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Nello Rosselli
Saggi sul Risorgimento

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  • II. Giuseppe Montanelli
    • 1. Frammento della incompiuta vita di Giuseppe Montanelli
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II.
Giuseppe Montanelli

1.
Frammento della incompiuta vita
di Giuseppe Montanelli

 

La giovinezza.

 

Fucecchio è un antico borgo che, armoniosamente, toscanamente disposto sulle pendici di una collinetta, domina la vallata dell'Arno fra Empoli e Pontedera. La piana, ai suoi piedi, è maravigliosamente bella e feconda. In lontananza, a ponente, sfumano i monti di Pisa, e a mezzogiorno le stanno di fronte le torri di San Miniato, col lunghissimo corteggio di case allineate in doppia fila sul crinale di un poggio. Dalla parte opposta, sono le giogaie dell'Appennino, macchiate di castagneti, piú sotto il famoso padule, oggi in gran parte prosciugato. Borgo antico, Fucecchio come attestano i mozziconi di mura e le due torri rossastre, coronate di verde che la sovrastano; come attestano certi suoi palazzotti, e le viuzze sinuose e scoscese. La gente è industriosa, fiera, risentita; cattolica, ma libera; povera, ma con altissimo senso di sé. Dopo le chiese, piú numerosi vi sono le osterie e i caffè: luoghi di ritrovo e questi e quelle, ché i fucecchiesi amano di radunarsi a crocchio, per parteggiare e motteggiare e accapigliarsi, o anche per implorare il Signore e festeggiare, chiassosamente, il carnevale o il santo patrono.

In questo luogo, vero nodo strategico tra Firenze, Siena, Pisa, Lucca e Pistoia, e dominante le tre vallate dell'Arno, della Pesa, della Nievole; a due passi da Vinci e a mezz'ora di vettura dalla Certaldo di Giovanni Boccaccio, in questo luogo, il 21 gennaio del 1813, nasceva Giuseppe Montanelli. La casa dei suoi, piú che decente, sorgeva proprio nel centro, schiacciata in mezzo ad altre case bige, un po' cupa, senza sfondo di giardini o di larghi, tipicamente provinciale nel suo decoroso prospetto a pietrami, con un gran tetto spiovente. Il padre, Alessandro, era un piccolo possidente di terra e di case, ma soprattutto maestro dilettante di violino, organista e compositore d'occasione, personaggio importante in un paese in cui la passione musicale è sentitissima in tutti, e in una regione in cui l'orgoglio di possedere una banda, e di misurarla in periodiche sfide con l'altre del circondario, apporta tradizionalmente magri bilanci municipali. Luisa Pratesi, la madre, proveniva da una famiglia di grossi negozianti livornesi: avvenente della persona, d'animo e di temperamento dolcissimi, e d'intelligenza particolarmente vivace. La imaginiamo di fattezze un po' esili, di poca salute, e forse un po' spaesata in quel borgo di gente grossa e rumorosa, in cui le parentele erano e sono vastissime, e anzi metà della popolazione portava quello stesso casato dei Montanelli.

Giuseppe, toscanamente Beppe, fu il primogenito: seguirono due femmine, Teresa e Gegia. Prima infanzia senza storia nella bambagia della casa paterna, mentre la patria vedeva senza rimpianti e senza entusiasmi crollare la prestigiosa impalcatura francese e rientrare a palazzo Pitti, dalle brume del Nord, il bonario granduca, in tiro a quattro. Girate pei colli, a diporto o per visitare i poderi, e lunghe soste in chiesa, col padre rapito all'organo o con la madre in preghiere. Le due grandi passioni della sua vita, l'aperta campagna e la musica, mentre il problema religioso fu sempre il suo piú profondo e costante tormento: che eran poi tre modi diversi di avvicinarsi a quel Dio che gli riempiva l'anima del suo mistero, quando anche, fatto grande, volle provarsi a negarlo: certo, vie migliori e piú attraenti che non gli sapesse additare, dall'alto della sua professionale imperturbabilità, lo zio prete, fratello del padre, che viveva in famiglia, all'ombra della Collegiata, un po' pedagogo e un po' persecutore dei tre nipotini.

Con l'alfabeto, Beppe impara le note: sillabario e gorgheggio son la sua dose di tutti i giorni. Ha una bella vocina perfettamente intonata, che il babbo e un altro musicista del luogo – il maestro titolare della bandabadano a educargli: a otto o nove anni già trilla, in chiesa, negli assolo, tanto che i paesi vicini se lo disputano per cantare nelle grandi solennità religiose. Spesso, quando è in campagna, improvvisa secondo il suo estro, o anche seduto al piano: e il padre sogna di mandarlo, un giorno, a studiare nel celebre conservatorio di Napoli, che ha dato al mondo il prodigio di un Bellini.

Lo zio prete, che ha fama di erudito e di poeta sacro, e che comunque passa alcune ore del giorno rintanato fra i molti suoi libri, è il suo primo maestro; o almeno è lui che, oltre ad infliggergli i rudimenti del latino, lo inizia ai misteri della versificazione.

Nove anni, bella vita: e se una precoce e malinconica maturità vela talvolta il suo sguardo, se la fragilità della sua complessione fa che in famiglia si trepidi sempre un poco per lui, non per questo gli sono ignote le bande dei monelli, e il libero errare in quella liberissima terra, e le spedizioni nei paesi vicini, Castelfranco di Sotto, San Pierino, sulla grande strada pisana, Lamporecchio, patria dei brigidini. Ma il culto per la mamma – un culto spinto fin quasi alla morbositàsovrasta in lui ogni altro sentimento.

Cerca le carezze di lei con un abbandono e uno slancio che i piú dei coetanei considerano indegno, ormai, della loro adolescenza incipiente; e in lei si rifugia freneticamente, quasi presago di un prossimo abbandono.

La bella vita, infatti, è al suo termine. Un altro zio prete, che in Pisa è salito in grado eminenterettore del collegio di Santa Caterinainsiste perché il fanciullo gli venga affidato: il collegio è il migliore di Pisa, se Beppe ha ingegno si farà le ali. Beppe inizia il suo volo col cuore grosso; mai ragazzo di provincia soffrí tanto allo stacco. Pisa è una risplendente meteora e vi ha sede la famosissima università, che sforna medici e avvocati e impiegati di governo; ma non è senza sgomento che da Fucecchio ci si avventura in quel mare, e il collegio può sembrare una prigione a chi è avvezzo a tanta aria, a tanto moto, a tanto verde.

Addio Fucecchio, addio marmaglia giocosa, addio babbo e mamma e sorelle: dalla diligenza che vola via tra suon di bubbole e schiocchi di frusta, il «signorino» avviato alla tonaca o alla toga, converte in lacrime l'invidia dei compagni, mentre gli sfilan davanti le care cose di tutti i giorni.

Lo zio rettore lo accoglie bene in collegio, ma da uomo positivo comincia subito a levargli i grilli dal capo: latino e grammatica han da essere, e il pianoforte vien severamente proibito: la musica non è che uno spasso lecito a tempo perduto.

Imprigionato in quelle alte mura, tra gente sconosciuta, privato di quella divina armonia che gli parla la lingua della sua casa e dei suoi colli nativi, Beppe si consuma in tristezza. Passano lunghi mesi invernali, grigi come l'anima sua, cui già nella vita non par di scorgere che dolore e rinunzia. Gli studi procedono cosí fiacchi e mediocri che lo zio rettore risolve di rimandarlo a casa per qualche mese, a ritemprarsi. E finalmente Beppe ritorna a Pisa col sospirato permesso del pianoforte, la prima battaglia vinta: ché se non si giunge a concedergli un maestro di musica, come vorrebbe, pure si industria a esercitarsi da sé e del resto è già in grado, fra i tasti e la voce, di saziare quel bisogno di pura bellezza che lo tormenta e lo esalta. Si procura musica nuova, altra ne compone da sé, e cosí rasserenato attende agli studi, di latino, di greco, di filosofia, che segue senza sforzo e non senza successo, ma con la marcata indifferenza di chi ha il capo ad altre cose.

Collegio di preti, quello di Santa Caterina96: preti insegnanti, preti prefetti, e obbligatorietà di un culto che è troppo esterno ed imposto perché possa conquidere i ragazzi.

D'altronde la continua convivenza con quegli ecclesiastici non giova a persuadere i convittori del carattere sacro della loro missione. Uno scetticismo, ora allegro e ora musone, che in particolare si manifesta in una tenace repugnanza alla confessione (intesa piú come sistema disciplinare che non come atto puramente religioso) e alle estenuanti pratiche di devozione si impadronisce di Beppe, come, del resto, dei piú fra i suoi compagni. La religione ufficiale soffoca e svia, come accade, la religiosità naturale, che quanto a lui, tuttavia, trova il suo sfogo o piuttosto la sua perfetta espressione nel linguaggio musicale, rifugio frequente di tanti mancati credenti.

Nel 1826, quando Beppe lascia finalmente il collegio per fare il suo ingresso all'università (a tredici anni giusti, età non infrequente allora per l'inizio degli studi superiori: quali studi e quanto «superiori» è facile imaginare!), quando, esordendo alla libera vita, piú gli occorrerebbe la remora di un culto e di una fede, egli è adunque peggio che un ribelle, uno scettico, cui la frettolosa imbottitura erudita e, piú, l'età immatura non hanno ancora consentito di cercare altrove, in sede filosofica, una nuova certezza interiore. Cosí disarmato, e senza transizione, egli entra nella vita libera e indipendente della università.

È uno sbandato. I suoi, cedendo ai consigli dei due zii canonici, vogliono che studi legge; lui preferisce la medicina, ma intanto non pensa che a godere della sospirata libertà: e sono amicizie sperticate con altri studenti, entusiasmanti scorpacciate di musica97 (l'organo della chiesa del Carmine è il suo preferito; a un certo punto, anzi, si offre e viene accettato come organista fisso, seppure dilettante), frequenza saltuaria alle lezioni della Sapienza, di medicina e di legge. Dal collegio di Santa Caterina lo zio reverendo veglia come può, cioè poco e male, soprattutto mercé periodici rabbuffi, sullo scapestrato matricolino. Il quale, per quanto tenuto a stecchetto da casa, assapora con delizia la vita studentesca, con quel che essa comporta – e piú comportava allora, in una città come Pisa – di scioperato, di senza pensieri, di baldanzoso fino a credersi, i sapientoni, i padroni del mondo, in genere, e in ispecie della città e delle sue bellezze, non solamente quelle di marmo. La precocità di Beppe nella musica e nella poesia (con quanta facilità non gli vien fatto di sciorinare versi, o sia per solennizzare, su commissione, una ricorrenza sacra, o sia per altri piú futili motivi!) lo rendono uno dei compagni piú ricercati. Ma gli slanci romantici, e i romantici pudori, che se non fossero in lui connaturali, basterebbero a instillargli le gran letture che fa e il malioso mito romantico che tuttora perdura a Pisa di uno Shelley e di un Byron, stati a lungo a poetare su quei Lungarni e a riempir di stupore e di fragore e di scandali le quiete vie della città, fan che Beppe s'accosti e s'accomuni piú volentieri con quelli tra i condiscepoli cui la gaia vita della Sapienza è, come per lui, non altro che un mezzo per meglio vibrare e conoscere e amare, e non già mero sbrigliamento dei sensi e occasione per quotidiane bisbocce.

Che gl'ispirava la musa? Fin dal 1827 – non aveva che quattordici anni – tre delle sue poesie molto immeritatamente salivano agli onori della pubblica stampa: Per S. Omobono; Conversione di S. Ranieri; L'Annunciazione di Maria Vergine. Sapevano, a dir il vero, un po' troppo di sacrestia, e per fortuna altre corde sostituirono presto, sulla sua lira, quella chiesastica:

Qual son di gioia e chi soverchia il giorno

con tanti rai? Voi siete angeli ardenti?

siete voi che con festosi accenti

all'augusto Omobon volate intorno.

Quell'«augusto Omobon» e quegli «angeli ardenti» erano una peregrina trovata che meglio sarebbe stato confidare alla discrezione, non dirò del cassetto, ma d'un cestino, ingiustamente privato, anzitempo, delle sue spettanze...

Peggio trattato quel povero san Ranieri, che, messo in guardia dal poeta, per la sua vita indegna:

... comprendi appieno

qual densa nebbia intorno ti circonda!

cosí, nel sonetto, improvvisamente si decideva a mutare strada:

, disse Alberto. Allo splendor del giorno

schiuse, riscosso dal letargo, il ciglio

e fe' Ranieri al sommo Iddio ritorno.

Dove il lettore può consolarsi pensando che l'autore di quei rimati misfatti li aveva perpetuati per mera esercitazione, non sentendo affatto il suo tema; e insieme costernare nel constatare che si trovassero allora delle pie persone disposte a prestarsi alla stampa di quelle sacre mostruosità, e, peggio ancora, a leggerle!

Con l'Annunciazione siamo, fortunatamente, in un'altra sfera, se non proprio nel cielo dell'arte, lasciamo andare, ma certo meno remoti:

Stupí, tremò la Verginella Ebrea

all'apparir del messagger celeste

che librato sull'ali e preste

d'inusato chiaror raggi spandea

E poi:

Disse e cosí come penetra il sole

entro l'onda, nel sen di lei s'ascose

dell'eterno Signor l'augusta prole.

Riser le sfere e la sembianza amara

la squallida Natura allor depose...

tanto bella umiltade al Ciel fu cara.

, noi avremmo preferito qualunque altro verbo, in questa occasione, a quello «spandere» prescelto dal poeta, e la «sembianza amara» ci fa pensare piuttosto a qualche ingrata droga che non all'inverno o al maltempo; ma chi vorrà negare che per quattordici anni, via, non c'era male? La donna, anche se col D maiuscolo, sapeva suggerire al poeta imagini piú felici, e un versificare piú spontaneo e semplice che non gli esempi dell'astratta virtú o le gloriose vicende dei santi virili. Giacché la donna gli era nel cuore e nella fantasia di ragazzo sognatore e romantico, mentre la storia sacra, come tale, non gli diceva assolutamente piú nulla.

