Il problema sociale in Italia tra
il 1860 e il 1870.
Tra il 1860 e il 1870 i partiti politici italiani si trovano
faccia a faccia, per la prima volta, col problema sociale. Certo,
sarebbe stolto sostenere che, innanzi il 1860, i soli problemi
nazionali e costituzionali abbiano interessato le nostre classi
colte; ciò significherebbe dimenticare gli scritti notissimi
di Mazzini, Ferrari, Pisacane, per non citare che i maggiori;
ignorare i primi tentativi di organizzazione operaia, soprattutto in
Piemonte dopo il 1850; non dare la dovuta importanza ai molti
giornali sorti con un programma di piú o meno disinteressata
tutela degli interessi operai, sempre innanzi al 1860; dei quali
giornali, tra parentesi, sarebbe utilissima una raccolta sistematica.
Ma è chiaro che un paese, il quale non ha ancora raggiunto la
soluzione dei problemi dell'indipendenza e della pubblica libertà,
non può considerare urgente la questione sociale.
La preoccupazione per il problema sociale nella borghesia italiana
innanzi il 1860 esiste senza dubbio, ma è preoccupazione
saltuaria, nata in seguito a improvvise ed effimere agitazioni di
operai o di contadini, o imposta dagli scritti di qualche pensatore
isolato, che si tiene informato dell'assiduo travaglio sociale dei
paesi stranieri: preoccupazione spesso rinnovata e presto
dimenticata.
Tra il 1860 e il 1870, invece, l'interesse e la preoccupazione per
la questione sociale crescono progressivamente per intensità e
per ampiezza, si fanno costanti; cresce e si diffonde, in
corrispondenza, in larghi strati della popolazione quel doloroso
malcontento, che trova la sua causa nel dileguarsi di tutte le
speranze di miglioramento, che aveva concepite per l'immediato
avvenire, innanzi il 1860, aggiunto alla non variata miseria. Di
fronte a certe manifestazioni piú violente del disagio
popolare la preoccupazione borghese si converte in incubo pauroso.
Nelle città, progredisce la organizzazione operaia.
Iniziato dai moderati, ripreso e tenacemente incoraggiato dai
mazziniani, il mutuo soccorso associa operai, artigiani, qualche
volta contadini, nel nord e nel centro d'Italia; piú
lentamente si diffonde nel mezzogiorno. Dal mutuo soccorso per
malattia, vecchiaia, infortuni si sviluppa, nascostamente perché
non tollerato, quello per la disoccupazione involontaria e
volontaria, crescono rapidamente per numero e per importanza gli
scioperi; si tentano le prime cooperative di consumo e di produzione,
assai numerose le prime, raramente fortunate entrambe. Alcune
minoranze di operai della grande industria si mostrano, intorno al
1870, già provviste di un vero e proprio sentimento di classe.
Le grandi masse agricole, invece, hanno in generale accolto con
ostilità le novità politiche e i pesi del regime
nazionale; giacciono inerti in una plumbea immobilità, rotta
soltanto da disordinati sfoghi di malcontento, ignare di ogni
organizzazione, incapaci di attirare l'attenzione durevole delle
classi dirigenti sui propri bisogni, gravate dalla secolare
ignoranza. Troveranno una nuova vita nell'emigrazione transoceanica;
ma questa, intorno al 1870, si presenta piú come una promessa
per l'avvenire che come un immediato vantaggio.
I partiti politici e il problema
sociale.
Tentar di classificare i punti di vista sotto i quali, fra il 1860
e il 1870, era considerata in Italia la questione sociale è un
po' arbitrario: la classificazione suppone una certa immobilità
di posizioni, che in realtà sono mutevoli, e non può
tener conto delle zone intermedie tra partito e partito; ma una
classificazione, sia pure sommaria e grossolana, è tuttavia
utile a chiarire quello che avviene in Italia nel 1871. Con queste
cautele, mi sembra di poter precisare le varie posizioni come segue:
a) Clericali. Del disagio in
cui versano le classi povere, sono responsabili tutti coloro che
hanno cooperato a fondare l'Italia una e indipendente rovesciando gli
antichi regimi e spogliando il papato; scalzando il sentimento
religioso, essi hanno tolto alle masse l'unico conforto. Di qui nasce
il problema sociale; la soluzione non può trovarsi che in un
ritorno al cristianesimo, che dà ai diseredati la
rassegnazione, e ai potenti il sentimento di carità. Mostrando
i guai del regime inaugurato nel '59, i clericali si soffermano
volentieri sui mali del proletariato, esagerandoli e accentuando le
inquietudini ai danni del governo e delle classi dirigenti. Di color
nero è dunque la prima seminagione del sentimento classista
tra le masse.
