una parte d'Italia, di
chiudergliene le porte.
Ma la situazione si complica
inaspettatamente non appena alla tradizionale rivalità
franco-ispana accenna a sostituirsi (con Luigi XIV) un accordo fra
quelle due potenze, tendenti ad assicurarsi l'assoluto controllo del
Mediterraneo. Di questo pericolo l'Inghilterra, che non possiede
ancora una sua base in quel mare, e che vitali necessità
extramediterranee costringerebbero comunque a misurarsi con la
Francia, si rende conto senza indugio e immediatamente si dispone a
reagire. Ancora piú gravemente colpito, perché
compresso e minacciato di schiacciamento ai due fianchi, si sente il
duca di Savoia: gl'interessi inglesi e sabaudi, per quanto in sfere
di ben diversa ampiezza, coincidono dunque perfettamente. Siamo al
tempo delle prime coalizioni antifrancesi, sul cadere del secolo
XVII, nelle quali Inghilterra e Savoia militano appunto nel medesimo
campo.
Apertasi, poi, con la successione al
trono di Spagna, la questione del possesso d'Italia, l'Inghilterra,
conformemente al suo vecchio programma, propenderebbe a spartire quei
dominî, ad esclusione sia dei Borboni che degli Absburgo, fra
principi minori italiani o forestieri, in primo luogo i Savoia;
senonché, piuttosto che vedervi insediato Luigi XIV o una sua
longa manus, essa preferirebbe pur sempre che il regno di Napoli, la
Lombardia, la Sardegna cadessero tutti in mano dell'Austria, con la
quale non ha interessi in contrasto e che, soprattutto, non è
e non aspira a diventare potenza marittima: tanto piú che
anche in questo caso sarebbe possibile profittare del rimaneggiamento
per assicurare allo Stato sabaudo un ingrandimento atto a conferirgli
maggiore efficienza nella essenziale sua funzione di antemurale alla
Francia. Con questo programma l'Inghilterra prende parte alla guerra.
Non è in giuoco soltanto la posta italiana, né si
combatte unicamente sul Po: eppure fino da allora, chi ben guardi, si
delinea, rispetto all'Italia, quel giuoco d'influenze
austro-franco-inglesi che poi si protrarrà in pieno secolo
XIX, quel giuoco d'influenze del quale, dopo ripetute, dolorose
esperienze, gl'Italiani, una volta maturi a risolvere in senso
autonomo e unitario il loro problema nazionale, finiranno per
profittare. La pace di Utrecht consacra il pieno trionfo della tesi
inglese: l'Inghilterra, infatti, a parte i vantaggi diretti che
ottiene, sia nel Mediterraneo (Gibilterra e Minorca), sia nell'Europa
nord-occidentale, vede l'Austria subentrare alla Spagna in tutti i
suoi possessi italiani, salvo la Sicilia (poi tramutata con la
Sardegna) assegnata all'alleato sabaudo. La Francia resta fuori
d'Italia: la quale esclusione costituisce ormai, per il gabinetto di
Londra, una delle garanzie fondamentali per la pace d'Europa. Anche
il successivo trattato di Vienna, per quanto concluso in assenza e,
apparentemente, a scapito dell'Inghilterra, obbedisce in sostanza a
questa direttiva suprema: giacché l'innegabile vantaggio che
potrebbe pur derivare alla Francia dall'avvenuto insediamento sul
trono di Napoli di un rampollo borbonico è ampiamente
controbilanciato dal passaggio della Toscana, con i Lorena, sotto
l'immediata influenza dell'Austria, e, ancora una volta, da notevoli
concessioni territoriali fatte al Piemonte.
Il governo di Londra è ormai
definitivamente interessato al mantenimento dello status quo nella
penisola: l'ordinamento del 1738, infatti, non gli conviene soltanto
sotto il rapporto politico, ma anche sotto il rapporto commerciale,
in quanto né l'Austria in Lombardia, né il Borbone di
Napoli, né, tanto meno, gli altri Stati italiani possono
rappresentare per l'Inghilterra dei concorrenti temibili. Austria e
Borbone, anzi, prendendo possesso dei rispettivi dominî, che
trovano dissanguati dalla secolare occupazione spagnuola, non
solamente necessitano delle forniture inglesi, ma, come il Piemonte,
trovano il loro vantaggio nel favorire, in via di massima,
l'espansione economica di quell'unica potenza mediterranea che ha
tutto l'interesse di garantirli reciprocamente nel pacifico possesso
dei loro territori. Ogniqualvolta dunque si presenterà una
crisi mediterranea minacciante lo status quo italiano, la politica
dell'Inghilterra sarà quella di stringere i propri rapporti
con l'Austria da un verso, col regno di Sardegna dall'altro, in modo
da opporre una resistenza efficace all'ingresso nella penisola di
altre forze straniere. Questa politica presuppone naturalmente
l'esistenza di rapporti, se non proprio di amicizia, almeno di
normale collaborazione tra Austria e Sardegna (cosa non sempre facile
ad ottenersi, ché a Torino non si può non guardare con
gelosia e anche con diffidenza a chi detenga la Lombardia); come
altresí presuppone – e questa condizione si verificherà
quasi costantemente, ma non senza clamorose eccezioni –
opposizione d'interessi e quindi tensione di rapporti tra Francia ed
Austria. Se l'Austria, d'altronde, profittando della stragrande
superiorità di forze, attenterà all'indipendenza degli
altri potentati italiani, l'Inghilterra avrà buon giuoco, per
contrastare queste sue mire, sia ricattandola con lo spettro di un
possibile intervento francese, sia favorendo i perpetui disegni
d'ingrandimento del Piemonte, sia finalmente incoraggiando i
risentimenti antiaustriaci, che alla metà del secolo, come
ognun sa, già cominciano a serpeggiare fra gl'Italiani.
Questo meccanismo appare in piena
funzione fin dalla guerra di successione d'Austria: la guerra, si sa,
sconvolge profondamente la carta d'Italia, ma nella pace del 1748,
mentre l'Austria, sotto gli auspici inglesi, vien reintegrata in
quasi tutte le sue posizioni italiane e la Sardegna compie un nuovo
passo innanzi verso il Ticino, la Francia continua pur sempre ad
essere esclusa d'Italia.
