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Nello Rosselli
Saggi sul Risorgimento

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  • II. Giuseppe Montanelli
    • 3. Un giorno a Fucecchio
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3.
Un giorno a Fucecchio

 

Sono andato a Fucecchio a cercar Montanelli. Da mesi e mesi, propostomi di ricostruire la vita di lui, turbinosissima, mi son messo a raccogliere e ad annotare le carte e memorie sue; e a un certo punto ho sentito che non avrei potuto penetrare a pieno il mio personaggio senza respirare la sua aria nativa, contemplar la sua terra, discorrere con i suoi compaesani.

Quante volte, nei quinternacci d'appunti del vecchio patriota toscano, quante volte scorrendo le sue lettere d'esilio, o rileggendo i suoi versi, non m'è tornato sotto gli occhi, accompagnato da un aggettivo nostalgico, questo toscanissimo nome: Fucecchio!

Allor che di lontano al guardo apparve

il nativo castello, e sulle antiche

torri, e sui rudi tetti,

e sulle verdi collinette apriche

morir vidi del sole il raggio estremo,

la piena degli affetti

con piú tumulto m'ondeggiò nel seno.

Forse chi m'era appresso

nelle tronche parole in quell'istante,

il commosso sentía spirto ondeggiante.

La Fucecchio dei suoi anni d'infanzia, quando il futuro triumviro della Toscana, un monello estasiato di musica, tirava i mantici dell'organo nella chiesa della Collegiata, o quella degli anni universitari quando, nelle vacanze, accodato al «sommo» filosofo Centofanti, egli pure un fucecchiese, il Montanelli errava pei poggi umanissimi (i poggi di Leonardo...) sognando spirituali trionfi. Fucecchio che lo piangeva morto all'indomani di Curtatone, per festeggiarlo quattro mesi piú tardi, redivivo, con incontenibile slancio paesano, e memorabile spreco di mortaretti e lumini: poi la gloria improvvisa del ministero (un di Fucecchio arbitro della Toscana tutta, e quasi piú potente dello stesso granduca!) e il piú improvviso crollo, l'amara parentesi di quei dieci anni francesi. Come lontana la rossa torre Bernarda circondata d'olivi, come lontane le carciofaie di San Pierino, sulle rive dell'Arno! Calunnie infami inseguivano l'esule: quanti fra i molti, fra i troppi amici del buon tempo osavano ormai difendere il condannato all'ergastolo del 1853? Solo a Fucecchio, egli amava pensare, solo nella sua terra remota e schietta gli umili sapevano restargli fedeli: contadini e artigiani, e gli antichi compagni di giuochi su pei gradini della cattedrale. E forse non era vero; ma quel pensiero lo aiutava a vivere, ad aspettare. Nell'imagine del borgo nativo – un poco assopito nella sua storia illustre – gli si concretava, quasi, l'imagine stessa della patria da resuscitare. Pensava all'Italia e vedeva Fucecchio. E come sovente, coi Michelet, coi Lamennais, coi Du Camps non gli accadeva, dimenticando per un istante letteratura o politica, di parlar di Fucecchio, come fosse stata la città di Dio, a fronte di quel prodigio tutto razionale, Parigi!

Venne il '59. Venne il ritorno. E la tentazione tante volte avvertita, negli anni d'esilio, di andarsene a rimirare l'Italia rinata o rinascente procul negotiis, da quel sereno cantuccio provinciale, dove gli sarebbe stato cosí dolce recuperare la sanità perduta, la sanità del corpo, e piú, quella dello spirito troppo provato dalla ingratitudine umana; la tentazione egoistica non visse, già s'intende, un istante. Fu il campo dei volontari prima, furono poi le corse affannose a Torino, a Firenze, e di nuovo a Parigi, e a Pisa: a Fucecchio appena qualche comparsa fuggevole, per ritrovarvi la lena, appena il tempo di spalancar le finestre di quella bella sua casa, in cima al paese, per contemplare la sottostante valle verdissima e poi ripartire. Chi avrebbe mai potuto prevedere che quel ritorno in Italia avrebbe coinciso col periodo piú triste della sua vita? Che lo avrebbero perfino tacciato, perché non voleva l'unità al modo di tutti, di non amare il suo paese? Che lo avrebbero escluso dal parlamento, dove sognava di rappresentare Fucecchio?

