Un vero e proprio movimento di organizzazione operaia si determina
in Italia soltanto dopo il 1860. La risoluzione del problema politico
è un presupposto necessario all'impostazione del problema
sociale. L'avvenuta unificazione dimostra chiaramente agli artigiani
e agli operai, ossia alle piú intelligenti frazioni del
proletariato, che la rivoluzione politica non ha mutato né si
è preoccupata di mutare le loro condizioni economiche; si
dimostrano fallaci, quindi, le promesse degli agitatori politici.
Col 1861, la organizzazione operaia si intensifica, le società
di mutuo soccorso si moltiplicano e si diffondono; i tentativi di
riunire i vari nuclei in uno solo, diventano fatti di una importanza
non piú trascurabile. Questo fervore appare tanto piú
notevole quanto piú si conoscono le tremende condizioni morali
e materiali dei nostri operai di sessant'anni fa (analfabetismo a un
livello altissimo; salari di fame, orari di lavoro prolungatissimi).
Il numero degli scioperi aumenta, e, in alcuni gruppi piú
progrediti (esempio, i tipografi) si fa strada l'idea delle casse di
resistenza; qua e là si cominciano a imporre tariffe di
lavoro.
Gli elementi mazziniani cercano di prendere la direzione del
nascente movimento operaio, dando una spinta vigorosa all'incerta
tendenza organizzatrice, additando via via soluzioni pratiche ai
molti problemi della vita operaia individuale e collettiva; ma essi
credono fermamente che la risoluzione del problema operaio non potrà
venire che da una grande rivoluzione morale, religiosa, istituzionale
del paese tutto, dalla repubblica democratica che è il fine di
questa rivoluzione. E quindi tentano di servirsi dei nuclei operai
come di centri di propaganda delle loro dottrine politiche
insurrezionali, abbinano insomma il problema politico col problema
sociale; con questo, non dànno tutto il possibile incremento
alle nuove iniziative sorte nel campo operaio (tali le cooperative di
consumo e di produzione), suscitano urti e scismi.
La maggior parte delle organizzazioni operaie li segue, nella
fiducia, non ancora sufficientemente scossa dalla recente esperienza,
che il miglioramento delle condizioni della classe lavoratrice
dipenda dal «completamento» della rivoluzione.
La minoranza, che rifiuta il programma mazziniano ma che non è
capace di far da sé, cade in braccio ai conservatori.
La delusione successiva al conseguimento della unità
politica costituí, per gli operai, la base necessaria al primo
formarsi di un vago sentimento di classe; la sensazione precisa che i
decantati vantaggi di questa unità non riguardavano affatto le
masse popolari, sibbene le classi borghesi e che, se mai, al popolo
era riservato di sopportare il peso del nuovo ordine di cose, creò
nel cuore degli umili il risentimento contro la borghesia, determinò
o rafforzò la sensazione della società nettamente
divisa in classi, antagonistiche fra loro.
Questo sentimento di classe si evolve con molta lentezza, fra i
nostri operai, dopo il 1860, e per i primi anni possiamo
rintracciarlo solo negli operai della grande industria, la quale
comincia a svilupparsi con un certo successo, nel Nord, verso il
1865.
Molti elementi contribuirono al precisarsi, al consolidarsi, al
diffondersi del sentimento di classe; io voglio qui fermarmi ad
illustrarne uno, del quale credo non si sia tenuto sufficiente conto,
sin qui: la propaganda clerico-reazionaria che, allo scopo di creare
imbarazzi al nuovo governo e determinare magari una crisi definitiva
con conseguente ripristino dei vecchi regimi, si studia di aizzare
l'astio e l'odio dei lavoratori contro le classi dominanti.
La forma piú pericolosa, e piú nota, di questa
propaganda è quella che i clericali, attraverso la loro
formidabile organizzazione, compiono nelle campagne, tra i contadini
ignoranti, sfruttandone e stimolandone il profondo malcontento, che
le novità politiche hanno accentuato. Ne nasce il brigantaggio
nelle province meridionali, e, piú tardi, nel 1869, la
pericolosa rivolta contro la tassa sul macinato, alla quale,
peraltro, contribuirono – oltre la propaganda clericale –
molti altri elementi.
Nelle città, i clerico-reazionari disponevano di un gran
numero di giornali e pubblicazioni periodiche di ogni genere, assai
diffusi, specie nel popolo. Furono questi un magnifico mezzo di
reazione.
