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Nello Rosselli
Saggi sul Risorgimento

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  • IV. Origini del movimento operaio in Italia
    • 3. Repubblicani e socialisti in Italia
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3.
Repubblicani e socialisti in Italia

 

I.

Si ragiona molto oggi, in sordina e no, di un desiderabile riavvicinamento fra repubblicani e socialisti. Il connubio porterebbe a una maggior valutazione del fatto politico da parte socialista (della cui necessità i socialisti piú intelligenti si rendono oggi perfettamente conto) e a una maggiore valutazione del fatto sociale e a un piú stretto contatto con le esigenze e le aspirazioni del proletariato, da parte repubblicana. Lascio ai politici di determinare la convenienza del connubio: io vado ripensando alla storia dei due partiti in Italia e alle ragioni riposte o evidenti che valsero a separarli dapprima, e poi a mantenerli divisi e corrucciati. C'è una vecchia ruggine fra di loro, ci sono astiosità e malintesi: non sarà forse del tutto inutile indagare quando e come si formarono e se per caso la comune disavventura dei partiti democratici non potrebbe costituire l'auspicata occasione di un chiarimento.

Premetto ch'io non son di quelli che ritengono contenere il programma di Mazzini la soluzione integrale del problema sociale; credo anzi che tale programma, quale Mazzini lo delineò, non possa piú informare di sé un partito vivo e operante, profondamente innestato nelle radici vitali della nazione. Parlo volutamente di Mazzini, trascurando gli altri teorici nostrali del repubblicanesimo, perché da lui son discese e a lui si son costantemente ispirate la dottrina e la prassi del partito repubblicano italiano nel campo sociale, che è quello che presentemente c'interessa. Mazzini, non v'è dubbio, sta ai repubblicani come Marx ai socialisti, e forse piú ancora; ché un revisionismo mazziniano paragonabile sia pure alla lontana con quello marxista non s'è mai avuto; nel che sta, per me, la massima prova d'insufficienza del mazzinianismo.

Credo per contro che di un bagno di mazzinianismo – e se volete solo o soprattutto di spirito mazziniano, rettamente inteso – possa molto avvantaggiarsi il movimento socialista, che ora, ricco di una durissima esperienza, va dolorosamente riprendendo il suo cammino; se non altro è ormai chiaro a tutti che la pregiudiziale repubblicana è destinata a diventare comune denominatore di tutte le correnti sinceramente democratiche.

Il fascismo, che ha salutarmente aperto gli occhi a molta gente e affrettato processi di composizione e di decomposizione lentamente maturantisi, ha in sostanza, io penso, segnato la vittoria del principio repubblicano e, nello stesso tempo, probabilmente firmato l'atto di morte di un partito repubblicano italiano; d'ora innanzi, invece di repubblicani tout court, avremo dei socialisti repubblicani, dei democratici repubblicani, e perché no?, dei cattolici repubblicani. Dire: io sono repubblicano e basta, sarà dire assai poco, equivarrà cioè a esprimere una quanto mai generica fede democratica.

Di necessità dunque, a parer mio, si giungerà o prima o poi a un connubio tra socialisti e repubblicani, o meglio tra socialisti e una frazione di repubblicani; connubio che non avrà niente di transeunte, niente di opportunistico; che non si opererà cioè in vista della formazione di un provvisorio fronte unico di battaglia.

Ma sono andato fuor di strada, ché il mio intento è solamente quello di riandare le vicende e studiare le relazioni corse tra repubblicani e socialisti negli ultimi sessant'anni.

 

Di propaganda socialista in Italia non si principiò a parlare prima del 1865: il partito repubblicano era allora forte e combattivo; era il piú intransigente dei partiti d'opposizione e, per quanto disposto a compromessi e a transazioni, il piú sinistro; era, in una parola, il partito sovversivo. Socialismo era parola vaga, mal compresa dai piú, usata a designare correnti in Italia ancora di da venire, da qualche scrittore politico: fra i quali, deplorandola, se ne serviva Mazzini. C'era un modesto movimento operaio, conteso fra democratici moderati e repubblicani, che si limitava a raccogliere élites di lavoratori nelle fila del mutuo soccorso, a convocare di quando in quando i loro rappresentanti a congresso, a pubblicare giornaletti popolari, a fondare e a incoraggiare le società cooperative. Qua e , nei centri industriali, v'eran gruppi di operai che stavan scoprendo l'arma della resistenza e principiavano a proclamare con crescente frequenza gli scioperispontanei perché non suggeriti da alcun partito politico.

Il programma mazziniano (che ritengo superfluo riassumere qui sia pure per sommi capi) era l'unico programma concreto di rivendicazione che si offrisse alla classe lavoratrice. Attorno a Mazzini si stringevano perciò, con e anche senza riguardo all'aspetto politico e religioso della sua propaganda, tutti i democratici degni di questo nome, che non avessero con lui particolari troppo vive ragioni di dissenso. Mazzini, per quanto prevalentemente assorbito dalle cure del partito, poteva fondatamente sperare di riuscire in un giorno non lontano a organizzare sotto la sua insegna l'intera classe lavoratrice italiana, contadiname escluso.

Capita in Italia il primo socialista di marca: il Bakunin, introdotto e presentato da Mazzini il quale ignora le sue nuove tendenze anarchico-socialiste. Bakunin d'altronde si è fino allora curiosamente ingannato, come molti altri conoscitori per sentito dire di Mazzini, sui fini e sui metodi del partito repubblicano in Italia; lo ritiene un partito di opposizione intransigente che si sforzi di introdurre in tutte le manifestazioni della vita pubblica quel medesimo spirito di libertà su cui ha fatto leva per cacciar d'Italia le dinastie straniere. Non ci fu dunque né dabbenaggine da parte di Mazzini nell'unger le ruote a Bakunin, né tradimento nero da parte di quest'ultimo nell'immediato rivoltarsi contro Mazzini, che fece non appena orientatosi un poco nell'ambiente italiano: non senza amarezza, come provano le sue lettere di quegli anni. Ma è tuttavia notevole il fatto (esaurientemente dimostrabile) che la prima propaganda socialista in Italia fu facilitata da repubblicani e si compié massimamente in ambiente repubblicano. Forse molti ignorano ancora che Mazzini fu per quattro anni un amico dell'Internazionale.

Strano a dirsi, Bakunin, un forestiere, riesce in un battibaleno a radunare intorno a sé e al suo programma di rivoluzione sociale, direi a rivelare a sé medesimi, un non esiguo gruppetto di democratici, mazziniani e garibaldini. Gli è che la propaganda attivissima del libero pensiero e la fortuna incontrata dalle correnti positivistiche che, fuori dagli ambienti piú colti, si traducevano in gretto materialismo, hanno preparato al socialismo un terreno assai favorevole. Bakunin non fa che approfittarne con abilità e con fortuna, rivolgendosi dapprima a una ristretta élite di intellettuali, quindi a un piú vasto pubblico di operai e di artigiani, ai quali riesce a insinuare il sospetto che Mazzini non ad altro tenda, col suo programma sociale a scartamento ridotto, che a solleticare i lavoratori per ottenere l'aiuto nella lotta per la conquista del potere politico.

Dell'opera piuttosto sotterranea svolta da Bakunin si cominciarono a scorgere le conseguenze un paio d'anni dopo la sua partenza dall'Italia, avvenuta nel 1867: si videro sorgere qua e robuste sezioni dell'Internazionale, si sentí parlare di una società segreta tra democratici socialisti con ramificazioni all'estero, fece capolino qualche primo giornaletto di propaganda socialista, si videro italiani partecipare ai congressi dell'Internazionale, s'intensificarono certi attacchi contro Mazzini da parte di suoi gregari poco ortodossi, evolventi non more solito verso destra, sibbene verso un'estrema sinistra, scorto dalla quale il programma mazziniano pareva addirittura roba da conservatori. Fondamento di tutte le accuse il suo misticismo religioso, la sua visione di un Dio autoritario, primo gradino di una scala d'autorità, di padroni e di sfruttatori cioè, che dal cielo si prolungava in terra, fra gli uomini. Di qui, a torto o a ragione, pigliava le mosse, e a quella come a punto centrale si richiamava, ogni altra critica, fino al 1870, per altro, piú mormorata che detta, timidamente affacciata e non sostenuta:

Mazzini si è cristallizzato in formule di quarant'anni addietro. Mazzini ciancia di emancipazione operaia, ma dopo tutto gli basta e gliene avanza dell'innocuo mutuo soccorso e di qualche cooperativetta; Mazzini imborghesisce il movimento operaio; Mazzini non capisce che la rivoluzione sociale, come tale, comprende e quindi risolverà col problema sociale anche quello politico e non viceversa, e che solo nella speranza della prima si moveranno gli infimi strati sociali; Mazzini, infine, seguita a predicar la rivoluzione, e sia pure una rivoluzione meramente politica, ma in sostanza, come Bertoldo l'albero, non trova mai il momento opportuno per scatenarla; per non mollare sulla questione monarchia o repubblica, Mazzini perde insomma di vista faccende di assai maggior rilievo.

Accuse velate e a mezza bocca, diserzioni alla chetichella scoppiano in aperta rivolta nel 1871, quando tutta Italia è corsa da un fremito rivoluzionario che è un riflesso, una conseguenza e un contagio della Comune di Parigi: le masse operaie s'affollano nelle neonate sezioni internazionaliste, i ceti possidenti si buttano al conservatorismo reazionario, raddolcito da prudenti proteste di pseudo-democraticismo, un gruppo d'intellettuali e d'intellettualoidi inizia con entusiasmo la carriera degli organizzatori; i mazziniani, disorientati, attraversano una penosa crisi d'incertezze, che si traduce e si risolve in fierissima lotta contro i socialisti non appena questi accennano a voler conquistare le società operaie, tentando di travolgere la invidiabile posizione fino allora goduta dai mazziniani, di quasi monopolisti del movimento operaio italiano: repubblicani e socialisti sentono, primi in Italia e per la prima volta, che la forza dei partiti da ora innanzi sarà commisurata all'entità della loro penetrazione nelle masse lavoratrici. Mazzini e Bakunin polemizzano clamorosamente, mentre un'improvvisata stampa socialista copre tutta l'Italia.

La rapida fortuna del socialismo è a tutte spese del mazzinianismo: lo prova il fatto, documentabile, che quasi tutti i capi del movimento socialista sono transfughi delle file repubblicane; è tutta gente venuta su con Mazzini e che, turbata per l'aspra condanna da Mazzini pronunciata contro la Comune repubblicana, se prima sospettava, ora sostiene apertamente che Mazzini, per incomprensione senile, tradisce il suo stesso programma, che non ne intenda piú i logici necessari sviluppi. Mazzini ribatte che repubblica non vuol dire comunismo; quei giovani (che tali sono pressoché tutti) concludono che ormai per Mazzini l'aspirazione repubblicana importa un semplice mutamento nella forma del governo: il resto, immutato.

È proprio nel 1871, dunque, che si determina l'incomprensione fra i due partiti; forse Mazzini avrebbe saputo in progresso di tempo eliminarla e, calmati gli spiriti, passata la raffica rivoluzionaria, trovare un punto d'accordo durevole; ma purtroppo morí nel '72, in piena battaglia, e quel che è ancora piú grave, senza poter lasciare il partito in mani vigorose. Poiché credo si possa andare tutti d'accordo nel negare ai Saffi, ai Campanella, ai Quadrio, ecc. (bravissime persone del resto sotto molti altri punti di vista) un acuto temperamento politico, una consapevole energia, la capacità insomma d'intender nello spirito e non, come troppo spesso accadde, di osservare bigottescamente l'insegnamento di Mazzini.

La frazione giovanile del partito repubblicano si gettò con vera e propria voracità sugli ideali banditi dall'Internazionale; con la voracità di chi da tempo ha sete, insoddisfatta, d'ideali. Era un pezzo che il mazzinianismo non le bastava piú. Nel 1871 la sua inadeguatezza alle aspirazioni della gioventú intellettuale apparve evidente. Scriveva Cafiero, l'ardente rivoluzionario pugliese, ad Engels:

Il povero vecchio (Mazzini) non vuole comprendere... che il suo concetto di unità e libertà nazionalegrande al suo tempoimpallidisce ora come la luce di una candela innanzi alla luce del sole, venendo paragonato al sublimissimo concetto dell'unità... di tutti i popoli nella nuova organizzazione sociale, che avrà per base l'eguaglianza.

, al programma mazziniano mancava ormai un mito, mancava un orizzonte lontano e magari irraggiungibile cui tendere. Il mito di Mazzini era stato l'unità d'Italia e Mazzini aveva avuto la fortuna (o la sfortuna) di vederlo bruscamente realizzato, se pur non secondo le sue aspirazioni, per un colpo di bacchetta magica. Dopo il '60, nonostante il rinforzo dato alla parte di rivendicazioni sociali, il suo programma era rimasto come svuotato: poco seguite e poco comprese erano le sue aspirazioni religiose, che gli davano una luce vivissima d'idealità e lo proiettavano in un lontano futuro; poco chiara era la sua visione della trasformazione sociale, a mezzo della riunione nelle stesse mani del capitale e del lavoro; evidentemente utopistico, nella sua realtà immediata, il suo vagheggiato collaborazionismo tra borghesi e operai. Ai giovani che hanno bisogno di guardar lontano, parve che il mazzinianismo avesse terminata la sua trentennale funzione di propulsore della vita italiana e che si riducesse ormai, in sede politica, a un ripicco da vecchio intransigente, ripicco al cui soddisfacimento non meritava davvero si dedicassero fresche energie, ansiose di provarsi (tanto piú dopo che si era dimostrato parto di mente settaria il ripetutissimo ammonimento non potersi giungere né a Venezia né a Roma con l'Italia monarchica e dopo l'infelice esito delle ultime spedizioni militari repubblicane); e in sede sociale si riducesse a un metodo di lenta e severa educazione di alcune élites operaie, ossia a un loro progressivo imborghesirsimetodo comunque incapace d'affrontare in pieno e risolvere la questione appassionante del conflitto di classe, appena disegnato in Italia, già in atto da tempo in altri paesi d'Europa.

Fra il 1860 e il 1870, certo, Mazzini non si preoccupò abbastanza del necessario reclutamento di forze giovani, ossia non pensò alle esigenze comprensibili dei giovani; non li appassionò alla repubblica, presentando loro un suggestivo e compiuto programma di rinnovamento politico e sociale, non seppe appassionarli al lavoro di organizzazione degli operai, ravvivando quei congressi, quei giornali, quegli istituti che andava convocando e creando. Gli mancarono i collaboratori, è vero, ma egli stesso perse il senso per l'innanzi cosí vivo in lui, dell'ambiente, perse in sensibilità; si ostinò sulla questione religiosa, senza avvertire che su quella strada, in quegli anni, nessuno lo avrebbe seguito e non capí quel che di buono e di sfruttabile anche a fini idealistici era in quell'ondata di materialismo che lo rendeva furioso e a volte ingiusto e che pur rispondeva a sentite necessità della vita italiana e precisamente a quella fase della sua evoluzione nella quale gli italiani dovevano guardarsi intorno, studiarsi, conoscersi, acquistar la positiva nozione del proprio stato, delle proprie possibilità economiche, provvedere con sollecitudine agli immensi bisogni di una moltitudine priva di tutto.

La sua ostinazione, la sua sicurezza, la sua mancanza di elasticità – ben comprensibile del resto, posta la sua avanzata età – lo compromisero irrimediabilmente agli occhi dei giovani, non appena questi giunsero, faticosamente, a liberarsi del tradizionale fascino che egli esercitava su di loro, lo misero in urto, in seno al suo partito, con quelle forze a cui teneva di piú e nelle quali per l'avvenire fidava di piú. Scatenò la sua battaglia, nel 1871, sicuro di vincere; e invece morí quando volgeva a male. Questa fu la sua tragedia.

In un prossimo articolo cercherò di lumeggiare altri aspetti di questa crisi, proseguendo la succinta storia delle relazioni fra repubblicani e socialisti, dalla morte di Mazzini fino ai giorni nostri.

 

II.

Dopo il 10 marzo 1872 il dissidio fra internazionalisti e repubblicani, vivacissimo di già, inferocí: polemiche violente sui giornali, risse per le strade.

Ma non tardò molto a cambiar vento: appunto perché cosí aspro e acuto, il dissidio non poteva prolungarsi troppo. Una volta affermatisi nonostante i repubblicani, gli internazionalisti si buttarono alla positiva propaganda insurrezionale, agendo in piccoli gruppi di artigiani, operai e piccoli borghesi, risoluti, piú per disperazione che per convinzione, a passare ai fatti: era dunque naturale che la lotta con i repubblicani passasse in seconda linea. (Dell'atteggiamento dei socialisti evoluzionisti non è il caso di parlare: troppo esigua era ancora la loro forza perché potesse pesare sulle sorti della battaglia politica e sociale, e ben lo seppero Marx ed Engels). Un altro incentivo alla pacificazione degli animi venne da una nuova ondata di quel confusionismo, che Mazzini aveva tanto virilmente combattuto e che costituiva invece la riconosciuta specialità dei garibaldini, i quali si vantavano socialisti e repubblicani, ma – Garibaldi in testa – da un lato castravano placidamente il socialismo dei suoi «eccessi» (ossia di quanto lo distingue da un radicalismo di maniera), dall'altro dimostravano d'avere in uggia grandissima Mazzini e la sua scuola. Garibaldi essendo dunque il duce della democrazia italiana (tot capita tot sententiæ) volle tentare il pateracchio fra le due ali estreme. E nel novembre del 1872, in un congresso torre di Babele fece varare un mastodontico Patto di Roma, che avrebbe dovuto essere il loro minimo denominatore comune. Questo Patto è senza dubbio un documento di notevole interesse; programma d'azione di quella democrazia repubblicana che trovava ridicolo ormai il voto di castità politica degli intransigenti, ebbe un solo difetto: che ai filo-socialisti parve troppo blando e reticente; ai mazziniani – che si dilettavano a declinare candidamente passato presente futuro del verbo insorgere – e agli antisocialisti arrabbiati in genere, troppo acceso; ci si accennava nientedimeno che alla repubblica sociale e al lavoro come unica sorgente della proprietà. Il pateracchio andò a monte; e invece di confusionismo, portò alla democrazia repubblicana: almeno per allora, distinzione netta. