Niccolò Rodolico, nel suo bel
libro su Carlo Alberto2, ha giustamente attribuito molta
importanza a taluni documenti del Record Office di Londra, da lui per
primo rinvenuti e dati alla luce3: sono i dispacci del
ministro d'Inghilterra a Torino, e si riferiscono segnatamente a due
distinti periodi della vita del principe, il periodo immediatamente
successivo alla bufera rivoluzionaria, cioè, e quello
immediatamente precedente alla sua ascesa al trono.
Ci proponiamo, in questo breve studio
(limitato, per esigenze di spazio, al solo anno 1821) di portare alla
conoscenza dei lettori qualche altro documento della stessa
provenienza, che un sistematico spoglio dei fondi del Record Office
ci ha posto in grado di rintracciare; ben lieti di cogliere questa
occasione per rendere al Rodolico l'omaggio piú serio che
possa rendersi a uno studioso della sua tempra: l'esaminare e il
discutere taluni dei resultati cui egli è giunto, integrando
con nuovi apporti il materiale documentario da lui cosí
abilmente sfruttato.
Premettiamo che, pur dissentendo dal
Rodolico in qualche punto minore della sua tesi (di moderata e
intelligente rivalutazione di Carlo Alberto), accettiamo nel
complesso il suo punto di vista e le sue conclusioni. Il processo al
Carignano, rifatto, da cent'anni in qua, innumerevoli volte, non
venne infatti istruito mai con tanta equità, con un cosí
scrupoloso esame di tutte le testimonianze attendibili, con un cosí
disinteressato ardore per la verità, come dal Rodolico.
Senonché la scelta dei dispacci
inglesi fatta con molta accortezza dal nostro autore rivela, a chi
conosca l'intera serie, il difetto fatalmente inerente a ogni scelta,
specie quando si tratti di documenti riflettenti le opinioni, che non
possono non essere in qualche misura provvisorie e mutevoli, di un
diplomatico circa persone che vivono ed eventi che si svolgono sotto
i suoi occhi. L'uso di queste fonti dev'essere estremamente cauto;
può accadere altrimenti che a un dispaccio trionfalmente
addotto a conferma di una finissima ipotesi altri possa contrapporre
un altro dispaccio vergato pochi giorni o anche poche ore piú
tardi dalla medesima mano, il quale a quella ipotesi tolga senz'altro
ogni base4.
Difetto d'informazione (ben comprensibile in chi ha dovuto
sintetizzare in un volume di medie dimensioni il resultato di
innumerevoli ricerche antecedenti, e non ha forse avuto diretto
accesso alle fonti) che in qualche caso si complica con una
interpretazione forse un poco sforzata data ai singoli documenti.
Veniamo al concreto. I documenti
inglesi sfruttati dal Rodolico nella prima parte dell'opera sua
consistono, si è detto, in alcuni dispacci spediti al Foreign
Office dalla legazione inglese a Torino. William Hill, che n'era il
titolare già da piú anni, non si trovava in sede nel
marzo 1821: era partito in licenza un anno innanzi, e –
nonostante la gravità della situazione italiana ed europea –
non riprese il suo posto che alla fine di aprile del 1821 (strana
combinazione: quando scoppia la rivoluzione in Piemonte, tanto la
legazione inglese a Torino che quella sarda a Londra e a Parigi sono
affidate a semplici incaricati d'affari). Lo aveva sostituito il
segretario di legazione Algernon Percy5, alle cui
informazioni, perciò dovette necessariamente attingere lo Hill
quando, tornato in Piemonte, cercò di farsi un giudizio
indipendente sulla portata e la vera entità dell'episodio
rivoluzionario, e in particolare sulla asserita responsabilità
di Carlo Alberto.
Che atteggiamento tenne il Percy
durante le giornate di marzo e quali furono i suoi rapporti con Carlo
Alberto? Queste domande involgono l'annoso problema dell'attitudine
inglese di fronte alle convulsioni italiane: problema al quale
l'autore di queste note ha dedicato un ampio studio, ormai prossimo
alla stampa. Ricordiamo qui poche circostanze essenziali.
Nella seconda metà del 1820, e
piú ancora nei primi due mesi del 1825, il Foreign Office era
stato ripetutamente prevenuto della minacciosa situazione interna del
regno di Sardegna. Prima di tutti dal Percy: il quale andava
sottolineando la doppia natura del male, crescente tensione
antiaustriaca e impazienti velleità costituzionali. Il 2
agosto 1820 egli cosí scriveva:
Mi
dicono aver Sua Maestà dichiarato che niente potrà
indurla ad accedere alla domanda di una costituzione; che abbandonerà
i suoi dominî continentali e si ritirerà di bel nuovo in
Sardegna piuttosto che assoggettarvisi a rinunziare ai suoi diritti,
o anche ammettere che venga posto qualunque controllo alla sua
autorità6.
Informazioni alquanto diverse, ma non meno preoccupanti, mandava
al Castlereagh suo fratello lord Stewart, ambasciatore a Vienna. Il
25 luglio, ad esempio, egli scriveva da Baden:
Si
crede che il re di Sardegna sia pronto a concedere una costituzione;
non v'è dubbio infatti, che ci si attende una rivoluzione in
Piemonte, a Genova, e (in genere) nel nord d'Italia7.
E quattro giorni dopo, da Vienna:
A
Torino regna una grande agitazione, e il re ha mandato qui (un suo
incaricato) per fare comunicazioni confidenziali all'imperatore
d'Austria. Sua Maestà Imperiale ha scritto personalmente al re
di Sardegna... esprimendogli la sua ferma decisione di assisterlo nel
conservare l'ordine attuale8.
Anche lord Burghersh, per quanto
ministro a Firenze, si sentiva in obbligo di richiamare l'attenzione
del Foreign Office su quel «gran focolaio di gelosia contro gli
austriaci in Italia» che era il Piemonte9. L'opinione
del Metternich, d'altronde, era ben nota a Londra: e il cancelliere
austriaco faceva di tutto per comunicare al collega inglese le sue
vive apprensioni circa la sorte del Piemonte affidato a un re «debole
e ondeggiante» e dotato di un esercito altrettanto agguerrito
che infido10.
Nonostante questi ripetuti
avvertimenti, lord Castlereagh, si sa, deliberatamente e
sistematicamente si astenne dall'esercitare in un senso o nell'altro
la propria influenza presso quella corte sabauda, che pure contava
fra le piú antiche e le piú fedeli alleate
dell'Inghilterra sul continente, e che in ogni contingenza difficile
aveva sempre beneficiato degli incoraggiamenti e dei consigli
britannici. La legazione inglese a Torino rimase – alla lettera
– senza istruzioni durante i mesi che precedettero lo scoppio
della rivoluzione, nonché durante l'intero svolgimento della
pericolosissima crisi.
Solo alla fine di aprile del '21
giunse a Torino lo Hill, munito delle istruzioni scritte e verbali di
Downing Street. Invano il governo francese scongiurò lord
Castlereagh di esternare il suo punto di vista sulla questione
piemontese11. Lord Castlereagh stava allora elaborando, in
relazione alla questione di Napoli, la sua dogmatica formulazione del
principio del non intervento, ufficialmente enunziato nel gennaio
'2112, del quale pareva che si piccasse di voler dare una
interpretazione preventiva e singolarmente estensiva, assistendo con
passiva indifferenza al maturarsi di una situazione rivoluzionaria in
un paese, come il Piemonte, minacciato sempre, in occasione di
torbidi interni, dall'intervento di una o di entrambe le potenze
finitime. Non pareva rendersi conto che l'unico mezzo per impedire
sicure violazioni di quel principio da parte di altri governi poteva
talvolta consistere appunto in tempestivi interventi diplomatici; non
pareva rendersi conto (e in questo aveva ben ragione il Metternich)
che la stessa solenne sua enunciazione non avrebbe mancato di
provocare in Italia, in quelle particolarissime circostanze di tempo,
le conseguenze piú indesiderate.