b) Conservatori e moderati. È
impossibile distinguerli nettamente, li accomuna uno scarso calore
per il problema sociale in tempo di calma: discussioni sul mutuo
soccorso, sulla cooperazione, qualche volta sull'arbitrato, che
vengono additati agli operai come mezzi atti a raggiungere la
progressiva soluzione del problema sociale, e poco piú. In
tempi grossi (esempio: scioperi) nasce lo spauracchio della questione
sociale; moderati e conservatori si agitano, gridano al pericolo,
usano parole gravi, ma raramente affrontano i problemi con decisa
volontà di risolverli. Gli uni e gli altri non ostacolano la
nascita e lo sviluppo delle organizzazioni operaie, spesso anzi le
incoraggiano; vogliono però che esse siano dirette o vigilate
da uomini del loro partito, non ammettono che fazioni sovversive se
ne servano a fini politici. Ma, mentre i moderati riconoscono, in
qualche occasione, non essere perfetta la costituzione della società,
ed essere loro dovere proteggere le classi operaie, studiando la
possibilità di accogliere una parte delle loro richieste, ai
conservatori il problema operaio appare sotto la veste di un puro e
semplice problema di beneficenza: non si parla ai lavoratori di
pretesi loro diritti. Nell'educazione e nella istruzione diffuse
fidano entrambe queste correnti: l'operaio diventerà
ragionevole e fuggirà i demagoghi.
c) Mazziniani. Nei gruppi di
sinistra o «d'azione», il problema sociale è
agitato prevalentemente dai mazziniani: non hanno essi idea di un
proletariato vero e proprio, come quello che si forma dovunque si
sviluppano le grandi industrie; in tutta Italia non vedono che
artigianato e non pensano che a questo. Il problema sociale è
uno degli elementi del problema di rinnovamento generale che incombe
al paese.
Le classi operaie conquisteranno il diritto all'emancipazione
partecipando alla lotta politica; questa, realizzata la completa
unità della patria, darà la cosa pubblica in mano ai
repubblicani. Le organizzazioni operaie, promosse e favorite con
fervore, debbono essere specialmente centri di propaganda e di azione
unitaria e repubblicana. Suggerendo agli operai tutte quelle
provvidenze atte a migliorare i rapporti tra capitale e lavoro, i
mazziniani condannano generalmente lo sciopero, nutrono fiducia
nell'aiuto che le classi medie volontariamente presteranno alla
elevazione delle classi artigiane; il principio della lotta di classe
viene respinto. Ma il proletariato non speri in un radicale
miglioramento delle sue condizioni se non da un radicale mutamento
della costituzione politica del suo paese. Il massimo impulso, che i
mazziniani imprimono al moto operaio, si ha tra il 1861 e il 1865.
d) Bakunisti. Il programma
anarchico collettivista di Bakunin (il quale soggiorna in Italia tra
il 1864 e il 1867) si propaga dapprima segretamente tra pochi isolati
e viene attenuato notevolmente non appena trovi modo di farsi noto
pubblicamente. Nell'attesa di un moto rivoluzionario, che si prepara
in segreto, la propaganda pubblica si riduce a un blando riformismo
che domanda, per esempio, l'istituzione di una imposta unica sul
reddito, in sostituzione di ogni altra. Ma i bakunisti appoggiano gli
scioperi, comprendono per i primi, come gruppo politico, l'importanza
delle masse agricole italiane; sono, infine, i primi importatori in
Italia dell'Internazionale (fondata a Londra nel '64); di una
Internazionale, però, che ha ben poco a che fare con quella
marxista e ha un programma al tutto confuso con quello bakunista.
Essa si diffonde con lentezza tra il 1867 e il 1870, trovando seguaci
quasi esclusivamente nel mezzogiorno dove Bakunin aveva soggiornato
piú a lungo e aveva trovato favorevole terreno in piccole zone
della borghesia intellettuale. Il primo periodo di acclimatazione
dell'Internazionale in tutta Italia corrisponde a quegli anni, fra la
Convenzione di settembre (1864) e la presa di Roma (1870), durante i
quali i mazziniani, preoccupati dal problema politico e
istituzionale, trascurano assai il campo operaio.
