Sono andato a Fucecchio a cercar Montanelli. Da mesi e mesi,
propostomi di ricostruire la vita di lui, turbinosissima, mi son
messo a raccogliere e ad annotare le carte e memorie sue; e a un
certo punto ho sentito che non avrei potuto penetrare a pieno il mio
personaggio senza respirare la sua aria nativa, contemplar la sua
terra, discorrere con i suoi compaesani.
Quante volte, nei quinternacci d'appunti del vecchio patriota
toscano, quante volte scorrendo le sue lettere d'esilio, o rileggendo
i suoi versi, non m'è tornato sotto gli occhi, accompagnato da
un aggettivo nostalgico, questo toscanissimo nome: Fucecchio!
Allor
che di lontano al guardo apparve
il
nativo castello, e sulle antiche
torri,
e sui rudi tetti,
e
sulle verdi collinette apriche
morir
vidi del sole il raggio estremo,
la
piena degli affetti
con
piú tumulto m'ondeggiò nel seno.
Forse
chi m'era appresso
nelle
tronche parole in quell'istante,
il
commosso sentía spirto ondeggiante.
La Fucecchio dei suoi anni d'infanzia,
quando il futuro triumviro della Toscana, un monello estasiato di
musica, tirava i mantici dell'organo nella chiesa della Collegiata, o
quella degli anni universitari quando, nelle vacanze, accodato al
«sommo» filosofo Centofanti, egli pure un fucecchiese, il
Montanelli errava pei poggi umanissimi (i poggi di Leonardo...)
sognando spirituali trionfi. Fucecchio che lo piangeva morto
all'indomani di Curtatone, per festeggiarlo quattro mesi piú
tardi, redivivo, con incontenibile slancio paesano, e memorabile
spreco di mortaretti e lumini: poi la gloria improvvisa del ministero
(un di Fucecchio arbitro della Toscana tutta, e quasi piú
potente dello stesso granduca!) e il piú improvviso crollo,
l'amara parentesi di quei dieci anni francesi. Come lontana la rossa
torre Bernarda circondata d'olivi, come lontane le carciofaie di San
Pierino, sulle rive dell'Arno! Calunnie infami inseguivano l'esule:
quanti fra i molti, fra i troppi amici del buon tempo osavano ormai
difendere il condannato all'ergastolo del 1853? Solo a Fucecchio,
egli amava pensare, solo nella sua terra remota e schietta gli umili
sapevano restargli fedeli: contadini e artigiani, e gli antichi
compagni di giuochi su pei gradini della cattedrale. E forse non era
vero; ma quel pensiero lo aiutava a vivere, ad aspettare.
Nell'imagine del borgo nativo – un poco assopito nella sua
storia illustre – gli si concretava, quasi, l'imagine stessa
della patria da resuscitare. Pensava all'Italia e vedeva Fucecchio. E
come sovente, coi Michelet, coi Lamennais, coi Du Camps non gli
accadeva, dimenticando per un istante letteratura o politica, di
parlar di Fucecchio, come fosse stata la città di Dio, a
fronte di quel prodigio tutto razionale, Parigi!
Venne il '59. Venne il ritorno. E la
tentazione tante volte avvertita, negli anni d'esilio, di andarsene a
rimirare l'Italia rinata o rinascente procul negotiis, da quel
sereno cantuccio provinciale, dove gli sarebbe stato cosí
dolce recuperare la sanità perduta, la sanità del
corpo, e piú, quella dello spirito troppo provato dalla
ingratitudine umana; la tentazione egoistica non visse, già
s'intende, un istante. Fu il campo dei volontari prima, furono poi le
corse affannose a Torino, a Firenze, e di nuovo a Parigi, e a Pisa: a
Fucecchio appena qualche comparsa fuggevole, per ritrovarvi la lena,
appena il tempo di spalancar le finestre di quella bella sua casa, là
in cima al paese, per contemplare la sottostante valle verdissima e
poi ripartire. Chi avrebbe mai potuto prevedere che quel ritorno in
Italia avrebbe coinciso col periodo piú triste della sua vita?