Fatto sta che a Londra il Castlereagh
evitò perfino di discutere la situazione piemontese coi
diplomatici sardi. Con essi parlava solo dei casi napoletani o di
politica generale13. Non già che egli non seguisse con
preoccupazione le vicende dell'Italia settentrionale dalle cui
complicazioni era evidente che poteva scoccare la scintilla
generatrice di un conflitto europeo e perciò anche, a tutto
danno inglese, di una possibile modificazione dello status quo
mediterraneo: ma il Castlereagh statista e Ministro degli esteri
subiva adesso, si direbbe, l'impaccio del Castlereagh teorico
politico. Troppo improvvisato, come teorico, e perciò troppo
rigido e ostinato, per trovare un ragionevole accordo fra la teoria e
la pratica.
Nella imminenza del Congresso di
Lubiana lo Stewart, tra l'altro, gli fece sapere essere intenzione
dell'Austria d'intendersi con le altre potenze italiane per una
contemporanea riforma dei loro ordinamenti statali. Era un'occasione
opportuna per l'Inghilterra per esercitare la propria influenza in
senso cautamente progressista.
Ma il Castlereagh non volle averci
nulla a che fare, adducendo che il suo paese non avrebbe mai potuto
incoraggiare una «lega italiana»: in realtà egli
sospettava le coperte mire dell'Austria; ma il suo disinteressamento
era proprio il mezzo piú adatto a sventarle?14.
Algernon Percy si limitò
quindi, contro diffuse aspettazioni e speranze, a tenere minutamente
informato il Foreign Office degli sviluppi della situazione in
Piemonte, astenendosi accuratamente dal pronunziare giudizi o
dall'avventare prognostici; quel che è peggio, ondeggiando
assai spesso, nella incertezza del punto di vista londinese, fra
opposti pareri e consigli.
Ma torniamo a Carlo Alberto. Ci furono
rapporti fra palazzo Carignano e la legazione d'Inghilterra
anteriormente al marzo '21? Nel primo semestre del '20 Carlo Alberto
è nominato una volta sola nella corrispondenza ufficiale
Torino-Londra: in occasione della nascita del piccolo Vittorio. E
neanche quella volta si dicono di lui cose peregrine. Dopo di allora
si capisce che il Percy dev'essere entrato in rapporti diretti,
relativamente frequenti, col discusso abitatore di palazzo Carignano.
In un dispaccio del 13 marzo '21, infatti, l'incaricato inglese si
farà un merito col Castlereagh di aver «sempre avuto
maggiore intimità col principe Carignano che non il resto del
corpo diplomatico». Ma si dovette trattare di contatti
meramente personali ed extra-ufficiali: fatto sta che non lasciarono
pressoché traccia nei dispacci diretti al Foreign Office.
Sarebbe azzardato supporre che, anziché per il consueto
tramite di corte, il Percy entrasse in rapporti amichevoli col
principe mercé le conoscenze che contava nel piccolo mondo
della nobiltà liberale? Certo è che nel dispaccio 5
aprile 1820 si legge essersi egli spesso incontrato con «un
piccolo gruppo» di liberali, o piuttosto (che il Castlereagh
non avesse a prendere ombra!) di «individui, i quali si
chiamano liberali piú per desiderio di originalità,
credo, che non per effettivi principî».
In un caso, però, l'incaricato
inglese avverte l'obbligo di riferire al suo ministro degli esteri le
confidenze di Carlo Alberto. Siamo nell'ottobre del '20. Ed ecco le
parole del Percy:
Durante
una visita che ho avuto l'onore di fare a S. A. Serenissima il
principe di Carignano per complimentarlo della nomina a Gran Mastro
dell'artiglieria15, la conversazione si volse sull'ingresso
delle truppe austriache in Italia. S. A. si espresse con molto calore
e non senza qualche ostinazione contro il governo austriaco, ciò
che avrebbe potuto stupire una persona meno al corrente (di me) dei
sentimenti dei piemontesi in genere; disse che sperava che sarebbero
rimasti dove si trovavano; che non potevano venire in Piemonte se non
per due ragioni: per tentare di conquistarlo, cioè, o per
prestargli assistenza; che la loro assistenza non era affatto
necessaria; e che egli era pienamente persuaso che la sola cosa la
quale avrebbe suscitato disordini nel paese sarebbe stata l'ingresso
di un soldato austriaco in territorio piemontese. Oso dire che questi
sentimenti sono universalmente diffusi tra i militari, e invero che
molti li esprimono troppo apertamente16.
Il dispaccio Percy non ci rivela nulla
di nuovo. Analoghe professioni di fede, analoghi sfoghi Carlo Alberto
andava facendo in quel torno di tempo, né solo oralmente.
Grave è però il constatare come egli non si facesse
riguardo di palesare questo suo stato d'animo a un membro del corpo
diplomatico recatosi da lui in visita ufficiale, e piú
particolarmente al rappresentante di quella Inghilterra
castlereaghiana, notoriamente in eccellenti rapporti con la corte di
Vienna.
Ma il Percy non si stupiva. Già
da tempo egli andava segnalando a Londra la pericolosa effervescenza
antiaustriaca determinatasi nei circoli politici e militari in
Piemonte, già da tempo egli sapeva che il re medesimo, anziché
porvi freno, ne era, inconscio, il primo istigatore17. Il
Foreign Office, per altro, non pareva preoccuparsene. Anche se il
Percy, qualche settimana piú tardi, scriveva che «il
terrore dell'artiglio austriaco... viene espresso ogni giorno piú
apertamente»18, il Castlereagh pareva pensare che a
tutto ciò avrebbero posto rimedio, quanto prima, i cannoni
austriaci destinati, senza il suo consenso ufficiale, ma col suo
espresso incoraggiamento ufficioso, a soffocare la rivoluzione di
Napoli19.
Dalla corrispondenza del Percy non ci
risulta che nel gennaio e febbraio del 1821 egli avesse altri
abboccamenti col principe: la cui attività e il cui contegno
venivano per altro attentamente seguiti. Ed ecco qui confermata la
palese disapprovazione di Carlo Alberto per la violenta repressione
dei moti studenteschi dell'11 gennaio20, ecco la notizia
inedita di una dimostrazione improvvisata in suo onore, la notte del
15 gennaio, dinanzi al teatro, da un centinaio di persone21,
ecco finalmente i preoccupati ragguagli sul sequestro di
corrispondenza settaria operato il 3 di marzo, con conseguente
compromissione del Carignano, «che il partito liberale tiene
come un idolo e considera come il principe adatto per venir messo
alla testa del governo italiano che esso si propone
d'instaurare»22. Siamo ormai alla vigilia della
rivoluzione. Il Percy segue la crisi con crescente ansietà,
con pessimismo marcato, l'occhio fisso alle mosse dell'Austria
impegnata nel Sud. Al primo sintomo di pronunciamento militare
prevede la defezione di tutto l'esercito; ben presto confesserà
di non veder altra salvezza pel paese, né altra alternativa,
che in una guerra all'Austria!23. Come osservatore è
eccellente: i suoi rapporti con palazzo Carignano, le sue frequenti
visite a corte e alla segreteria degli Esteri gli permettono di
riempire i dispacci, che quasi quotidianamente detta pel Castlereagh,
d'informazioni aggiornate e sicure. Ma come diplomatico, si può
dire, il Percy non esiste: la sua consegna è di stare a
vedere. Chi si aspetta (e son molti) una presa di posizione da parte
dell'Inghilterra, resta crudelmente deluso. Quel che il Percy può
fare si è (conformemente a un'inveterata e non troppo
compromettente abitudine inglese) di scrivere a Napoli perché
il suo collega A'Court spedisca a Genova una nave da guerra
britannica con l'ordine di accogliere a bordo, in caso di bisogno, la
famiglia reale24. Non altro. Nessuno sa da che parte sia
l'Inghilterra. Il ministro d'Austria la dà, senz'altro, per
solidale col suo governo, e il Percy lo tiene in rispetto facendogli
osservare che Inghilterra e Francia, unite, «potevano aver
qualche peso nella bilancia europea»25.
Il 13 marzo «uno degl'intimi»
del principe reggente cerca invece di dimostrargli «che
l'Inghilterra dovrebbe mandare truppe a guernir Genova, e aiutare il
Piemonte a liberare l'Italia dal giogo austriaco»; il Percy
verosimilmente protesta, e riferisce a Londra26.
Ma veniamo ai contatti con Carlo
Alberto. Il Rodolico cita di lui un dispaccio 16 marzo, recante il
resoconto di un importante colloquio col principe27. Sebbene
anche da precedenti dispacci possano trarsi notizie di qualche
interesse circa il costui atteggiamento28, esaminiamo questo
documento.