All'infuori di queste correnti ideologiche, poche minoranze
operaie del nord e centro d'Italia, alla ricerca di un effettivo
miglioramento delle proprie condizioni economiche, si organizzano
esercitando istintivamente la resistenza, in netto antagonismo con la
classe proprietaria e industriale. I primi esempi di organizzazione
di resistenza sono dati dai tipografi.
La Comune e Mazzini.
Tra le crescenti preoccupazioni conservatrici da un lato, e il
moltiplicarsi delle organizzazioni operaie e la lenta infiltrazione
dell'internazionalismo dall'altro, la Comune di Parigi del 1871 è
come una scintilla che produce il corto circuito: essa ha in Italia
enorme ripercussione, porta alla crisi l'evoluzione dell'intero
decennio, obbliga partiti e coscienze ad assumere un atteggiamento
preciso, dissipa molti equivoci.
La Comune fu generalmente e falsamente interpretata da noi come
una insurrezione di carattere nettamente socialista. In realtà,
di socialista, a Parigi, ci fu ben poco: ma gli Italiani, detrattori
o apologisti che fossero, trascinati da opposte passioni, avvolsero
immediatamente «la Comune» in un velo di leggenda. Se il
«Monitore di Bologna» (moderato democratico), nel numero
del 25 marzo 1871, scrive che si tratta addirittura «di abolire
l'incomodo del tuo e del mio, si tratta di sostituire la forza al
diritto, la barbarie alla civiltà», il «Gazzettino
Rosa» (repubblicano garibaldino, prossimo ad abbracciare i
principî dell'Internazionale) (Milano, 1° aprile 1871)
inneggia alla rivoluzione del 18 marzo: «Salve, o aurora della
libertà, io ti veggio già spuntare all'orizzonte nel
color della fiamma». Se la «Nazione» (conservatore)
(Firenze, 3 maggio 1871) trova che il «socialismo, il
comunismo, tutti i delirî delle sette piú sfrenate
minacciano la società», la «Civiltà
Cattolica» (6 maggio 1871) ride di tanto sbigottimento,
vantandosi: «Noi soli, che abbiam sempre detto: – O
cattolici col papa o barbari col socialismo – abbiamo il
diritto di giudicare o vituperare Parigi, senza mutare
improvvisamente il nostro modo di pensare».
Garibaldi, generoso, impulsivo, irreflessivo, esalta i soli uomini
che «in questo periodo di tirannide, di menzogna, di codardia e
di degradazione hanno tenuto alto, avvolgendovisi morenti, il santo
vessillo del diritto e della giustizia».
L'atteggiamento di Mazzini è assai complesso. Lodi, sí,
all'eroismo degli insorti, e alle loro aspirazioni repubblicane;
indulgenza per i loro, in parte giustificabili, eccessi; vergogna
eterna alla codarda assemblea versagliese; in guardia però da
ogni esaltazione per il programma parigino, che, applicato
integralmente, annienterebbe la Francia come nazione, riducendola ad
una federazione di comuni autonomi. Di mano in mano che Mazzini
s'accorge della crescente infiltrazione delle idee comunarde in
Italia, la sua condanna si fa sempre piú aspra e radicale. Le
conseguenze di questo suo atteggiamento furono gravissime. Tra i
partiti politici italiani, quello mazziniano-garibaldino aveva
costituito, fino al 1871, l'estrema sinistra; e non soltanto nel
campo politico, ma anche in quello sociale. Fino allora le prime
incerte, e a malapena precisabili, infiltrazioni
internazional-bakuniste non avevano occupato un posto considerevole
nella vita pubblica italiana. Fino allora, quasi tutti i
rivoluzionari di temperamento, i malcontenti, i sognatori romantici
di una società migliore o diversa si erano stretti intorno a
Mazzini, uniti nel nome di repubblica, sinonimo di rivoluzione,
discordi in ogni altra questione, e soprattutto nei presupposti
morali e religiosi. Ma la discordia si manteneva generalmente
latente; non aveva avuto modo di manifestarsi, o, ancor meno, di
approfondirsi. Il programma mazziniano era l'unico che promettesse
novità sostanziali, richiedesse audacia di propositi e di
mezzi, calmasse quel bisogno di agire in un modo o nell'altro, ma,
comunque, d'agire, che, specie dopo il '67, assillava quanti fino
allora avevano sfogato la loro energia esuberante nella cospirazione
e nelle campagne di guerra. Mazzini era stato per interi decenni
l'iniziatore o il sicuro alleato di tutte le battaglie per la
libertà; amici e nemici lo consideravano ormai come il
rivoluzionario per antonomasia, come il prototipo del ribelle; lo
seguivano, quindi, anche tutti quei rivoluzionari per temperamento
che un'assidua propaganda e la naturale inclinazione andavano
spingendo al materialismo, all'ateismo, ossia – e non
riuscivano ad accorgersene – agli antipodi del sistema
mazziniano.
