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Nello Rosselli
Saggi sul Risorgimento

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  • IV. Origini del movimento operaio in Italia
    • I. L'atteggiamento dei clerico-reazionari
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IV.
Origini del movimento operaio in Italia

I.
L'atteggiamento dei clerico-reazionari

 

Un vero e proprio movimento di organizzazione operaia si determina in Italia soltanto dopo il 1860. La risoluzione del problema politico è un presupposto necessario all'impostazione del problema sociale. L'avvenuta unificazione dimostra chiaramente agli artigiani e agli operai, ossia alle piú intelligenti frazioni del proletariato, che la rivoluzione politica non ha mutato né si è preoccupata di mutare le loro condizioni economiche; si dimostrano fallaci, quindi, le promesse degli agitatori politici.

Col 1861, la organizzazione operaia si intensifica, le società di mutuo soccorso si moltiplicano e si diffondono; i tentativi di riunire i vari nuclei in uno solo, diventano fatti di una importanza non piú trascurabile. Questo fervore appare tanto piú notevole quanto piú si conoscono le tremende condizioni morali e materiali dei nostri operai di sessant'anni fa (analfabetismo a un livello altissimo; salari di fame, orari di lavoro prolungatissimi). Il numero degli scioperi aumenta, e, in alcuni gruppi piú progrediti (esempio, i tipografi) si fa strada l'idea delle casse di resistenza; qua e si cominciano a imporre tariffe di lavoro.

Gli elementi mazziniani cercano di prendere la direzione del nascente movimento operaio, dando una spinta vigorosa all'incerta tendenza organizzatrice, additando via via soluzioni pratiche ai molti problemi della vita operaia individuale e collettiva; ma essi credono fermamente che la risoluzione del problema operaio non potrà venire che da una grande rivoluzione morale, religiosa, istituzionale del paese tutto, dalla repubblica democratica che è il fine di questa rivoluzione. E quindi tentano di servirsi dei nuclei operai come di centri di propaganda delle loro dottrine politiche insurrezionali, abbinano insomma il problema politico col problema sociale; con questo, non dànno tutto il possibile incremento alle nuove iniziative sorte nel campo operaio (tali le cooperative di consumo e di produzione), suscitano urti e scismi.

La maggior parte delle organizzazioni operaie li segue, nella fiducia, non ancora sufficientemente scossa dalla recente esperienza, che il miglioramento delle condizioni della classe lavoratrice dipenda dal «completamento» della rivoluzione.

La minoranza, che rifiuta il programma mazziniano ma che non è capace di far da sé, cade in braccio ai conservatori.

La delusione successiva al conseguimento della unità politica costituí, per gli operai, la base necessaria al primo formarsi di un vago sentimento di classe; la sensazione precisa che i decantati vantaggi di questa unità non riguardavano affatto le masse popolari, sibbene le classi borghesi e che, se mai, al popolo era riservato di sopportare il peso del nuovo ordine di cose, creò nel cuore degli umili il risentimento contro la borghesia, determinò o rafforzò la sensazione della società nettamente divisa in classi, antagonistiche fra loro.

Questo sentimento di classe si evolve con molta lentezza, fra i nostri operai, dopo il 1860, e per i primi anni possiamo rintracciarlo solo negli operai della grande industria, la quale comincia a svilupparsi con un certo successo, nel Nord, verso il 1865.

Molti elementi contribuirono al precisarsi, al consolidarsi, al diffondersi del sentimento di classe; io voglio qui fermarmi ad illustrarne uno, del quale credo non si sia tenuto sufficiente conto, sin qui: la propaganda clerico-reazionaria che, allo scopo di creare imbarazzi al nuovo governo e determinare magari una crisi definitiva con conseguente ripristino dei vecchi regimi, si studia di aizzare l'astio e l'odio dei lavoratori contro le classi dominanti.

La forma piú pericolosa, e piú nota, di questa propaganda è quella che i clericali, attraverso la loro formidabile organizzazione, compiono nelle campagne, tra i contadini ignoranti, sfruttandone e stimolandone il profondo malcontento, che le novità politiche hanno accentuato. Ne nasce il brigantaggio nelle province meridionali, e, piú tardi, nel 1869, la pericolosa rivolta contro la tassa sul macinato, alla quale, peraltro, contribuirono – oltre la propaganda clericale – molti altri elementi.