Carlo Alberto, reggente suo malgrado, lamenta di essere stato
abbandonato da tutti, specie da quelli che piú hanno insistito
perché assumesse la reggenza; auspica l'ora dell'arrivo di
Carlo Felice; invoca l'appoggio diplomatico inglese a Vienna, e
l'invio a Genova di una o due navi da guerra britanniche: i suoi
propositi appaiono incerti e contradittorî. È un
documento davvero impressionante, che induce a viva pietà per
il giovanissimo principe, anche se possa sorprenderci un poco, in
bocca a lui, la seguente intemerata, omessa dal Rodolico: «Egli
sconfessò e riprovò energicamente la condotta del
signor di Caraglio e di altri, i quali, per usare le sue espressioni,
si alzarono dalla tavola del re per tradirlo e commettere degli atti
di brigantaggio». Non avrebbe dovuto Carlo Alberto serbare in
proposito piú misurato linguaggio? Ma il Percy non azzardò
commenti né nel dispaccio al Castlereagh, né, tanto
meno, nella prudente risposta fatta all'imbarazzatissimo principe:
Osservai
a S. A. che non avevo alcuna autorità per darle anche le piú
lievi speranze di successo in questo negoziato; ... che tuttavia, e
pel mio personale attaccamento e per la mia radicata convinzione che
la nazione piemontese non desiderasse la rivoluzione, ero
premurosamente disposto a sollecitare la presentazione della sua
domanda a V. S. (al Castlereagh cioè); ma che ero fermamente
persuaso che qualunque misura ostile non provocata contro l'Austria
avrebbe portato a conseguenze di grave pregiudizio al compimento dei
suoi voti29.
Fu allora che Carlo Alberto, per dimostrare che non subiva la
volontà degli insorti, pregò il suo interlocutore di
far sapere al Binder, ministro d'Austria, come non solamente egli non
avesse autorizzato, ma anzi disapprovasse «tutte le misure
adottate contro la nazione austriaca e tutte le grossolane invettive
(lanciate) contro di essa». A prova di che egli si dichiarava
disposto a mettere in esecuzione qualunque provvedimento atto a
proteggere la persona del Binder, cominciando con l'istituzione di un
servizio di guardia alla sua residenza.
Il Percy accettò volentieri
l'incarico, che eseguí senza indugio: riconosceva infatti che
il suo collega austriaco si trovava «in una situazione
tutt'altro che piacevole, non potendo egli uscire di casa durante il
giorno senza il timore di venire insultato». Non che il Binder
non se lo fosse un po' meritato: al Percy stesso riuscivano da tempo
insopportabili le sue «altezzose» e «sofistiche»
argomentazioni circa la «missione» dell'Austria in
Europa30. Ma adesso occorreva difenderlo. Cosa rispose il
Binder? Ce lo dice il Rodolico, osservando:
Le
notizie dei fatti date dal Binder al Metternich concordano con quelle
date dal Percy al Castlereagh; in un punto solo vi è
discordanza (ed è umano): scrive il Percy che trovò il
Binder tappato a casa morto di paura; tiene il Binder a dire
che non ha affatto paura, e che ha fatto il bel gesto di rinunziare
alla guardia che il principe avrebbe voluto mandargli31.
Ci rincresce dover dichiarare che a questo punto l'austrofobia
ha... preso la mano al nostro storico. Ecco infatti il testuale
rapporto del Percy quale si legge nel già citato dispaccio del
16 marzo:
Credo
fermamente che il barone (il Binder) sia rimasto molto piacevolmente
sorpreso della mia commissione: egli era infatti estremamente agitato
quando io cominciai la mia comunicazione. Rifiutò ciò
nondimeno una cospicua protezione32, pregandomi di esprimere
la sua gratitudine al principe, e di chiedergli che in caso di
disordini venisse impartito alla polizia l'ordine di proteggere la
sua casa e le persone della sua missione da eventuali attacchi dei
male intenzionati.
Nessun contrasto, dunque, tra i due rapporti del Binder e del
Percy: e di quel «tappato a casa morto di paura», neanche
la minima traccia!33.
Un successivo colloquio col principe
l'incaricato inglese ebbe il 17 marzo. Soggetto: le voci diffuse di
un imminente sconfinamento dell'esercito sardo in Lombardia. Riferí
il Percy, quel giorno medesimo:
Il principe, dal quale mi sono ancora una volta recato questa
mattina, mi ha di bel nuovo assicurato esser sua ferma intenzione di
adoprarsi per evitare le ostilità e di richiamare le truppe
all'ordine.
Ma il Percy, pur persuaso della buona fede di Carlo Alberto, non
si era del tutto tranquillizzato.
Se
l'esercito – scriveva infatti due giorni appresso – porta
la guerra in Lombardia contrariamente alle proteste fattemi dal
principe reggente, credo che nessuno o almeno pochissimi oseranno
straniarsi dalla causa italiana, nel timore di venir bollati di
codardia, e in forza del principio, che si è affermato,
secondo il quale l'atto stesso di tradire il proprio re per una causa
cosí gloriosa sarebbe perdonabile34.
Era pervenuto intanto a Torino, si sa,
il duro proclama emanato il 16 marzo, a Modena, da Carlo Felice. Il
ministro inglese, in un secondo dispaccio del 19, lo censurò
apertamente, facendo notare come esso venisse a «gettare il
principe reggente nella piú grande perplessità e
minacciasse di suscitare una guerra civile in tutto il paese»
(di questa opinione non era il Gordon, sostituto dello Stewart a
Lubiana, il quale – dopo essersi fatto eco delle piú
gravi accuse contro Carlo Alberto – accertava che il proclama
aveva prodotto la piú favorevole impressione, rivelando in
Carlo Felice una energia di carattere molto superiore a quella che
non ci si aspettasse da lui)35. In questa occasione (era,
verosimilmente, il 18 marzo) il Percy si recò per la terza
volta presso il reggente, che attestò poi di aver trovato
comprensibilmente sfiduciato e depresso.
Voleva già allora rinunziare
alla reggenza, ma ne era stato dissuaso da tutti i ministri ed ex
ministri36. Lo rivide il giorno 20: la sera prima aveva avuto
luogo una violenta e, a giudizio del Percy, altamente impolitica
dimostrazione contro l'Austria37; l'incaricato inglese la
deplorava tanto piú che egli aveva mancato, la mattina del 19,
di trasmettere al principe, dietro richiesta del Binder, «una
delle numerose lettere anonime di minaccia» da questo ricevuti
(in quei frangenti non era assurdo addurre a pretesto le soverchie
occupazioni per esimersi da siffatte incombenze?) Carlo Alberto,
comunque, esibí al Percy
una
lettera che aveva appena ricevuto dal Binder, insieme con una
risposta di sua mano, che diceva come, in conformità al
desiderio espresso nella lettera del barone, gli sarebbero stati
mandati i passaporti38.
Nient'altro. Il Binder, è noto, partí in giornata.
Il suo collega inglese, intanto, s'impietosiva sulla sorte del
principe, e quasi quasi pareva auspicare che il paese in rivolta si
stringesse intorno a lui per resistere alle imposizioni del nuovo
sovrano.
È da
stupirsi – scriveva infatti – che, nello stato di
assoluta anarchia nel quale versiamo attualmente, non vengano
commessi piú gravi eccessi: il proclama di re Carlo Felice,
condannando senza speranza di perdono tutti coloro che si sono in
qualunque modo dipartiti dall'antica forma di governo, pare infatti
concepito apposta per suscitare il piú sanguinoso sommovimento
in tutto il paese.
Sua
Maestà non riconosce neanche il principe reggente, per quanto
egli sia stato positivamente nominato a quel posto dall'ex re suo
fratello. Ho sentito dire che, a chi gli osservava che una protesta
siffatta (il proclama cioè) avrebbe provocato una guerra
civile nei suoi dominî, S. M. abbia risposto: tanto meglio
cosí39.