Negli anni successivi, gigantesco
sforzo del sistema franco-spagnuolo per escludere dal Mediterraneo la
grande, la sempre piú minacciosa competitrice: l'inaudito
rovesciamento delle alleanze (Francia ed Austria e poi Spagna e
Russia e Svezia contro Prussia e Inghilterra) fa sí che
l'Inghilterra, paralizzata nel Mediterraneo, veda completamente
annullata la sua influenza in Italia; ma ancora una volta la pace (di
Parigi) ristabilisce nel Mediterraneo la situazione antecedente alla
guerra, e ancora una volta chi paga le spese è la Francia.
Solo la crisi d'America, in tutta l'immensa sua gravità, potrà
far sí che, dopo tanto lottare per l'equilibrio mediterraneo,
l'Inghilterra, troppo fidando nelle posizioni raggiunte, trascuri i
suoi interessi nel nostro mare: ed ecco che subirà senza
reagire, e forse senza intenderne tutta la portata, lo scacco
dell'insediamento francese in Corsica, ed ecco che perderà
Minorca e verrà furiosamente assalita a Gibilterra. La pace
del 1783 non potrà che consacrare la sua retrocessione nel
Mediterraneo, il primo suo passo indietro dopo una serie ininterrotta
di affermazioni e di conquiste. Dura lezione, ma non senza benefici
effetti: il governo di Londra esperimenterà infatti, una volta
per sempre, che il padrone del Mediterraneo è il padrone del
mondo; e da allora in poi si regolerà in conseguenza.
L'umiliazione dell'Inghilterra,
d'altronde, trova qualche compenso nelle incessanti vittorie
riportate nel campo commerciale: dal 1700 al 1787, il valore delle
sue esportazioni si è quintuplicato nel mondo, e in Italia in
particolare si è straordinariamente accresciuto. Allarmate
voci italiane, ma piú ancora francesi, si alzano con sempre
maggiore frequenza a denunziare il danno gravissimo che alla penisola
deriva dal controllo economico inglese; e già molti lamentano
che dalla soggezione spagnuola gl'Italiani non si sian liberati che
per cadere politicamente in quella dell'Austria, commercialmente
dell'Inghilterra. Nuove stazioni commerciali inglesi sono state
fondate, infatti, a Messina, a Napoli, a Cagliari, che aggiunte a
quelle piú vecchie di Livorno, di Savona, di Nizza,
inevitabilmente concorrono a deprimere le poche industrie locali
esistenti, a scoraggiare l'impianto di nuove, a spremere con gli alti
prezzi una clientela già impoverita. Ond'è che la
Francia, svolgendo nella penisola la violenta e tenace sua propaganda
anglofoba, non manca d'argomenti per insinuare agl'Italiani che la
rinascita politica del loro paese è impedita, oltre tutto, e
forse prima di tutto, dalla presenza di questa piovra insaziabile.
Rinascita italiana, e anche
indipendenza italiana: parole, concetti e aspirazioni che da una
piccola cerchia di gente colta si erano andati negli ultimi tempi
diffondendo in una sfera piú ampia di politici, di
pubblicisti, di commercianti, di aristocratici, prendendo l'abbrivo
dalla cessazione del dominio spagnuolo, favoriti e incoraggiati
altresí dalla nuova politica riformatrice audacemente svolta
da alcuni principi italiani. Miraggi e speranze cui anche l'azione
ormai tutta italiana e volta all'Italia dei re di Sardegna, valeva a
conferire slancio e concretezza e quasi un presentimento di
effettuabilità; mentre sul fuoco soffiava, come si è
detto, la Francia, insofferente della sua esclusione dalla penisola,
ben certa che un eventuale rivolgimento antiaustriaco (e in
conseguenza anche antiinglese) non avrebbe potuto essere che
d'ispirazione e di segno francese e non avrebbe potuto non condurre,
sia pure per vie indirette, ad un aumento dell'influenza sua.
Notarono, i diplomatici inglesi, questo nuovo fervore italiano,
questa diffusa aspettazione di un avvenire diverso e migliore, questi
primi accenni a uno spontaneo confluire di volontà
principesche e di esigenze dei ceti piú elevati della
popolazione italiana? E fino a qual punto seppero tenerne conto nello
svolgimento del loro giuoco politico?
Si può dire che quasi non se ne
accorsero, e che agli effetti pratici non ne tennero, comunque, il
minimo conto. Tutto ciò non era ai loro occhi che vacua
retorica o pretesto e artificiosa creazione della propaganda
francese. Le riforme principesche erano una cosa, e andavano
incoraggiate se non altro perché valevano a radicare nel
terreno italiano quelle dinastie di recente importazione, e quindi ad
aumentare le garanzie di conservazione dello status quo; un'altra
cosa erano i sogni utopistici di una nazione italiana. La
caratteristica dei diplomatici inglesi non eran allora, come non fu
mai nel seguito, l'antiveggenza, la facoltà cioè, o
almeno il desiderio, di anticipare il possibile corso degli
avvenimenti futuri coordinando e tentando di interpretare i segni
incerti e magari contraddittori del presente. I diplomatici francesi,
imaginosi e attivissimi, stavano sempre all'erta, e figurandosi che
ogni giorno si presentassero per la Francia superbe occasioni, che
bisognava non lasciarsi sfuggire; ogni loro rapporto dall'Italia
conteneva quasi sempre, è vero, una versione arbitraria e
parziale degli avvenimenti del giorno, ma almeno vi si notava un
perenne sforzo di penetrazione e di sintesi dei mille dati d'ogni
sorta che cadevano sotto al loro mobilissimo sguardo; continuamente
costoro facevano e disfacevano l'Italia, pronti a trarre partito
anche dalle circostanze piú avverse. Gli osservatori inglesi
non tenevano davvero il Foreign Office in cosiffatta perpetua
agitazione, né ambivano punto di esporsi, come i loro colleghi
e antagonisti, a essere il piú delle volte smentiti, nelle
loro previsioni, dal corso degli avvenimenti: cauti e riservati,
ripetevano per lo piú, nei loro rapporti, quello che nelle
varie corti si diceva ufficialmente o veniva loro comunicato da
personaggi autorevoli; non interrogavano mai il paese, e, se anche si
occupavano di letteratura o avevano contatti con gli uomini di
scienza, non mescolavano mai le nozioni che da queste letture o
incontri potevano loro derivare con la politica o con la diplomazia.