Nelle città, i clerico-reazionari disponevano di un gran numero di giornali e pubblicazioni periodiche di ogni genere, assai diffusi, specie nel popolo. Furono questi un magnifico mezzo di reazione.

I clericali ebbero l'accortezza di misurare l'importanza via via crescente che l'elemento operaio andava assumendo nel paese; e compresero quale tremendo pericolo quell'elemento, debitamente aizzato, potesse costituire contro l'ordine sociale. In questo, si mostrarono molto piú intelligenti dei moderati e dei conservatori, i quali, si può dire, ignorarono in quegli anni il problema operaio, limitandosi a sabotare il programma sociale degli uomini di sinistra, a emettere, ogni tanto, e sempre per bocca di isolati, timidi progetti di riforma o calorosi inviti alla rassegnazione e alla calma dedicati agli operai, salvo poi ad agitarsi smisuratamente, in presenza di qualche episodio piú appariscente del processo di organizzazione operaia o di qualche esplosione del malcontento popolare.

In quei loro giornali, i clericali si rivolsero soprattutto ai poveri, agli sfruttati, ai disgraziati lavoratori, compiangendone la sorte.

Bisogna confessare che, a quei tempi, regnava in Italia la piú sconfinata libertà di stampa e di parola; tale che a noi, che viviamo nel 1924, è ragione, almeno, di stupore.

La base della speculazione clericale è ben nota: il nuovo regime, partorito dalla rivoluzione, è sorto sulle rovine della religione e, quanto meno, la sua esistenza riposa sulla negazione dei valori religiosi. Orbene, la religione costituisce l'unico conforto per i diseredati, i quali si contentano di patire in questo mondo, nella speranza e certezza di una migliore vita ultraterrena. Togliete la religione alle plebi, e queste cadranno in preda al piú gretto materialismo, si cureranno solo della vita presente, né piú tempereranno la visione delle ingiustizie terrene nel concetto di una giustizia superiore; reclameranno perciò la soddisfazione immediata dei loro diritti, si rivolteranno contro i potenti e daranno retta a chi nella violenza additerà loro l'unico scampo per risolvere la questione sociale.

Leggiamo «La Giovane Italia», strenna per l'anno 1862 (Bologna, Tipografia di Santa Maria Maggiore, 1861).

Chi ha allevato questo popolo senza Dio, senza Religione, educato alla sfrenatezza? Chi gli ha ripetuto all'orecchio le mille volte che egli è indipendente, e sciolto dai legami dei pregiudizi antichi?... Non sono stati i moderni padroni? Il popolo li ha intesi, e docile si mostra alle loro istruzioni, ed avendo imparato che la libertà consiste per l'uomo nell'operare a suo talento, fa ogni sforzo per porre alla pratica questa dottrina (p. 86).

Non è lecito invocare, solo fino a un certo punto, il Dio della Libertà; ché quello, una volta messo al centro dell'altare, incalza:

Predicaste la Libertà, la fratellanza, ed il vostro dire mi piacque; siete dunque tutti fratelli. Voi proletari faccio ministri del mio supremo volere. Andate, dividete, spartite e se essi... non cedono alla forza delle teorie da essi predicate, sgominate tutto, confondete, sperperate, ed in mio ed in loro nome superando gli ostacoli, versate sangue, trucidate (p. 88).

Dal liberalismo al socialismo, al comunismo, il passo è breve; piú che breve, logico. Ecco la giustificazione postuma della lotta tenace che il papa e i principi cristiani hanno condotto contro le nuove idee, sulle quali il nuovo regime si è basato. Si tratta di «salvare l'Italia dal socialismo», proclama un opuscolo intitolato La Italia disfatta dalla rivoluzione piemontese, stampato a Malta nel 1862 (p. 33).

Stolte, oltreché illogiche, le classi dirigenti che si illudono di far argine al dilagare del socialismo col proporre alle plebi dei palliativi.

Il socialismoscrive «Il Conservatore», mensile stampato a Bologna, all'insegna di Dante, anno I, n. 2, febbraio 1863 – non si combatte che riconducendo l'uomo a Dio, che ricordandogli i legami che egli ha con lui, che illuminandolo con la fede della sua origine e del suo fine, che confortandolo tra le miserie di questo esiglio, colle dolci attrattive di una piú dolce speranza.