Vane speranze, sterili sdegni. La rivoluzione era in pieno
tramonto, mentre da Napoli giungeva la nuova del troppo facile,
definitivo successo austriaco. La mattina del 21 Carlo Alberto in
persona comunicava al Percy l'avvenuta partenza della sua famiglia,
giustificandola con «ragioni di sicurezza»40. La
sera stessa abbandonava anch'egli Torino, diretto a Novara. Onde il
Percy, che verosimilmente ignorava come, cosí facendo, il
principe avesse eseguito un perentorio ordine pervenutogli dal
re41, e a cui resultava che anche il principe della Cisterna
aveva preso il largo, accorato scriveva: «È melanconico
osservare come quelli che hanno cosí attivamente contribuito a
portare il loro paese allo stato attuale, siano i primi ad
abbandonarlo».
Cessavano cosí i rapporti
diretti fra la legazione inglese e Carlo Alberto, il quale, da allora
in poi, non verrà nominato che di passaggio nel carteggio
ufficiale del Percy, pur ansioso osservatore di quel che accade ad
Alessandria e a Novara42.
Saranno le truppe fedeli sufficienti a soffocare gli estremi
aneliti della rivoluzione, o dovrà il Piemonte soggiacere alla
tremenda iattura dell'intervento austriaco, se non austro-russo?
L'incaricato inglese lamenta a tal punto «la distruzione totale
di questo bel paese, inevitabile nel caso che alle truppe straniere
si permetta di entrarvi», che, di sua propria iniziativa,
propone al Castlereagh di «offrire la mediazione
dell'Inghilterra per appianare il dissidio che esiste fra S. M. Sarda
e i suoi sudditi insorti, e per indurre il re a declinare
l'intervento dell'Austria e della Russia»43. Ma il
Castlereagh non intende esporsi troppo. Si limita, il 5 aprile, a
esprimere al Gordon, a Lubiana, la sua speranza che il Piemonte possa
venire a capo della crisi con forze proprie; che se poi un intervento
straniero si renderà necessario, meglio far marciare in
Piemonte le soldatesche dell'imperatore Alessandro che non quelle
austriache44.
Questo dispaccio è appena
partito che, il 7 aprile, gli Austriaci già varcano il Ticino!
L'Inghilterra, cosí non ha al suo attivo neanche un tentativo
indiretto per salvare l'autonomia del Piemonte. Che piú? Di lí
a qualche giorno il Percy dovrà declinare perfino l'invito
fattogli dal generale La Tour d'intervenire in favore del governatore
di Genova, minacciato dagli insorti di un processo sommario: non
altro egli si sente di fare, per conformarsi alle direttive del suo
governo, che d'ingiungere al console inglese di Genova di negare il
passaporto per l'Inghilterra agl'individui eventualmente implicati
nel deprecato processo...45.
Due mesi piú tardi, rievocando i vani sforzi compiuti dallo
stesso La Tour per ricondurre la quiete in Piemonte col solo ausilio
delle truppe realiste, il ministro Hill scriverà (11 giugno):
il generale ritiene però che se egli fosse stato appoggiato
da qualunque altra autorità, sarebbe riuscito allo scopo senza
l'aiuto austriaco; egli ha dichiarato altresí che se io fossi
stato a Torino e avessi potuto appoggiarlo energicamente nei suoi
propositi, questo resultato sarebbe stato indubbiamente raggiunto. Ma
egli era quasi solo a nutrire quel desiderio e quella certezza, e
venne soverchiato dalle opinioni di altre persone di pari autorità
ed influenza.
Lord Castlereagh poteva, invero, recitare il mea culpa.
William Hill era tornato in sede agli
ultimi di aprile. Quali istruzioni gli erano state impartite? Le
seguenti46: a) favorire con ogni sforzo il ritorno al trono
di re Vittorio; b) nel caso in cui ciò fosse risultato
impossibile, sollecitare l'arrivo a Torino di re Carlo Felice, e
indurlo a seguire i consigli del suo mite e assennato fratello; c)
suggerire al governo sardo la opportunità di usare la massima
indulgenza compatibile con la propria sicurezza verso i responsabili
dei passati disordini. Relativamente alla questione dinastica cui già
allora pareva dovesse dar luogo il dubbio contegno tenuto dal
principe di Carignano di fronte alla crisi rivoluzionaria, era logico
che lo Hill giungesse a Torino sfornito d'istruzioni precise. Troppo
poco se ne sapeva ancora, troppo contraddittorie erano le
informazioni fornite dalle due legazioni di Torino e di Vienna. Suo
compito precipuo era anzi quello di raccogliere in proposito dati e
testimonianze attendibili, sí da facilitare una eventuale
presa di posizione da parte del Foreign Office: la cui norma
tradizionale era per altro contraria a ogni mutamento nell'ordine
sancito dai trattati per le successioni dinastiche.
Tralasciamo qui di proposito
l'attività svolta dal ministro inglese in tutti gli altri
settori: basterà dire che a consigliargli prudenza e
riservatezza intervenne la voce, sparsasi nella capitale al suo
arrivo, che egli avesse la missione «di cacciare gli austriaci
dal Piemonte»47. Tanto tenaci, malgrado tutto, duravano
insensate illusioni sulla politica inglese!
Vediamo piuttosto lo Hill all'opera
per accertare le responsabilità di Carlo Alberto. I primi e i
piú notevoli accenni in proposito si trovano nel suo dispaccio
del 9 maggio, malauguratamente sfuggito al Rodolico, il quale,
crediamo, avrebbe potuto giovarsene per temperare talune fra le sue
argomentazioni. Ne riportiamo i brani piú significativi:
«Grande è il mio rincrescimento nel (dover) confermare,
su informazioni dello stesso conte Revel, che da principio (i
rivoluzionari) ebbero per loro capo S. A. S. il principe di
Carignano... Sebbene tutti quanti (alla lettera: tutti i
partiti) siano convinti che il principe Carignano abbia avuto parte
nella cospirazione, si hanno in proposito, a quel che sembra, piú
asserzioni che non particolari (concreti). S. A. S. venne compromesso
dalle carte sequestrate nella carrozza del principe della Cisterna,
in seguito a un'informazione fornita dal ministro sardo a Parigi al
ministro di polizia a Torino. Si dice che quest'ultimo si sia
immediatamente recato presso S. A. S. per darle la prima notizia
della scoperta. Sia ciò vero o non vero, il principe di
Carignano si recò quel giorno dal re nella sua residenza di
campagna48 e, a quanto pare, svelò tutto quel che
sapeva di questo complotto, compromettendo cosí tutti i suoi
giovani amici. Per tal motivo il suo nome, già idolo di
popolarità, non è stato da allora in poi pronunziato da
tutti (alla lettera: da tutti i partiti) che con esecrazione e
disprezzo. Fu tale l'effetto di questo mutamento improvviso, tale il
turbamento per la condotta arrogante di alcuni ufficiali, che il
principe disse al Percy che non avrebbe mai consentito a regnar sul
Piemonte, e ad altri parlò perfino di andarsene in
America...49.
So che S. A. S. ha scritto a un amico, il quale si è molto
distinto nel (servizio del) la causa reale a Genova per dire che egli
è in grado di giustificarsi pienamente; ad ogni modo si deve
tener presente che egli non ha che ventidue anni.
Quando
S. A. S. lasciò Torino, in seguito al primo proclama del duca
del Genovese, e raggiunse l'esercito reale a Novara, il generale La
Tour fece quanto poté per liberare il principe da questa
macchia sul suo onore; ma sia perché si diceva che S. A. S.
fosse minacciato d'assassinio se fosse ritornato (a Torino) con
l'esercito reale, sia per qualche altra ragione, egli si ritirò,
attraverso Milano, a Modena... e a Firenze, dove V. S. avrà
inteso che da principio non venne troppo bene ricevuto dal granduca
suo suocero...50.
Il
vecchio re Vittorio Emanuele non ha divulgato quel che è
accaduto fra lui e il principe a Moncalieri, si dice però che
il re abbia immediatamente accordato il suo reale perdono51.
Sebbene ciò possa essere stato determinato semplicemente dalla
bontà di cuore del vecchio re, le conseguenze politiche che ne
derivano sono importanti in quanto impediscono che si possa gettare
un cosí manifesto marchio d'infamia sull'onore dell'unico
erede riconosciuto della Corona...52.