Quando Mazzini condannò la Comune di Parigi, molti fra i
suoi seguaci, specialmente i piú giovani, rimasero
profondamente delusi. Non era Mazzini repubblicano? Non era anch'egli
nemico delle disuguaglianze sociali? Sorpresi dapprima, finirono
coll'esserne indignati; almeno non pretendesse, Mazzini, di tenere
ancora lui, fra le sue mani, lo stendardo della repubblica e della
rigenerazione sociale!
È inutile che Mazzini ripeta
che si devono condannare tanto i comunardi quanto i versagliesi: egli
apparisce come l'alleato della reazione di tutta Europa. I fogli di
estrema destra non si lasciano sfuggire la buona occasione per
gabellare come loro alleato l'ex-irriducibile nemico. Il «Corriere
di Milano» (26 giugno 1871) in un articolo intitolato Mazzini
codino, afferma che l'esule è ormai molto meno lontano dai
cosiddetti conservatori che dai suoi pretesi discepoli; la «Nazione»
di Firenze, che ha ancora fresche di stampa le peggiori calunnie sul
conto di Mazzini, ammette (10 luglio 1871) che egli ha detto in
questa occasione «gravi e solenni verità», che
egli ha cuore «di patriotta e di uomo onesto», che le sue
invettive sono «eloquenti». La stampa conservatrice
tutta, realizza un doppio vantaggio: dimostra che il ribelle ha messo
giudizio, e ne ricava la conseguenza che la Sinistra, divisa, è
prossima a sfasciarsi. Molti giovani, ai quali la Comune di Parigi dà
per la prima volta la sensazione della possibilità di
abbracciare un sistema d'idee piú avanzato di quello
mazziniano, e non davvero nebuloso o incerto poiché già
ha dato luogo a un grandioso tentativo di realizzazione pratica,
reagiscono abbandonando Mazzini.
Crisi tra i mazziniani.
Una volta distaccatisi dal mazzinianismo, in che senso poteva
dirigersi, quella minoranza ardente? Quali ideali servire? La via era
chiaramente indicata: all'Associazione Internazionale dei Lavoratori
venivano concordemente attribuite le glorie o le colpe della Comune.
Tra noi, l'Internazionale si era frattanto diffusa qua e là
(specie nel mezzogiorno), attraverso una propaganda abbastanza attiva
esercitata da agenti di Bakunin, non ancora entrato in aperto
conflitto con Marx. Inoltre Mazzini, non appena lanciata la scomunica
contro l'insurrezione parigina, aveva sentito il dovere di spiegare
con una causa generale i perturbamenti sociali del suo tempo, e
l'aveva rintracciata (e del resto l'andava additando da un pezzo) nel
materialismo, che minacciava, secondo lui, le fondamenta della
civiltà intera.
Creatura e incarnazione del materialismo era l'Internazionale dei
Lavoratori. Il materialismo, la Comune, l'Internazionale, erano
dunque fulminati dall'istessa condanna; a quest'ultima, quindi, si
rivolgono tutti i mazziniani eterodossi anche nei riguardi del
problema religioso.
Mazzini conserva durante tutta la crisi, che si determina nello
scorcio del '71 e perdura nella sua fase piú acuta fino al
marzo '72, ossia fino alla morte di lui, un'ammirevole intransigenza.
Le ire e le polemiche divampano in tutta la stampa, perché
quanto piú recenti e fulminee sono le conversioni
anti-mazziniane, tanto piú caloroso è l'entusiasmo per
la nuova fede.
Non v'è, credo, letteratura piú viva e varia di
quella dei giornaletti internazionalisti che pullulano in Italia tra
il 1871 e il 1872. Lettura purtroppo tutt'altro che agevole; tanto è
difficile rintracciarli e seguirli in collezioni complete.