L'uomo che non riconosce piú il diritto divino si rifiuterà di star soggetto a un altro uomo, vorrà fare a suo modo e «se è piú forte degli altri si usurperà gli altrui diritti, violerà la libertà degli altri, e cosí il disordine e l'anarchia saranno la conseguenza inevitabile di una società atea». («Il Conservatore», maggio 1863).

In queste linee è già il nucleo fondamentale della propaganda clericale. O tornare indietro, alla religione e ai regimi che sulla religione e la legittimità si fondano, o avanti, ma fino in fondo, fino al comunismo.

Quando, nel 1871, scoppia a Parigi la rivoluzione comunarda, i clericali italiani gongolano di fronte allo sbigottimento generale. Trovano che i signori liberali sono, in verità, poco logici. E la «Civiltà Cattolica», s. VIII, q. 501, 6 maggio 1871, scrive:

Non si capisce che, senza dare nel comico, pretendano di rimproverare, in nome della società e della civiltà, gli aderenti della Comune di essere troppo dialettici nell'applicare gl'insegnamenti e troppo attivi nell'imitare gli esempi delle loro signorie liberali e conservatrici. Noi soli che abbiamo sempre detto: o cattolici col papa, o barbari col socialismo, abbiamo il diritto di giudicare e vituperar Parigi, senza mutare improvvisamente il nostro modo di pensare.

Dall'enunciazione di questi principî piú generali, si passa alla propaganda spicciola. Cito qui alcuni passi tolti dal giornale fiorentino «La Vespa», avvertendo che in molti altri giornali e pubblicazioni reazionarie del tempo si trovano espressi i medesimi concetti e, inoltre, che gli articoli di «La Vespa» sono largamente e compiacentemente riportati da altre pubblicazioni, periodiche o no, redatte appunto da clerico-reazionari.

Si attaccano le basi del nuovo regime. Ecco quel che della patria italiana scrive «La Vespa», il 4 novembre 1864:

Santa cosa è la patria, quando, madre amorosa, provvede egualmente benefica a tutti i suoi figli, e vuole in eguali proporzioni distribuiti i premi, i compensi, i sacrifizi. Dove però sotto il nome di patria si consumano i piú neri eccessi, dove la libertà si vende e si traffica..., dove ogni giorno si assiste al miserando spettacolo di vedere il galantuomo nudo e il farabutto in carrozza, qual senso può avere mai questa parola sulle ingannate moltitudini?

Questo concetto della patria matrigna ai piú dei suoi figli, lo ritroveremo poi pari pari nel bagaglio di propaganda dei socialisti.

Si stuzzicano i poveri nel punto piú delicato: le tasse. L'avete voluto, il nuovo regimedicono agli operai i clericali. E ora godetevene le inique tasse. Prima, sotto gli altri regimi, le tasse le pagavano solo gli abbienti. Ora si è piantata la massima «che tutti i singoli cittadini, avessero o no ricchezze, dovessero essere tributari dello Stato, qualunque fossero i suoi bisogni, qualunque fossero i vantaggi che i cittadini potessero aspettarsi da questi sacrifizi» («Il Conservatore», luglio 1863).

Ecco il destino del popolo credenzone e balordo, sotto i nuovi regimi. «Dopo aver fatto sgabello col suo corpo a chi agognava ricchezze e poteri, egli ha visto il miserabile sfuggito come un lebbroso, la povertà perseguitata e punita come un delitto» («La Vespa», 2 giugno 1864).

Ci troviamo di fronte ad una vera e propria propaganda di odio. Il popolo è dipinto come «l'asino che s'abbevera d'acqua, mentre si tronca la schiena per portare agli altri i barili del vino» (ivi, 17 giugno 1864).

Il nuovo regime vuole peggiorare sempre piú le condizioni del popolo, vuol vederlo soffrire. «Invece di stabilimenti di carità si sono dischiuse le carceri, invece delle scuole, i postriboli. Ma niuno ha steso la mano al proletariato, niuno si è ricordato di lui, fuorché l'agente municipale per mandargli la cartella delle tasse, il precetto e il gravamento» (ivi, 25 novembre 1864).