Il lettore avrà notato da sé
quel tanto di nuovo che questo dispaccio rivela, e talune sue
inesattezze evidenti. A noi preme soltanto di rilevare come il
ministro inglese non dubitasse affatto, in sede morale, diremmo,
della colpevolezza del principe53, al quale, tuttavia,
accordava l'attenuante della giovanissima età; in sede
politica, invece, lo Hill pareva ritenere che la piena confessione
fatta a re Vittorio, il conseguente perdono da questo accordato, e la
savia condotta tenuta dal principe durante la sua tempestosa
reggenza, eliminassero ogni questione circa la pretesa indegnità
di Carlo Alberto a succedere al trono.
Questa presa di posizione, equa e
ragionevole, sebbene ispirata dal piú tenace antagonista del
principe, il conte Revel, non ebbe a subire, vedremo, sostanziali
mutamenti nel seguito, anche dopo che il ministro inglese attinse per
la sua indagine a piú serene fonti: ad esse si ispirò
il Foreign Office per regolare la sua condotta durante la prima fase
della questione Carignano, essendo interesse inglese evidente che il
ristabilimento dell'ordine in Italia non venisse comunque ritardato
da complicazioni conseguenti a una crisi ormai chiusa54.
Consacrati vari dispacci del maggio e
del giugno a ricostruire le fasi della rivoluzione, a discutere il
piano di occupazione austriaca e a sondare lo stato d'animo dei
sudditi di Carlo Felice, lo Hill tornò a Carlo Alberto il 25
giugno, con un dispaccio che è stato, nella parte essenziale,
pubblicato dal Rodolico55.
In esso il ministro inglese, che ha avuto diversi altri colloqui
col conte Revel, riferisce, in base alle costui affermazioni, essere
le prove del «tradimento» del principe ormai
innumerevoli, e in particolare s'indugia sui rapporti corsi tra Carlo
Alberto e il Revel il giorno innanzi allo scoppio della rivoluzione.
Quali i commenti dello Hill? Nel complesso non troppo sfavorevoli al
principe: nonostante tutto non gli è riuscito ancora di
appurare fino a qual punto egli sia stato effettivamente compromesso
dal carteggio Cisterna; e non gli sembra credibile che egli mirasse
davvero alla detronizzazione del re; e l'autorevole ministro di
Prussia non gli sarebbe cosí amico se fosse vero tutto quello
che si dice di lui. Ma l'argomento principe di cui si serve lo Hill
per revocare in dubbio l'implacabile condanna pronunziata dal Revel è
un altro. Leggiamolo nel testo tradotto, datoci dal Rodolico: «Mi
si dice che la regina Maria Teresa sia tuttora favorevole al
principe; e Sua Maestà sarebbe certamente l'ultima a perdonare
il principe se fosse sicura che S. A. avesse avuto tali idee».
Quali idee? Non si capisce. Forse quella di detronizzare il re suo
consorte? Ricorriamo al testo autentico. Tradotto alla lettera, ecco
quel che esso ci reca: «... e Sua Maestà sarebbe
l'ultima persona a perdonare se perfettamente convinta che S. A. S.
avesse avuto anche delle mire costituzionali precedenti (il
sottolineato è nel testo) alla rivoluzione». Ora
comprendiamo perfettamente. L'argomento piú forte usato dallo
Hill per scagionare Carlo Alberto è dunque invalidato dalla
falsa supposizione sulla quale si basa: sappiamo tutti infatti che
mire di quel genere, e sia pur contestate dal presunto consenso del
re, Carlo Alberto ebbe effettivamente anche prima del marzo fatale.
Non era vero, allora, che Maria Teresa avesse perdonato il nipote?
Oppure il perdono era stato concesso perché la regina ignorava
tale sua colpa? Né l'una né l'altra cosa; il problema,
ecco tutto, non va posto in questi termini cosí rigorosi. La
regina, lo vedremo meglio piú oltre, credette effettivamente
in una generica colpevolezza pre-rivoluzionaria, diciamo cosí,
del principe, e ciò non di meno si erse in sua difesa quando
tutti lo abbandonarono, peggio, gli si scagliarono contro, perché
ammirata del suo coraggioso contegno durante la bufera
rivoluzionaria. Tale il suo stato d'animo, necessariamente ignorato,
ancora, dallo Hill. Comunque, perché mai il Rodolico ha
soppresso l'errata illazione del dispaccio inglese? Non riusciamo a
comprenderlo.
Ho dato tutti questi particolari cosí minuziosi (seguita il
dispaccio Hill) attesoché la questione del ritorno in Piemonte
dell'erede presuntivo della Corona può diventar molto seria;
tuttavia, pur senza esprimere adesso alcun desiderio in proposito,
non posso credere che l'esilio di S. A. S. abbia ad essere cosí
lungo come s'imagina il conte Revel (la cui opinione era «che
non si sarebbe tollerato il ritorno del principe nel paese per
periodo assai lungo, e forse mai piú finché vivesse il
re»): la cosa dipenderà in gran parte dai futuri
ministri del re e da altre circostanze.
Pur continuando ad attingere principalmente al Revel per le sue
informazioni, lo Hill – si vede – comincia a formarsi un
giudizio indipendente e fondamentalmente ottimistico. Di lí a
poco, trasferendosi a Genova, egli ebbe modo di considerare anche piú
oggettivamente le cose. Al Rodolico è malauguratamente
sfuggito il dispaccio Hill del 15 luglio, datato appunto da Genova,
che avrebbe potuto fornirgli non inutili ragguagli. Leggiamo quel
tanto che ci può interessare:
Il
conte Des Geneys (governatore della città, cui Carlo Alberto
reggente aveva aperto con tutta fiducia l'animo suo: un personaggio
non certo sospetto di cosciente acrimonia contro di lui56) mi
ha confermato l'intenzione del re circa il principe di Carignano...:
a S. A. S. non si permetterà di ritornare a Torino. Sua Maestà
ha confessato al conte Des Geneys che, fra tutti i casi della
rivoluzione, nessuno lo ha imbarazzato o toccato al vivo quanto la
situazione attuale e la precedente condotta del principe. Avendo
chiesto al conte con quale pretesto il re potrebbe continuare (a
esercitare) la sua severità nei confronti del principe, posto
che il re abdicato lo aveva non solamente perdonato, ma nominato
reggente, egli mi ha risposto che S. M. Vittorio Emanuele, quando
aveva perdonato il principe, non era a conoscenza delle prove
esistenti circa il suo tradimento antecedente. Nel lasciare questa
città (Genova) per Lucca, re Vittorio Emanuele deviò
dalla sua strada, perdendosi perciò per qualche ora fra i
monti, per timore d'incontrare il principe che, a quanto si diceva,
aveva deciso di muover da Firenze a questo scopo57.
Certo
che la corte deve trovarsi nel piú grave dilemma circa S. A.
S.: giacché se il principe venisse perdonato, si farebbe, in
qualche misura, ingiustizia a molti ufficiali già
condannati... D'altra parte il principe è erede presuntivo
della Corona, e ha un bambino... Si pensa forse di trasmettere i suoi
diritti ai suoi cugini di Francia, fin qui ignorati dalla corte per
le loro mésalliances? C'è chi lo dice.
La testimonianza del Des Geneys è
molto importante: contro di essa non valgono, infatti, gli argomenti
abilmente usati dal Rodolico per infirmare la versione Revel. È
il Des Geneys che per il primo insinua nell'animo del ministro
inglese il dubbio che il perdono di re Vittorio, da lui fino allora
considerato sufficiente a chiarire giuridicamente la posizione del
principe, possa considerarsi come non avvenuto, perché
accordato in seguito a una confessione reticente. Di piú: che
le circostanze medesime nelle quali esso è stato accordato,
possano costituire una singolare aggravante per la posizione del
principe. L'aver re Vittorio evitato con tanta cura, a rischio di
perdersi fra i monti, un incontro con lui, non autorizzava il
sospetto, e quasi la certezza, che il duro contegno di Carlo Felice
verso l'erede presuntivo fosse, piú che giustificato,
pienamente approvato dal suo bonario fratello? Il ministro Hill, è
ben naturale, restò sconcertato e dubbioso. Perfino il conte
d'Aglié (l'equilibrato rappresentante sardo presso la corte
inglese), allora di passaggio per Genova, gli aveva espresso la sua
«cattiva opinione» di Carlo Alberto58.
