La guerra del 1866.
Fummo soverchiati, è vero, a
Custoza e non riuscimmo a fare di Lissa la prima vittoria che
costituisse come il solenne atto di nascita dell'Italia grande
potenza. Ma son, questi, accidenti se pur dolorosi, frequenti nella
vita delle nazioni attive e operose; e il criterio per giudicare
della loro gravità va ricercato, ci sembra – quando,
naturalmente, non si tratti di sciagure rovinose per l'esistenza
stessa del paese – non tanto nella entità delle perdite
subíte in scontri poco fortunati, ma nelle conseguenze
profonde, positive o negative, elevanti o deprimenti, suscitatrici
d'energia, o viceversa, che recano nella vita della nazione. Se cosí
è, né Custoza né Lissa vanno deprecate:
disavventure di una guerra che, dichiarata a soli sei anni di
distanza dalla costituzione del regno – ed erano appena cessati
i violenti e minacciosi conati antiunitari – rappresentò
una vittoria gigantesca già di per sé, per il solo
fatto che un governo avesse avuto l'audacia di volerla e il paese di
farla. E poi: una guerra nostra contro l'Austria, e cioè
contro una grande potenza per davvero, d'antica e ancor salda
consistenza unitaria, militarmente forte, politicamente ricca di
prestigio in Europa387.
Nessun precedente. Non il '48, che
aveva colta l'Austria di sorpresa e attaccata dal di fuori quando già
minata all'interno: rivolta, e poi guerra e guerriglia,
gloriosissime, sí, ma non guerra vera. Non il '49, temeraria
partita d'onore d'un piccolo Stato a tradizione militare, che non
poteva dopo tutto finire troppo male, appunto per la piccolezza del
Piemonte, certo che l'Europa non avrebbe mai tollerato una sua troppo
onerosa sconfitta388. Non il '59, senza dubbio pagina
splendida per noi, ma troppo francese e cioè troppo poco
rischiosa per noi. Non il '60, che si combatté di sorpresa e
con mezzi eccezionali contro uno Stato già morto nella
coscienza politica d'Europa, o almeno mortalmente isolato.
1866: per la prima volta dunque l'Italia, allietata di
sproporzionate speranze, e cioè già minorata nella sua
capacità di resistenza, promuove una guerra pericolosa della
quale assume virilmente tutti i rischi; e pur sa che nel caso di
rovescio nessuno in Europa le farà scudo di sé389.
Diplomaticamente e militarmente, l'Italia, finalmente maggiorenne,
agisce di sua esclusiva iniziativa.
C'era, sí, la Prussia; ma
l'alleanza (da quanto tempo non s'era perduto lo stampo?) venne
negoziata da pari a pari, do ut des (e se mai con prevalente
vantaggio della Prussia, che otteneva la garanzia del nostro
intervento nel caso che venisse attaccata e non ci accordava, né
noi insistemmo troppo per ottenere, la reciprocità); una volta
negoziata, mantenuta da noi con scrupolo che qualcuno giudicò
anche eccessivo (nell'aprile 1866, con nobile temerarietà, La
Marmora rifiutò senza discuterle le lusinghe dell'Austria, che
avrebbe acconsentito a cederci senza condizioni la Venezia purché
avessimo abbandonato l'alleanza prussiana390; e ce ne dette
atto solenne il Bismarck, 20 dicembre 1866, alla Camera prussiana).
La guerra non volse bene per noi. Che
perciò? Fu guerra onorevolissima e le nostre cosiddette
sconfitte restarono inulte solo perché la guerra terminò
precipitosamente negli altri settori. Ma la vittoria grande, vera e
profonda la riportammo pure, e pochi se ne accorsero (se ne accorse
l'Austria, che si piegò a riconoscere il regno solo dopo la
guerra)391. E fu che il paese, cosí fragile, cosí
recente, cosí diviso pur ieri, sopportò bene la prova.
Ne uscí cioè piú robusto, piú maturo, piú
unito, come provò la stolta minacciosa rivolta di Palermo,
condannata dalla coscienza unanime e schiacciata inesorabilmente tra
la generale soddisfazione, quasi il paese volesse ammonire i
rivoltosi che i problemi interni italiani, per gravi che fossero,
s'avevano ormai a risolvere pacificamente tra noi, l'Italia
superandoli tutti, non essi l'Italia e la sua indissolubile unità.
Gli italiani non valutarono allora
l'enorme importanza della guerra, anzi si diffuse per tutti un senso
di disagio e quasi di vergogna, come se portassimo via la Venezia,
che da quella guerra ci venne, alla Prussia orgogliosa di
vittoria392. Superba crisi, dimostrativa nel piú alto
grado di quanta strada il paese in pochi anni avesse percorsa, di
come la coscienza nazionale s'andasse formando e diffondendo il senso
geloso dell'onore nazionale – e cioè di quanto quella
guerra fosse stata, meglio che opportuna, indispensabile.
La Destra, dichiarandola, aveva
dimostrato di riporre nel paese una fiducia che a molti, sul momento
e anche piú tardi, era parsa intinta di eccessivo
ottimismo393. Ma il paese aveva risposto magnificamente e non
tanto o non solo con la condotta tenuta durante la guerra, ma meglio
e soprattutto con quello scoramento virile, orgoglioso, che lo prese
a guerra finita. Un paese il quale non si fermava infatti nella
considerazione, pur consolante, che a Lissa – dopo secoli di
storia municipale o regionale – la marina italiana, timida
certo nel disegnare l'attacco, si fosse rivelata saldissima, eroica
anzi nel fronteggiarlo; e non si confortava nel pensiero della
difficoltà dell'impresa superata, ma arrossiva e imprecava, e
di scontri incerti faceva addirittura sconfitte sue; – questo
paese rivelava in sé qualità eccezionali, nella sua
compagine una coesione insospettata, e giustificava le piú
grandi speranze per l'avvenire.
E fu bello che gli uomini della Destra non tentassero loro di
risollevare artificialmente l'animo del paese, difendendo la guerra,
magnificandone i risultati, strombazzandone le sicure benefiche
conseguenze future. Fu bello che anch'essi, i quali pur vedevano la
compiutezza delle cose, si fermassero severi a giudicare i dettagli e
del giudizio fornissero al paese tutti gli elementi. Sapevano che
solo il tempo avrebbe rivalutata l'opera loro, e saggiamente lo
preferivano.
Scriveva l'inviato inglese a Roma, Odo Russel, allo zio John, da
Ariccia, 27 agosto 1866:
La
Venezia è stata
ceduta, l'Italia è compiuta, gran fatto nella storia! Tutte le
questioni estere sono esaurite per l'Italia fin da questo momento.
Essa può permettersi di stabilire rapporti amichevoli con
tutte le nazioni e di volgere la sua attenzione soltanto alle
questioni interne... Lasciate che dimostri la sua buona volontà
procedendo la prima al disarmo, che provveda alla pace, all'industria
e al commercio, e tutto
il resto verrà
da sé.
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