I clericali ebbero l'accortezza di misurare l'importanza via via
crescente che l'elemento operaio andava assumendo nel paese; e
compresero quale tremendo pericolo quell'elemento, debitamente
aizzato, potesse costituire contro l'ordine sociale. In questo, si
mostrarono molto piú intelligenti dei moderati e dei
conservatori, i quali, si può dire, ignorarono in quegli anni
il problema operaio, limitandosi a sabotare il programma sociale
degli uomini di sinistra, a emettere, ogni tanto, e sempre per bocca
di isolati, timidi progetti di riforma o calorosi inviti alla
rassegnazione e alla calma dedicati agli operai, salvo poi ad
agitarsi smisuratamente, in presenza di qualche episodio piú
appariscente del processo di organizzazione operaia o di qualche
esplosione del malcontento popolare.
In quei loro giornali, i clericali si rivolsero soprattutto ai
poveri, agli sfruttati, ai disgraziati lavoratori, compiangendone la
sorte.
Bisogna confessare che, a quei tempi,
regnava in Italia la piú sconfinata libertà di stampa e
di parola; tale che a noi, che viviamo nel 1924, è ragione,
almeno, di stupore.
La base della speculazione clericale è ben nota: il nuovo
regime, partorito dalla rivoluzione, è sorto sulle rovine
della religione e, quanto meno, la sua esistenza riposa sulla
negazione dei valori religiosi. Orbene, la religione costituisce
l'unico conforto per i diseredati, i quali si contentano di patire in
questo mondo, nella speranza e certezza di una migliore vita
ultraterrena. Togliete la religione alle plebi, e queste cadranno in
preda al piú gretto materialismo, si cureranno solo della vita
presente, né piú tempereranno la visione delle
ingiustizie terrene nel concetto di una giustizia superiore;
reclameranno perciò la soddisfazione immediata dei loro
diritti, si rivolteranno contro i potenti e daranno retta a chi nella
violenza additerà loro l'unico scampo per risolvere la
questione sociale.
Leggiamo «La Giovane Italia»,
strenna per l'anno 1862 (Bologna, Tipografia di Santa Maria Maggiore,
1861).
Chi ha allevato questo popolo senza Dio, senza Religione, educato
alla sfrenatezza? Chi gli ha ripetuto all'orecchio le mille volte che
egli è indipendente, e sciolto dai legami dei pregiudizi
antichi?... Non sono stati i moderni padroni? Il popolo li ha intesi,
e docile si mostra alle loro istruzioni, ed avendo imparato che la
libertà consiste per l'uomo nell'operare a suo talento, fa
ogni sforzo per porre alla pratica questa dottrina (p. 86).
Non è lecito invocare, solo fino a un certo punto, il Dio
della Libertà; ché quello, una volta messo al centro
dell'altare, incalza:
Predicaste la Libertà, la fratellanza, ed il vostro dire mi
piacque; siete dunque tutti fratelli. Voi proletari faccio ministri
del mio supremo volere. Andate, dividete, spartite e se essi... non
cedono alla forza delle teorie da essi predicate, sgominate tutto,
confondete, sperperate, ed in mio ed in loro nome superando gli
ostacoli, versate sangue, trucidate (p. 88).
Dal liberalismo al socialismo, al
comunismo, il passo è breve; piú che breve, logico.
Ecco la giustificazione postuma della lotta tenace che il papa e i
principi cristiani hanno condotto contro le nuove idee, sulle quali
il nuovo regime si è basato. Si tratta di «salvare
l'Italia dal socialismo», proclama un opuscolo intitolato La
Italia disfatta dalla rivoluzione piemontese, stampato a
Malta nel 1862 (p. 33).
Stolte, oltreché illogiche, le classi dirigenti che si
illudono di far argine al dilagare del socialismo col proporre alle
plebi dei palliativi.
Il socialismo – scrive «Il Conservatore»,
mensile stampato a Bologna, all'insegna di Dante, anno I, n. 2,
febbraio 1863 – non si combatte che riconducendo l'uomo a Dio,
che ricordandogli i legami che egli ha con lui, che illuminandolo con
la fede della sua origine e del suo fine, che confortandolo tra le
miserie di questo esiglio, colle dolci attrattive di una piú
dolce speranza.