E perciò quello che maturava nel sottosuolo italiano e che,
pur manifestandosi talvolta per segni anche evidenti, non formava
oggetto di comunicazioni e di transazioni ufficiali, generalmente
sfuggiva loro, e comunque essi non sapevano apprezzarne l'importanza
o il valore di sintomo. Vero si è che intanto, da essi
protetti, prosperavano in tutta Italia gli uffici consolari e le
agenzie commerciali inglesi.
I documenti provano, insomma, che
durante l'intero corso del secolo XVIII, o almeno fino agli
ultimissimi anni, l'Inghilterra ufficiale (giacché si vuole
qui parlare sempre e soltanto di quella, tralasciando d'indagare i
rapporti, tutt'altro che remoti, fra cultura inglese e cultura
italiana, e le vivissime simpatie per l'Italia, non solamente
artistiche e letterarie, diffuse nel gran mondo inglese) ignorò
candidamente l'esistenza di un «problema» italiano: ed è
inutile dire che se in qualche caso essa si trovò a dover
sancire, o proporre, o combattere rimaneggiamenti in un senso o
nell'altro della carta d'Italia, ciò fece non preoccupandosi
affatto che questi corrispondessero a un piano conforme agl'ideali
dei piú progrediti fra gl'Italiani, ma solo in quanto essi
contribuivano a mantenere o a turbare l'equilibrio della penisola, e
quello generale mediterraneo, e favorivano o compromettevano il
quieto e proficuo svolgersi della attività commerciale
britannica.
Un vero problema italiano, in senso
nazionale, non si pose del resto all'Inghilterra, come è ben
noto, neanche in quei venticinque anni dell'ultimo Settecento e del
primo Ottocento, che furono dominati dal gigantesco tentativo della
Francia rivoluzionaria e napoleonica di realizzare, specie nel bacino
del Mediterraneo, le antiche aspirazioni della distrutta monarchia
borbonica. Nel corso di quella lotta, che segna la conclusione di un
secolo e mezzo di rivalità franco-inglese, l'Inghilterra,
invariabilmente alla testa delle successive coalizioni antifrancesi,
e, in Italia, solidale di ogni effettivo o potenziale nemico o
vittima della Francia, può anche farsi, come occasionalmente
si fa, predicatrice e suscitatrice di idealità «italiane»
in contrasto con le imposizioni e le depredazioni francesi, agitando
magari anche la bandiera dell'autonomia e della indipendenza
nazionale, e promuovendo, nelle regioni italiane libere dalla
soggezione francese, ampie riforme progressiste; salvo però a
farsi, con altrettanta spregiudicatezza e risolutezza, se e quando
ciò possa giovare alla causa suprema, puntello e stimolo di
reazione, e a sostenere, di contro alla propaganda rivoluzionaria
francese, la necessità e la ineluttabilità di un
ritorno, sic et simpliciter, all'ordinamento territoriale sancito nei
trattati della prima metà del secolo XVII. Politica
dell'opportunismo integrale, giustificata soltanto se la si confronti
con quell'unico fine che in realtà si proponeva, e al cui
perseguimento ogni altra considerazione doveva subordinarsi: il fine
non pure di distruggere la nuova egemonia francese, ma di rendere
impossibili per l'avvenire nuovi tentativi in quel senso, sia da
parte della Francia che di qualunque altra potenza europea. Nelson a
Napoli nel '99, Bentinck in Sicilia nel '12 sembra, sí, che
rappresentino due mentalità diametralmente opposte, due
sensibilità, e insomma due epoche: l'ancien régime, e
il secolo della religione liberale. Ma nella realtà e l'uno e
l'altro, e con loro la folta schiera dei diplomatici e dei militari e
degli agenti segreti britannici che percorrono l'Italia in quegli
anni, non sono che due momenti di un unico processo dialettico, non
hanno di mira che un solo obiettivo al cui raggiungimento, nelle
diverse circostanze di tempo e di luogo, piegano con mirabile
duttilità (per noi latini ragione di sincera meraviglia e di
scandalo) i mezzi in loro potere e il loro linguaggio e le loro
ideologie.
Lo studio della politica inglese in Italia dagli anni delle prime
campagne napoleoniche alla vigilia del Congresso di Vienna non ha
dunque molto valore per la determinazione di quelle che furono nel
seguito le sue linee di sviluppo o, diciam pure, le sue costanti. Non
è che una grande parentesi entro la quale lo sconvolgimento
totale dell'equilibrio mediterraneo fa sí che l'Inghilterra
non veda salvezza, sia nell'ordine politico che in quello economico,
se non, come si è detto, nel ritorno allo status quo ante,
respingendo, in definitiva, nonostante provvisorie apparenze in
contrario, qualunque forma di compromesso. Senonché si deve
considerare come la politica economica svolta dalla Francia in
Italia, e in particolare la proclamazione del blocco continentale,
con l'impoverire la nostra penisola e col sottrarle i benefici
tradizionali del commercio inglese, tanto d'importazione che
d'esportazione, vengano a porre in mano dell'Inghilterra argomenti
eloquentissimi e popolarissimi di propaganda antifrancese, pienamente
coincidenti col perseguimento dei suoi propri interessi commerciali.
L'Inghilterra, che dalla Sardegna sabauda, dalla Sicilia, da Malta
dirige il grande traffico di contrabbando in Italia, è
naturalmente e sistematicamente portata a incoraggiarvi ovunque
quelle stesse idealità liberali, quelle stesse aspirazioni
nazionali o d'indipendenza che i Francesi hanno agitato un decennio
innanzi per conquistare la solidarietà o assicurarsi
l'acquiescenza degli italiani alla politica di eversione dell'antico
ordinamento territoriale e politico. Le parti si sono adesso
invertite: e quella assimilazione medesima che piú o meno
spontaneamente l'Italia ha fatto in quegli anni dei principî
della rivoluzione francese, fa sí che la propaganda inglese
(cui, entro certi limiti di sostanza e di forma, si associa e
partecipa il governo di Vienna) trovi un terreno singolarmente
preparato ad accoglierla, a farla sua propria, a nutrirsene; e
susciti in molti Italiani la speranza e, piú, la persuasione
che, una volta abbattuto l'ordinamento francese, saranno proprio quei
principî che presiederanno all'instaurazione dell'ordine nuovo.
