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Nello Rosselli
Saggi sul Risorgimento

IntraText CT - Lettura del testo

  • III. La Destra storica
    • La guerra del 1866.
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La guerra del 1866.

Fummo soverchiati, è vero, a Custoza e non riuscimmo a fare di Lissa la prima vittoria che costituisse come il solenne atto di nascita dell'Italia grande potenza. Ma son, questi, accidenti se pur dolorosi, frequenti nella vita delle nazioni attive e operose; e il criterio per giudicare della loro gravità va ricercato, ci sembra – quando, naturalmente, non si tratti di sciagure rovinose per l'esistenza stessa del paese – non tanto nella entità delle perdite subíte in scontri poco fortunati, ma nelle conseguenze profonde, positive o negative, elevanti o deprimenti, suscitatrici d'energia, o viceversa, che recano nella vita della nazione. Se cosí è, né CustozaLissa vanno deprecate: disavventure di una guerra che, dichiarata a soli sei anni di distanza dalla costituzione del regno – ed erano appena cessati i violenti e minacciosi conati antiunitarirappresentò una vittoria gigantesca già di per sé, per il solo fatto che un governo avesse avuto l'audacia di volerla e il paese di farla. E poi: una guerra nostra contro l'Austria, e cioè contro una grande potenza per davvero, d'antica e ancor salda consistenza unitaria, militarmente forte, politicamente ricca di prestigio in Europa387.

Nessun precedente. Non il '48, che aveva colta l'Austria di sorpresa e attaccata dal di fuori quando già minata all'interno: rivolta, e poi guerra e guerriglia, gloriosissime, , ma non guerra vera. Non il '49, temeraria partita d'onore d'un piccolo Stato a tradizione militare, che non poteva dopo tutto finire troppo male, appunto per la piccolezza del Piemonte, certo che l'Europa non avrebbe mai tollerato una sua troppo onerosa sconfitta388. Non il '59, senza dubbio pagina splendida per noi, ma troppo francese e cioè troppo poco rischiosa per noi. Non il '60, che si combatté di sorpresa e con mezzi eccezionali contro uno Stato già morto nella coscienza politica d'Europa, o almeno mortalmente isolato.

1866: per la prima volta dunque l'Italia, allietata di sproporzionate speranze, e cioè già minorata nella sua capacità di resistenza, promuove una guerra pericolosa della quale assume virilmente tutti i rischi; e pur sa che nel caso di rovescio nessuno in Europa le farà scudo di sé389. Diplomaticamente e militarmente, l'Italia, finalmente maggiorenne, agisce di sua esclusiva iniziativa.

C'era, , la Prussia; ma l'alleanza (da quanto tempo non s'era perduto lo stampo?) venne negoziata da pari a pari, do ut des (e se mai con prevalente vantaggio della Prussia, che otteneva la garanzia del nostro intervento nel caso che venisse attaccata e non ci accordava, né noi insistemmo troppo per ottenere, la reciprocità); una volta negoziata, mantenuta da noi con scrupolo che qualcuno giudicò anche eccessivo (nell'aprile 1866, con nobile temerarietà, La Marmora rifiutò senza discuterle le lusinghe dell'Austria, che avrebbe acconsentito a cederci senza condizioni la Venezia purché avessimo abbandonato l'alleanza prussiana390; e ce ne dette atto solenne il Bismarck, 20 dicembre 1866, alla Camera prussiana).

La guerra non volse bene per noi. Che perciò? Fu guerra onorevolissima e le nostre cosiddette sconfitte restarono inulte solo perché la guerra terminò precipitosamente negli altri settori. Ma la vittoria grande, vera e profonda la riportammo pure, e pochi se ne accorsero (se ne accorse l'Austria, che si piegò a riconoscere il regno solo dopo la guerra)391. E fu che il paese, cosí fragile, cosí recente, cosí diviso pur ieri, sopportò bene la prova. Ne uscí cioè piú robusto, piú maturo, piú unito, come provò la stolta minacciosa rivolta di Palermo, condannata dalla coscienza unanime e schiacciata inesorabilmente tra la generale soddisfazione, quasi il paese volesse ammonire i rivoltosi che i problemi interni italiani, per gravi che fossero, s'avevano ormai a risolvere pacificamente tra noi, l'Italia superandoli tutti, non essi l'Italia e la sua indissolubile unità.

Gli italiani non valutarono allora l'enorme importanza della guerra, anzi si diffuse per tutti un senso di disagio e quasi di vergogna, come se portassimo via la Venezia, che da quella guerra ci venne, alla Prussia orgogliosa di vittoria392. Superba crisi, dimostrativa nel piú alto grado di quanta strada il paese in pochi anni avesse percorsa, di come la coscienza nazionale s'andasse formando e diffondendo il senso geloso dell'onore nazionale – e cioè di quanto quella guerra fosse stata, meglio che opportuna, indispensabile.

La Destra, dichiarandola, aveva dimostrato di riporre nel paese una fiducia che a molti, sul momento e anche piú tardi, era parsa intinta di eccessivo ottimismo393. Ma il paese aveva risposto magnificamente e non tanto o non solo con la condotta tenuta durante la guerra, ma meglio e soprattutto con quello scoramento virile, orgoglioso, che lo prese a guerra finita. Un paese il quale non si fermava infatti nella considerazione, pur consolante, che a Lissadopo secoli di storia municipale o regionale – la marina italiana, timida certo nel disegnare l'attacco, si fosse rivelata saldissima, eroica anzi nel fronteggiarlo; e non si confortava nel pensiero della difficoltà dell'impresa superata, ma arrossiva e imprecava, e di scontri incerti faceva addirittura sconfitte sue; – questo paese rivelava in sé qualità eccezionali, nella sua compagine una coesione insospettata, e giustificava le piú grandi speranze per l'avvenire.