Non stampati, se Dio vuole, ma tra le poesie di quel tempo, troviamo altri sonetti del Montanelli. Un Temistocle al soglio di Serse, che, accusando di lontano un miglio la bravura di un primo della classe, non saprebbe che infastidire quando il primo endecasillabo, col richiamarci alla memoria l'offenbachiana Belle Hélène, non ci mettesse, piuttosto, di buon umore:

Quel Temistocle io son che un sostegno...

Il giovane arcade era, s'intende, un pacifista convinto: grave sventura della causa antibellica quella di non riuscire a ispirare di sé che trilustri!

Chi fu, chi fu colui che armò primiero

l'omero e il fianco di faretra e d'arco?

Quanto spietato ei fu, qual grave incarco

sovrappose di mali all'orbe intero!

Senonché a qualche maggior indulgenza vuole indurci il sospetto che di questi e altrettali sonettucci Beppe imbrattasse le carte ancor prima del 1827. Si veda, ad esempio, quello consacrato alla morte del Canova (e il Canova, si sa, morí nel 1822) dove non sapresti se piú ammirare le «onorate porte» dell'artista o il suo «mesto in letto» giacere o il librare «le penne» dell'inesorabile giustiziera. Indimenticabile la chiusa:

Pianse allor la Scultura e ebra di sdegno

gridar parve alla morte: – Ahi qual splendore

involasti, o crudele, al mio bel regno!

Ma se l'autore lo scrisse a nove anni, chi non vorrà perdonargli?

Lo lasceremmo comunque senza rimpianti alle sue fatiche poetiche, augurandogli una benefica maturazione, se non ci piacesse di cogliere, prima, un altro aspetto della sua lira, quello scherzoso: per allora senza dubbio il migliore. Due esempi soltanto. S'approssimano le solennità natalizie, e il giovanissimo studente è squattrinato: perciò si rivolge allo zio canonico:

Prossimo è il giorno in cui per nostro amore

volle farsi bambino il sommo Iddio;

ve lo rammento, o mio signore Zio.

E perché mai? già vel predice il cuore

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Voi siete perspicace e m'intendete,

sicché mi taccio e dal Ciel prego a voi

cento anni e piú di vita, e se volete

sempre buono appetito, e corpo sano

e quanto puossi piú bramar; di poi

verrò a baciarvi, o caro zio, la mano.

La vigilia di Pasqua siamo alle solite:

Pensai che i miei compagni in allegria

celebreran di Pasqua or or la festa,

lieti mangiando alla presenza mia.

Ed io dovrò (che acerba pena è questa)

leccarmi intanto i baffi ed andar via

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Il giorno avanti Pasqua ormai s'abbuia,

sicché voglio spiegarvi i desir miei,

ma, o caro Zio, questa rimaccia in ria

non mel permette dir... Cantar vorrei

al suon delle monete l'Alleluja.

Ché se lo zio canonico era un tipo da allentare i cordoni della borsa a una richiesta cosí... disinvolta, buon pel Montanelli; ma allora dovremmo inferirne che il bigottismo imperante nel collegio di Santa Caterina fosse temperato alquanto dalla bonarietà del suo rettore! Ed ora voltiamo pagina.

Chi furono, tra il '27 e il '30, gli amici del Montanelli? Ne conosciamo alcuni. Si chiamavano Giuseppe Giusti98, Vincenzo Malenchini, Giovanni Fabrizi99, Leopoldo Galeotti, Tommaso Corsi, tutta gente della quale, detto il nome, s'è detto tutto al lettore. Ma poi anche fra i meno noti all'università e tuttavia tutt'altro che ignoti ai conoscitori della storia italiana, civile e politica, dell'Ottocento, un Giuseppe Barellai, un Leopoldo Pini, un Adriano Mari100, un Adriano Biscardi, un Luigi Tonti, un Dell'Hoste: tutti studenti di legge, meno il Barellai; tutti coetanei del Montanelli, meno il Giusti e il Biscardi, di quattr'anni maggiori, e il Corsi e il Fabrizi piú giovani d'un anno101. Bella infornata, via, per l'università di Pisa, nel 1826, due anni dopo la laurea di Francesco Domenico Guerrazzi! Dal piú al meno quegli studenti in erba vi portavano tutti una gran voglia di studiare... la vita, e poco le pandette; un entusiasmo per la poesia e in genere per le letture «geniali», che le panche della Sapienza, se mai le avessero assiduamente scaldate, avrebbero certo trattenuto e sviato e, forse, spento del tutto. Legga chi vuole lo scintillante esordio del Giusti studente regalatoci da Ferdinando Martini, dove per vero piú si parla delle bizzarrie d'altri scolari (uno dei quali battezzato con l'eloquente soprannome di Stravizio) e anche di professori, che non dei primi studi del poeta valdinievolino. Se il Giusti, da Pisa, faceva disperare quel povero cavalier Domenico, che in Pescia predicava bene ma, come si sa, razzolava malissimo, gli altri gli tenevan bordone; e per esempio Leonetto Cipriani, che del Montanelli era stato compagno, se non amico, negli anni claustrali di Santa Caterina, seppe accozzarne tante che non solamente il collegio gli toccò lasciare, ma bensí anche Pisa e ben presto l'Italia...102.

Il Malenchini non era neppure lui quel che si dice uno stinco di santo, nei suoi giovani anni, né il Biscardi, né il Fabrizi. Luigi Tonti, pistoiese, poetava e sognava cosí romanticamente col suo fraterno amico Montanelli, e tanta luna, pallida naturalmente, era nei suoi versi, che questi, al confronto, avrebbe potuto dirsi inclinato addirittura all'epica!

Cosí le matricole; cosí, se non peggio, gli anziani: tra i quali non possono dimenticarsi Michele Carducci, babbo di Giosuè, ed un Giovanni Frassi, e Giuseppe Mazzoni di Prato: ai quali vorrei aggiungere Francesco Forti, il grandissimo giurista, di soli sette anni maggiore al Montanelli, e come lui allievo del Carmignani103, e il Guadagnoli, che per quanto assai piú vecchio di costoro, già laureato da alcuni anni, seguitava a vivere e a folleggiare a Pisa, in compagnia degli studenti, eterno studente lui pure, nei modi di vita e in quel suo prender cosí sul serio le filastrocche che scompisciava con troppo piú brio che arte. Un altro, che studente non era piú da molto tempo, ma che a Pisa capitava di tanto in tanto, e che – soprattutto – il Montanelli incontrava durante le vacanze a Fucecchio, era Silvestro Centofanti: un uomo di gran sapere, certo, e di grandissimo entusiasmo per gli studi, cui però la soverchia opinione di sé e il facile eclettismo tolsero di segnare in un campo o nell'altro quel profondo solco fecondatore che non ha proprio nulla a che vedere coi successoni mondani, libreschi o cattedratici. Montanelli, studente svogliato di legge, ma lettore appassionato e assetato di coltura extra accademica, gli si attaccò, a Fucecchio, con quello smisurato slancio che era una delle piú belle e anche delle piú pericolose caratteristiche del suo temperamento. Scorgeva in lui il rinnovatore della filosofia italiana, il genio vivificatore che dominava le scienze le piú disparate e ne illuminava i nessi e i rapporti reciproci, la mente somma che con la ragione aveva superato, non bestemmiato, la fede104. Gli si metteva alle costole per intere giornatesdegnando gli ammonimenti degli zii canonici che lo avevano in sospetto di ateismo – e, alla lettera, pendeva dalle sue labbra. Correvano quasi vent'anni fra loro; pure il Centofanti non sgradiva affatto la compagnia del ragazzo, che capiva a volo anche le astruserie e che, d'ingegno precoce, ma duttile e influenzabile quanto si può esserlo a quell'età, prometteva di diventare piú ancora che un valido araldo dei suoi sistemi filosofici, addirittura come figlio suo spirituale, un'opera sua, e magari un capo d'opera. Centofanti parlava tutto il tempo, e di tutto: a un tratto, passeggiando, si arrestava di colpo, e imponendo silenzio al discepolo: – Zitto – gli diceva – mi passa un pensiero filosofico... sorprendo la natura nell'atto... un giorno sentirai il mio nome ripeterlo da tutti gli echi del mondo... Io sono il Napoleone del pensiero –. Bum! Senonché l'implume Montanelli, sprovvisto ancora del vivo senso dello humour, invece di sbottare in una risata omerica, compreso di ammirazione obbediva, pago, e anzi orgoglioso di assistere in tutta umiltà alla misteriosa genesi dell'Idea. E non pure ascoltava reverente e commosso, ma si prestava in mille modi a facilitare il geniale lavoro del suo «maestro»: procurandogli libri, copiandogli manoscritti ed anche scrivendo dietro dettatura105.

L'esempio del Centofanti, le immense soddisfazioni interiori che costui ricavava o pareva ricavare dalla sua applicazione, e che si traducevano in quella tranquilla, incrollabile sicurezza della sua superiorità, persuasero il Montanelli a gettarsi a capofitto, sotto la guida di lui, negli studi di filosofia. Legge? Medicina? Musica? Poesia? Bazzeccole, minuscole sfaccettature d'un prisma che solo la filosofia poteva abbracciare nel suo insieme, come altresí scomporre e ricomporre. La religione? Un'impostura per i poveri di spirito: o una giustificazione per i pigri di mente. Cosí, fra i tredici e i sedici anni, piú che alla Sapienza di Pisa il Montanelli fu a scuola da quella, non meno enciclopedica, gli pareva, e senza dubbio piú unitaria, del Centofanti.

Principiò col D'Alembert, introduzione, appunto, alla Enciclopedia, e poi giú a tutto spiano, illuministi e sensisti, Volney e d'Holbach, il nuovo verbo. Destino consueto degli ex seminaristi e dei nipoti di canonici.

Non ci voleva un gran che a levare dalla testa una religione che non era nel cuore e che quantunque si chiamasse cristiana, aveva a che fare col cristianesimo precisamente quanto il paganesimo

cosí il Montanelli nelle Memorie, rievocando la sua adolescenza;

religione tutta di pratiche esterne, di genuflessioni alle immagini, di scappellature ai preti, di rosari, di messe, di vespri, di viacrucis, religione che identificava con tutti i ricordi di tedio e d'oppressione domestica, subita da noi fanciulli in quel barbaro sistema d'educazione pretesca vigente nei nostri collegi e nelle famiglie dette religiose. Una ruttata di Holbach e di Volney bastava a persuaderci che, per essere uomini davvero, non dovevamo credere né a Dio, né all'anima, né a Cristo, né al diavolo, ma solamente alla ragione e alla natura106.

L'importante si fu che il Montanelli non studiava per far pompa, all'«Ussero» o sui Lungarni, della scienza cosí trangugiata, ma proprio per verace amore dello studio. Anzi, al caffè degli studenti capitava ben poco, ormai, e come sopra pensiero; e all'università ci andava per dovere d'ufficio, con la benigna sopportazione di chi, avvezzo a volare per l'aria, sia costretto di tanto in tanto a prender terra e ad accomunarsi col vile pedone. Prendeva delle solenni indigestioni di libri, sepolto giorno e notte a tavolino fra pile di volumi e catafalchi di appunti. L'Alfieri rinsavito s'era fatto legare alla seggiola; lui, malato di troppa saviezza, si legava alla vita un cordone con una campanella, perché, caso mai si fosse addormentato, il movimento solo del chinare il busto sul tavolo valesse a destarlo. La filosofia lo rimandava alle scienze particolari, a tutte le scienze107; perciò si muniva di trattati elementari di ogni disciplina, e ingurgitava anche quelli con la furia frenetica di chi dovesse a tutti i costi giungere a un momento determinato a un determinato traguardo, e magari s'aspettasse un premio supplementare per ogni secondo d'anticipo.

Invece del Centofanti, che per lettera o a voce lo spronava a seguitare per quella strada, col rischio e anzi con la preventiva certezza che gli accadesse quel che accade a noi del XX secolo che per piú vedere viaggiamo a cento chilometri all'ora, salvo a dover rifare a piedi, more antiquissimo, quel tanto di paese che veramente vogliam conoscere, invece del Centofanti, gli ci sarebbe voluto, io penso, un buon amico sensato che avesse saputo levargli di sotto quel troppo di libri e condurlo seco a zonzo per la città, e la campagna, e magari un Giuseppe Giusti innamorato e fannullone, che gli avesse procurato l'occasione di una prima cotta a dovere, tanto meglio se per qualche donnetta di quelle che a Pisa, allora, si specializzavano in studenti a spasso. Non si accorgeva che quell'imparaticcio affannato gli logorava i nervi e gli occhi e gli affinava il già esile petto?

La sapienza è un po' come il vino, che a mezzi litri e litri interi puoi anche, se lo stomaco è all'ordine, pasteggiar tutti i giorni, e anzi ti fa pro', ma lo stravizio prima ti alle gambe, poi alla testa, e finalmente, se séguiti, ti ringrullisce davvero e per sempre.

Il Montanelli lo salvò una malattia, che sarà stata, come si dice oggi, un bell'esaurimento nervoso: ma allora chissà come l'avranno chiamata; certo stette male, e dovette curarsi a lungo, e a lungo riposarsi. Morale: si persuase che «est modus in rebus», e che, se proprio a lui non poteva parere che fosse meglio un asino vivo che un dottore morto, per morire dottore era pur d'uopo, intanto, vivere per addottorarsi. Natura gli aveva dato, s'è detto, poco giro di petto, e un corpo secco e allungato, coi nervi a fior di pelle e due occhi malinconicamente cerchiati e profondi, di quelli che fan pensare al mal sottile in agguato. Una gran fronte li sormontava, continuata, in alto, dalle stempiature precoci: dissero poi che assomigliava al Mazzini (e piú gli somigliò quando, come lui, si lasciò crescere una barbetta stenta e i due baffi a ricasco), e, a giudicar dai ritratti, bisogna riconoscer che è vero: né tanto in questo o quel particolare della figura quanto nel suo complesso e negli atteggiamenti e nel rapporto tra le membra e in quel caratteristico contrasto tra la fragilità dell'aspetto e l'impressione di solidissima forza interiore che ne promana irresistibilmente.