Questo processo di conversione all'Inghilterra di quegli appunto fra
gli Italiani che, sul cadere del secolo XVIII, hanno piú
entusiasticamente abbracciato le idee nuove venute di Francia, si
precisa e si accentua nell'ultimissima fase delle guerre
napoleoniche. Nei primi mesi del 1814, in Italia, non si parla che di
libertà e di indipendenza. S'intende perciò quanto
grave e amara dovesse essere la delusione del ceto pensante italiano
di fronte alla fredda realtà del Congresso di Vienna e
all'abbandono, anzi al «tradimento», dell'Inghilterra. Ma
se in alcuni dei patrioti questa delusione e il disgusto che ne
derivò superarono ogni altra impressione e vietarono ogni
speranza superstite, generandosi una diffidenza invincibile per la
«perfida Albione», in molti altri andò radicandosi
invece la consolante opinione che l'Inghilterra medesima fosse stata
tradita, e sorpresa la sua buona fede, e che le fosse stato forza
piegarsi, suo malgrado, ai superiori interessi della coalizione
europea; e che perciò, negli anni avvenire, l'Inghilterra non
avrebbe lasciato mezzo intentato per favorire in Italia
l'affermazione, lo sviluppo e il trionfo finale delle idealità
liberali e nazionali.
Del radicarsi di tali aspettazioni e,
per converso, di tali risentimenti, anche la tarda diplomazia inglese
non poteva mancare di accorgersi e di farne il suo conto; e in quanto
non conveniva in alcun modo scoraggiare una fiducia che era pur
sempre «una carta in mano» e che nell'avvenire avrebbe
potuto dare i suoi frutti, e in quanto premeva, d'altra parte, anche
ai piú modesti fini di una ripresa e di un incremento del
traffico commerciale, di dissipare quei risentimenti. In questo senso
si può anche dire che l'eredità di quegli anni di crisi
europea pesò sugli svolgimenti ulteriori della politica
inglese in Italia, e in parte ne influenzò le movenze, e in
qualche caso perfino giunse a forzarne il ritmo, il corso e gli
obiettivi.
Ma, in tesi generale, se l'Inghilterra
si era già affermata nella seconda metà del secolo
XVIII come la potenza piú interessata al mantenimento dello
status quo mediterraneo, si deve dire che l'esperienza napoleonica
valse soltanto a trasformare questa sua esigenza in un inderogabile
dogma. La conservazione della pace e dell'ordine, o – come
allora si diceva – del «riposo d'Europa», questo è
l'unico argomento che ormai potrà spingere il governo inglese
alla guerra: che vuol dire che anche in questa occasione il Foreign
Office giudicava il nuovo assetto territoriale del continente di sua
piena soddisfazione. Nel Mediterraneo, in particolare, il suo
prestigio politico aveva infatti raggiunto il vertice della parabola:
il possesso di Malta e delle isole Jonie, il controllo cioè
anche del bacino orientale di quel mare, non erano in realtà
che le due piú vistose pedine venute a rinforzare il suo
giuoco. Non meno cospicui erano i vantaggi indiretti che aveva saputo
conseguire. E a chi mai, se non in primissimo luogo all'Inghilterra,
doveva l'Austria il riacquisto integrale dei suoi possedimenti
italiani, con l'aggiunta di Venezia? A chi il Piemonte la sospirata
annessione di Genova? E quando mai per l'innanzi aveva il pontefice
romano contratto tanto debito di gratitudine ed espressa cosí
viva e sincera la sua riconoscenza alla protestante Inghilterra? Chi,
se non l'Inghilterra, aveva salvato ai Borboni il trono di Napoli e
garantito loro il possesso di quella Sicilia che essi, e non essi
soltanto, avevano a piú riprese temuto che l'Inghilterra non
avesse difeso se non per riservarne a se stessa il possesso?
Generosa politica, certo; ma insieme,
si ripete, pienamente corrispondente agl'interessi inglesi. L'Austria
forte, intanto, era un vecchio precetto pel Foreign Office, cui
adesso aumentavan valore le preoccupazioni vivissime che a Londra
cominciava a destare la politica russa. Giacché se da tempo
ormai la Russia si volgeva all'Europa, non mai come negli ultimi anni
essa aveva portato il suo gran peso nelle vicende continentali, non
mai mirato cosí visibilmente agli Stretti. Non era l'Austria
il naturale baluardo antirusso e non assicuravano le secolari sue
aspirazioni balcaniche quella rivalità fra le due potenze che
all'Inghilterra, sollecita di una libera via per l'Oriente, stava
massimamente a cuore?
Altro punto obbligato della politica
inglese restava l'ingrandimento sabaudo. Non già che la
condotta del governo di Torino, in qualche caso troppo palesemente
opportunistica, fosse sempre stata tale, anche durante l'ultima
crisi, da meritare la riconoscenza dell'Inghilterra; ma le stesse
ricorrenti debolezze sabaude per il vicino francese non additavano
forse la gravità del rischio che si correva lasciando a
guardia delle Alpi un portiere male in gambe? Il caso di Cherasco non
era stato una lezione per tutti? Ond'è che l'Inghilterra aveva
perfino caldeggiato, durante le conferenze di Vienna, l'annessione
della Lombardia al Piemonte, previo compenso all'Austria in Italia o,
meglio, fuori d'Italia, e alla Francia, eventualmente, in Savoia.
Questa combinazione si era rivelata impossibile, ma l'annessione di
Genova era stata operata proprio con questo fine, nonostante le
proteste della repubblica, che dopo cinquant'anni pagava il fio
d'aver venduto alla Francia la Corsica, quella Corsica ond'era uscito
Napoleone: l'annessione di Genova al Piemonte assicurava d'altronde
alla flotta inglese, in caso di guerra, un rifugio sicuro, nel
contempo sottraendo alla Francia la piú efficiente e
pericolosa sua base di appoggio nella penisola; in tempo di pace,
poi, il porto di Genova in mani amiche non solamente equivaleva al
controllo commerciale della intera vallata del Po, ma costituiva un
eccellente punto di partenza per un piú razionale e integrale
sfruttamento dei mercati svizzeri e tedeschi.