L'hanno proclamato sovrano, il povero popolo; ma ora, che i maneggioni si sono messi a posto, «il popolo sovrano, dal gran trono dove te lo avevano insediato, te lo piantano a sedere a bischetto» (ivi, 16 gennaio 1865).

E i clericali dal cuore largo non possono trattenersi dal piangere sulla sorte della classe operaia «cosí mal conosciuta, cosí iniquamente spregiata, cosí barbaramente, nel tempo della libertà e della filantropia, tiranneggiata ed oppressa» (ivi, 2 giugno 1864), e «sui malanni della povera gente sempre perseguitata». E concludono cristianamente: «Finché la dura!» (ivi, 17 giugno 1864).

Bisogna far entrare sempre piú questi pii concetti nella testa degli ignorantoni. Si fabbricano perciò dei versi, apposta. I versi s'imparano a memoria. Ed ecco:

... Fiorin d'alloro,

la libertà ci costa gran denaro,

tutti hanno fame e avean a star nell'oro!

... Fiorin di pioppo,

per certe gole ci vorrebbe un tappo;

chi non ha da mangiare e chi ne ha troppo.

(«La Vespa», 13 giugno 1864).

... Pagate, pagate, pagate, buffoni,

vogliamo milioni, vogliamo milioni,

... Qua le tue spoglie, o popolo,

nulla aver devi addosso...

arroterem le forbici,

finché avrai sano un osso!

(Ivi, 5 luglio 1864).

 

Si incitano i poveri alla rassegnazione, spiegando che, nel beato regno d'Italia, tutto si deve pagare: la luce, l'aria, l'acqua, la terra: si deve pagare per vivere, morire, lavorare, per avere diritto di essere lenoni e infami, per cacciare le donne nelle case di prostituzione. Oh, invano il popolo domanda «pane e lavoro» (ivi, agosto 1864).

Ma hanno scritto: «Finché la dura!» Perché il povero lavoratore «che si tronca la schiena col lavoro per mangiare un tozzo di pane ammuffito, che si logora insomma la vita per provvedere agli agi ed al lusso del milionario», finirà, alla prima occasione, per «migliorar la propria posizione mediante un delitto» (ivi, 11 novembre 1864).

Il momento della rivolta non può essere lontano. È logico che giunga e che giunga presto: la società, «infiammata dalle moderne dottrine, partorirà un'ira di comunismo che già, come cane alla catena voi sentite latrare» («La Giovane Italia», p. 81). E ben venga dunque.

Ah, sospirano i clericali, se il popolo conoscesse la sua potenza e se ne sapesse servire! «Non sarebbe tanto spesso calpestato, deriso e ingannato» («La Vespa», 23 agosto 1864).

Parole di questo genere venivano, non dirò a determinare, ma a rinforzare e a giustificare, nei nostri operai, il nascente sentimento d'odio contro gli abbienti, ad aumentare la loro diffidenza contro gli agitatori politici i quali pretendevano ancora il loro aiuto per disegni rivoluzionari di carattere politico, dando a sperare in conseguenti miglioramenti economici.

Ciò non significa che i clericali tendessero, come ultimo fine, a scatenare la guerra di classe. Ché anzi, essi sognavano la restaurazione degli antichi cristianissimi regimi nei quali di questione sociale non si ragionava neppure, o la si considerava tutt'al piú come un affare di beneficenza; infatti – si legge nel citato opuscolo L'Italia disfatta, ecc., p. 11 – «quando un popolo trova ne' mercati come provvedere alla vita, né il prezzo di generi che abbisognano alla sua sussistenza è lasciato all'arbitrio di pochi monopolisti ed incettatori, questo popolo benedice sempre al principe che lo regge».

Tuttavia, pur di creare seri imbarazzi al governo italiano, suscitando nel paese un minaccioso problema e ponendo il governo nella necessità di affrontarlo, i clericali seppero piegarsi a fare della vera e propria propaganda suscitatrice dell'odio di classe.

La quale, unita a molti altri elementi, forní ai nostri operai la preparazione sufficiente a far loro comprendere, qualche anno piú tardi, il contenuto della propaganda socialista; e a far loro abbandonare, quasi in massa, le prime guide del loro risorgimento morale e materiale.




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