L'uomo che non riconosce piú il diritto divino si rifiuterà
di star soggetto a un altro uomo, vorrà fare a suo modo e «se
è piú forte degli altri si usurperà gli altrui
diritti, violerà la libertà degli altri, e cosí
il disordine e l'anarchia saranno la conseguenza inevitabile di una
società atea». («Il Conservatore», maggio
1863).
In queste linee è già il nucleo fondamentale della
propaganda clericale. O tornare indietro, alla religione e ai regimi
che sulla religione e la legittimità si fondano, o avanti, ma
fino in fondo, fino al comunismo.
Quando, nel 1871, scoppia a Parigi la rivoluzione comunarda, i
clericali italiani gongolano di fronte allo sbigottimento generale.
Trovano che i signori liberali sono, in verità, poco logici. E
la «Civiltà Cattolica», s. VIII, q. 501, 6 maggio
1871, scrive:
Non si capisce che, senza dare nel comico, pretendano di
rimproverare, in nome della società e della civiltà,
gli aderenti della Comune di essere troppo dialettici nell'applicare
gl'insegnamenti e troppo attivi nell'imitare gli esempi delle loro
signorie liberali e conservatrici. Noi soli che abbiamo sempre detto:
o cattolici col papa, o barbari col socialismo, abbiamo il diritto di
giudicare e vituperar Parigi, senza mutare improvvisamente il nostro
modo di pensare.
Dall'enunciazione di questi principî piú generali, si
passa alla propaganda spicciola. Cito qui alcuni passi tolti dal
giornale fiorentino «La Vespa», avvertendo che in molti
altri giornali e pubblicazioni reazionarie del tempo si trovano
espressi i medesimi concetti e, inoltre, che gli articoli di «La
Vespa» sono largamente e compiacentemente riportati da altre
pubblicazioni, periodiche o no, redatte appunto da
clerico-reazionari.
Si attaccano le basi del nuovo regime.
Ecco quel che della patria italiana scrive «La Vespa», il
4 novembre 1864:
Santa
cosa è la patria, quando, madre amorosa, provvede egualmente
benefica a tutti i suoi figli, e vuole in eguali proporzioni
distribuiti i premi, i compensi, i sacrifizi. Dove però sotto
il nome di patria si consumano i piú neri eccessi, dove la
libertà si vende e si traffica..., dove ogni giorno si assiste
al miserando spettacolo di vedere il galantuomo nudo e il
farabutto in carrozza, qual senso può avere mai questa
parola sulle ingannate moltitudini?
Questo concetto della patria matrigna ai piú dei suoi
figli, lo ritroveremo poi pari pari nel bagaglio di propaganda dei
socialisti.
Si stuzzicano i poveri nel punto piú delicato: le tasse.
L'avete voluto, il nuovo regime – dicono agli operai i
clericali. E ora godetevene le inique tasse. Prima, sotto gli altri
regimi, le tasse le pagavano solo gli abbienti. Ora si è
piantata la massima «che tutti i singoli cittadini, avessero o
no ricchezze, dovessero essere tributari dello Stato, qualunque
fossero i suoi bisogni, qualunque fossero i vantaggi che i cittadini
potessero aspettarsi da questi sacrifizi» («Il
Conservatore», luglio 1863).
Ecco il destino del popolo credenzone e balordo, sotto i nuovi
regimi. «Dopo aver fatto sgabello col suo corpo a chi agognava
ricchezze e poteri, egli ha visto il miserabile sfuggito come un
lebbroso, la povertà perseguitata e punita come un delitto»
(«La Vespa», 2 giugno 1864).
Ci troviamo di fronte ad una vera e propria propaganda di odio. Il
popolo è dipinto come «l'asino che s'abbevera d'acqua,
mentre si tronca la schiena per portare agli altri i barili del vino»
(ivi, 17 giugno 1864).
Il nuovo regime vuole peggiorare sempre piú le condizioni
del popolo, vuol vederlo soffrire. «Invece di stabilimenti di
carità si sono dischiuse le carceri, invece delle scuole, i
postriboli. Ma niuno ha steso la mano al proletariato, niuno si è
ricordato di lui, fuorché l'agente municipale per mandargli la
cartella delle tasse, il precetto e il gravamento» (ivi, 25
novembre 1864).