Quanto agli Stati della Chiesa, non
era soltanto la spina irlandese che aveva spinto il Foreign Office a
propiziarsi in ogni senso il Vaticano, appoggiandone le
rivendicazioni territoriali: il problema cattolico a Malta ed in
altre colonie costituiva infatti un potente incentivo all'adozione di
quella stessa politica; non mai si era stati tanto vicini ad un
ristabilimento delle normali relazioni diplomatiche fra Londra e
Roma, interrotte ab antiquo.
E finalmente, che gl'interessi inglesi
imponessero, piú che non consigliassero, la restaurazione
borbonica sul trono di Napoli, resulta evidente a chi rifletta ai
lauti proventi che l'Inghilterra aveva cavati dal mezzogiorno
d'Italia fino da quando vi si era stabilita la dinastia borbonica.
Subito dopo la restaurazione, che aveva fatto del residente inglese
il padrone di Napoli, non venne firmato, del resto, fra i due
governi, un accordo commerciale cosí apertamente parziale per
l'Inghilterra che non a torto i migliori napoletani ravvisarono in
esso, nel seguito, una delle cause precipue del deficiente progresso
economico del loro paese? Quanto alla Sicilia, non c'era via di
scelta: questa isola, sotto l'aspetto commerciale, si era trasformata
ormai in una mezza dipendenza inglese; le principali aziende,
commerciali, minerarie e industriali, due su tre erano inglesi; ma
inglese, sotto il rapporto politico, l'isola non avrebbe potuto
essere. Di chi dunque? Indipendente, no: ché, nella sua
debolezza, avrebbe esercitato un'eccessiva attrazione sugli appetiti
francesi, fors'anche russi, e comunque troppo facile esca avrebbe
fornito ad un conflitto fra le potenze marittime. E se doveva andare
annessa a qualche minore potenza, non era meglio ridarla ai Borboni
cui dopo tutto si era mantenuta fedele e che per la sua vicinanza
grandissima ai loro dominî di terraferma l'avrebbero piú
facilmente potuta difendere?
Dal 1815 ai primi mesi del 1859,
l'Inghilterra, dunque, consacra ogni sua energia alla salvaguardia
dello status quo territoriale italiano, di continuo turbato e
minacciato da una serie di fattori interni ed esterni. Interni,
l'inquietudine crescente degli strati socialmente piú elevati
della popolazione italiana, tra i quali sempre piú si
diffonde, dopo l'esperienza francese, l'intolleranza degli
anacronistici regimi dispotici e della diretta o indiretta
dominazione straniera; il malcontento del ceto commerciante per le
divisioni della penisola che, concretandosi in varietà di
leggi e di regolamenti, in pluralità di barriere doganali e di
sistemi monetari, in molteplicità d'intoppi alla circolazione,
si risolvono in un gravissimo danno alla loro attività e alle
loro iniziative; e finalmente le gelosie fra i principi italiani, o
aventi dominio in Italia, travagliati pressoché tutti da
smanie d'accrescimento. Fattori esterni, per non citarne che due,
operanti negli anni immediatamente successivi al Congresso di Vienna,
la sollecita ripresa della politica francese mirante a sostituire la
propria influenza a quella dell'Austria presso le varie corti
italiane e, in caso d'insuccesso, a screditare nella popolazione i
regimi esistenti; e la piú che dubbia attività liberale
e costituzionale svolta dagli agenti politici russi: ai quali due
fattori ben presto si aggiungeranno gli errori compiuti dall'Austria
nell'amministrazione dei suoi possessi italiani.
Gli sforzi dell'Inghilterra per
neutralizzare l'azione sovvertitrice di questi diversi elementi si
esercitano naturalmente in piú direzioni e variano d'intensità
a seconda delle mutevoli esigenze della politica inglese su altri
scacchieri, ed altresí a seconda dei programmi politici dei
vari gabinetti che si succedono a Londra; ma seguono pur sempre
alcune direttive essenziali. Per sopire l'irrequietezza dei ceti
colti italiani (tra i quali è pure frequente il richiamo
all'esempio politico inglese, invocandosi in particolare il
precedente della costituzione siciliana del '12, modellata su quella
britannica, garantita agl'isolani da un rappresentante del governo di
Londra e poi abrogata con l'aperto assenso del costui successore), il
Foreign Office si fa, a Vienna, a Torino, a Firenze, a Roma, a
Napoli, consigliere instancabile di progressive e caute riforme
amministrative e politiche, che mentre valgano ad esaudire i voti piú
ragionevoli della parte migliore della cittadinanza, mirino ad
occupare, e quindi a sottrarre al facile e pericoloso esercizio della
critica, quelle energie nuove che il periodo francese ha rivelato e
messo in valore. Per contentare i ceti commercianti (le cui lagnanze
trovano eco nei rapporti dei suoi consoli e nelle sempre piú
vivaci rimostranze della colonia inglese in Italia) il governo di
Londra, quale che possa essere l'esempio contrario che esso offre con
la sua propria legislazione, fa continue, energiche pressioni perché
gli Stati italiani, attenuino la politica protezionistica ovunque
instaurata dopo la crisi europea, e magari provvedano a stringere fra
di loro intese commerciali (ciò che, fra parentesi, assai
gioverebbe allo sviluppo dei traffici inglesi...) Negli ambienti del
Foreign Office, nel contempo, comincia ad acquistare qualche credito
una corrente secondo la quale l'Inghilterra dovrebbe prepararsi a
favorire, in un piú o meno lontano avvenire, e unicamente per
via di negoziati pacifici, una semplificazione della carta d'Italia
basata sull'assorbimento, da parte degli Stati piú forti,
delle piccole formazioni del centro della penisola e ancora, e in
primo luogo, sulla dilatazione piemontese in Lombardia: rimuovere
insomma dall'edificio, per salvarne la stabilità, le parti piú
evidentemente caduche.