Solo un colloquio diretto con i due
sovrani poteva ormai chiarire la complessa questione. Per l'appunto
in quei giorni lo Hill aveva ricevuto dal Foreign Office le
ritardatissime credenziali per Carlo Felice59. Si mise dunque
in viaggio (il 25 luglio) per Modena, dove soggiornava allora la
famiglia reale al completo. Passò da Firenze, donde –
scrisse il 18 d'agosto – «per fortuna il principe era
assente».
Non ci teneva a incontrarsi con lui! La prima persona che vide, a
Modena, fu il generale La Tour; venne poi ricevuto da re Carlo
Felice, che lo trattenne amichevolmente a colloquio per quasi un'ora.
Si capisce che lo Hill aveva dovuto nutrire di lui, fino allora, una
ben povera opinione (come tutti, del resto) se, nel rendere conto di
questo colloquio, sentí il bisogno di attestare che il re
aveva parlato «con buon senso, gusto, sentimento, e senza
alcuna durezza»!60. Quel che gli disse di Carlo Alberto
già sappiamo dal Rodolico61: Carlo Felice rievocò
i rapporti d'intimità che nel passato lo avevano unito a lui,
accennò poi all'improvviso raffreddamento verificatosi da
parte del principe già un anno innanzi, e che a quel tempo era
stato spiegato con motivi inerenti alla sua condotta privata; ma
adesso il re supponeva «che il principe stesse già
allora cospirando, e che fosse, o troppo occupato per potersi
mostrare, o che se ne vergognasse». Fin qui il brano riprodotto
dal nostro storico. Ma il testo prosegue:
Avendo
udito a Firenze... che il principe Carignano aveva deciso di
domandare che la sua condotta venisse giudicata da una corte
marziale62, e che la Russia l'avrebbe appoggiato in questa
domanda, menzionai la prima di queste voci a S. M.; S. M.
immediatamente rispose: verrebbe certamente condannato se mai (la
corte marziale) gli venisse concessa.
E lo Hill, a commento:
Non citerei questi piccoli particolari se essi non avessero
contribuito, insieme con le altre circostanze piú flagranti,
alla ferma e importante determinazione, cui adesso si è
giunti, di non piú permettere il ritorno del principe a
Torino.
Anche in questo caso, ne conveniamo senz'altro, il brano omesso
dal Rodolico non ci rivela proprio nulla di nuovo: la questione della
corte marziale e l'altra del ritorno di Carlo Alberto erano già
state, infatti, affrontate e, almeno pareva, risolte, durante il
viaggio di Carlo Felice in Toscana, nel mese di giugno. Il lettore
però potrà darci torto se ci permetteremo di dire che,
a nostro giudizio, quella secca, perentoria risposta del re circa
l'inevitabile esito di un giudizio marziale istituito a carico di
Carlo Alberto meritava di venir riportata? Se non altro per giustizia
verso Carlo Felice, che non è equo rappresentare come
unicamente intento, in un colloquio con un diplomatico straniero, a
dar sfogo ai suoi malevoli e generici risentimenti contro l'erede al
trono. La di lui convinzione assoluta della inescusabile colpevolezza
di Carlo Alberto può e deve venire ampiamente discussa; ma è
pur doveroso rendergli atto che egli ben seppe esprimerla al ministro
d'Inghilterra con dignitosa, regale fermezza.
E a questo proposito ci si permetta
una breve parentesi. Tanto il Luzio che il Lemmi63, e dietro
a loro molti altri storici, osservano che con la lettera diretta a
Carlo Alberto il 31 marzo 1821 Carlo Felice pareva aver perdonato il
nipote, o quanto meno che dal contesto di quella lettera egli pareva
animato verso di lui da sentimenti ben piú indulgenti di
quelli manifestatigli nel seguito. Come si spiega un siffatto
mutamento?
Secondo essi Carlo Felice sarebbe
rimasto profondamente urtato dai tentativi di Carlo Alberto
successivamente compiuti per persuadere re Vittorio a riassumere la
corona, per interessare alle sue sorti le corti estere (Memoriale
dell'aprile '21, ecc.). Il che è indubitabile; e se ne ha una
ennesima riprova nelle dichiarazioni fatte dal Della Valle (reggente
la segreteria degli esteri) allo Hill nell'aprile del '22, secondo le
quali se il Carignano si fosse astenuto dall'intrigare a suo proprio
vantaggio e, soprattutto, dall'aprire, per iscritto, la discussione
sul problema della sua responsabilità, Carlo Felice si sarebbe
trovato, nei suoi confronti, in una posizione incomparabilmente piú
difficile64. Non si dimentichi per altro che, il 21 marzo
'21, Carlo Felice ignorava ancora i retroscena della rivoluzione e
non nutriva che presunzioni generiche contro il contegno tenuto da
Carlo Alberto innanzi l'11 marzo; il principale capo d'accusa che a
quell'epoca egli poteva formulare contro di lui era quello di avere
abusato delle sue provvisorie funzioni di reggente per promulgare la
costituzione di Spagna. Ben altre informazioni dovettero pervenirgli
nel seguito, piú che sufficienti, invero, a ispirargli un
invincibile risentimento verso il suo nipote ed erede, anche se
questi, confinato a Firenze, avesse serbato quell'atteggiamento di
contrita riservatezza che ci si aspettava da lui. Perdonato una prima
volta da re Vittorio, una seconda, seppure assai meno esplicitamente,
dal suo successore, Carlo Alberto, comunque, non beneficiò
degli effetti né dell'uno né dell'altro perdono,
essendo entrambi stati accordati in piena tempesta rivoluzionaria, a
conclusione di una indagine necessariamente affrettata e incompleta
delle circostanze di fatto.
Che era giusto, dopo tutto. Solamente un lungo corso di anni,
vissuti da Carlo Alberto in penosa ma fruttuosa macerazione di
spirito, poteva giustificarlo agli occhi del suo re, e, che piú
importa, del suo popolo: anni durante i quali le drammatiche
antinomie del processo nazionale italiano, che avevano travolto il
giovane principe, si sarebbero di continuo ripresentate, maturando
cosí lentamente nuovi svolgimenti e nuove soluzioni, superanti
e integranti quelle esigenze in contrasto.
Ma torniamo allo Hill. Congedatosi da
Carlo Felice, egli si presentò alla regina regnante, e quindi
all'ex re Vittorio, il quale, accoltolo con l'usata
cordialità65, lo trattenne a lungo colloquio. È
un vero peccato che il Rodolico non abbia analizzato il resoconto che
lo Hill ne dette in quello stesso dispaccio del 12 agosto già
da lui esaminato per le dichiarazioni di Carlo Felice. Ne giudichi,
del resto, il lettore:
Sua
Maestà – cosí scriveva il ministro inglese –
confermò l'opinione del suo regale fratello, secondo la quale
il principe di Carignano verrebbe condannato se gli fosse concessa
una corte marziale. Il re dichiarò che quando il principe,
giunta la prima notizia della rivolta di Alessandria, si era recato
da lui a Moncalieri insieme col generale Gifflenga66, egli lo
aveva, sí, perdonato per ogni sua colpa antecedente a
quell'episodio; ma a quel tempo, osservò Sua Maestà,
egli ne sapeva ben poco, giacché il principe non era stato
gran che compromesso dalle carte sequestrate al principe della
Cisterna. Senonché S. A. S., non appena tornato a Torino, si
era compromesso di bel nuovo con i complotti dei cospiratori. Sua
Maestà non spiegò se di questo fosse già stato
informato quando aveva nominato il principe Carignano reggente, o se
le circostanze l'avessero obbligato a quel passo.
Il
re mi disse che nella notte fatale dell'abdicazione egli era stato
tradito dalla sua stessa anticamera, giacché ogni risoluzione
adottata o modificata veniva sull'istante a conoscenza della folla
fuori del palazzo. I suoi cavalli per recarsi presso le truppe erano
pronti, ma egli era stato soverchiato da cattivi consigli. La
grandissima maggioranza della moltitudine era composta di persone
innocenti, attirate dalla curiosità: S. M. avrebbe desiderato,
perciò, che si emanasse un proclama per disperdere il popolo,
o almeno per separare i curiosi dai rivoltosi; dopo di che avrebbe
ordinato alle sue truppe di caricare o anche di far fuoco67.