Che lo avrebbero perfino tacciato, perché non voleva l'unità
al modo di tutti, di non amare il suo paese? Che lo avrebbero escluso
dal parlamento, dove sognava di rappresentare Fucecchio?
E venne, tre anni dopo, un giorno d'aprile in cui il Montanelli,
precocemente vecchio, febbricitante, velato di mestizia quel suo
sguardo splendente, tornò per sempre a Fucecchio. Moriva ogni
giorno, e non sapevan di che; ma lo sentiva anche lui e, pur
religioso com'era, non poteva darsene pace. C'era tanto da fare, in
Italia, per un uomo della sua tempra! Tanti problemi urgevano, che
gli pareva avrebbe saputo risolvere. Guardava dalla sua poltrona quei
monti, quei colli, quei campi fervidi d'opere, e non voleva credere
che avrebbe dovuto ben presto lasciarli per sempre. Nella stanza
s'ammonticchiavano le carte su cui, con quella scrittura chiara e
ordinata dapprima, poi sempre piú precipitosa e arruffata via
via che premevan le idee nell'ansia di non finire, sudava affrontando
le grandi questioni del giorno e dell'avvenire, abbozzando discorsi e
articoli, e disegnando ampi studi metodici sull'ordinamento della
nazione italiana. Quell'ordinamento, pensava, cui solo l'esperto
della sua storia nei secoli e il conoscitore profondo delle tendenze
vive del suo popolo sarebbe mai pervenuto.
Fucecchio, fiera d'averlo finalmente per sé, questo suo
figlio illustre, e insieme rispettosa di quel privilegio, lo
circondava di reverente silenzio.
Morí, non rassegnato, ai 17 giugno: né piú di
lui rassegnati i fucecchiesi tutti, che come una grande famiglia
avevano diviso e sofferto, senza comprenderle, le sue amarezze:
mormoravano adesso che gli avversari suoi lo avessero fatto morir di
veleno, e diffidavano quasi di quelle stesse manifestazioni d'omaggio
che alla sua memoria si largivan di fuori; anticipavano con
appassionato rancore il giorno in cui, crollati i falsi idoli, il
Montanelli, inquieto nella sua tomba laggiú nel chiostro dei
frati, avrebbe avuto pace con la vendetta di una piena
riabilitazione.
Son passati da allora settantacinque anni: e accanto al Montanelli
riposano ormai tutti quelli della generazione sua, e i figli loro.
Eppure il senso di quella iniquità della sorte, di quella
morte indebita, e quasi di quel torto fatto al paese tutto, è
vivo a Fucecchio come nel '62. La storia, si può e si deve
riconoscerlo, non ha ancor dato al Montanelli tutto quel che gli
spetta: Fucecchio attende ancor oggi con piena fiducia che sorga il
biografo riparatore. Per lui nelle case che furono degli amici si
conservano gelosamente ritratti e lettere; per lui si trasmettono di
padre in figlio memorie e dicerie; per lui l'arciprete custodisce il
calamaio di bronzo in cui il concittadino illustre intinse negli
estremi giorni la penna. I fucecchiesi, in sua attesa, hanno pagato
la loro passione con l'erigere al Montanelli un gran monumento
marmoreo, giú nella piazza dedicata al suo nome, e nel
tempestare di lapidi la casa dove nacque, visse, morí. Nel
Municipio, in una vetrina dorata, campeggia come una sacra reliquia
la sua uniforme di combattente del '48, del '59.
Tutto questo ho ben sentito arrivando a Fucecchio, non appena
svelatomi nella mia qualità d'aspirante biografo. Dal
bambinetto che mi s'è messo alle costole e non mi ha lasciato
un minuto, tutto fiero di render un servizio al gran Montanelli,
all'avvocato X, uno di quei legali di provincia che ingannano il
tedio delle giornate senza clienti ricostruendo sulle pergamene del
vescovado la storia del loro paese, a un paffuto canonico che alla
gloria locale sa perdonare perfino le deviazioni massoniche, tutti
vivono ancora nel riflesso di quella luce. Con quanto scandalo,
putacaso, non hanno veduto alcuni giorni addietro partir da
Fucecchio, prosaicamente ingabbiata con su l'indirizzo del
compratore, la vecchia poltrona sulla quale il Montanelli soleva
sedere...