Quanto agli attriti e alle gelosie fra
i principi italiani, l'Inghilterra si presenta quasi costantemente in
veste di mediatrice e di promotrice di accordi; amica dell'Austria,
ma diffidente essa stessa di certa sua politica invadente, agisce
energicamente su Vienna in senso moderatore, e anzi, ogniqualvolta se
ne presenti il destro, non manca di prepararla al sacrificio, sempre
piú opportuno e un dí o l'altro indispensabile, di una
porzione dei suoi dominî italiani; a Firenze si studia di
eccitare lo spirito di indipendenza; di Parma e Lucca non ha quasi
mai ragione di occuparsi; con Modena, antesignana della politica
reazionaria, finirà col rompere affatto. A Torino,
generalmente antiaustriaca, e anzi freneticamente tale, prende le
difese dell'Austria; salvo a riesumare e svolgere essa stessa le
tradizionali cause di attrito fra i due paesi, nei rari casi in cui
Torino inclini ad eccessiva intimità con l'Austria. A Roma e a
Napoli, nei cui confronti non tarda ad adottare un'attitudine
visibilmente scettica quanto ai sistemi di governo che vi prevalgono
e alla possibilità di promuoverne l'evoluzione, combatte di
volta in volta il prevalere d'influenze straniere esclusive o
tendenti all'esclusività.
Restano, una volta rimosse le vaghe
inquietudini per le non chiare tendenze della politica russa in
Italia (ciò che si verifica tra il 1819 e il 1820), le
preoccupazioni costanti per la politica francese: alle quali il
Foreign Office reagisce secondo le direttive tradizionali, seppure il
suo giuoco si faccia piú scaltro e affinato. In questo senso
non sarebbe forse avventato considerare come un successo, e quasi un
capolavoro della diplomazia inglese, la spedizione francese di Ancona
nel '32. Sul momento, invero, ben pochi intuirono quale interesse
potesse mai spingere il Foreign Office a lasciar siffattamente mano
libera alla Francia: non era un canone della politica inglese quello
di non consentire in alcun caso un insediamento francese in Italia?
Ci si attese a uno sbarco inglese a Civitavecchia, si fantasticò
di un preteso piano rivoluzionario franco-inglese. Non fu che
parecchio tempo piú tardi che i piú si resero conto dei
riposti motivi di quella strana e inusata passività inglese:
quando cioè poterono considerare la profonda impopolarità
che da quella spedizione era derivata alla monarchia di luglio in
Italia, ed anzi alla vera e propria distruzione del «mito»
francese che essa aveva operato fra noi. Entro certi limiti, si
potrebbe dire altrettanto per la seconda spedizione francese negli
Stati romani, nel '49, sebbene opposto in apparenza ne fosse
l'oggetto. Ché se ci si obiettasse che in realtà il
merito del finale insuccesso francese (se merito fu) risale
piuttosto, nell'uno e nell'altro caso, al ministero degli esteri
austriaco, risponderemo che, a parte la conservazione dello status
quo italiano, che ne usciva profondamente turbato, quelle due
spedizioni, attraverso l'occupazione di due vitali punti strategici
nell'Adriatico e nel Tirreno, venivano a modificare altresí
l'intero equilibrio mediterraneo: un fatto, questo, relativamente al
quale l'Inghilterra non poteva certo contentarsi dei sottili
affidamenti dell'Austria, potenza quasi esclusivamente terrestre, ma
le bisognava regolarsi da sé, consultando soltanto i suoi
propri interessi. Il caso del 1859, del resto, può prestarsi,
come vedremo, ad analoghe considerazioni.
Insomma, è pur sempre il timore
di una durevole espansione della Francia in Italia, o anche soltanto
di un considerevole aumento della sua influenza fra noi, che,
unitamente alla non mai trascurata considerazione dei suoi interessi
commerciali, ci dà la chiave della politica inglese nella
penisola, dal 1815 in poi. Le conferme, o le prove, non mancano, e
sono nella mente di ognuno. Crisi del 1820-1821: l'Inghilterra,
seppure non si assenti del tutto dalla trattazione degli affari
italiani, ed anzi si esprima e si muova, in quella occasione, secondo
schemi suoi propri, sforzandosi di pacificare l'Italia mercé
misure di conciliazione soltanto, ed enunciando la tesi del non
intervento, dopo tutto lascia mano libera all'Austria. Perché?
Perché l'assiste la sicurezza che la Francia non si muoverà;
perché di fronte agli Stati italiani in subbuglio non si erge
che l'Austria. I suoi interventi effettivi, risoluti e diretti,
l'Inghilterra li riserba per quando si profili il pericolo di una
complicazione francese. 1830: rivoluzione di luglio: minaccia grave,
nei mesi seguenti, di una discesa francese contro gli austro-sabaudi
sul Po; il Foreign Office agisce prontamente ed energicamente a
Parigi, a Vienna, a Torino, e ad esso si deve, o massimamente si
deve, se la pace d'Europa è salvata. 1831-32: crisi romana:
l'Inghilterra, dopo aver lasciato impegnare la Francia, non esita a
varcare ufficialmente la soglia del Vaticano e si fa centro di
un'azione diplomatica volta alla trasformazione del governo papale;
comunque, contribuisce efficacemente a risolvere per vie pacifiche la
pericolosa vertenza austro-franco-romana. 1838: il re delle Due
Sicilie, che dopo tutto è il sovrano assoluto di uno Stato
indipendente, si attenta a cedere ad una compagnia francese il
monopolio degli zolfi: l'Inghilterra immediatamente protesta, fa la
voce grossa, e tra lo stupore del mondo non s'acquieta fin tanto che
il pericolo della prevalenza economica della Francia in Sicilia non
sia eliminato del tutto. 1840: crisi europea determinata dalle
complicazioni orientali: l'Inghilterra dimentica affatto le non lievi
cagioni di attrito che nei quattro o cinque anni precedenti hanno
intorbidato le sue relazioni col Piemonte, e per assicurare l'attiva
cooperazione (o almeno la benevola neutralità armata) di
questo Stato alla sua politica di accerchiamento e d'immobilizzazione
della Francia, protettrice di Mehemet Alí, gli fa, in pieno
accordo con l'Austria, profferte e promesse, né solamente di
garanzia territoriale; nel contempo, timorosa dell'intimità
franco-napoletana, rivelata dalla questione degli zolfi e, piú,
dall'ufficiale mediazione della Francia nella disputa
anglo-napoletana, tenta un ravvicinamento col governo delle Due
Sicilie, mentre dichiara all'Austria che essa stessa si assume il
mantenimento dello status quo e dell'ordine in Italia.