Riprese a studiare, ma con piú metodo e calma; non sembra, ma a riempir la cisterna fa piú una pioggia continuata e calma che non un grande scroscio calamitoso, il quale, anche se il cielo incomba gonfio e nero, già si sa che dura poco, senza contare che per la troppa sua forza rischia d'ingorgare i condotti e cosí sperder l'acqua all'intorno, inutilizzata e inutilizzabile. Ancora i suoi filosofi, , ma forse con minor presunzione di scoprire in loro la chiave buona per tutte le toppe, forse con piú gusto per i problemi che non per la loro soluzione, con piú intelligenza insomma. E non piú il Centofanti unico nume, seppur tuttavia al posto d'onore nel Pantheon, ma in associazione e in contrasto con altri: giacché era legge del Montanelli studente, come del resto dei piú fra i suoi colleghi d'allora, di prima e di poi, di concepire e di imparare ad amare la scienza in funzione e quasi per tramite di un particolare scienziato, e di aver sempre, per cosí dire, un santo di settimana. Che è poi, anche quello, un modo di espandere il prepotente bisogno d'amare e di credere che tutti i giovani incalza, e chi non abbia una fede o una donna, crederà nel maestro e amerà lui, e disgraziato quello che, fra i quattordici e i diciotto, non abbia adorato un sistema o un'idea o un ideale di vita personificandoli di volta in volta in uomini vivi assunti a specchio di perfezione.

Aveva ormai sedici anni il Montanelli quando al Centofanti scriveva, il 15 di giugno del '29, invocandolo a Fucecchio: «... Ella solo può mettermi nella buona strada per giungere al tempio vero della sapienza». , ma nel contempo dandogli conto, oltre che delle letture in corso (ideologia del Traus) del buon proseguimento dei suoi studi legali, lo informava di vittoriosi esami sostenuti alla Sapienza108: s'era dunque messo di buona lena, finalmente, al suo curricolo universitario, trovando anche , come accade nonostante le ostentate espressioni di scherno che saran sempre di prammatica tra gli studenti di piú robusta e sveglia vita intellettuale, pan pei suoi denti, e non affatto insipido o secco. Certo, l'università di Pisa non era allora proprio nel suo fiore; tramontati da tempo i suoi astri maggiori (l'ultimo, il celebre Pacchiani, aveva appena lasciato la cattedra di fisica), rimanevano riditori e accademizzatori; cosicché, un po' per colpa di qualche singolo docente e un po' perché dal '15 in poi tanti germi di libera vita, cioè di cultura, erano stati, anche in Toscana, sistematicamente soffocati e isteriliti – non per nulla le università sono i registratori piú certi, e direi quasi i termometri, d'ogni minima oscillazione della temperatura spirituale di un determinato paese – la Sapienza poteva già dirsi in lento, ma certo decadimento. Comunque, qualche bel nome continuava ancora ad adornare di sé le liste professorali: e basterà citare un Rosini e un Ragnoli, a lettere, un Carmignani e un Del Rosso, a legge109, alle cui lezioni accorreva sempre una gran folla non di soli studenti, e delle cui opere si parlava non pure in Toscana, ma in tutta la Italia dotta, e anche al di delle Alpi. Al Rosini (vedremo come si facesse rider dietro per le sue correzioni... al Manzoni) proverbiato per la sua prosopopea, tutti perdonavano sorridendo la mania di scrivere romanzi e commedie, che lui soltanto considerava immortali, perché come insegnante, era indubbiamente assai dotto e infaticabile, e come uomo d'una bontà e d'un candore a tutta prova. Certo, il Montanelli frequentava i suoi corsi e, se non la sua casa, certo, o al caffè o in altre conversazioni, lo avvicinò di frequente. Per quanto attempato e togato, per quanto lo chiamassero Pompa, il Rosini sapeva mettersi in confidenza con i giovani d'ingegno, con taluni dei quali non sdegnavacosí col Giusti – di scambiar versi per darne o riceverne impressioni e consigli; e con i giovani scrittori talvolta anche polemizzava o s'imbizziva per la recisione dei loro giudizi critici, come accadde ad esempio col Montanelli qualche anno piú tardi, a proposito di una sua non so quale sentenza intorno alla nuova e alla vecchia scuola in un articolo di rivista110. Allora il Montanelli si mostrava severo col vecchio maestro, che aveva la debolezza di far recitare a Pisa, a un pubblico composto in gran parte di suoi studenti, commediole da strapazzo, come – nel marzo del '36 – I nipoti e la zia, che fu un memorabile fiasco111; ma prima d'allora, negli anni della formazione, non era stato cosí, s'è detto, e anzi gli si era sinceramente legato.

Ma il maestro cui piú dovette il Montanelli, e in primo luogo il gusto degli studi legali, fu senza dubbio il Carmignani, titolare di diritto penale, legittimo vanto della facoltà pisana, uomo di prodigiosa erudizione e versatilità, allora all'apogeo della sua grande carriera d'insegnante e di avvocato. Era una bella tradizione dell'università di Pisa quella che il piú e il meglio dell'insegnamento, per gli studenti volonterosi, non si facesse in aula, dalla cattedra, ma in casa dei singoli professori, che anticipavano cosí, all'infuori dei regolamenti, i moderni seminari di facoltà. Il Montanelli fu tra gli assidui del Carmignani, dal quale si disse allora che non sapeva staccarsi mai, seguendolo a casa, allo studio, al caffè, alle veglie serali presso questa o quella famiglia pisana, sfruttando la sua biblioteca112; affettuosa ammirazione da una parte, fiducioso incoraggiamento dall'altra: il Montanelli non piú se ne scordò, quand'anche, piú tardi, il Carmignani, grave di anni e intellettualmente diminuito, mutasse assai d'umore nei di lui confronti, ingelositosi dei suoi successi, quasi che il merito primo non ne spettasse per l'appunto a lui.

Si veda a riprova di questa riconoscente equità del Montanelli l'altissimo encomio che al suo maestro egli tributò, venti anni dopo, nelle sue Memorie, sottolineando la novità e l'importanza delle sue dottrine giuridiche e filosofiche113.

Scorsero cosí, tra maestri, libri ed amici, gli anni dell'università: anni quieti e fruttuosi pel Montanelli, almeno a giudicare dal tono e dal contenuto delle sue lettere e dal pochissimo ch'egli credette di dovercene dire, appunto nelle Memorie. Anche la grande scossa del 1830, che pure infiammò tanto la gioventú italiana, se certamente lasciò traccia nel suo spirito, risvegliandovi un mondo di idee e di aspirazioni fino allora o immature o inespresse, non valse a distorglierlo dagli studi. Il suo nome, ad esempio, non comparve mai, per allora, tra quelli, registrati dal Buon Governo, degli studenti piú infiammati o imprudenti: vero è che non aveva che 17 anni. Pure si furon proprio quei libri, quelle abitudini di disciplina intellettuale, quel frequentare l'élite della intelligenza toscana che di lui, come di tanti altri, suoi amici e compagni, fecero il patriota italiano nel senso moderno della parola. La generazione che nel '48 si mostrò matura ad affrontare, se non proprio a risolvere, il problema italiano, era quella appunto che intorno al 1830 sedeva ancora sui banchi dell'università e che – le poche eccezioni confermano la regolaassisté senza direttamente parteciparvi al grande esperimento fallito del '30-31. Prendiamo i nomi dei giovani compromessi, in Toscana, nei disordini di quel biennio, e constateremo che salvo il Guerrazzi e pochissimi altri, nessuno di costoro prese parte attiva, nell'età matura, alle risolutive vicende del successivo ventennio: molti, anzi, fra i giovani liberali del '30, nel '48 erano diventati codini... La generazione del Montanelli cominciò ad agire politicamente, cioè a dar daffare alla polizia, disorientata dai nuovi metodi di cospirazione e di propaganda, proprio dopo il tramonto delle illusioni del 1830-31.

Ma si deve a questo punto rilevare un carattere dell'università pisana che non è senza importanza per determinare il tipo di patriottismo e, in genere, di passione politica che furono del Montanelli e di moltissimi fra i suoi condiscepoli. Questa università, se ancora non contava fra i suoi docenti scienziati di altre regioni d'Italia, come ben presto fu suo vanto e fortuna (una fortuna dovuta proprio all'ondata di repressioni che investí il mondo intellettuale della penisola all'indomani del '30, ma che in Toscana ben presto s'andò attenuando fin quasi a scomparire del tutto), già da tempo si era segnalata e come specializzata nella larghissima ospitalità che accordava agli studenti forestieri, né solamente italiani. Era un poco la tradizionale mitezza e liberalità del governo toscano, in materia politica, commerciale, di culto, che attirava gli studenti stranieri, molti dei quali già stabiliti con le loro famiglie in Toscana, o destinati a prendervi radice una volta laureati; era un poco il portato del magico clima e della magica bellezza della Toscana; e finalmente era un poco l'effetto della comparativa indulgenza che, all'indomani della grande crisi italiana del 1820-21, si era usata verso i relitti, qualche volta illustri, di quel drammatico naufragio di speranze: in quale altro Stato della penisola sarebbe stato tollerato un gabinetto letterario di fama europea come quello Viesseux dove, attorno ad uno svizzero, si fossero riuniti sistematicamente i rappresentanti dell'intelligenza locale con un Colletta, un Pepe, un Leopardi, un Tommaseo, un Poerio, un Montani, un Giordani, ospiti semi-permanenti della città di Firenze? E quale altro governo avrebbe permesso che costoro accogliessero, come facevano, ogni straniero di distinzione che fosse di passaggio, senza riguardo per le dottrine politiche che professasse, e anzi tanto piú gradito e onorato se di sentimenti liberali? Il Buon Governo, si sa, si limitava a sorvegliare, a prender nota degli incontri, di tanto in tanto a sussurrare, non mai a intimare, consigli di prudenza: le filze dell'archivio segreto ingrossavano, delizia degli storici futuri, ma le riunioni seguitavano tranquillamente, alimentate dal rigoglioso fiorire dell'«Antologia», e a loro volta alimentatrici di quella famosa rivista.

L'università di Pisa, dunque, era un po' il frutto di quel sistema e di quelle abitudini: ed appariva, in qualche modo, come una specie d'immenso gabinetto Vieusseux per gli studenti. Gli studenti toscani non costituivano, anno piú anno meno, che all'incirca una metà della popolazione studentesca – gli altri eran lombardi e piemontesi ed emiliani e romani; piú, con qualche francese o tedesco, due grossi nuclei distinti, uno straniero e di nazione e di lingua, l'altro soltanto per appartenenza politica: quello dei greci e quello dei corsi, che si contavano di anno in anno a parecchie diecine, e in qualche anno salivano a piú centinaia. Che i corsi, legati alla Toscana da antichissimi vincoli, e da perduranti interessi commerciali, mandassero i loro figliuoli a studiare a Pisa, nulla di strano: tanto piú che il francese, ancora, lo masticavano poco (ma fu una circostanza, quella, di decisiva importanza per l'avvenire della Toscana, e ben lo seppe il Mazzini che seppe mirabilmente sfruttare ai suoi fini quella periodica migrazione di cittadini francesi); piú singolare, invece, l'afflusso dei greci, fattosi particolarmente intenso col crescente peggiorare delle relazioni fra governo e governati, nelle province cristiane dell'impero turco, e poi con lo scoppio e il prolungarsi della irresistibile rivolta. Li dicevano greci tutti quanti, ma venivano da Corfú come dall'Albania, dal Dodecanneso come dai principati di Moldavia e Valacchia o dall'Armenia. Portavano a Pisa la nostalgia della loro patria schiava, il fascino di un'antichissima civiltà soffocata, la dolcezza della loro lingua, il loro gusto agli studi, alle sètte, agli intrighi. Se dai compagni corsi gli studenti di Pisa apprendevano quel che fosse fierezza e solidarietà regionale e in piú ne derivava interesse ai problemi della politica interna francese, quelli greci davano loro il senso vivo di come la questione nazionale premesse non pure l'Italia, ma mezza Europa, e perciò solo si imponesse la necessità di una stretta unione fra combattenti per la libertà nazionale, a qualunque paese appartenessero, di contro al fronte unico della Santa Alleanza. La loro università, insomma, era un poco lo specchio d'Italia e d'Europa: e in nessun altro luogo veniva fatto cosí naturalmente ai giovani colti di discorrere della grande politica, di sprovincializzarsi, di cogliere il lato universale di certi problemi che altrove venivano posti con esclusivo riferimento alle vicende e alle necessità italiane.

Questo carattere cosmopolitico dell'università pisana non è stato sufficientemente rilevato o rammentato sin qui: eppure ebbe decisiva importanza nella formazione del patriottismo toscano. E ancora non bene si sa quanta parte l'ateneo pisano, a un passo dal porto franco di Livorno, prendesse alla organizzazione e alla alimentazione della rivolta greca; né con quanta commozione vi si seguissero le vicende della infelice Polonia. E in quale altro centro italiano si era meglio informati delle cose francesi? E dove piú rapidamente e frequentemente potevano pervenire le notizie della emigrazione italiana, che, col fissarsi numerosissima in Corsica, pareva voler serbare la speranza o l'illusione di un piú facile e prossimo ritorno in patria, mentre piú agevole le riusciva di mantenere di contatti con i gruppi cospiranti all'interno?

A Pisa il Byron aveva concepito la generosa sua spedizione, e vi era rimasto, nell'aria, un profumo di gentile eroismo; a Pisa si erano rifugiati, per ritemprarsi, sfortunati campioni della lotta antiturca; a Pisa, famosa allora pel clima di eccezionale mitezza, usavano svernare personaggi stranieri, inglesi i piú, cioè protestanti, liberali, umanitari, e per giunta gran propagandisti delle loro dottrine.

Questo l'ambiente, estremamente vivo e stimolante, nel quale si formò il futuro triumviro del 1849: del quale vedremo ben presto come si andasse scegliendo gli amici piú intimi non solamente fra i piú congeniali dei compatrioti toscani, ma tra studenti d'ogni parte d'Italia, e fra i Corsi e Greci. Anticipazione di un internazionalismo tutto spontaneo, che fu sempre uno dei fondamenti incrollabili della sua ideologia politica.