E fu bello che gli uomini della Destra non tentassero loro di risollevare artificialmente l'animo del paese, difendendo la guerra, magnificandone i risultati, strombazzandone le sicure benefiche conseguenze future. Fu bello che anch'essi, i quali pur vedevano la compiutezza delle cose, si fermassero severi a giudicare i dettagli e del giudizio fornissero al paese tutti gli elementi. Sapevano che solo il tempo avrebbe rivalutata l'opera loro, e saggiamente lo preferivano.

Scriveva l'inviato inglese a Roma, Odo Russel, allo zio John, da Ariccia, 27 agosto 1866:

La Venezia è stata ceduta, l'Italia è compiuta, gran fatto nella storia! Tutte le questioni estere sono esaurite per l'Italia fin da questo momento. Essa può permettersi di stabilire rapporti amichevoli con tutte le nazioni e di volgere la sua attenzione soltanto alle questioni interne... Lasciate che dimostri la sua buona volontà procedendo la prima al disarmo, che provveda alla pace, all'industria e al commercio, e tutto il resto verrà da sé.

 






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387 Ancor piú significativa tale guerra quando si pensi alle condizioni del paese, nel dichiararla. Tali condizioni sono riassunte (assai pessimisticamente invero) da Rattazzi in un colloquio col principe di Carignano, giugno 1866: 1) cattiva situazione all'estero; 2) popolo scontento; 3) amministrazione incapace; 4) minacce all'unità; 5) clero antipatriottico; 6) aristocrazia a sé; 7) borghesia piovra dello Stato; 8) scarse individualità eminenti, anche nel governo; 9) rivalità del passato risuscitate nel 1864; 10) parlamento povero di personalità; 11) senato - ricovero di pensionati; 12) stampa venale e ignorante; 13) regime fiscale insensato (?); 14) ignoranza diffusa e quel po' di istruzione, pretesca; 15) giovinezza senza principî e senza fede, un po' mazziniana e un po' loiolesca; 16) nessuna preparazione alla guerra, nessuna fede nei capi; 17) marina sconnessa, mai trovatasi assieme agli ordini d'un ammiraglio; 18) nel mezzogiorno ignoranza totale dei fini della guerra. Questo quadro fatto da Rattazzi ha molta importanza (Rattazzi et son temps, II, pp. 52 sg.).



388 Lo dice benissimo Jacini, Pensieri sulla politica italiana, p. 71: «Il regno di Sardegna era una creazione del Congresso del 1815 della quale l'Europa non avrebbe mai permesso la distruzione. Era un cuscinetto indispensabile, posto nell'interesse europeo, insieme alla Svizzera, tra la Francia e l'Austria. Il Piemonte poteva permettersi una politica audacissima, colla certezza di guadagnare immensamente in caso di vittoria, e di restare come prima in caso di sconfitta, salvo a pagare qualche indennizzo di guerra al vincitore...»



389 Ancora Jacini, ibid.: «In caso di sconfitta, la certa prospettiva che si presenterebbe al regno d'Italia sarebbe quella di andare in frantumi. Parecchi dei grandi stati d'Europa, possono avere interesse a che il territorio italiano non divenga piú la preda di alcuno dei popoli vicini; ma è indifferente per loro che rimanga o non rimanga costituito in un solo Stato». Solo che Jacini addita questi pericoli all'Italia di dopo il '66, non prima, quasi dando a credere che l'Europa vedeva volentieri il suo annettersi la Venezia. Ciò che non mi pare dimostrato.



390 Jacini, Pensieri sulla politica italiana, p. 20, dice che noi rifiutammo il 5 maggio.



391 Lo stesso, loc. cit., sottolinea il contegno cavalleresco dell'Austria verso di noi dopo la guerra e i «modi leali e cordiali del suo riconoscimento».



392 Rattazzi et son temps, II, p. 310, accenna, 1867, a 93 milioni che l'Italia doveva pagare all'Austria per il valore del materiale bellico nelle fortezze cedute. Ma come? anche quello si pagò? o non soltanto ci si assunse il debito pubblico di Venezia? Nel primo caso, sarebbe stata una grande umiliazione.

Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 52, riconosce l'accasciamento generale che prese dopo la guerra del '66. Ma si rifiuta di spiegare con esso quel certo rallentamento nell'opera del governo, quella diminuita adeguatezza di quell'opera alle necessità negli anni immediatamente seguenti al '66. «Che un'intera nazione si abbia a dare per perduta, perché le mancò il prestigio della gloria militare, tanto piú dopo aver conseguito i medesimi vantaggi materiali che la gloria militare avrebbe potuto procacciarle, è la cosa piú inverosimile che si possa immaginare».



393 Nel valutare l'iniziativa per la guerra, tener conto delle trattative segrete fra Vittorio Emanuele e Mazzini appunto per promuoverla. Mazzini, quando gli pareva che si rallentasse il fuoco sacro per il Veneto, agitava la minaccia della repubblica.





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