L'hanno proclamato sovrano, il povero
popolo; ma ora, che i maneggioni si sono messi a posto, «il
popolo sovrano, dal gran trono dove te lo avevano insediato, te lo
piantano a sedere a bischetto» (ivi, 16 gennaio 1865).
E i clericali dal cuore largo non
possono trattenersi dal piangere sulla sorte della classe operaia
«cosí mal conosciuta, cosí iniquamente spregiata,
cosí barbaramente, nel tempo della libertà e
della filantropia, tiranneggiata ed oppressa» (ivi, 2
giugno 1864), e «sui malanni della povera gente sempre
perseguitata». E concludono cristianamente: «Finché
la dura!» (ivi, 17 giugno 1864).
Bisogna far entrare sempre piú questi pii concetti nella
testa degli ignorantoni. Si fabbricano perciò dei versi,
apposta. I versi s'imparano a memoria. Ed ecco:
...
Fiorin d'alloro,
la
libertà ci costa gran denaro,
tutti
hanno fame e avean a star nell'oro!
...
Fiorin di pioppo,
per
certe gole ci vorrebbe un tappo;
chi
non ha da mangiare e chi ne ha troppo.
(«La
Vespa», 13 giugno 1864).
...
Pagate, pagate, pagate, buffoni,
vogliamo
milioni, vogliamo milioni,
...
Qua le tue spoglie, o popolo,
nulla
aver devi addosso...
arroterem
le forbici,
finché
avrai sano un osso!
(Ivi, 5
luglio 1864).
Si incitano i poveri alla rassegnazione, spiegando che, nel beato
regno d'Italia, tutto si deve pagare: la luce, l'aria, l'acqua, la
terra: si deve pagare per vivere, morire, lavorare, per avere diritto
di essere lenoni e infami, per cacciare le donne nelle case di
prostituzione. Oh, invano il popolo domanda «pane e lavoro»
(ivi, 1° agosto 1864).
Ma hanno scritto: «Finché
la dura!» Perché il povero lavoratore «che si
tronca la schiena col lavoro per mangiare un tozzo di pane ammuffito,
che si logora insomma la vita per provvedere agli agi ed al lusso
del milionario», finirà, alla prima occasione, per
«migliorar la propria posizione mediante un delitto»
(ivi, 11 novembre 1864).
Il momento della rivolta non può
essere lontano. È logico che giunga e che giunga presto: la
società, «infiammata dalle moderne dottrine, partorirà
un'ira di comunismo che già, come cane alla catena voi sentite
latrare» («La Giovane Italia», p. 81). E ben venga
dunque.
Ah, sospirano i clericali, se il popolo conoscesse la sua potenza
e se ne sapesse servire! «Non sarebbe tanto spesso calpestato,
deriso e ingannato» («La Vespa», 23 agosto 1864).
Parole di questo genere venivano, non dirò a determinare,
ma a rinforzare e a giustificare, nei nostri operai, il nascente
sentimento d'odio contro gli abbienti, ad aumentare la loro
diffidenza contro gli agitatori politici i quali pretendevano ancora
il loro aiuto per disegni rivoluzionari di carattere politico, dando
a sperare in conseguenti miglioramenti economici.
Ciò non significa che i
clericali tendessero, come ultimo fine, a scatenare la guerra di
classe. Ché anzi, essi sognavano la restaurazione degli
antichi cristianissimi regimi nei quali di questione sociale non si
ragionava neppure, o la si considerava tutt'al piú come un
affare di beneficenza; infatti – si legge nel citato opuscolo
L'Italia disfatta, ecc., p. 11 – «quando un popolo
trova ne' mercati come provvedere alla vita, né il prezzo di
generi che abbisognano alla sua sussistenza è lasciato
all'arbitrio di pochi monopolisti ed incettatori, questo popolo
benedice sempre al principe che lo regge».
Tuttavia, pur di creare seri imbarazzi al governo italiano,
suscitando nel paese un minaccioso problema e ponendo il governo
nella necessità di affrontarlo, i clericali seppero piegarsi a
fare della vera e propria propaganda suscitatrice dell'odio di
classe.
La quale, unita a molti altri elementi, forní ai nostri
operai la preparazione sufficiente a far loro comprendere, qualche
anno piú tardi, il contenuto della propaganda socialista; e a
far loro abbandonare, quasi in massa, le prime guide del loro
risorgimento morale e materiale.
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