E venne, tre anni dopo, un giorno d'aprile in cui il Montanelli, precocemente vecchio, febbricitante, velato di mestizia quel suo sguardo splendente, tornò per sempre a Fucecchio. Moriva ogni giorno, e non sapevan di che; ma lo sentiva anche lui e, pur religioso com'era, non poteva darsene pace. C'era tanto da fare, in Italia, per un uomo della sua tempra! Tanti problemi urgevano, che gli pareva avrebbe saputo risolvere. Guardava dalla sua poltrona quei monti, quei colli, quei campi fervidi d'opere, e non voleva credere che avrebbe dovuto ben presto lasciarli per sempre. Nella stanza s'ammonticchiavano le carte su cui, con quella scrittura chiara e ordinata dapprima, poi sempre piú precipitosa e arruffata via via che premevan le idee nell'ansia di non finire, sudava affrontando le grandi questioni del giorno e dell'avvenire, abbozzando discorsi e articoli, e disegnando ampi studi metodici sull'ordinamento della nazione italiana. Quell'ordinamento, pensava, cui solo l'esperto della sua storia nei secoli e il conoscitore profondo delle tendenze vive del suo popolo sarebbe mai pervenuto.

Fucecchio, fiera d'averlo finalmente per sé, questo suo figlio illustre, e insieme rispettosa di quel privilegio, lo circondava di reverente silenzio.

Morí, non rassegnato, ai 17 giugno: né piú di lui rassegnati i fucecchiesi tutti, che come una grande famiglia avevano diviso e sofferto, senza comprenderle, le sue amarezze: mormoravano adesso che gli avversari suoi lo avessero fatto morir di veleno, e diffidavano quasi di quelle stesse manifestazioni d'omaggio che alla sua memoria si largivan di fuori; anticipavano con appassionato rancore il giorno in cui, crollati i falsi idoli, il Montanelli, inquieto nella sua tomba laggiú nel chiostro dei frati, avrebbe avuto pace con la vendetta di una piena riabilitazione.

Son passati da allora settantacinque anni: e accanto al Montanelli riposano ormai tutti quelli della generazione sua, e i figli loro. Eppure il senso di quella iniquità della sorte, di quella morte indebita, e quasi di quel torto fatto al paese tutto, è vivo a Fucecchio come nel '62. La storia, si può e si deve riconoscerlo, non ha ancor dato al Montanelli tutto quel che gli spetta: Fucecchio attende ancor oggi con piena fiducia che sorga il biografo riparatore. Per lui nelle case che furono degli amici si conservano gelosamente ritratti e lettere; per lui si trasmettono di padre in figlio memorie e dicerie; per lui l'arciprete custodisce il calamaio di bronzo in cui il concittadino illustre intinse negli estremi giorni la penna. I fucecchiesi, in sua attesa, hanno pagato la loro passione con l'erigere al Montanelli un gran monumento marmoreo, giú nella piazza dedicata al suo nome, e nel tempestare di lapidi la casa dove nacque, visse, morí. Nel Municipio, in una vetrina dorata, campeggia come una sacra reliquia la sua uniforme di combattente del '48, del '59.

Tutto questo ho ben sentito arrivando a Fucecchio, non appena svelatomi nella mia qualità d'aspirante biografo. Dal bambinetto che mi s'è messo alle costole e non mi ha lasciato un minuto, tutto fiero di render un servizio al gran Montanelli, all'avvocato X, uno di quei legali di provincia che ingannano il tedio delle giornate senza clienti ricostruendo sulle pergamene del vescovado la storia del loro paese, a un paffuto canonico che alla gloria locale sa perdonare perfino le deviazioni massoniche, tutti vivono ancora nel riflesso di quella luce. Con quanto scandalo, putacaso, non hanno veduto alcuni giorni addietro partir da Fucecchio, prosaicamente ingabbiata con su l'indirizzo del compratore, la vecchia poltrona sulla quale il Montanelli soleva sedere...