Ed ora avviciniamoci un poco di piú al Montanelli tra i diciotto e i vent'anni, subito prima e subito dopo la laurea, ottenuta a pieni voti nell'estate del 1831»114.

Le lettere di lui, che si conservano copiose, seppur disperse, a partir da quest'epoca, ci permetteranno di tratteggiare con qualche maggior precisione la sua indole, le sue inclinazioni, i suoi sogni. Con piú abbandono, con piú frequenza che a chiunque altro, scrive sempre al Centofanti, a Firenze, quando non sono insieme a Fucecchio, e a lui, sicuro della sua comprensione e della sua simpatia, traccia, di lettera in lettera, un quadro anche troppo minuto e fedele del mutevole suo stato d'animo e delle minime perturbazioni che valgono a modificarlo. Del resto è la gran moda, quella, intorno al '30: quasi tutti gli epistolari del tempo offrono una documentazione concorde della mania introspettiva che si è impadronita del ceto colto, contagiato dalle tendenze romantiche della letteratura corrente. Il che vale a dire che, nel piú dei casi, quegli epistolari sono tutt'altro che dilettevoli, a leggersi oggi: tanta è la ingenua sicurezza che anima gli scrittori di non aver proprio nulla di piú urgente da raccontare che le private vicende dell'io interiore, registrate col compiaciuto apparente distacco di chi osservi le fasi di un imponente fenomeno naturale. E non già, badiamo bene, raccontarle in sede di confidenza e d'espansione amorosa, lui a lei, e lei a lui, ma da uomo a uomo, con una serietà e una compunzione che, quando, ed è quello che accade piú spesso, non t'infastidiscono, ti fanno sorridere.

Ed ecco qui il Montanelli che, sulla fine del '30, fa parte al Centofanti della sua irrequietezza interiore, del suo spasimante desiderio d'amore, del palpito patriottico che tutto lo pervade. Ogni due righe una fila di punti esclamativi e una manciata di puntolini e da principio a fine un tono da febbricitante, che si estrinseca nelle concitate proteste d'eterna amicizia e in un perpetuo altalenare tra la compassione e l'orgoglio del proprio stato, il cui privilegio sembra essere la precocità del dolore. Quanto al dolore, passi. Ma l'eterna amicizia... Verso la fine del '31 i due hanno un primo passaggio d'armi in seguito al quale, offesissimo, il Centofanti non vuole aver piú nulla a che fare col Montanelli. Tocca a questo, cinque mesi dopo, venire a Canossa:

Dopo le cose che son passate fra noi io non ardirei di scriverle se l'interesse della patria, e della scienza, non me lo imponesse... Mi prevarrò di questa occasione per parlarle di me, dello stato terribile in cui mi trovo da cinque mesi in poi, e del bisogno che sento di riottenere la sua affezione? Il cuore mi consiglierebbe a farlo... ma quando rifletto alla giustizia del suo sdegno, quantunque, ingenuamente lo ripeto, per parte mia non sia stato provocato maliziosamente, mi perdo di coraggio. Che le dirò dunque? Le dirò che non ho cessato un momento di amarlo..., e lo amerò sempre finché io vivo, come il mio padre, come il mio amico, come il mio tutto.

E il Centofanti, toccato, perdona: ... «io aspetto con desiderio – e tu vorrai non ritardare... la tua venuta in questa città». Onde il Montanelli, che sospira allora un giornale nel quale lavorare sotto la direzione di «quell'uomo straordinario»: «Noi tutti saremo a sua disposizione – senza altro scopo che quello di riflettere nell'Italia la luce che riceveremo da lei»115.

Altra volta il Montanelli discorre, sempre col Centofanti, e non senza enfasi, del dovere di prodigarsi per l'umanità e la patria, che egli avverte prepotentissimo: «Ancora pochi anni, ed io pure mi vedrò circondato da giovanetti, che, nuovi alla vita, mi domanderanno di ciò che feci per il bene dell'umanità e della patria, e mi interrogheranno sulle passate vicende». Il Centofanti gli risponde in chiave: non vede l'ora che «il suo giovane amico» lo raggiunga a Firenze, gli magnifica l'accoglienza che da tutti riceverà: «Io ti aspetto con ansietà! Parliamo ogni giorno di te, dei nostri cari e ardenti cooperatori, e della futura vita letteraria che condurremo116. E qualche mese dopo:

Se tu sapessi le seccature che mi hanno tanto impedito in questi ultimi giorni, avresti già nell'anima quell'impeto generoso con cui spesso avrei voluto liberarmi da quei vincoli... E il Tonti che fa? Sveglialo con un bacio in mio nome... Nel cuore rimane il sentimento di quella armonia di divina bellezza del mondo morale al cui concento godo ora di poterti abbracciare col desiderio117.

L'amore pel Montanelli era grande; ma piú grande ancora l'amore di sé. Una volta fu chiamato d'urgenza a Fucecchio per qualche guaio successo in famiglia. «Ho voluto darti questa nuova testimonianza di amore comunicando teco questi miei dolori, prima di entrare in carrozza», scrisse subito al Montanelli, aggiungendogli con tutta semplicità che quel contrattempo gli aveva impedito, come desiderava, di cominciare finalmente «l'edificio della sua vera gloria», cui si sentiva ormai maturo «riposando su fondamenta di ferro»118.

E quattro giorni dopo: «Tu, mio dolce amico, non sei stato meco in questi amarissimi giorni! Oh se tu avessi saputo le mie pene, saresti volato da me per reggere sul tuo seno questo mio capo non oppresso, ma grave de' piú tremendi pensieri119.

Per fortuna il dialogo epistolare non toccava sempre e unicamente questi vertici di lirismo; spesso era questione di libri e d'idee, ché il Montanelli, appena laureato, si cibava di Filangieri, di Vico120, di Romagnosi e di Rousseau e amava scambiare col Centofanti le impressioni di codeste sode letture121. Talvolta, respiriamo, era anche questione di piú lievi interessi: pettegolezzi universitari122, interessi legali dal Centofanti affidati al suo giovane amico123, o interessi del cuore; ché, a forza di praticare quel dotto suo amico, il Beppe, o piuttosto Geppino, come egli lo chiamava, aveva finito, sembra, con l'innamorarsi, ricambiato, di una sorella di lui, Antonietta124: la quale, forse, si accompagnava talvolta a loro, nelle quotidiane passeggiate a Fucecchio125.

Ma il cerchio di conoscenze e d'amicizie del giovane fucecchiese si andava allargando: notevole come egli inclinasse sempre verso persone di piú di lui e per età e per cultura; notevole come riuscisse a cattivarsi, di costoro, non pure quel bonario incoraggiamento che dall'alto si suole concedere ai giovani di belle speranze, ma addirittura un affettuoso ricambio di stima, da pari a pari. Uno dei «grossi calibri» che fin d'allora corrispose col Montanelli è Niccolò Tommaseo. Si conoscono nel principio del '32126 e alla metà d'anno già si dànno confidenzialmente del tu127: il dalmata sollecita il giovane amico a scrivere, gli colloca articoli, lo incarica di traduzioni, gli propina consigli letterari, che quegli dichiara «savissimi» e si propone di «praticare per sempre»: anche gli comunica la passione per la purezza della lingua («Mi occupo indefessamente dello studio della lingua – gli scrive infatti il Montanelli, da Fucecchio, il 22 d'ottobre del '32 – ed ho preso grand'amore ai trecentisti, e principalmente al Cavalca») e stimola in lui gli scrupoli religiosi:

A questa occupazione, – continua il Montanelli, – congiungo lo studio dei Santi Padri, e principalmente di sant'Agostino. Non son contento finché non ho inteso il sistema cristiano in tutta la sua integrità. La profonda cognizione e comprensione di questo sistema è necessaria in tutti coloro i quali altamente convinti della verità delle idee religiose vogliono rialzarle nei popoli, e proporzionatamente ai bisogni della nuova civiltà.

Il Tommaseo gli ha proposto di collaborare a una raccolta di biografie: il Montanelli accetta con entusiasmo. «Il desiderio di poter giovare in qualche parte alla umanità m'infiamma talmente che son pronto a fare qualunque cosa, ove mi sia indicata. Ti prego a disporre di me in tutto ciò che ti piace»128. Attraversa quel periodo beato dal quale si crede che il mondo non sia che un gigantesco laboratorio per le proprie impazienze risanatrici: ad ogni male un rimedio e, perché torni piú efficace, non altro che il fermo volere dei «buoni».

Nel novembre del '32 Montanelli legge sull'«Antologia» un articolo del Tommaseo sulle cose italiane. È fuori di sé, l'entusiasmo suo e dei suoi «giovani amici egualmente infiammati d'amore per la umanità» non conosce piú limiti. Saluta in Tommaseo un maestro nella piú vera ed estesa accezione del termine129.

Credimicontinua – che fra i tanti giovani che frequentano l'università alcuni ve ne sono dai quali può molto sperare la nostra patria. Se i precettori sapessero fecondare questi germi che natura ha posto nel cuore di molti, il numero dei buoni sarebbe anco maggiore, perché oh quanto male rispondono, mio caro Tommaseo, allo slancio della gioventú i metodi degli insegnamenti!, e se tu domandassi a quelli che hanno intrapresa la rischiosa via della sapienza da chi abbiano ricevuto l'impulso al ben fare, ben di rado ti sarà risposto che questo impulso fu dato da un istitutore. Io m'ingegno di trasferire in tutti i miei compagni quei nobili sentimenti dai quali sono infiammato, e tale è lo scopo dei miei pensamenti e delle mie opere giornaliere. Ci occupiamo nel risolvere i grandi problemi sociali, e ci addestriamo all'arte della parola. È fra noi unione veramente fraterna e la nostra mente è governata da una sola idea, come il nostro cuore non palpita che d'un solo affetto. Nella dissoluzione universale dei vincoli sociali ci congratuliamo ben sovente con noi medesimi nel sentirci stretti dai dolci nodi dell'amore, e della fratellanza, e ci sforziamo di avvalorare con l'esempio le nostre parole...130.

Subito dopo il Tommaseo fu a Pisa, e vide a lungo il Montanelli e i suoi amici (al Montanelli, e forse al Bianchi, alluse senza dubbio in un passo di quella sua Gita a Pisa che si legge nella «Antologia» del novembre '32: «Con questo sentimento (di religioso raccoglimento) io passeggiava stasera nelle tenebre la piazza di Santa Caterina131..., dove mi aspettavano due cari giovani di belle speranze, perché il cuor loro è in armonia con l'ingegno».

La tua presenza – gli scrisse per parte sua il Montanelli il 5 dicembre132lasciò un gran vuoto nei nostri cuori, ma sebbene lontani noi siamo uniti, e in questa unione consiste la felicità della nostra vita. Molti giovani si sono avvicinati a me, e sebbene non tutti siano dotati del medesimo ingegno, in tutti però è grande l'entusiasmo, e in te abbiamo riposto grandi e belle speranze... Mio caro Tommaseoamamiconsigliamidirigimi – ed io consiglierò e dirigerò i miei amici. Cosí adoprando potremo in poco tempo impadronirci della gioventú e rendere un grande servizio all'umanità e alla patria.

Analoghe professioni di fede, analoghi slanci in altre lettere di quei giorni133: in una delle quali Montanelli accenna ai due suoi amici, e amici del Tommaseo, il Tonti134 e il Monzani135, chiamandoli «nostri fratelli»; in un'altra, dopo avergli parlato d'altri due comuni amici, il Tolomei e il Bianchi, il secondo dei quali «assisteva alle nostre conversazioni», gli raccomanda di «compiegare in modo le tue lettere da non poter essere lette da qualche occhio profano. Sarei dispiacente di una infrazione di sigillo»136 In una terza, infine, il Montanelli, discorrendo con lode delle Mie prigioni del Pellico, di fresco pubblicate:

Non ci stanchiamo di ripeterescrive – che le verità religiose sono la principalissima garanzia della felicità individuale e sociale. Impadroniamoci per quanto è possibile d'un terreno che oggi occupano uomini ignoranti, superstiziosi e codardi e l'ufficio del letterato sia un vero sacerdozio morale. La libertà dei popoli, come altra volta tu osservavi, sarà frutto non d'odio ma d'amore. E non ameranno veramente, e potentemente i loro simili se non che gli uomini persuasi fermamente delle grandi verità della vita.

E prosegue: «I vincoli fra i giovani si stringono sempre con maggiore intimità».

Il lettore avrà già notato da sé quanto siffatte espressioni trascendano il valore di generiche affermazioni di fede o di semplici attestazioni di una sia pur calorosa colleganza spirituale. Qui c'è qualcosa di piú. Ci son dei «fratelli», v'è un apostolato di fede, v'è una sistematica azione svolta fra gli studenti, vi son ritrovi tra elementi di diverse città e di diversa provenienza, v'è insomma, chiara e evidente, una organizzazione nascente. Di che si tratta? Il nome della Giovane Italia sorge spontaneo alla mente: ma allora quell'insistere piuttosto sui doveri verso l'umanità che su quelli verso la patria? Quella preminenza accordata ai valori religiosi? No, siamo su altro e ben diverso terreno. Siamo precisamente in presenza di un tentativo, uno fra i pochissimi mai compiuti in Italia, di trapiantare a Pisa una «chiesa» cioè, una sezione del movimento sansimonista. Qualche notizia in proposito del resto, ce l'aveva già data il Montanelli medesimo, pur naturalmente restío, negli anni successivi, a ricordare un cosí «superato» episodio della sua vita giovanile. Leggiamo le sue Memorie, nel capitolo dedicato al Liberalismo cattolico: descritto magistralmente il suo passaggio dall'ingenuo cattolicismo dell'infanzia al disinvolto materialismo e sensismo degli anni universitari, il Montanelli prosegue osservando che per alcun tempo l'eccitazione politica verificatasi nel 1830 fece che egli non sentisse il «vuoto desolante» dovuto alla morte della fede religiosa.

