Presunte passività.
Abbiam visto, nelle sue linee essenziali, l'attivo raggiunto dai
governi della Destra. C'è un passivo?
Altro che. Secondo taluni anzi esso
soverchierebbe di gran lunga l'attivo. Unità? Sí, ma a
spese delle distrutte autonomie locali383 e spargendo a piene
mani germi di pericoloso malcontento. Pareggio? Sí, ma con
danno gravissimo anzi irreparabile dell'economia nazionale e mercé
una politica di grettezze, inintelligente e arbitraria384.
(Nel 1870 l'illustre Cialdini scagliava in faccia al ministero le sue
dimissioni dall'esercito, motivandole con le economie eccessive che
all'esercito appunto si erano volute imporre: «monumento della
nostra politica insufficienza»; economie fino all'osso che
«tagliano nervi, arterie, muscoli al corpo cui sono applicate,
e lo lasciano quindi senza moto e senza vita»). Politica estera
debole e incerta385; interna, scorretta, e oscillante tra una
sconfinata libertà e una ingiustificata reazione. Politica
scolastica? Senza larghe vedute e con risultati inferiori
all'universale attesa. Scarso impulso alle magnifiche possibilità
del Nord, annientamento di quelle del Sud. Nessun grande principio
nuovo da opporre a quello, nei primi tempi necessariamente nemico,
millenario e augusto, proclamato dal Vaticano.
I fatti noti, e quel che è diventata l'Italia, e alcune
considerazioni che sarà opportuno svolgere in seguito
dimostrano l'infondatezza sostanziale di tali riserve, le quali tutte
si spiegano peraltro col desiderio paradossale, ma umano, dei
contemporanei di veder la nuova Italia di fresco liberata dai ceppi
della dominazione straniera e dello spezzettamento, balzare alla
testa delle nazioni civili, e col rimpianto e quasi la vergogna dei
posteri che ci volessero tanti anni per renderla pari a quelle, pari
soltanto e non mai superiore. Mirabile in realtà è il
ritmo di progresso che la Destra seppe imprimere in tutti i campi
alla vita del paese; ed è proprio in quel ritmo ancor meglio
che nel dettaglio delle opere compiute che va ravvisato il suo merito
precipuo.
Altri invece, pur riconoscendo le
tremende difficoltà incontrate e superate dalla Destra, le
rimproverò e rimprovera quel che si potrebbe dire, e che essa
veramente in un certo senso si propose e attuò,
imborghesimento della rivoluzione, soffocamento cioè di
un processo ideale sotto motivi prosaici, prevalentemente economici:
acquisto e non conquista di Roma e della Venezia, prudente e
ingloriosa guerra del '66 e finalmente Aspromonte e Mentana, prove
supposte di una deplorevole inadeguatezza di fronte al sognato
coronamento romantico, eroico dell'epoca del Risorgimento386.
Come se la dote essenziale degli uomini di Stato non fosse, per
dirla con parola di moda, il tempismo: quel loro spontaneo e
immediato adeguarsi, cioè, al mutare di talune profonde
esigenze della vita del paese, contro le quali è follia
lottare. Come se, in concreto, la Destra non si fosse trovata, nel
'61, di fronte a una Europa arcigna, pronta a disfar l'Italia al
primo suo barcollamento o segno di immaturità. Come se non
fosse stato piú che necessario, urgente sottrarre gli Italiani
a quell'atmosfera di irrealtà, di fantasia, di improvvisazione
che produce in un certo istante i miracoli (o quelli che tali
appaiono), ma è, nel tempo, creatrice prima di irrequietezza e
di delusioni, e dunque di improduttività. Come se lo
spettacolo di un paese che, non appena costituitosi a nazione, tra le
piú straordinarie vicende, si impone e segue un regime di vita
severo e produttivo, che della nazione gli dia, oltre che il nome, la
fisionomia e l'interiore aspetto, non fosse il piú
straordinario ed «eroico» che possa vedersi.
Quanto poi alla guerra del '66 e ad Aspromonte e Mentana, le
facili critiche che a quegli episodi si muovono rivelano un doppio
errore di valutazione assoluto e relativo (relativo appunto alle
necessità del tempo).
|