Giornaletti di piccolo formato, i piú con testate chiassose,
iscrizioni di grande effetto; generalmente colti da malattie mortali
dopo pochi numeri; sempre tormentati da angustie finanziarie e dagli
artigli del fisco. Trascinati da un impeto di entusiasmo a lodare la
Comune si sentono dapprima, di fronte alla condanna mazziniana, come
spaventati dalla loro audacia. Ma noblesse oblige: bisogna
difendere la posizione, anche se difficile. Cercano di spiegare
l'atteggiamento di Mazzini, osservando che egli non ha forse tutti
gli elementi necessari per giudicare equamente la Comune. Protestando
la loro devozione a lui, che li ha educati al culto della libertà,
e della giustizia, e da cui li divide una momentanea aberrazione, non
vogliono sentire parlare di una scissione, o, comunque, ne respingono
ogni responsabilità. Ma non intendono sacrificare al rispetto,
alla gratitudine per il Maestro, la loro propria indipendenza di
giudizio. Frattanto l'intransigenza e lo sdegno di Mazzini e del suo
stato maggiore li obbliga ad assumere posizioni sempre piú
nette; superato il disagio iniziale, si sentono alfine nello stato
d'animo di minorenni usciti di tutela. Alla fermezza di Mazzini
oppongono da parte loro una fermezza corrispondente e crescente. Li
urta, soprattutto, la pretesa del Maestro di non concedere patente di
repubblicano a chi non accetta in blocco il suo sistema: non si può,
secondo lui, essere atei e repubblicani. Protestano: – Siamo
repubblicani convinti e lo mostreremo alla prova; siamo forse per
questo obbligati a credere nei fantasmi? Dio, se mai esiste, sta nei
cieli e non ha niente a che fare con il regime politico-sociale. Non
si rallegrino, però, i nemici comuni; s'accorgeranno se non
saremo di nuovo tutti d'accordo quando si tratterà di fare la
rivoluzione. Ora che abbiamo calma e tempo, ne approfittiamo per
discutere tra di noi.
Mazzini fa il processo all'Internazionale, che si preoccupa, egli
dice, dei soli interessi materiali. Ma che cosa hanno guadagnato gli
operai finché si sono attenuti alle moralissime teorie
mazziniane? Un uomo che ha formulato il suo sistema da oltre
trent'anni non può pretendere di tenervi aggiogate eternamente
le nuove generazioni. È vecchio, si è cristallizzato; è
incapace ormai di seguire il progresso. Lo nega, anzi, e con ciò
distrugge la base stessa del suo sistema. Siamo atei e materialisti,
e ce ne vantiamo; stufi di quella odiosa abitudine di trasportare
sempre nelle piú alte sfere della morale, della giustizia, del
dovere questioni d'interesse immediato, questioni di pane; abitudine
che serve a ingarbugliare i problemi piú semplici, e a
nasconderne la soluzione.
«Siamo patrioti? Può darsi. Unità e
indipendenza hanno portato vantaggi a iosa ai signori; ma al
proletariato? Forse che le sue condizioni sono mutate? La patria è
del lavoratore di tutto il mondo, perché patria vuol dire
interessi, aspirazioni comuni».
Queste in sintesi, le accuse piú caratteristiche e le
corrispondenti professioni di fede che la stampa internazionalista
rovescia addosso a Mazzini, fra il 1871 e il 1872, con un crescendo
impressionante. Liberatisi dal peso dell'autorità mazziniana,
rotta la lunga tradizione di sommissione, sembra che questi
transfughi o reietti del mazzinianismo traggano come un sospiro di
sollievo, si sentano piú leggeri, piú agili, piú
liberi nei loro movimenti; che provino una gioia infantile nel
gridare, contro tutto e contro tutti, le loro audaci negazioni, le
loro nuove aspirazioni. Rigettano tutto quello che del mazzinianismo
hanno ingerito (non digerito) negli anni durante i quali di necessità
hanno dovuto farne parte.
Hanno a noia soprattutto quell'uniforme misticismo (come essi
scrivono), quel velo di mistero, quella nebulosità che
ravvolgono sempre Mazzini; quei suoi ragionari sono cosí
complessi, quelle sue premesse cosí confuse, tutto il suo
sistema è tale un intreccio di logica e di sentimento, che i
cervelli semplici e sani non possono né comprenderlo, né
seguirlo.
I successi degli internazionalisti.
Morte di Mazzini.
L'esito di questa crisi è indicato molto eloquentemente dai
fatti. Nel luglio del 1871 Mazzini, con un certo ottimismo, constata
che l'unica città italiana dove l'Internazionale abbia messo
piede, è Napoli445. Ma le cose mutano rapidamente. Il
5 novembre tre delegati internazionalisti fanno una prima parata al
XII Congresso operaio, convocato a Roma dai mazziniani; Marx scrive a
Sorge, annunciandogli che in Italia «noi facciamo progressi
vertiginosi. Grande trionfo sul partito di Mazzini»446.