Gli avvenimenti del '46-47 offrono
all'Inghilterra un'occasione mirabile per perseguire questo suo
giuoco politico e insieme per raccogliere in Italia amplissima
popolarità, facendo dimenticare agl'italiani decenni
d'indifferenza per le loro aspirazioni nazionali. Cobden, lord Minto:
l'occasione è eccezionale perché tali aspirazioni si
presentano, allora, in contrasto non pure con l'Austria (la quale,
stringendosi con la Russia e con la Francia, tradisce la funzione
assegnatale dall'Inghilterra), ma altresí con la Francia, in
eclissi conservatrice. L'Inghilterra appare, e in qualche misura è
davvero, l'arbitra della penisola. Gli evviva all'Inghilterra non
sono che un sinonimo degli evviva all'Italia degl'Italiani; da Torino
a Napoli si moltiplicano e s'inseguono le riforme principesche tenute
a battesimo dai diplomatici inglesi; questi riparano in fretta alla
ottusità dimostrata dai loro predecessori o da essi stessi
negli anni della vigilia, uscendo fuor dal chiuso delle corti e dei
ministeri e allacciando relazioni con uomini nuovi, che, pur non
coprendo posti ufficiali, esercitano da tempo un'indiscussa autorità
morale sui loro concittadini, e sono adesso alla testa dei vari
partiti; e già il Foreign Office ritiene che sia giunto il
momento opportuno per negoziare una revisione dell'assetto italiano
in base ai suoi vecchi disegni, e già s'adopra a quell'uopo,
quando – febbraio 1848 – scoppia la rivoluzione a Parigi,
con le conseguenze che tutti sanno: automaticamente la Francia si
pone e s'impone come la protettrice naturale d'ogni movimento
progressista nella penisola, automaticamente essa riprende in Italia
le posizioni perdute. L'Inghilterra, assalita dal dubbio di avere
negli ultimi due anni lavorato, in realtà, a pro della sua
grande antagonista, fa precipitosamente (e con l'usata disinvoltura)
macchina indietro, si riaccosta all'Austria, tende tutte le sue
energie all'intento di sopire l'effervescenza italiana. Scoppiata
poco dopo, e a suo dispetto, la guerra austro-sarda, sua mira suprema
sarà quella d'impedire un intervento francese: ed anche per
questo, seppure invano, essa si sforzerà di far comprendere
all'Austria la convenienza di una sollecita cessione della Lombardia
al Piemonte, indipendentemente dalle sorti del conflitto. Mediazione
inglese, armistizio. Nel '49, riaccesasi, contro gli amichevoli e
insistenti suoi consigli a Torino, la guerra, il Foreign Office, sia
perché tien fermo alla direttiva d'un Piemonte efficiente, sia
perché nutre sempre il timore di un possibile intervento
francese, s'adopra a Vienna per far rispettare la linea del Ticino.
La crisi è finalmente superata: l'Inghilterra del marzo '49
non è certo sulla linea del '47, delle prime settimane del
'48; la sua popolarità effimera è naturalmente svanita
del tutto; eppure essa non sente di aver perduto la partita. Il
mancato intervento nel nord della penisola di una Francia tornata
alle tradizioni rivoluzionarie è quel che le basta; né,
come già si è osservato, le duole o le nuoce che la
seconda repubblica vada a spegnere a Roma la face della libertà.
Ma veniamo alla crisi risolutiva. Il
programma di Plombières non contraddirebbe nella sostanza alle
note vedute inglesi sul problema italiano, se – a parte la
prevista cessione di due provincie italiane alla Francia – esso
non contemplasse il possibile insediamento di dinastie francesi o
devote alla Francia, a Firenze e a Napoli; piú ancora se non
implicasse la guerra. Di fronte alla guerra, e alla guerra francese,
il Foreign Office punta i piedi: tanto piú che il terzo
Napoleone si è assicurato il preventivo consentimento russo.
Non mai come in quei primi mesi del '59 la causa italiana ebbe cosí
cattiva stampa in Inghilterra, governo tory e opposizione whig. È
forse la caduta del ministero conservatore, l'avvento del binomio
Palmerston-Russel che rovescia questa presa di posizione? Neanche per
idea: l'Inghilterra inverte la rotta non appena si avvede che la
guerra sul Po, con le complicazioni che suscita nell'Italia centrale,
promette di liquidare, nella penisola, la Francia, ricattata dalla
Prussia e profondamente agitata, nell'interno, della rivolta dei
conservatori cattolici. Villafranca non è davvero un successo
inglese, ma innegabilmente lo è lo sfruttamento che di
Villafranca l'Inghilterra conduce con abilità consumata e una
duttilità che si riallaccia alle migliori sue tradizioni
politiche. Ora sí che il programma revisionista inglese,
seppure dilatato al di là di ogni previsione, si attua a
dovere: e cioè a tutte spese della Francia. Né importa
se l'Austria esce da quella guerra mutilata: da tempo il Foreign
Office è andato avvertendola, infatti, che la potatura di un
ramo gioverà a rinforzare il suo stracco organismo; da tempo
essa anticipa il vantaggio che all'Inghilterra deriverà dalla
conseguente maggiore efficienza dell'Austria nel settore balcanico.
Se nell'Italia centrale le restaurazioni restano un pio desiderio,
questo è in gran parte merito inglese; come merito inglese è
la spinta alle annessioni, sbaragliamento definitivo di effettivi o
supposti piani di Napoleone in vista di sostituire al granduca un suo
luogotenente. Gl'Italiani sanno di dovere agli amici inglesi se quel
promettente principio dell'opera di riconquista della loro
indipendenza e, ormai, della loro unità nazionale, ha potuto
attuarsi senza provocare ritorni offensivi dell'eterno nemico e
fors'anche dell'alleato di ieri.