Cosí non mi avvidi della sterilità di una dottrina che abbassava il pensiero alla sensazione, e i sentimenti morali al tornaconto, altro che quando, andate a rovescio le rivoluzioni italiane del '31, e mancate le promesse di Francia, e immolata l'eroica Polonia, all'ebbrezza divina dei primi entusiasmi concepiti nell'amore della libertà, e nella certezza del suo trionfo, sottentravano le amarezze del disinganno, e le cupe riflessioni suggerite dallo spettacolo delle umane sventure. Avventuratamente ai primi del 1832 mi caddero in mano i libri della scuola sansimoniana, non ancora bamboleggianti nelle sguaiataggini teocratiche del padre Enfantin. E questa dottrina che ci conciliava col nome di religione, bandito dalle scuole materialiste, e a difetto di sintesi religiosa attribuiva i mali presenti, e separando i periodi critici dai periodi organici, un nuovo periodo organico prometteva a ricomporre l'armonia fra la materia e lo spirito, l'individualità e l'associazione, la libertà e l'autorità, la conservazione e il progresso, dottrina siffatta dai pantani del gretto materialismo mi sollevò a piú spirabil aere; e colla certezza di cooperare alla sintesi religiosa futura partecipai alla piccola chiesa sansimoniana nel 1832 formatasi nell'università di Pisa, e seguitai dipoi con altri miei compagni di studi il movimento delle questioni chiamate sociali137.

Cosí il Montanelli stesso, nel 1853; ma già sei anni innanzi, conversando col sopraintendente dell'università di Pisa, gli aveva confessato di avere «nei tempi andati seminato nel popolo gli errori del sansimonismo»138.

Nel maggio del '32, del resto, lo stesso Montanelli aveva scritto al Centofanti:

Da quattro mesi in poi ho abbracciato interamente con molti altri miei amici la dottrina di Saint-Simon, ed ho sofferto ancora delle vessazioni. Fin da questa epoca il vecchio uomo è in me interamente disperso. La mia vita è cangiata – essa ha uno scopo139.

Queste notizie vennero confermate dai biografi del Montanelli, prima di tutti dalla moglie di lui140, la quale, attingendo, senza dubbio, alle confidenze verbali del consorte, raccontò altresí come rapidamente e miseramente quel tentativo andasse a finire.

Lo zio rettore (di Santa Caterina) lo invigilava seriamente. Una sera lo chiama nel suo appartamento del collegio, ciò che indicava male e rimescolava tutto il giovane Montanelli...; chiudendo la stanza gli disse con molto mistero che la polizia conosceva esistere una società di giovani sansimoniani e lo avvertiva che se gliene fosse parlato badasse bene di non andarci. Siccome questa società si riuniva in casa sua avvisò gli amici che erano sorvegliati e sapendosi scoperti non poterono piú riunirsi.

Gli archivi del Buon Governo, compulsati in proposito, non rivelano, a dir vero, alcuna traccia di questa pur importante vicenda141. Di sansimonismo, ch'io sappia, vi si parla una volta sola, e diversi mesi piú tardi, e con riferimento a Firenze, ed è comico osservare come sotto quel nome la polizia toscana registrasse non già, come ci si aspetterebbe, una conventicola politico-religiosa-sociale, ma una specie di società malfamata tra giovani sfruttatori per... la tratta delle bianche! Eterno, poco invidiabile destino dei partiti o delle sette malvisti dai governi che il loro nome venga usato a designare ogni sorta di birbonate che con la politica o la religione non hanno proprio nulla a che fare...

Comunque, non c'è alcun dubbio, nei primi mesi del 1832 il Montanelli fu sansimonista, come ebbero ad attestare piú tardi anche taluni suoi confidenti ed amici, tra gli altri il Minghetti e il Levi.

La sua mentescrisse quest'ultimo – fu colpita dalla grandezza come dalla novità del sistema... Malgrado i divieti della censura sospettosa il Montanelli ebbe modo di procacciarsi i libri del maestro, e le molte pubblicazioni che venivano allora in luce a Parigi sulla dottrina. La sua mente affettuosa e appassionata s'infervorò per essa; raccolse intorno a sé un nucleo di seguaci fra i giovani e la scolaresca di Pisa. Si scorgeva nel genio del Montanelli una cotale affinità con quella del padre Enfantin, il san Paolo del sansimonismo... E il Montanelli fondò in Pisa una chiesuola, la quale teneva adunque adunanze regolari, aveva ministri e riti. Ogni giorno vi si facevano letture per insegnare il sistema dal punto di vista storico, filosofico ed economico; già cominciavano le dottrine a propagarsi fra la scolaresca... quando la polizia fu messa in sull'avviso: ne spiò i convegni, li scopi, sostenne in carcere alcuni discepoli, soppresse il tempio, ed i credenti vennero dispersi142.

Chi mise la polizia sull'avviso? Non lo sappiamo; certo è che la studentesca veniva sistematicamente sorvegliata, né era facile nascondere dei ritrovi frequenti e affollati. Conoscendo però le abitudini della polizia toscana, e tenendo presente il silenzio degli archivi del Buon Governo in proposito, non è da escludere (a parziale correzione del postumo del Levi) che l'unica misura adottata dalle autorità pisane fosse quella di suggerire al canonico Montanelli di dare al nipote una buona lavata di capo, accompagnata da precisi riferimenti alle «scoperte» della polizia. Né il metodo, a quel che pare, si dimostrò sbagliato...

Ho sotto gli occhi alcune delle pubblicazioni di propaganda messe in giro, proprio sui primi del '32, dalla «centrale» parigina della chiesa sansimonista. Probabilmente furono quelle che capitarono in mano al vero dottore in utroque. Una, di un 180 pagine, s'intitola: Religion Saint-Simonienne. Economie politique et politique. Articles extraits du «Globe», Paris, marzo 1832. Un'altra, sempre intestata alla stessa Religion: Politique industrielle. Système de la Méditerranée, di Michel Chevalier, Paris, marzo 1832. La terza, dell'aprile, piú voluminosa di tutte (pp. 207): Morale. Réunion générale de la famille. Enseignements du Père Suprême. Les trois familles. In copertina vedo richiamati i fascicoli già usciti: Exposition de la doctrine; Lettres sur la religion et la politique; Reveil de predications; Appel aux artistes, ecc. Leggo anche un avviso di un certo interesse: «Les publications de la réligion S. S. ne sont pas une spéculation, mais une œuvre d'apostolat. L'enseignement qu'elles renferment est distribué aux mêmes conditions que les autres enseignements, c'est à dire gratuitement».

Siamo al tempo in cui la chiesa sansimoniana, giunta all'apice dell'effimera sua popolarità, inizia la parabola della decadenza, affrettata dai profondi e clamorosi dissensi che dividono i suoi dirigenti. Trionfa padre Enfantin, ma è un trionfo che condurrà ben presto al ridicolo e alla dissoluzione definitiva. Comunque qual è, ancora nel '32, il messaggio del sansimonismo? Frutto della sete di religiosità seguita alle perentorie negazioni del secolo XVIII, tentativo di armonizzare la fede e la scienza, la rivelazione e la ragione, la libertà e l'autorità, il rinnovato dogma dell'eguaglianza sociale e politica con la necessità dell'ordine, esso pareva rispondere alle esigenze fondamentali e pure antitetiche di ogni spirito colto, cioè libero, nell'Europa della restaurazione. Era un generoso tentativo di anticipar sulla terra, mediante una progressiva riforma, essenzialmente sociale, le beatitudini relegate dal cristianesimo nell'al di : un sogno di bontà e di bellezza basato su una concezione ottimistica dell'umanità e inteso appunto a rendere alla vita terrena le attrattive negate, o piuttosto respinte, dal dogma teocratico. La grande forza morale fino allora sottratta ai suoi compiti vitali, sviata dalle sue mete, incapsulata, isterilita nella contemplazione di un avvenire inconoscibile, la fede religiosa veniva finalmente chiamata a facilitare il raggiungere di quel massimo di giustizia sociale e quel minimo di benessere per tutti senza dei quali l'umanità non avrebbe mai trovato un suo stabile e precipuo assetto. Emancipazione del proletariato, emancipazione della donna, queste le maggiori rivelazioni del nuovo verbo. Tutto l'afflato romantico del principio del secolo tradotto ed espresso in un secondo Vangelo, integrazione e avveramento di quello del Cristo. L'amore universale, l'armonia spontanea, la fine d'ogni egoismo individuale di classe, di patria, come leva e meta insieme del grande rivolgimento pacifico profetizzato. Tale, nelle sue linee maestre, il messaggio sansimonista, cui particolari approfondimenti teorici, specie nel campo dell'economia, valevano a conferire una tal quale apparenza scientifica atta a sedurre, oltre alle coscienze bramose di un accordo fra religione e vita, fra spirito e materia, anche la mente degli zelatori di una mera riforma sociale.

Venne in Italia qualche apostolo del sansimonismo? Venne a Pisa? O bastò al Montanelli e ai suoi amici la semplice lettura del «Globe», giornale del movimento, e delle altre pubblicazioni di propaganda? Chi furono, nella università pisana, i componenti di quell'effimera chiesa? Si misero essi in rapporto con la «centrale» di Parigi? Tutte domande alle quali, sin qui, non siamo in grado di dare alcuna risposta, salvo che ci sembra probabile che il Bianchi, il Monzani, il Tonti e forse il Tolomei, che sono i nomi piú spesso citati nella corrispondenza montanelliana del tempo, e taluni di essi, come vedemmo, qualificati «fratelli», facessero parte del gruppo. E il Tommaseo? Seppe mai precisamente a qual titolo i suoi giovani seguaci di Pisa avessero stabilito tanta reciproca fraternità? Fu anch'egli, sia pur per breve tempo, un simpatizzante sansimonista? Altra domanda alla quale non ci sentiamo di rispondere perentoriamente: invitiamo però i biografi di lui a tenere il massimo conto delle strane, ripetute allusioni a un sodalizio di giovani fattegli da Montanelli. Se egli restò all'infuori del sansimonismo, qual senso esse avevano per lui?

Scioltasi nel modo che si è detto quella comunità, non per questo gli affiliati rinunziarono alla reciproca intimità, agli studi e alle aspirazioni comuni. Il Levi ci assicura che quando egli giunse la prima volta a Pisa (e dovette essere nel 1837)143, «il Montanelli me ne espose le dottrine (del sansimonismo) con l'entusiasmo del credente, la fantasia del filosofo-poeta»; in lui, «come in pochi altri spiriti piú ardenti, sopravviveva nel fondo dell'anima la fede alla idea sansimonista, e si adoperava ancora a propagarla nei cuori aperti ai facili entusiasmi... Il sansimonismo aveva smesso la forma autoritaria di religione, ma era divenuto una dottrina, una scuola sociale; non si posava piú come domma, ma presentavasi come un corpo di dottrine filosofiche, economiche e religiose, che chiedeva di essere discusso»144. Il seme aveva dunque germogliato, lasciando negli adepti, come derivato di quella breve e sfortunata esperienza, alcuni punti fermi, ai quali il Montanelli, se non altri, si manteneva poi fedele per sempre: l'ansia di pacificare il penoso dissidio interiore fra la istintiva incoercibile religiosità del cuore e l'insoddisfacente dogmatismo cattolico, cosí inadeguato a risolvere, e fin anche a percepire, i problemi fondamentali del secolo; l'assillo di un piú equo e razionale assetto sociale; l'insoddisfazione per una impostazione meramente politica della grande lotta allora in pieno corso per l'affermazione dei valori nazionali.

È cosí che, seppure non sotto il segno proibito del sansimonismo, vediamo il Montanelli avvicinarsi, dal '32 in poi, a tutte quelle forze che, nella Toscana del tempo, agiscono nella medesima direzione, spinte da analoghe necessità ideali.

Sulla fine dell'anno, a Pisa, un gruppo di giovani, capitanati dal livornese Enrico Mayer (si noti bene, un protestante-mazziniano) e del quale fan parte il professor Rossellini, il Tonti, il Monzani, il Corinaldi e il Montanelli, decide di fondare un giornaletto settimanale145 dal titolo significativo di «Educatore del povero»: il giornale (che forse non è altro che l'estrinsecazione di un vecchio progetto già da mesi caldeggiato dal Montanelli)146 è dedicato alle «classi inferiori», alle quali si vuole instillare il culto del dovere, della patria, della moralità all'infuori di ogni influenza chiesastica; soprattutto si vuole abituarle a pensare147. «Si spera che tu sarai uno dei piú assidui collaboratori», scrive il Montanelli al Tommaseo; «se hai qualche cosa preparata mandala, e la stamperemo nei primi numeri»148. E qualche giorno dopo:

Ho letto, e meditato la tua lettera. Io non sono né il capo, né il direttore dell'impresa – ma nulladimeno potrò insinuare molti buoni principî al giovane Leondarachis, il quale è il centro di tutto. – I miei articoli procurerò sieno scritti secondo quei principî che tu raccomandi... Il tuo articolino sarà inserito nel terzo fascicolo. – Io faccio un dialoghetto diretto a togliere dalla mente del popolo quel pregiudizio comune – che si debbano rispettare le cose le quali ci sono state lasciate dai nostri antenati.

Il Leondarachis era un giovane greco, amico del Montanelli, che allora dirigeva, a Pisa, la tipografia Capurro. Ben presto lo vedremo sorvegliato dalla polizia come sospetto editore di stampe clandestine patriottiche. Sui primi di gennaio del '33 nuova lettera del Montanelli al Tommaseo per esprimere talune sue riserve a due articoli da lui mandati all'«Educatore». Non aveva ancora vent'anni, il redattore del giornaletto, eppure si sentiva già da tanto da dire schiettamente la sua al già illustre Tommaseo; uno di questi articoli non gli pareva «accomodato alle circostanze attuali» dell'Italia.

Non bisogna predicare confidenza nello straniero al popolo – di cui vogliamo servirci per liberare questa povera patria dall'invasione ecc. ecc. – Verrà un tempo in cui il principio della fratellanza dei popoli risuonerà sul labbro di tutti. Per ora può giovare un poco d'egoismo nazionale... Ti dirò ancora che il linguaggio dei tuoi articoli mi sembra un poco troppo ascetico. Bisogna valersi delle idee religiose, e rieccitarle in tutti i cuori profondamente – ma ci sono certe formule che non convengono agli scritti d'un giornale, e che potrebbero renderci ridicoli nel cominciamento dell'opera. Ti parlo con libertà fraterna. Del resto la semplicità dei tuoi articoli mi piace molto.