Giro pel paese, in traccia di questi ricordi. E mi sembra che, a
parte qualche restauro o qualche fabbrica nuova, Fucecchio dovesse
esser proprio cosí, anche tre quarti di secolo fa. Il caffè
«Iris», certo, si sarà chiamato altrimenti; e dove
ora è il Fascio ci sarà stata la Società
operaia, intitolata a Montanelli, suppongo, con sull'uscio la
fatidica insegna del mutuo soccorso, due mani che si stringono. Beati
i paesi che nascono in groppa a un dirupo, a rispettosa distanza sia
dalla strada ferrata che dalla via nazionale! Son quelli che
conservano immutati nei secoli i loro caratteri esterni, il tipo
etnico, la lingua.
Fucecchio, l'ho detto, sorge tutta su quel dirupo, del quale
occupa la scarpata a mezzogiorno e ponente: solo poche case, fra le
piú vecchie, ma in compenso quasi tutte le nuove son
sciorinate in pieno, quasi ad accogliere al loro arrivo le strade
diritte e alberate che giungono da Castelfranco di Sotto, da Santa
Croce, da Altopascio, dopo un viaggio avventuroso tra i poggi, il
piano, il padule. A levante, sul pendio, le due torri quadrate, un
cinquanta passi una dall'altra, parlano, coi pochi avanzi delle
antiche mura, di Fucecchio medievale, terra contesa tra Lucca e
Firenze.
La casa nativa del Montanelli è a mezza costa, semplice e
grigia in una via traversa; l'altra che poi fu sua, e nella quale
morí, quasi un palazzo (ora è deserta; ma l'hanno
adocchiata per farne un asilo d'infanzia) s'inalza invece, in pieno
mezzogiorno, sull'orlo del dirupo. Sfido io che il Montanelli,
alloggiasse sui Lungarni di Pisa o a Palazzo Vecchio, o anche in un
boulevard di Parigi, non riuscisse né a Parigi né a
Firenze né a Pisa a trovar qualcosa di comparabile con quel
suo belvedere! In faccia, all'ultima quinta, i monti di Pisa con la
Verruca scapozzata; piú qua, a limite della pianura solcata
d'acque e di strade, i colli di Castelfranco; a sinistra, contro il
cielo, il profilo di San Miniato, con lo smozzichío delle sue
torri, come la mascella d'un vecchio dai pochi denti guasti; a
settentrione le montagne turchine di Pescia. Per un poeta – e
il Montanelli era nato poeta, seppure le troppe disparate ambizioni,
poeta, filosofo, storico, giurista, politico, non gli permettessero
d'abbandonarsi tutto alla sua limpida vena – per un poeta c'era
di che sognare ad occhi aperti; c'era di che lasciarsi prendere, per
sempre, da non so quale arcana malinconia, quella malinconia che il
Montanelli aveva negli occhi e che tanto contribuí a
circondarlo d'un fascino irresistibile. Accanto alla casa, e sullo
stesso livello, una chiesa, preceduta da un portico, arena di
ragazzi; e un altro chiesone alle spalle, con una sua gran scalinata
(quante chiese, quante campane, quanto pensiero dell'Infinito!); di
qui un vicoletto tortuoso e precipitoso, che mena al piano, fra alte
case e piccoli orti. A un crocevia un tabernacolo, con entro, in
terracotta azzurra, l'imagine dell'Immacolata ed una iscrizione per
ricordare che vi fu posta, nel 1833, proprio dal Montanelli. Non
aveva che vent'anni, a quel tempo: e già conosceva i trionfi
della scuola di Pisa e gli erano amici il Giusti e il Capponi, e
sull'«Antologia» s'erano potuti leggere certi suoi
scrittarelli eruditi. Ma al suo paese si rifugiava, e poi sempre amò
rifugiarsi, nella piú candida semplicità. Lecito era
con i sapienti delle città disputare, dubitare magari, delle
cose divine ed umane; a Fucecchio non si poteva se non adorare,
cantando e quasi rimpiangendo la troppo sublime bellezza del creato.