Il 19 dicembre 1871 si tiene a Bologna il primo comizio dei fasci
operai aderenti all'Internazionale, presenti sei sezioni; il 18
febbraio '72, altro comizio internazionalista a Villa Cambellara:
intervengono le sezioni e i gruppi romagnoli, in numero di undici.
Il 17-19 marzo 1872 a Bologna altro
congresso regionale, presenti diciotto sezioni. Il 5 aprile 1872,
Bakunin scrive a Francesco Mora che l'Internazionale ha preso grande
sviluppo in Italia, tanto che questa, con la Spagna, «è
forse il paese piú rivoluzionario in questo
momento»447.
Il 3 agosto 1872, a Rimini, si aduna il primo Congresso generale,
nel quale gli internazionalisti italiani, separandosi violentemente e
con grande leggerezza dal Consiglio Generale di Londra, ossia da
Marx, si stringono attorno al Bakunin, ossia al collettivismo
anarchico; vi partecipano ventuno sezioni, di ogni parte d'Italia. Da
ricerche fatte nei giornali del tempo, mi risulta che verso la metà
del '72 esistevano in Italia almeno 50 sezioni internazionaliste!
Chi rilegga oggi i giornali mazziniani del tempo, come la «Roma
del Popolo» (Roma) o l'«Unità Italiana»
(Milano), ammira, sí, la fermezza con la quale Mazzini e i
suoi fedeli sostengono l'urto; ma si avvede di un certo sgomento da
cui sono presi di fronte alla grandezza della valanga, tanto piú
funesta quanto piú improvvisa; valanga sospinta e ingrossata,
da un lato, dal curioso atteggiamento di Garibaldi; dall'altro, dalla
polemica scatenata con il consueto ardore da Michele Bakunin.
Mazzini muore sconfortato, in piena crisi del suo partito,
abbandonato dalle piú giovani e promettenti forze, convinto
della intima debolezza dei suoi piú fidi, quasi tutti vecchi e
sfiduciati, divisi da dissensi, talora non lievi, e da rancori
personali. L'amarezza sua è cosí profonda che a volte
anche la lotta gli pare inutile; unico bene il suo riposo eterno. «Le
delusioni di ogni genere – egli scrive a un repubblicano in
Svizzera nell'ottobre 1871 – hanno ucciso in me l'entusiasmo e
ogni capacità di gioia o di solo conforto, fuorché
quello che viene dagli affetti; non il senso del dovere. Tento quel
poco che tento per un'Italia ideale e per uomini ch'oggi non sono. E
se questo senso religioso non si fosse per ventura serbato in me, mi
sarei ucciso...»448.
Sí, aveva ragione Agostino
Bertani quando, la sera dei funerali di Mazzini, agli amici raccolti
e pensosi dell'avvenire, diceva che, morto il Maestro,
l'Internazionale «sarebbe entrata a scindere il partito
repubblicano e assai presto se ne sarebbe sentita l'azione...,
sarebbe forse venuto del sangue, sarebbe cominciata l'età
delle ire, che, invece di affrettare, avrebbe ritardato di chi sa
quanto l'attuazione degli ideali sociali emananti dalla dottrina del
Maestro»449.
Ma, qualche mese piú tardi, Marx ed Engels s'accorgono che
la crisi del mazzinianismo, dalla quale essi hanno tanto sperato per
il vantaggio della loro corrente, si è risoluta a tutto favore
del collettivismo anarchico: Bakunin, sfruttando il malcontento
generale e la sua perfetta conoscenza dell'ambiente italiano, ha
tirato verso di sé il rivoluzionarismo verboso degli
internazionalisti italiani. «Bignami – scrive
malinconicamente Engels a Sorge il 2 novembre 1872, – è
il solo individuo che abbia preso il nostro partito in
Italia»450; e allude all'esiguo gruppo che fa capo al
giornale «La Plebe» di Lodi.
Avevano commesso, in realtà, un formidabile errore fondando
serie speranze per l'avvenire del socialismo in un'idea, che era nata
quasi dal nulla in conseguenza della Comune di Parigi e che aveva
raccolto, in pochissimi mesi, un impressionante numero di seguaci. Lo
stesso Bakunin sopravvalutava la potenza rivoluzionaria dei giovani
italiani; alla distanza di due anni, anch'egli doveva accorgersi che
si trattava soltanto di un'effimera infatuazione,destinata ad
esaurirsi in vani tentativi di sommossa.
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