L'«Educatore del povero» vide effettivamente la luce nel gennaio del '33. Ma nacque morto. Fossero dissensi fra i redattori, o tra questi e lo stampatore, fosse l'improvvisa partenza dall'Italia, nel marzo, del Mayer, che verosimilmente lo finanziava, o fosse un veto piú o meno formale della censura, certo è che ne uscí un numero solo149, – e il povero restò senza... educazione! Il tentativo, comunque, era stato importante: sarebbe proprio un errore il sostenere che fu quello, nell'Italia della restaurazione, il primissimo esperimento di un giornale tutto per il popolo, volto a studiare e a illustrare la questione sociale? Noi non diremo. Del dialoghetto montanelliano, rimasto fra gli inediti del disgraziato giornale, non altro sappiamo che quanto ce ne dice l'autore medesimo: e sarà inutile sottolineare il caratteristico soggetto in tutto degno di uno zelante neofita di un sansimonismo purgato da ogni eccesso teocratico.

 

Siamo venuti a parlare di un sansimonismo dell'«Educatore del povero» di sulla traccia fornitaci dal catalogo del Montanelli col Tommaseo. Adesso seguiamo un altro filone di non minore importanza: i rapporti Viesseux-Montanelli.

Nella Nazionale di Firenze, fondo Viesseux, si conservano ben 140 lettere del Montanelli al veramente benemerito creatore dell'«Antologia», del «Gabinetto letterario», dell'«Archivio storico italiano»: cominciano dal 1831, finiscono soltanto con la morte di uno dei due corrispondenti. La prima lettera è del 25 novembre 1831150 e s'inizia con un riferimento alla conoscenza fatta dal Viesseux, a Firenze, due mesi prima. Il Montanelli aveva poco piú di diciotto anni ed era appena laureato: pure lo si era già ammesso agli onori della collaborazione all'«Antologia», l'unica rivista italiana che varcasse allora le Alpi, l'unica che stacciasse ben bene, prima di accettarli, i candidati collaboratori. Erano stati molto probabilmente il Centofanti e il Carmignani a procurare al loro discepolo questa soddisfazione, certo piú ambita e invidiabile di uno straccio di laurea. Scrivere nell'«Antologia» voleva dire, infatti, allinearsi nella stessa schiera col fior fiore dell'intelligenza italiana, saper la propria prosa messa sott'occhio di lettori di primissima scelta e di gusto veramente raffinato; scrivere nell'«Antologia» valeva anche una distinzione d'altra natura, non meno ambita: una distinzione politica. Non era giornale di parte, ché anzi fu merito del Viesseux il mantenerlo sempre sulla linea di quello spregiudicato eclettismo che era valso ad assimilarle un cosí denso pubblico, ma era inteso, o per lo meno si risapeva, che firme dell'«Antologia» erano tutte di patrioti provati, con l'Italia in cima dei pensieri e non importa se proprio l'Italia una, ma certo l'Italia: purgata dai barbari, e riconsacrata ai suoi antichi, alti destini.

Il Viesseux – come del resto tutti i buoni direttori di rivistecominciava cosí, con le reclute: le metteva al banco di prova delle recensioni, per poi – se meritavanopromuoverle al rango di articolisti. Anche il Montanelli seguí la trafila. Il primo suo scritto accettato dal Viesseux fu una severa recensione a due operette di un certo abate Orlandi, Apologia delle Scienze e delle Arti. Elogio delle principali scoperte. Firenze 1831. Fu pubblicata nel fascicolo di dicembre 1831151, non senza prima aver subito, a sua volta, l'esperta critica del Viesseux. «Tanto mi sono dispiaciute le cose discorse da questo Autore, che non ho potuto fare a meno di stendere alcune idee in una notizia letteraria», scriveva il Montanelli al Viesseux, il 16 dicembre; e cinque giorni dopo:

Con sommo piacere ho inteso dalla sua gentilissima lettera del 20 corr., che il mio articolo ha incontrato la di lei approvazione. Ciò mi incoraggisce non poco, e mi anima a seguire con ardore la carriera che ho intrapresa. Modificherò volentieri quelle espressioni un poco pungenti che mi sono sfuggite nell'impeto della composizione. Fu il lavoro di una mattinata e non ebbi tempo di riflettervi sopra gran cosa. Ma è troppo giusto e ragionevole che nella critica si conservi sempre quella dignità, che conviene allo stato attuale delle cognizioni ed è il carattere distintivo della vera sapienza. La prego ad indicarmi i luoghi che desidera precisamente mutati nella stampa che mi rimetterà152.

Cosí il «patriarca del giornalismo italiano», come assai piú tardi lo definirà il Montanelli, insegnava il mestiere ai «pivellini»153.

L'articolino, cosí, riuscí una buona cosa, senza pretese, ma chiaro e suadente: anche oggi, a leggerlo, si capisce che il Montanelli aveva ricavato dagli studi fatti un'abitudine alla precisione e alla concretezza, anche filosofica, non proprio comune. L'abate Orlandi sapeva certo un monte di cose e molte delle sue osservazioni erano buone; «ma assai maggiore sarebbe stato il loro pregiocosí il giovanissimo critico – se alla erudizione e alla dottrina si fosse aggiunta una disposizione piú metodica nel soggetto, una analisi piú severa nelle investigazioni parziali, una elocuzione insomma meno retorica e piú filosofica». Ma di che si occupano, precisamente, gli opuscoli incriminati? Lasciamo stare, amico lettore: non turbiamo il divino silenzio dell'oblio che li ha pietosamente ricoperti d'un velo; ti seccheresti tu, e piú dovrei seccarmi io se volessimo, per ogni quisquilia, risalire pedantescamente alle fonti...

Una seconda recensione del Montanelli fu pubblicata sull'«Antologia» del febbraio '32: Sul giornaletto poetico stampato in Corfú, osservazioni di Achille Delviniotti corcirense, Pisa 1832154. Anche questa volta non ci occupiamo dell'opera presa in esame se non per avvertire che l'autore era un amico del Montanelli e fu ben presto un sospetto politico; cerchiamo invece di scoprire il recensore nel suo mondo ideale, tanto piú che, acquistata qualche maggiore franchezza, il Montanelli abbordò in questo articolo, cosí particolare, sfere piú ampie e piú alte, o vogliamo dire questioni di carattere generale. Ascoltiamolo, senza dimenticare la contemporanea esperienza del sansimonismo:

Il fondamento principalissimo dell'ordine sociale sta nella rettitudine dei costumi. Chiunque intende a promuovere il perfezionamento della morale, e a consolidare l'impero della virtú, merita dunque la riconoscenza della società. È dolce il vedere che a questo santissimo scopo mirano le opere piú celebri dei nostri giorni: ma piú dolce ancora si è il considerare che una gran parte di tali opere appartiene alla gioventú... Noi, che partecipiamo con l'autore al desiderio di vedere la poesia compagna indivisibile della morale, non possiamo se non che far eco a tutte le cose da lui discorse contro un genere di scritti diretti a corrompere i costumi e la gioventú. Il poeta è l'interprete dei sentimenti piú generosi e sublimi che onorano la umanità. Inspirando agli uomini le affezioni virtuose e sociali con le forme della bellezza, egli può cooperare mirabilmente ai progressi della civiltà... Sarebbe tempo una volta che le arti del bello adempissero ai bisogni del secolo, e si mostrassero le vergini custodi delle fiamme del sentimento, e le umane propagatrici della luce della virtú.

Dove, a parte le piú ampie riserve sulla... verginità delle arti, ben si discopre il caloroso afflato idealistico che tutto animava il Montanelli e, meglio ancora, come l'argomento di questi suoi primi scritti non fosse che un pretesto, piú o meno trasparente, per proclamare certi veri che gli fremevano dentro.

Mentre sfornava le recensioni, il Montanelli pensava, s'intende, a farsi onore con qualche articolo originale. Anzi, si era fatto coraggio fin dalla prima sua lettera al Viesseux:

Già da qualche mese – gli aveva scritto – ho concepito la idea di una opera, il soggetto della quale si è «una introduzione allo studio di diritto, per servire ai giovani che vogliono dedicarsi al medesimo». Ho già preparato moltissimo materiale, ne ho distribuito tutte le parti, e non molto tempo né molta fatica mi costerebbe il condurle a termine... Vorrei pertanto far conoscere il mio piano, e le mie idee in un articolo di codesto giornale l'«Antologia». E se Ella me lo permettesse, me ne occuperei immediatamente.

Viesseux, che anche coi giovani era un puntualissimo corrispondente, rispose subito: non s'impegnava mai, per sistema, a pubblicare articoli che non avesse letti, ma il Montanelli scrivesse, ed egli, una volta veduto l'articolo, s'augurava di poterlo stampare155. D'altronde i suoi amici lo consigliavano, molto saggiamente, a portar prima a compimento l'opera progettata (mirante a «supplire in qualche modo al difetto delle nostre scuole», rivolgendosi ai «giovani che si dedicano allo studio del Diritto, e si trovano in una provincia del tutto nuova senza che gli si mostri né come ci sono entrati, né a quale scopo, ecc.»), e poi ad annunziarla nelle riviste. Montanelli fece al Viesseux un caldo elogio dell'«Antologia», il cui capo «non potrebbe esserepiú lodevole, né piú adatto alle condizioni attuali dei tempi e dell'Italiana società... Chiunque ama la Italia, e desidera il perfezionamento della umanità dee professarle la piú viva gratitudine per una impresa utile e bella»; reiterò le sue proteste di voler aiutare, nonostante la sua «tenuità» il sempre maggior successo della rivista, essendo «animato dal piú vivo desiderio di giovare alla mia patria, studiandomi di conoscere la verità»156; e della introduzione al diritto non parlò piú.

Il 28 dicembre tornò alla carica: si proponeva questa volta di dar conto di una nuova Philosophie du droit del Germinier, uno scrittore col quale, diceva, «io simpatizzo molto»157; ma il Viesseux gli rispose158 che l'opera era già stata affidata, per la recensione, ad altro collaboratore. E il Montanelli:

Mi dispiace che sia già impegnato il relatore dell'opera del Germinier. Se Ella ha altri libri dei quali desideri che sia reso conto nell'«Antologia», la prego a prevalersi di me liberamente. Le Scienze che hanno particolarmente formato per l'addietro il soggetto dei miei studi sono la Filosofia razionale, la Morale, il Diritto, e la Scienza sociale. Mi sono occupato ancora di Storia, e non ho tralasciato le lettere. Ma non ne ho fatto uno studio cosí esclusivo come delle prime159.

Sorrise il buon Viesseux? Speriamo di ; ma era, il suo, un sorriso indulgente, che non disarmava i giovani, anche quelli che avrebbero meritato una lezioncina di modestia...

Comunque, il Viesseux non rispose. E allora il Montanelli, che non lasciava presa (7 febbraio, inedita): «Ho quasi terminato un articolo sull'ultima opera del Romagnosi che contiene: Una raccolta dei principali sistemi di filosofia morale presso gli antichi», lo voleva l'«Antologia»? No, l'«Antologia» non lo voleva, perché del Romagnosi si era già occupato il Marzucchi. «Pazienza! – cosí l'infaticabile critico. – Il signor professore avrà trattato l'argomento assai meglio di quello che avrei potuto fare io»160. Ma il Viesseux aveva saputo indorare la pillola:

Io le manderò con piacere – gli aveva scritto infatti l'11 febbraio (lettera inedita) – la prima opera della quale potrò disporre... Quando le verrà fatto di scrivere qualche cosa del tutto originale su qualche punto di quei rami delle scienze morali delle quali ama d'occuparsi, mandi pure, io le dirò ingenuamente se ciò che m'avrà mandato potrà convenire pel mio giornale.

Finalmente, era... la promozione!

Giacché Ella mi dice che posso spedire anco qualche articolo originale in scienze morali e politicherispose a volta di corriere il Montanelli – ho pensato di trattare un argomento che forse non le dispiacerà: La esposizione del sistema Bentham e la storia delle sue vicende. La rapidità con la quale il sistema Bentham si diffuse in Europa, e la eguale rapidità con la quale è caduto in discredito ai nostri giorni, possono fornire soggetto di bellissime ricerche sulla direzione che lo studio del Diritto ha preso in questi ultimi tempi.

E chiedeva un'opera del Compte che gli sarebbe servita per l'articolo in questione161.

Questa volta andò bene: Viesseux, di massima, accettò, non senza rinnovare raccomandazioni e consigli di lavorare con la massima calma e di mostrarsi un po' piú severo nella critica di... se stesso, spedí il Compte162. Il 3 marzo Montanelli scriveva: «Il mio lavoro su Bentham progredisce. Ma seguo il suo consiglio. Faccio e rifaccio – e volentieri imbratto molta carta»163. E a novembre: «Quando in qualche giornale inglese capiterà la biografia di Bentham la prego di avvisarmi perché desidererei di parlare di questo grand'uomo dopo aver molto meditato sulle sue opere»164. Un buon discepolo, via.... Cosí buono e dimesso che, a quanto pare, finí per spaventarsi della gravità dell'assunto, tanto che all'ultimo momento vi rinunciò.

Era fra i suoi difetti quello di affrontare alla leggera temi troppo diversi e impegnativi. Una toscana facilità e fluidità di scrittore, benissimo identificata dal direttore dell'«Antologia», gli nuoceva piú di tutto. Non venne fuori, il 21 di novembre, con due nuove proposte di pubblicazione, una d'un articolo già scritto, nientedimeno che sulla Critica sistematico-universale e Guida alla rinnovazione della filosofia di un Giovanni Maggi, «giovane italiano, il quale alla docilità dell'ingegno congiungeva ardentissimo desiderio del bene dell'umanità, l'altro ancora da scrivere sulle ultime vicende e lo stato attuale della musica, trovandone le cagioni nelle grandi trasformazioni sociali»?165. Viesseux strabilia:

Io non posso fare a meno di osservare quanto vi seducano gli argomenti piú difficili a trattarsi...166. Basta, vedremo. Checché ne sia, devo ammirate la vostra lodevolissima ambizione, e la facilità della quale mi date prova... Se avessi saputo che siete intelligente della storia della musica e della sua filosofia vi avrei mandato un'operetta sulla quale mi è stato chiesto un articolo di rivista. Ora ve la mando167.