1833: l'anno in cui gli era morta la madre; ed era stato per lui un
dolore cosmico, di quelli che abbuiano per sempre la vita: davanti al
quale, irreparabilmente sgomento, non aveva potuto reagire, si vede,
che con quell'umile gesto. L'Immacolata si confondeva per lui con la
madre.
E
tu perché sí presto, o Madre mia,
abbandonasti
sulla terra un figlio
che
dolorosamente ti desia?...
.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
O
rimembranze del sereno aspetto,
e
delle voci dall'amor dettate,
e
degli amplessi del materno affetto;
voi
nell'anima mia vi riposate,
come
nel sen di giovinetto ardente
verginali
sembianze innamorate.
Percorro il vicolo fino al suo sbocco in piano, poi mi faccio
indicare il convento dei frati, che dà sulla campagna aperta.
M'apre un converso imberbe, quasi un ragazzo, dall'aria attonita.
Giro giro, nel chiostro, una fila di tombe qualunque: nel mezzo,
pochi arbusti si godono un gran quadrato di cielo. Ed ecco qua la
tomba di Montanelli, segnata da una brutta lapide grigia. Ricordate
le virtú dell'estinto prosegue: «Il 1° luglio 1867 –
meditando l'eroica impresa che finí a Mentana – Giuseppe
Garibaldi – Il gran cavaliere dell'umanità –
Memore del perduto amico – venne a deporre una lagrima su
questa tomba gloriosa»; mi volgo al converso, e vorrei
domandargli se non trova un po' strano che in quella sede venga
glorificato il sacrilego attacco a Roma papale. Ma non voglio
turbarlo. Ora mi s'avvicina misteriosamente: «Sa lei, mi dice,
che nella bara vennero nascosti dei documenti segreti?» Non lo
sapevo, no, né lo credo: ma la leggenda mi piace; quasi che
nella minaccia implicita di disseppellire un dí o l'altro quei
fogli la fiera Fucecchio abbia assaporato per tutti questi anni la
sua vendetta sui nemici del Montanelli!
Esco al sole, rivedo dinanzi a me le due torri. È il
mezzogiorno, e da quel fitto di comignoli neri arrampicati sull'erta
escono esili tracce di fumo a suggerire desinari da povera gente.
Alla locanda due o tre commercianti, con le loro borse rigonfie,
assaporano lo stufatino. Penso che ai tempi di Canapone eran proprio
costoro – vestiti di nero o di verde, giacchetta fino ai
ginocchi e il cravattone di traverso sotto il mento – proprio
costoro che facevano circolare la stampa clandestina o trasmettevano
le notizie proibite; e il Buon Governo li teneva d'occhio, pur non
vedendo nulla.
Poi finisco al caffè: con un poncino all'«Iris»
si può bene concludere la gita a Fucecchio, tanto piú
che i borghigiani autentici stan lí, mezzi sull'uscio e mezzi
dentro, col bicchiere in mano, a ragionar di politica. Pare non
sappiano che non conviene o non s'usa, altrove, di questi tempi. Ma
loro discutono forte, accalorati e convinti: toscani, senza
affettazione, all'eloquio, romagnoli all'aspetto un tantino spavaldo,
e ai discorsi. Centellino il mio punch, e imagino il professor
Montanelli, il «professore» a Fucecchio, per antonomasia,
in mezzo al gruppo, pari fra pari, a parlar di Ricasoli, di Garibaldi
o Cavour o, prima ancora, della Costituente. Ora s'è fatto piú
in là e piú in alto, su quel gran piedistallo ingombro
di libroni di marmo, ma si direbbe, da come guarda malinconico, con
quel braccio al collo, all'insegna dell'«Iris», che
scambierebbe ben volentieri quel podio solenne con uno scanno nel
caffè di Fucecchio.
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