Giro pel paese, in traccia di questi ricordi. E mi sembra che, a parte qualche restauro o qualche fabbrica nuova, Fucecchio dovesse esser proprio cosí, anche tre quarti di secolo fa. Il caffè «Iris», certo, si sarà chiamato altrimenti; e dove ora è il Fascio ci sarà stata la Società operaia, intitolata a Montanelli, suppongo, con sull'uscio la fatidica insegna del mutuo soccorso, due mani che si stringono. Beati i paesi che nascono in groppa a un dirupo, a rispettosa distanza sia dalla strada ferrata che dalla via nazionale! Son quelli che conservano immutati nei secoli i loro caratteri esterni, il tipo etnico, la lingua.

Fucecchio, l'ho detto, sorge tutta su quel dirupo, del quale occupa la scarpata a mezzogiorno e ponente: solo poche case, fra le piú vecchie, ma in compenso quasi tutte le nuove son sciorinate in pieno, quasi ad accogliere al loro arrivo le strade diritte e alberate che giungono da Castelfranco di Sotto, da Santa Croce, da Altopascio, dopo un viaggio avventuroso tra i poggi, il piano, il padule. A levante, sul pendio, le due torri quadrate, un cinquanta passi una dall'altra, parlano, coi pochi avanzi delle antiche mura, di Fucecchio medievale, terra contesa tra Lucca e Firenze.

La casa nativa del Montanelli è a mezza costa, semplice e grigia in una via traversa; l'altra che poi fu sua, e nella quale morí, quasi un palazzo (ora è deserta; ma l'hanno adocchiata per farne un asilo d'infanzia) s'inalza invece, in pieno mezzogiorno, sull'orlo del dirupo. Sfido io che il Montanelli, alloggiasse sui Lungarni di Pisa o a Palazzo Vecchio, o anche in un boulevard di Parigi, non riuscisse né a Parigi né a Firenze né a Pisa a trovar qualcosa di comparabile con quel suo belvedere! In faccia, all'ultima quinta, i monti di Pisa con la Verruca scapozzata; piú qua, a limite della pianura solcata d'acque e di strade, i colli di Castelfranco; a sinistra, contro il cielo, il profilo di San Miniato, con lo smozzichío delle sue torri, come la mascella d'un vecchio dai pochi denti guasti; a settentrione le montagne turchine di Pescia. Per un poeta – e il Montanelli era nato poeta, seppure le troppe disparate ambizioni, poeta, filosofo, storico, giurista, politico, non gli permettessero d'abbandonarsi tutto alla sua limpida vena – per un poeta c'era di che sognare ad occhi aperti; c'era di che lasciarsi prendere, per sempre, da non so quale arcana malinconia, quella malinconia che il Montanelli aveva negli occhi e che tanto contribuí a circondarlo d'un fascino irresistibile. Accanto alla casa, e sullo stesso livello, una chiesa, preceduta da un portico, arena di ragazzi; e un altro chiesone alle spalle, con una sua gran scalinata (quante chiese, quante campane, quanto pensiero dell'Infinito!); di qui un vicoletto tortuoso e precipitoso, che mena al piano, fra alte case e piccoli orti. A un crocevia un tabernacolo, con entro, in terracotta azzurra, l'imagine dell'Immacolata ed una iscrizione per ricordare che vi fu posta, nel 1833, proprio dal Montanelli. Non aveva che vent'anni, a quel tempo: e già conosceva i trionfi della scuola di Pisa e gli erano amici il Giusti e il Capponi, e sull'«Antologia» s'erano potuti leggere certi suoi scrittarelli eruditi. Ma al suo paese si rifugiava, e poi sempre amò rifugiarsi, nella piú candida semplicità. Lecito era con i sapienti delle città disputare, dubitare magari, delle cose divine ed umane; a Fucecchio non si poteva se non adorare, cantando e quasi rimpiangendo la troppo sublime bellezza del creato. 1833: l'anno in cui gli era morta la madre; ed era stato per lui un dolore cosmico, di quelli che abbuiano per sempre la vita: davanti al quale, irreparabilmente sgomento, non aveva potuto reagire, si vede, che con quell'umile gesto. L'Immacolata si confondeva per lui con la madre.