Il re aggiunse tuttavia che a questo punto egli aveva chiesto al
colonnello del reggimento Aosta se poteva fidarsi del suo reggimento;
questi aveva risposto che poteva fidarsene per tutto fuor che per far
fuoco su compatriotti; (il re) aveva poi rivolto quella domanda al
colonnello delle guardie, il quale aveva risposto che il suo
reggimento avrebbe obbedito qualunque ordine fosse piaciuto a S. M.
di impartire. Il re si era allora rivolto al principe Carignano per
chiedergli se poteva contare sull'artiglieria: il principe aveva
dichiarato che si trovava nella necessità di dare l'identica
risposta del colonnello del reggimento Aosta.
Tali le dichiarazioni di re Vittorio riguardanti Carlo Alberto.
Senonché diversi mesi piú tardi, annotando ad uso di
lord Castlereagh la celebre prima autodifesa del principe68,
lo Hill si sovvenne di un particolare importante del suo colloquio di
Modena, che nel dispaccio del 12 agosto aveva dimenticato di
riferire. Carlo Alberto, è noto, attestava in quel suo scritto
di avere, l'11 marzo '21, vanamente espresso in Consiglio parere
favorevole alla concessione della costituzione francese; il giorno
appresso (sempre nel suo racconto), urgendo gl'insorti per ottenere
la costituzione di Spagna, e opponendovisi il re, la regina, dopo
aver consigliato, caso mai, l'adozione di quella inglese,
mi
disse in presenza di tutti quei signori che si meravigliava come io
avessi suggerito il giorno prima la costituzione francese, mentre
qualche giorno addietro avevo detto al re che la costituzione di
Spagna era il maggior guaio che potesse toccare ad un paese e che un
sovrano non deve mai umiliarsi. Risposi allora a Sua Maestà
che tale era tuttora il mio modo di pensare69.
Sembra un qui pro quo: la regina che rimprovera il principe per
avere consigliato la costituzione francese dopo avere sconsigliato
quella spagnuola; forse che v'era contraddizione fra i due propositi?
Lo Hill chiarí la cosa nel dispaccio 9 febbraio 1822:
A
conferma di questo aneddoto re Vittorio mi disse a Modena che, alcune
sere prima della rivoluzione, il principe, trovandosi nel palco reale
al Gran Teatro, aveva condannato nei termini piú energici
qualunque sistema costituzionale70; e il re lo aveva
ricordato a S. A. S. allorquando la regina gli aveva rivolto
quell'attacco.
Ora sí che s'intende lo sdegno della regina!71.
Un altro punto nel quale la narrazione
di Carlo Alberto non coincide con quella di re Vittorio redatta dallo
Hill, è quello riguardante il «Consiglio di guerra»
dell'11 marzo. Abbiamo veduto la versione del re; quella del principe
sostiene invece: a) che il principe era stato interrogato pel primo;
b) che aveva dichiarato «che rispondeva interamente
dell'artiglieria leggera e che in quanto all'artiglieria a piedi
poteva assicurare che si sarebbe fatta ammazzare per difendere la
persona del re, ma che non poteva risponderne per agire»; c)
che oltre al colonnello delle guardie anche il colonnello del
Piemonte Cavalleria aveva dichiarato che rispondeva interamente del
suo reggimento. Quale la verità? Difficile
accertarla72; ci sembra comunque non privo d'interesse il
riportare a questo proposito la versione d'un testimone oculare, pur
sospettissimo, il Della Valle, il quale fece molti mesi piú
tardi le sue confidenze allo Hill. Secondo il Della Valle (dispaccio
Hill 3 agosto 1822) il primo a parlare, in quella occasione, era
stato il colonnello Ceravegna, del reggimento Aosta, nel senso già
noto.
Il Della Valle, udito ciò e veduto il principe secondare
quella dichiarazione con cenno di approvazione, si volse al Vallesa,
che assisteva al Consiglio quella notte fatale, osservando anche lui
quel che stava succedendo, e tutti e due dissero a un tempo: «Non
fosse la presenza del re, dovremmo buttarli dalla finestra».
Grottesca spavalderia, d'accordo; alla verità della scena
sembra, per altro, dare una indiretta conferma la testimonianza di un
terzo testimone oculare, il Saluzzo. Questi, è noto, venne da
Carlo Felice mandato, nel '22, ministro a Pietroburgo. In uno dei
primi colloqui che ebbe col ministro degli esteri russo, il
Nesselrode, avendogli questo domandato «perché gli
ufficiali che circondavano il re la notte dell'abdicazione non
avessero immediatamente arrestato il colonnello del reggimento
Aosta», il Saluzzo (ci riferisce lo Hill nel già citato
dispaccio 3 agosto 1822)
rispose
con grande presenza di spirito: Vostra Eccellenza sa che non avremmo
potuto arrestare il colonnello di quel reggimento senza arrestare un
personaggio di rango molto piú elevato73; al che il
conte Nesselrode mutò immediatamente argomento.
Rinunziando comunque a contrapporre le deposizioni di Carlo
Alberto e di re Vittorio per pronunziarci sul maggior grado di
attendibilità dell'una o dell'altra, questo solo ci preme di
rilevare: che nell'agosto del 1821 re Vittorio giudicava la condotta
del Carignano con altrettanta se non addirittura con maggiore
severità di Carlo Felice; al punto da ritenerlo
indiscutibilmente condannabile da una corte marziale; al punto da
considerare il perdono di Moncalieri come moralmente invalidato dalle
circostanze nelle quali era stato concesso74; al punto (e
questo è l'elemento piú grave) da ritenere opportuno di
influenzare in senso contrario agl'interessi del principe il ministro
di quella grande potenza che, per essere antica alleata del Piemonte
e, insieme, non sospetta di voler esercitare indebite e interessate
pressioni sulle sue direttive politiche, era forse la piú
idonea a pronunziare nel consesso europeo una parola di serena
giustizia, atta a risolvere nel modo piú prudente e piú
equo la questione dinastica sarda75.
Piú favorevole a Carlo Alberto era invece, si sa, l'ex
regina Maria Teresa. Essa precorreva l'equo giudizio della posterità
asserendo che la coraggiosa condotta da lui tenuta nei giorni del
pericolo e delle responsabilità, quando cosí facile era
stato, e cosí comodo, ai severi censori del poi il ritirarsi
ad aspettare gli eventi, meritasse pure riconoscimento, e, insieme,
riscattasse in gran parte i suoi torti antecedenti. La testimonianza
della regina riveste certo un valore notevole; ond'è che ben a
ragione il Rodolico v'insiste di continuo. Siamo lieti, perciò
di potergli segnalare un'altra prova significativa della di lei
parzialità per Carlo Alberto. Essa si trova nello stesso
dispaccio Hill del 12 agosto:
Dopo
aver preso congedo da S. M. – egli scriveva – ottenni una
udienza dalla regina Maria Teresa, una principessa di grande ingegno
e capacità. Il discorso di S. M. fu in gran parte dedicato a
giustificare l'abdicazione del re... Usando un linguaggio assai
epigrammatico, essa disse che, nonostante una lunga negoziazione e
l'abuso di falsi colori nel dipingere la situazione, il re si era
trovato nelle condizioni seguenti: i ribelli nella Cittadella
minacciavano di bombardar la città e il palazzo (reale) se il
re non avesse immediatamente firmato la costituzione di Spagna; il
re, tenendo sempre presente la provvidenziale assenza di suo
fratello, aveva preso (allora) la decisione, del tutto inaspettata,
di abdicare: ciò che aveva sconvolto completamente i piani dei
rivoluzionari e l'intera rivoluzione76. In un precedente
dispaccio ho detto che la regina passava per essere un po' piú
favorevole al principe del rimanente della famiglia reale. (In questa
occasione) S. M. non mi disse che poche parole relativamente al
principe; senonché, esprimendosi severamente sul conto degli
Spagnuoli e della costituzione di Spagna, S. M. osservò che
tutt'al piú le idee del principe Carignano non erano mai
andate piú in là della Carta francese77.