Ebbe dal Centofanti, che già lo aveva letto ed approvato, e che del resto vi era citato con lode, il primo articolo del Montanelli; glielo rimandò con preghiera di... rifarlo168, e poi lo pubblicò nel fascicolo di dicembre.

L'articolo era degno dell'«Antologia». Del Maggi, al solito, non c'importa nulla; ma vediamo Montanelli al lavoro, vediamo come in pochi mesi l'aquilotto avesse fatto le sue penne al volo.

Ecco lo slancio d'una bell'anima che volge intorno lo sguardo, che apprende la dissoluzione universale dell'epoca in cui viviamo, che cerca un rimedio ai tanti mali che ne circondano, e non lo trovando nelle antiche dottrine domanda una nuova ma magnifica rigenerazione di principî filosofici.

Il desiderio del signor Maggi è il desiderio di tutte le anime generose: e noi pure e come uomini e come italiani lo abbiamo comune con lui. Ma sotto molti aspetti anco in questo punto le nostre idee sono dalle sue essenzialmente diverse... si attende una nuova scienza sociale in cui siano rigorosamente dimostrate le conseguenze del principio dell'eguaglianza morale di tutti gli uomini, promulgato dal cristianesimo... Quando affermiamo essere necessaria una rinnovazione filosofica, vogliamo dire che un nuovo sistema di principî generali dee sorgere dalle scoperte, e dalle osservazioni parziali della moderna sapienza... Ma la italiana gioventú, anziché applicare l'ingegno a queste grandi creazioni filosofiche, le quali richiedono maturità d'intelletto e lungo corso d'osservazione e d'esperienza, può essere in altro modo assai piú utile alla patria comune, intraprendendo specialmente una sistematica illustrazione del nostro passato filosofico... È pur tempo che l'Italia nella conoscenza del passato acquisti il sentimento dei suoi futuri destini. È pur tempo che noi sappiamo ciò che ci deve l'Europa, e superbi delle nostre glorie nazionali occupiamo il posto che ci conviene nella storia della moderna filosofia. È impresa lunga e difficile: ma guai se gli ostacoli e le difficoltà dovessero diminuire l'ardore dell'italiana gioventú!

Amico lettore, cosí scriveva il Montanelli non ancora ventenne: con questa altezza di concetti, con questa coscienza di patria, con questa serietà di studioso e di cittadino. Non vorremmo perdonargli allora il peccato veniale d'un ostentato enciclopedismo da strapazzo? E non vorremo finalmente intendere come, pur muovendo dai piú diversi lidi egli drizzasse, e pur sempre, la prora, o almeno proponesse di farlo, verso quell'unica meta, la grandezza auspicata della patria restituita al suo glorioso destino?

Ma proseguiamo nella lettura del carteggio Montanelli-Viesseux. Per tutto il gennaio e una buona metà di febbraio del '33, silenzio. Il 22 febbraio, Montanelli:

Bisognerebbe che io vi potessi significare le cause del mio silenzio perché voi interamente mi scusaste. Vi basti il sapere che già da un mese non ho aperto un libro, e che ora solamente il mio cuore comincia a riacquistare un poco di calma dopo tante agitazioni sofferte. Nulladimeno, quantunque, oppresso dai piú tristi pensieri, mi sono spesso ricordato di voi... Avrei già fatto da qualche tempo l'articolo sulla musica. Ma non ho potuto applicare. Spero però di mandarvelo quanto prima. D'ora in poi son tutto per voi169.

Perché questa crisi? Perché questi tristi pensieri? Tenteremo piú oltre di venirne a capo. Il 13 marzo, sempre il Montanelli: «Vi manderò l'articolo sulla musica unitamente ad altre cose... Vi ripeto che mi vergogno di questo prolungamento...» E, a una proposta del Viesseux di retribuire i suoi scritti:

Mi dispiace che le circostanze nelle quali mi trovo mi obblighino ad accettare la vostra graziosissima offerta... Mi sforzerò di scrivere sempre in modo che ne siate contento... Sono circondato da alcuni giovani i quali con un poco piú di coltura potranno essere ottimi collaboratori. Speriamo che gli ostacoli frapposti ad un'opera cosí utile, e cosí generosa saranno presto distrutti. Speriamo!170.

Era l'«Antologia», si sa, che cominciava a... far acqua in parte anche per quell'articolo del Tommaseo che al Montanelli era tanto piaciuto non senza, tuttavia, suscitare la sua meraviglia che la censura lo avesse permesso. A Firenze la gran battaglia per la salvezza o la perdita della rivista era ormai in pieno corso, scatenata dalla «Voce della verità».

Viesseux ostentava ancora la sua bella tranquillità: tanto che il 14 marzo spediva al Montanelli due nuovi libri da recensire – la versione di due manuali giuridici tedeschi annotati dal Romagnosi – e altri da consegnare, per lo stesso oggetto, a un amico171. Montanelli accettava volonteroso l'incarico: «Avrò occasione di dir qualche cosa relativamente alla filosofia tedesca, ai pregiudizi che impediscono in Italia lo studio di quella filosofia, e alla necessità di conoscerla, perché il movimento intellettuale italiano possa associarsi al movimento generale europeo»; e nel contempo spediva al Viesseux il famoso articolo musicale172.

Ma il governo toscano aveva vinto (o piuttosto perduto) intanto la sua battaglia: l'«Antologia» era morta, un lutto nazionale piú doloroso, piú grave e piú universalmente sentito che se fosse scomparso, davvero, un grande italiano. «Già da qualche tempo io prevedevo ciò che realmente è avvenutoscrisse, ai dieci d'aprile, il Montanelli, costernato e indignato. «Potete immaginare però di qual dolore mi riescisse la notizia della soppressione dell'"Antologia" sebbene aspettata! Presto verrò a Firenze. Ho bisogno di discorrere molto con voi»173. Era tutto un periodo della sua vita che si chiudeva; era una pia illusione – quella di un compromesso possibile fra governo e governati, fra conservatorismo e progresso, fra autorità e libertà – che s'infrangeva; era anche, per lui, una via luminosa che gli veniva sbarrata proprio allorquando avrebbe potuto cominciare a percorrerla piú speditamente e non senza frutto, anche materiale e immediato. Vero è che l'esperienza dell'«Antologia», per quanto breve, gli era stata preziosa. Non invano si andava a scuola da quel maestro del buon senso, dell'equilibrio, del contenuto ardore, della disinteressata probità scientifica che si chiamava Viesseux.

Vent'anni piú tardi, riconoscente, lo scolaro illustre doverosamente scriveva:

Se Firenze un giorno vorrà temperare sulla piazza di Santa Trinità i funesti coi grati ricordi, inalzerà ivi, in nome della filosofia educatrice, un monumento alla operosità instancabile, perseverante e modesta del fondatore dell'«Antologia»174.

L'«Antologia», del resto, non era stata la sola palestra aperta al Montanelli per dar le prime prove del suo ingegno. Già nell'estate del 1831, diciottenne, egli era venuto a Firenze per leggervi, nell'Imperiale e Reale Ateneo Italiano, due suoi discorsi: quelli stessi che, a quanto pare, attiraron su di lui l'attenzione dell'«Antologia»175. Un ragazzo prodigioso in una assemblea di parrucconi: certo, dovette fare impressione. Tanto piú che questi due discorsi, subito dopo stampati, non avevano nulla a che fare con le solite, inutili e asfissianti comunicazioncelle erudite. Nel primo: Della morale e della critica considerate nei loro rispetti scambievoli, oltre alla chiara impostazione storica e filosofica, quel che piú c'interessa è la decisa professione di fede idealistica e romantica, antiutilitaria e antisensistica, del giovanissimo oratore.

... il fatto primitivo della morale è il bisogno della virtú; il fatto primitivo dell'Estetica è il bisogno della creazione dell'arte... Questi bisogni sono ambedue una emanazione di quella forza mirabile per cui l'animo esce in certa guisa fuori di se stesso, e si diffonde negli oggetti che lo circondano.

Passando a parlar di poesia come massima espressione di morale in azione, il Montanelli accettava la teoria dell'Ancillon, secondo la quale la grande distinzione fra poesia antica e moderna era quella che l'antica intendeva principalmente a «dipingere l'uomo nel contrasto delle sue affezioni»: che era poi l'antinomia maggiore fra paganesimo e cristianesimo. «Che cosa è la vita nel sistema del cristianesimo se non un contrasto continuo della libertà con le passioni, dello spirito e del mondo? E come può in questo contrasto dilettar l'uomo l'aspetto della natura, e delle bellezze dell'universo?» Perciò la poesia moderna era «sentimento e malinconia, dipingendo l'uomo con tutti i suoi contrasti». La vita moderna, col progresso dell'industrialismo, spingeva l'uomo sempre piú al perseguimento del suo materiale interesse: ed ecco il compito supremo degli artisti, correggere quelle tendenze, rialzare l'umana dignità «con le forme della bellezza tenere vivo quel fuoco sacro da cui si partono tutti quei sentimenti che onorano l'umanità». Ingenuità di poeta? E sia pure: ma, in questo caso, benedetta ingenuità!

A non dissimile meta tendeva l'altro discorso: Dell'amore nella poesia antica e moderna176: dove, seppure con illazione assai contestabile nella sua perentorietà, il Montanelli stabiliva che «l'amore come bisogno puramente fisico signoreggia nella poesia degli antichi, ed è l'anima della moderna (massimo campione il Petrarca) come sentimento eminentemente morale... Il sentimento morale dell'amore... nacque con la formazione della novella civiltà». Quale il compito dei novissimi poeti? Quello di rivolgere principalmente le potenze dell'arte alla riforma dei costumi, alla rigenerazione morale dell'umanità... Cantarono d'amore gli antichi, ne cantarono i moderni poeti. Ma questo affetto fu nei primi un semplice bisogno della natura, fu negli altri uno slancio egoistico del cuore. A voi (giovani poeti) è riserbata la nobilissima missione di riunire i pregi degli antichi a quelli dei moderni». La missione della poesia era dunque assai altamente sentita dal Montanelli: il quale, come accade, sapeva per allora altrettanto bene ragionar su di essa, quanto mal gli riusciva di applicar nella pratica, in veste di poeta egli stesso, quei troppo superbi dettami.

Giurista, filosofo, critico, poeta, musico. Che piú?






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96 Cfr. su di esso quel che ne scrisse il Cipriani, nelle Avventure della mia vita, I, pp. 27 sgg.: Leonetto v'era entrato, di dodici anni, nel '24, e vi rimase, col fratello Pietro, quattr'anni. Da lui impariamo che il vicerettore era un buon maestro di latino; che l'italiano v'era insegnato, male, da un prete Rocchi, e da un tal Cardella; e il francese da un Giannoni, non meno antipatico e ridicolo del Cardella; e che due dei prefetti si chiamavano Bachi e Lecori. Vero è che alla testimonianza del Cipriani, un vero energumeno, da ragazzo, non è da credersi alla lettera.



97 David Levi, che lo conobbe nel '37, attesta che della musica il Montanelli fu «non solo amante, ma cultore insigne» (Vita di pensiero, p. 118).



98 Veramente il Giusti, che all'università di Pisa entrò, come il Montanelli, nel novembre del 1826, e che perciò sembra difficile non lo avvicinasse fino d'allora, ebbe a scrivergli piú tardi (nel '47): «quando ti trovai a Pisa nel 1832»... Errore di memoria? O volle il Giusti accennare al '32 come all'anno nel quale, tornato egli all'università dopo una triennale parentesi oziosa, ebbe inizio l'amicizia fraterna col Montanelli? Cosí mi sembra probabile.



99 Si laureò nel '31.



100 Entrò all'università nel '29.



101 Altro compagno di Montanelli, Giuseppe Bianchi, col quale ebbe poi studio legale.



102 Per le bravate del Cipriani a Santa Caterina, culminanti col ferimento del prefetto Bachi, si vedano le citate sue Avventure: dalle quali risulta che anche il Montanelli, che un bel giorno, stomacato, ebbe a chiamarlo «corsaro», s'ebbe da lui una scarica di violentissimi pugni nel viso. Del rettore don Valerio il Cipriani non traccia un brutto quadro: il povero sacerdote, colpito a seggiolate e a calci dal riottoso scolaro perché, dopo quel ferimento, gli aveva dato, non a torto, invero, della «bestia feroce», dell'«assassino», venne soccorsodice sempre il Cipriani – da una dozzina di preti; dopodiché, «disteso sopra una poltrona, alzando le braccia esclamò: "Curavimus Bahylonem non est sanata, derelinquamus eam". E senza perdere un momento fu ordinata una carrozza, e Leonetto rimandato dal padre».



103 Sul Forti si veda quel che, con intelletto d'amico, scrisse il Montanelli stesso nelle Memorie, I, p. 23, presagendo l'immortalità addirittura ai suoi due libri delle istituzioni civili, pubblicati postumi, essendo morto costui giovanissimo nel 1838- Cfr. anche le pagine che gli dedicò il Martini nell'Epistole del Giusti, IV, pp. 136 sg.

Forse fu amico del Montanelli anche Girolamo Poggi, altro eminente giurista, strappato alla scienza nel 1837, di soli trentaquattro anni, su cui cfr. Memorie, I, p. 23.



104 Per una sommaria revisione critica del Centofanti si cfr. Memorie, I, p. 63.



105 Si veda in proposito la curiosa lettera del Montanelli al Centofanti, 26 novembre 1830 (inedita) nella quale cercava di ricordare tutto quello che, in relazione «al sistema ideale e storico» il Centofanti gli aveva detto «una mattina di domenica mentre passeggiavano per la via di Santa Croce»; dopo di che aggiungeva: «Se potrò richiamarmi alla memoria qualche altra cosa gliela scriverò».