E tu perché presto, o Madre mia,

abbandonasti sulla terra un figlio

che dolorosamente ti desia?...

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

O rimembranze del sereno aspetto,

e delle voci dall'amor dettate,

e degli amplessi del materno affetto;

voi nell'anima mia vi riposate,

come nel sen di giovinetto ardente

verginali sembianze innamorate.

Percorro il vicolo fino al suo sbocco in piano, poi mi faccio indicare il convento dei frati, che sulla campagna aperta. M'apre un converso imberbe, quasi un ragazzo, dall'aria attonita. Giro giro, nel chiostro, una fila di tombe qualunque: nel mezzo, pochi arbusti si godono un gran quadrato di cielo. Ed ecco qua la tomba di Montanelli, segnata da una brutta lapide grigia. Ricordate le virtú dell'estinto prosegue: «Il luglio 1867meditando l'eroica impresa che finí a MentanaGiuseppe Garibaldi – Il gran cavaliere dell'umanitàMemore del perduto amico – venne a deporre una lagrima su questa tomba gloriosa»; mi volgo al converso, e vorrei domandargli se non trova un po' strano che in quella sede venga glorificato il sacrilego attacco a Roma papale. Ma non voglio turbarlo. Ora mi s'avvicina misteriosamente: «Sa lei, mi dice, che nella bara vennero nascosti dei documenti segreti?» Non lo sapevo, no, né lo credo: ma la leggenda mi piace; quasi che nella minaccia implicita di disseppellire un o l'altro quei fogli la fiera Fucecchio abbia assaporato per tutti questi anni la sua vendetta sui nemici del Montanelli!

Esco al sole, rivedo dinanzi a me le due torri. È il mezzogiorno, e da quel fitto di comignoli neri arrampicati sull'erta escono esili tracce di fumo a suggerire desinari da povera gente. Alla locanda due o tre commercianti, con le loro borse rigonfie, assaporano lo stufatino. Penso che ai tempi di Canapone eran proprio costoro – vestiti di nero o di verde, giacchetta fino ai ginocchi e il cravattone di traverso sotto il mento – proprio costoro che facevano circolare la stampa clandestina o trasmettevano le notizie proibite; e il Buon Governo li teneva d'occhio, pur non vedendo nulla.

Poi finisco al caffè: con un poncino all'«Iris» si può bene concludere la gita a Fucecchio, tanto piú che i borghigiani autentici stan , mezzi sull'uscio e mezzi dentro, col bicchiere in mano, a ragionar di politica. Pare non sappiano che non conviene o non s'usa, altrove, di questi tempi. Ma loro discutono forte, accalorati e convinti: toscani, senza affettazione, all'eloquio, romagnoli all'aspetto un tantino spavaldo, e ai discorsi. Centellino il mio punch, e imagino il professor Montanelli, il «professore» a Fucecchio, per antonomasia, in mezzo al gruppo, pari fra pari, a parlar di Ricasoli, di Garibaldi o Cavour o, prima ancora, della Costituente. Ora s'è fatto piú in e piú in alto, su quel gran piedistallo ingombro di libroni di marmo, ma si direbbe, da come guarda malinconico, con quel braccio al collo, all'insegna dell'«Iris», che scambierebbe ben volentieri quel podio solenne con uno scanno nel caffè di Fucecchio.




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