Anche in successivi dispacci piacque
allo Hill insistere sulla indulgenza della regina per Carlo
Alberto78. Conviene a questo punto domandarci se tale
indulgenza, pur spontanea, non coincidesse per avventura con gli
interessi di Maria Teresa, che già vedemmo – la sera del
12 marzo – vivacemente ostile al principe. Orbene, a noi sembra
abbastanza probabile che proprio lo stesso motivo che piú
d'ogni altro contribuí a inviperire Carlo Felice contro di lui
(i reiterati tentativi da lui compiuti per persuadere re Vittorio a
riascendere il trono) sia stato quello che valse a riconquistargli le
simpatie di Maria Teresa. La regina era ambiziosa, di carattere
attivo ed energico; passata la bufera rivoluzionaria, è
verosimile che due sentimenti lottassero in cuor suo: il desiderio di
veder abrogato l'atto di abdicazione, e la preoccupazione per la
salute di re Vittorio che esigeva assoluto riposo. La premurosa
insistenza di Carlo Alberto, ad ogni modo, soddisfaceva il suo amor
proprio. Piú tardi essa lottò virilmente, oltreché
contro minori pretese del nuovo re suo cognato, contro quella,
apparentemente ingiustificata e inumana, di tener lontani dal
Piemonte re Vittorio e lei stessa (ciò risulta con sufficiente
evidenza dall'insieme del carteggio di Hill). Occorre dire che Carlo
Alberto non poteva non seguire con la piú viva simpatia questi
suoi sforzi diretti contro il comune loro persecutore, sforzi dei
quali il ministro inglese si era fatto caloroso sostenitore e
campione?
Una tal quale comunanza di
risentimenti e solidarietà d'interessi li univa dunque; quella
solidarietà che fece perfino temere allo Hill, il giorno in
cui parve che re Vittorio e Carlo Alberto, benché per opposti
motivi, fossero entrambi, e forse per sempre, banditi dalla patria
loro, che «la corte abdicataria potesse entrare in Piemonte con
intenzioni ostili, accompagnata dal principe di Carignano». La
mitezza di re Vittorio, per fortuna, rendeva quei timori infondati;
ma, come scriveva lo Hill, «dal talento e dal risentimento
della regina v'è tutto da temere»79.
Una quinta udienza ottenne il ministro inglese a Modena:
dall'arciduca Francesco. L'influenza da lui notoriamente esercitata
su Carlo Felice, il prestigio di cui godeva a Vienna, le voci che
erano corse su una possibile devoluzione a sua moglie, e quindi a
lui, dei diritti di successione alla Corona sarda, tutto ciò
rendeva particolarmente importante il conoscere il suo punto di vista
sulla questione Carignano. Ma il duca di Modena, se a lungo
intrattenne lo Hill su argomenti di politica generale, scandalizzando
il suo interlocutore (che ricordava di avere udito da lui, non troppi
anni innanzi, ben diversi propositi!) con le smaccate sue professioni
antiliberali80, «evitò accuratamente l'argomento
del principe di Carignano; una sola volta, essendo ricorso il suo
nome, S. A. R. si serví di espressioni piuttosto sprezzanti».
Tiriamo le somme. Reduce dal viaggio
di Modena, William Hill si confermò in sostanza nel primitivo
suo atteggiamento circa la questione Carignano. Egli riteneva ormai:
a) che, nonostante le innegabili colpe del principe nella fase
preparatoria della rivoluzione, non sussistessero a suo carico
elementi di tale gravità da giustificarne l'esclusione dalla
successione al trono sabaudo; b) che la situazione dinastica,
considerata in se stessa, rendesse ad ogni modo estremamente
sconsigliabile tale esclusione, anche se operata, secondo l'opinione
e il desiderio prevalenti81, a beneficio del diretto
discendente di Carlo Alberto; c) che, nonostante i fieri
propositi per allora nutriti da Carlo Felice, questi avrebbe o prima
o poi accordato al Carignano il definitivo perdono; d) che,
ammesso che Carlo Alberto avesse dovuto un giorno regnare, sarebbe
stato opportuno di non prolungare di troppo il periodo della sua
«disgrazia» ufficiale82. Tale il suo punto di
vista, tali le direttive alle quali, nei mesi seguenti, egli ispirò
la sua molto prudente, ma non meno tenace azione politica83.
Conosciuto un po' meglio il nuovo sovrano, lo Hill non tardò a
comprendere come, «nel caso che S. M. potesse un giorno
disporsi a perdonare il principe di Carignano, sarebbe stato suo
desiderio che questo atto apparisse (compiuto) interamente di sua
propria iniziativa»84. I governi alleati potevano
dunque (e forse dovevano) adoprarsi a vantaggio di Carlo Alberto,
procurando di aiutarlo a vincere i sincerissimi scrupoli del re di
Sardegna; ma non mai illudersi di poter indurre quest'ultimo a un non
sentito perdono: a meno che non si decidessero – ipotesi
assurda – a forzar su di lui la volontà dei piú
forti85.
Non aveva egli ripetutamente
minacciato di abdicare piuttosto che lasciarsi imporre dalle potenze
adunate a Lubiana indesiderate riforme da introdurre nei suoi Stati?
E non avevano in quel caso, le potenze, receduto, non essendo
conforme ai desideri di alcuna di esse che Carlo Alberto salisse cosí
presto sul trono?86.
Prudenza e pazienza, dunque: specie
dopo quella intervista di Hannover (ottobre '21) che aveva
ristabilito fra il Castlereagh e il Metternich un'intesa completa,
basata sui comuni interessi dell'Inghilterra e dell'Austria nel
vicino Oriente e in Spagna87.
D'accordo
con i miei colleghi ho sempre pensato – scriveva lo Hill in un
dispaccio segretissimo del 23 febbraio '22 – che, se mai S. A.
S. il principe di Carignano tornerà (in patria) tanto prima
avrà luogo questo ritorno, tanto meglio; ho anche giudicato
severo il provvedimento di esclusione contro un cosí giovane
principe; ma conoscendo i forti pregiudizi del re, l'effettiva
colpevolezza del principe, e la poca speranza o opportunità di
vincere un punto di questa importanza con la fretta o la violenza,
non solamente ho serbato io stesso il silenzio, ma, se mai, ho
dissuaso altri dall'abbandonarsi a un'attività troppo
spinta88.
Senonché sul cader del '21 Carlo Felice improvvisamente
deliberava di sottoporre ai suoi augusti alleati l'inderogabile
determinazione cui era pervenuto di escludere Carlo Alberto dal
trono. La legazione inglese non ne venne informata (in tutta
segretezza) che nel febbraio dell'anno successivo. Alla segreteria
degli esteri, volendosi giustificare tanta severità del re, si
ebbe cura di far osservare allo Hill, dal quale ci si aspettava un
congruo appoggio a Londra89, come la grandissima maggioranza
della nobiltà piemontese fosse notoriamente, risolutamente
ostile a Carlo Alberto: del che il ministro inglese non poteva,
allora, non convenire90. Ma qual era nei suoi confronti lo
stato d'animo degli altri ceti sociali? Né il Revel, il quale
si atteggiava a uomo superiore alle meschine vicende della questione
Carignano91, né il Della Valle, né il
Saluzzo92, né il re medesimo parevano preoccuparsene.
Non cosí il ministro Hill, il quale – 23 febbraio –
scriveva a lord Castlereagh che, anziché con orrore,
molte
persone del ceto inferiore avrebbero forse accolto il ritorno del
principe con indifferenza, se non con piacere, scorgendo qualche
attenuante (a suo favore) nella sua giovane età, e giudicando
eccessivamente severa la sua definitiva espulsione93.
Cosí avvenne di fatto. E a noi piace di additare nella
sintomatica anticipazione di quel diplomatico un lontano e sia pur
vago presagio di quella fruttuosa intesa fra monarchia e ceti medi,
che costituí forse la piú profonda innovazione del
regno di Carlo Alberto, e, in quanto quel sovrano la volle e la
mantenne, uno dei principali motivi della sua tormentata grandezza.
Ma non il solo Hill, allora,
avventurava profezie. Al conte Della Valle, il nemico piú
meschino e piú acerrimo che Carlo Alberto contasse in
Piemonte, va forse il merito d'averne dettate due anche piú
luminose: quella che se mai, per disgrazia, il Carignano fosse salito
sul trono, «la miglior speranza per il Piemonte sarebbe
consistita in un qualche sistema costituzionale»94; e
l'altra, men vera nella sua materiale accezione, eppure anche piú
profondamente vera, che, in quel caso, l'Austria in Lombardia non
sarebbe certo rimasta piú di due anni95.
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