106 Memorie, I, p. 64.



107 Cfr. un'altra lettera inedita – forse ancora del '29 – del Montanelli al Centofanti nella quale, ricorrendo a lui «come suo unico protettore per domandargli schiarimenti sopra varie difficoltà che gli correvano nel corso dei suoi studi» gli esponeva dubbi eruditi sorti in lui dalla lettura di una opera del Boggelli e della Storia antica e moderna dello Schlegel.



108 Diritto civile e canonico.



109 Altri professori di discipline giuridiche erano allora il Dal Borgo, di istituzioni civili, forse piú attivo e piú noto, a torto o a ragione, come poeta che non come giurista; e il Cantini, di diritto canonico.



110 Cfr. Montanelli a Vieusseux, 3 dicembre 1834.



111 Cfr. Montanelli a Vieusseux, 24 marzo 1836.



112 Cfr. Montanelli a Vieusseux, 13 febbraio 1831.



113 Memorie, I, p. 22.



114 Tutti i biografi concordano nell'asserirlo laureato nel 1831. Che fosse già laureato nell'estate di quell'anno dimostra il titolo dottorale apposto alla stampa dei suoi Due discorsi, piú avanti citati. A conferma si vede del resto la lettera del Centofanti a lui (inedita), 4 giugno 1831.



115 Inedita, 21 maggio 1832.



116 Lettera 30 maggio 1832 (?).



117 Lettera 6 gennaio 1833.



118 Lettera 11 gennaio 1833.



119 Lettera 15 gennaio 1833.



120 Notare che al Vico il Tonti, amico del Montanelli, dedicò nel '36 un saggio, stampato a Lugano (Carteggio Tommaseo-Capponi, I, p. 357).



121 Cfr. lettera del Centofanti 30 maggio 1832; e del Montanelli 2 dicembre 1832.



122 Cfr. ad esempio le tre lettere (inedite) del Montanelli, 20, 21, 29 novembre 1832, circa la stizza del Carmignani per un severo articolo su di lui del Centofanti.



123 Molte lettere del 1832 e '33 vertono appunto su un complicato affare dei due fratelli Centofanti (la vendita di una proprietà da loro ereditata a Pisa), nel quale troviamo mescolato il canonico Della Fanteria, piú tardi diventato la bestia nera dei liberali pisani. Cfr. Montanelli a Centofanti, 20 novembre, 29 novembre 1832 e altre lettere del 1833.



124 Cfr. ad esempio la lettera Centofanti, del 30 maggio 1832: «E se l'Antonietta oggi non rispondesse, tu vorrai scusarla. Ella t'ha già risposto con l'anima»...



125 Su queste passeggiate lettera Montanelli a Tommaseo, ottobre 1832. Del resto anche il Centofanti teneva il Montanelli al corrente di certe sue vicende intime, come si rileva dalla lettera (inedita) dal 16 gennaio 1833.



126 In una lettera non datata del Montanelli al Tommaseo si legge: «La tua conoscenza farà che l'anno 1832 segni un'epoca notabilissima nel corso della mia vita...» Del Tommaseo, comunque, il Montanelli faceva già elogi sperticati in una lettera del 12 gennaio 1832 al Vieusseux (inedita), relativamente a un suo articolo sul veltro allegorico pubblicato nell'«Antologia» articolo che gli era bastato per abbandonare in proposito, diceva, «la mia opinione conforme a quella del Troia».



127 Cfr. Lettera di Montanelli, senza data, ma del 1832.



128 Lettera 22 ottobre 1832.



129 Al Vieusseux scrive, il 21 novembre: «Molto piú ancora mi è piaciuto l'articolo di Tommaseo che ho letto tre volte e sempre con piacere, e con frutto. Non so come la censura abbia potuto permettere la stampa di molte cose contenute in quell'articolo! Ma la confutazione di coloro che vogliono la unità materiale dell'Italia ha servito di passaporto alle (parole indecifrabili) contro la legittimità, e alle bellissime idee sull'unione intellettuale, morale e religiosa degli italiani, senza la quale tutti i nostri sforzi non potranno giammai riuscire a buon fine...» (Marradi, op. cit., p. 168).



130 Lettera 21 novembre 1832.



131 Si noti che il Montanelli abitava allora – come ebbe a scrivere al Vieusseux, 22 febbraio 1832appunto in piazza di Santa Caterina, in casa della vedova Tami: lo zio rettore, si vede, voleva averlo sott'occhi!



132 E al Vieusseux, 28 novembre (inedita): «Tommaseo vi parlerà dell'università. Assistemmo insieme ad una lezione sul Diritto di natura; e potrete farvi raccontare le cose notabili della medesima»; e il 12 dicembre (inedita), allo stesso: «Qua si parla ancora della visita da lui (Tommaseo) fatta alla università – e molti di questi professori mi hanno fatto domandare qual giudizio avesse recato delle loro lezioni».



133 Del dicembre 1832 è certamente una delle lettere non datate del Montanelli al Tommaseo e precisamente quella già citata in una nota precedente: «... stringendo fra noi un dolce vincolo di unione gioveremo alla causa dell'umanità piú con l'esempio che con le parole. È tempo di dimostrare agli uomini egoisti che sono ancora dei cuori nei quali arde la sacra fiamma dell'amore – e che può esistere una unione vera, sincera, e operosa – nella dissoluzione universale dei vincoli sociali».



134 Del Tonti, pistoiese, il Tommaseo pensava assai bene: «Ha ingegno e animo meno menci di quel che dia la Toscana, per solito», scrisse nel gennaio '35 al Capponi (Carteggio I, p. 210); nel '36 lodò un suo saggio sul Vico (p. 357); nel '37 gli dedicò perfino dei versi (p. 210).



135 Cirillo: si occupò di studi storici.



136 Questa lettera è certo del gennaio '33, come si rileva dal confronto con altra che reca impressa quella data. In quest'ultima, infatti, il Montanelli chiedeva al Tommaseo: «È stato a ritrovarti il giovane di cui ti parlava nella passata lettera?». E nell'altra: «... Si presenterà da te a mio nome un mio amico Giovanni Bertolani che potrai considerare come fratello».



137 Memorie, I, p. 65.



138 Cosí si legge in un rapporto 16 agosto 1847 del soprintendente Boninsegni. Marradi, Montanelli, ecc., p. 179.



139 Inedita, datata sull'autografo 30 maggio 1832, ma indubbiamente di parecchi giorni innanzi (come dimostra la risposta del Centofanti in data 20 maggio e la replica del Montanelli stesso, del 21). Il Centofanti non si scandalizzò per nulla: «Abbraccia affettuosamente per me tutti i giovani che hanno teco una vicendevole trasmissione di alte e nobili simpatie – gli scrisse infatti. – Occupiamoci della grand'opera alla quale dovremo coraggiosamente applicarci



140 Cfr. la breve biografia che essa scrisse del marito in Marradi, op cit., p. 172. E anche Pemens, op. cit., p. 359.



141 Si noti altresí che allorquando, nel '47, la polizia toscana raccolse sul Montanelli tutto quanto resultava a suo carico per gli anni precedenti, dell'episodio sansimonistico si dimostrò del tutto ignara.



142 Levi, Vita di pensiero, pp. 117 sgg.



143 Il Levi, veramente, scrive che ciò avvenne nel 1840; ma dal carteggio montanelliano noi sappiamo che già nel '37 si era stretta fra loro quella fervida amicizia che durò poi cosí a lungo, ed alla quale il Levi ispirò, moltissimi anni piú tardi, il commosso, postumo elogio del Montanelli (in Vita di pensieri, cap. I).



144 Op. cit.



145 Che per prudenza chiamano, anziché giornale, «opera che si dispensa ogni settimana». Montanelli a Tommaseo, senza data, ma dicembre 1832.



146 «Vi è una società che paga 5 paoli al mese onde mantenere l'impresa, e chiunque vuole entrare in questa società avrà 5 dispensescrive il Montanelli al Tommaseo. – Il prezzo poi d'associazione per tutti è di lire 4 all'anno», Cfr. sull'«Educatore», Linaker, Mayer, I, pp. 184 sgg.



147 In questo progetto di un giornale letterario, artistico e scientifico che avrebbe dovuto pubblicarsi a Livorno sotto gli auspici di quel Gabinetto scientifico e letterario, e per esso dal professor Doveri, ma con la collaborazione di un gruppo di giovani capitanati dal Montanelli e sotto la direzione del Centofanti, cfr. due lettere del primo al secondo (inedite), maggio 1832, e la risposta favorevole del Centofanti in data 20 maggio. «Il giornale deve esser fattoscriveva infatuato il Montanelli... – perché questa gioventú ha bisogno di impiegarsi utilmente in una grande intrapresa». Il Centofanti non meno pronto del suo «discepolo» a scambiare le fantasie con la realtà, dopo qualche giorno vedeva già tutto fatto; «Parliamo ogni giorno di te – gli rispondeva da Firenze il 30 maggio, – dei nostri cari ed ardenti cooperatori, e della futura vita letteraria che condurremo!» Perché poi il progetto fallisse, non sappiamo; ma forse non ultimo motivo ne fu la... doccia fredda sul sansimonismo del gruppetto pisano.



148 Lettera non datata, ma certamente degli ultimi di dicembre, giacché trasmette gli auguri pel capo d'anno.



149 Cfr. su di esso le impressioni del Centofanti in lettera Montanelli, 18 gennaio 1833 (inedita).



150 Veramente nella Nazionale si trova una lettera del Montanelli al Vieusseux in data 13 febbraio '31 (già pubblicata, mutila dell'ultimo paragrafo, del Marradi, op. cit., p. 165); ma il suo tono e il contenuto dimostrano che deve essere del 13 febbraio '32. Del resto è chiaro che la lettera del 25 novembre '31 (inedita) è la prima che il Montanelli diresse al Vieusseux («Giacché negli ultimi giorni del settembre decorso trovandomi in Firenze ebbi il piacere di fare la sua conoscenza, mi prendo la libertà di dirigerle questa mia...»)



151 A firma M. G. Il fascicolo – si vede che anche allora usava cosí – non comparve però che a principio di febbraio del '32.



152 Lettera pubblicata in Marradi, op. cit., p. 177 F.



153 Scriveva del resto il Montanelli in altra lettera del 12 gennaio '32 (inedita): «Si meraviglierà forse osservando tante correzioni nelle stampe del mio piccolo articolo... Ma queste correzioni hanno avuto la sua ragione, Orlandi, giacché ho saputo essere egli un giovane pieno di buona intenzione, e d'amore per lo studio. Queste sue disposizioni meritavano un riguardo. Mi è stato detto di piú che è perseguitato moltissimo dai preti del suo paese, i quali cercano ogni modo per attaccarlo sia nella sua condotta, sia nella sua produzione scientifica. Anco questa ragione mi ha fatto usare verso di lui maggior riguardo, senza defraudare però in alcuna parte l'amore del vero, e della Scienza». Al che il Vieusseux, 11 febbraio (inedita): «Ella fece bene di mitigare alcune espressioni che erano un poco pungenti, ma sarebbe stato meglio, forse, il non mitigare tanto. Ci combineremo meglio un'altra volta».



154 Il Montanelli la spedí al Vieusseua con lettera (inedita) 3 marzo '32.



155 Il 13 febbraio 1832, tornando sull'argomento, scriveva: «... Il principio che Ella professa di non impegnarsi prima d'aver letto, è troppo giusto e ragionevole perché ciascuno [non] debba sottomettercisi senza difficoltà! Senza di esso il giornale mancherebbe d'unità e di scopo».



156 Lettera inedita.



157 Lettera 21 dicembre 1831 pubblicata in Marradi, op. cit., pp. 166-67.



158 In data 5 gennaio 1832 (in margine alla lettera del Montanelli).



159 Lettera inedita.



160 Sull'articolo del Marzucchi, una volta pubblicato, cfr. le impressioni del Montanelli nella lettera a Vieusseux 21 novembre 1832 (Marradi, op. cit., pp. 167-68).



161 È questa la lettera del 13 febbraio 1832 pubblicata dalla Marradi con la data erronea del 1831. Basta il semplice avvicinamento con quella del 7 febbraio per capire che le due lettere furono scritte una di seguito all'altra.



162 Si veda la lettera (inedita) del Montanelli in data 22 febbraio 1832.



163 Lettera inedita.



164 Lettera 21 novembre, pubblicata in Marradi, pp. 167-68.



165 Lettera pubblicata in Marradi, pp. 167-68.



166 Equivocando il buon Vieusseux aveva creduto, addirittura, che il Montanelli volesse scriver lui una guida alla rinnovazione della filosofia: di qui la rettifica del Montanelli in lettera (inedita) 28 novembre.



167 Lettera 27 novembre pubblicata in Marradi, pp. 168-69. Successivamente il Montanelli avvertí che si sarebbe contemporaneamente occupato anche di un volume su la Musique mise à la portée de tout le monde, stampato in Francia nel '30 (lettera inedita dell'11 dicembre 1832).



168 Cfr. la lettera (inedita) di Vieusseux a Montanelli, 18 dicembre, contenente oltre alle sue critiche sull'articolo, una tirata contro il Centofanti, troppo borioso e imperativo. Montanelli, al solito, si mostrò remissivo: «Seguirò in tutto e per tutto i vostri consigli, perché vi stimo molto... Anzi vi sarò gratissimo degli avvertimenti che mi darete, come sono grato a tutti quelli che mi correggono, che mi istruiscono, che mi dirigono» (lettera inedita 22 dicembre). Il 29 dicembre (inedita) gli rimandò l'articolo accorciato e modificato: «Quanto diritto avete, o mio caro Vieusseux, alla riconoscenza della nostra patria



169 Lettera inedita.



170 Lettera inedita.



171 Lettera inedita.



172 Lettera inedita 18 marzo 1833.



173 Lettera inedita.



174 Memorie, I, p. 25.



175 Marradi, op. cit., p. 172.



176 Entrambi vennero pubblicati a Pisa nel 1831: Due discorsi del dottor G. Montanelli, ecc.





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