Quanto agli avvenimenti del 1860, essi, certo, colsero di sorpresa
il Foreign Office, come del resto anche la Francia e tutte le
cancellerie europee. Francia e Inghilterra da tempo si trovavano con
Napoli in relazioni assai tese; senonché, mentre questa non ad
altro mirava che ad una radicale riforma in senso costituzionale del
governo borbonico, quella (come si è già ricordato) era
sospettata di spiare e possibilmente anticipare la decadenza della
dinastia borbonica per soppiantarla con un ramo collaterale della sua
casa regnante. Ond'è che, allo scoppiar della crisi, il
Foreign Office, già indignatissimo per la pattuita cessione
alla Francia di Nizza e della Savoia, si adombrò soprattutto
per il timore di nuovi intrighi francesi. Di poi, assicurato che non
un palmo di territorio nazionale sarebbe stato d'ora innanzi
barattato o ceduto, non solamente si acconciò all'occupazione
della Sicilia, ma lasciando via libera, di contro alle vedute e alle
proposte francesi, al passaggio dei volontari da quell'isola sul
continente, si fece apertamente solidale dell'estremo colpo inferto
ai Borboni. Di qui, nella stessa Inghilterra, ed anzi in altissimo
luogo, dubbi e scrupoli e rimbrotti al ministero: d'altronde ben
presto caduti. E infatti la diplomazia inglese aveva offerto in
quella congiuntura una luminosa conferma delle proprie capacità:
che non consistevano proprio, ripetiamolo ancora, nella fertilità
delle iniziative e nell'acutezza delle previsioni, ma per l'appunto
nel sapersi rapidamente acconciare all'inevitabile, ricavando tutto
il vantaggio possibile da esso, come, e piú, dai fatti
compiuti. Tardi, ma sempre in tempo, il governo di Londra aveva
dunque percepito come la costituzione di un nuovo Stato unitario nel
Mediterraneo (costituzione che, per parte sua, esso non aveva mai
auspicato né ritenuto possibile) non solamente non avrebbe
leso i suoi permanenti interessi, ma anzi, e per il modo e per le
circostanze medesime attraverso le quali si andava verificando, e per
la speciale situazione diplomatica che ne veniva a determinarsi in
Europa, e per le inderogabili esigenze del nuovo Stato, li avrebbe
singolarmente favoriti, aumentando, di conseguenza, la sua influenza
nel Mediterraneo; e come, per contro, il perdurare di una causa
permanente di disordine e d'inquietudine nel mezzogiorno d'Italia
avrebbe finito per offrire alla Francia l'occasione e il pretesto non
solamente per esercitare a Napoli un'influenza forse esclusiva, ma
piú vastamente, per sostituirsi all'Austria nel controllo di
un'Italia divisa, e, verosimilmente, discorde.
Quanto all'orientamento politico del
nuovo Stato unitario, dati evidenti permettevano di presumere che,
almeno in una prima fase, esso non avrebbe potuto appoggiarsi né
su Parigi né su Vienna. Finché la Venezia ed altre
province incontestabilmente italiane restavano in mano dell'Austria,
il pericolo di una eccessiva intimità italo-austriaca non era
neanche da prendersi in considerazione; la virulenza del problema
romano e la stessa difficoltà di comporlo valevano d'altronde
ad accertare che, ove pure non avessero agito in quel senso altri e
piú gravi e permanenti motivi, il fatale compimento ultimo del
programma unitario si sarebbe ormai svolto contro la Francia. Ma poi:
quali interessi avrebbero potuto anche nel seguito legare
siffattamente Italia e Francia da costituire una seria minaccia alle
posizioni inglesi nel Mediterraneo? La Corsica e Nizza in mani
francesi rivestivano in questo senso, agli occhi inglesi, lo stesso
valore che la Venezia o il Trentino in mani austriache; la
spartizione, già iniziata, delle coste dell'Africa
settentrionale avrebbe inevitabilmente formato oggetto di
controversie non lievi tra Francia e Italia, specie dopo che il
taglio dell'istmo di Suez, avviato nel '59, avesse restituito al
Mediterraneo gran parte della perduta importanza; anche l'inevitabile
concorrenza in Levante avrebbe messo di fronte Francia e Italia. La
Francia aveva ben piú vasti interessi nel mondo che non
l'Italia, né solo sul Mediterraneo gravitava la sua potenza;
ma l'Italia, dovunque avesse scorto interessi suoi da tutelare,
dovunque avesse fermato lo sguardo, avrebbe fatalmente incontrato la
«sorella latina» sul suo cammino. A chi dunque si sarebbe
rivolta per tutelare la sua sicurezza e per essere assistita nello
svolgimento di un programma di modesta, graduale espansione? I
politici inglesi capivano perfettamente che, tra la Francia e
l'Austria, la nuova potenza non avrebbe potuto appoggiarsi che
all'amica Inghilterra; e caso mai, per parte di terra, alla Prussia,
allora in pieno cammino ascensionale; capivano altresí che,
posto l'immenso e indifeso e in parte indifendibile suo sviluppo
costiero, l'Italia sarebbe stata costretta, in caso di guerra
generale, o addirittura a schierarsi dalla parte della potenza piú
forte per mare o almeno ad impegnarsi nei suoi confronti ad una
benevola neutralità. Insomma, l'Italia sabauda, nel piú
complesso giuoco europeo della fine del secolo XIX, era
dall'Inghilterra destinata a calcare, volente o nolente, le orme
tradizionali dell'antico Piemonte; senonché ben altro avrebbe
potuto essere, all'occorrenza, l'apporto del nuovo Stato, in paragone
dei servizi necessariamente modesti resi nei secoli da quello che
n'era stato il nucleo originario; come ben altra s'annunziava la
stabilità del suo giuoco politico.
Del resto la nuova Italia, mancante di
materie prime, poverissima di capitali, sprovvista di un'adeguata
marina da guerra e mercantile, bisognosa di farsi al piú
presto una sua attrezzatura industriale e di dare incremento alla sua
produzione agricola, e di ottenere perciò vasto credito, se
non altro per dare lavoro all'esuberante sua popolazione, questa
Italia senza dubbio si sarebbe dimostrata una preziosa cliente
dell'Inghilterra; e anche questa era una considerazione non priva
d'importanza per i politici inglesi.
Gli avvenimenti degli ultimi decenni
del secolo XIX, e quelli dei primordi di questo nostro, attestano che
il Foreign Office, pur (concludendo) assai poco benemerito della
unificazione italiana nel periodo della sua penosa maturazione, non
si era sbagliato quando, all'ultimo, le aveva impresso la spinta
definitiva. Spetta ai politici odierni e agli storici di domani di
valutare fino a qual punto le vitali necessità dell'Italia
grande potenza, in un'Europa profondamente sconvolta dalla crisi del
'14-18, e nella quale tutti i problemi di equilibrio sono rimessi in
questione dall'avvenuta rivoluzione nelle armi e nei mezzi di
trasporto, possano ulteriormente coordinarsi con gl'interessi
essenziali dell'impero britannico.
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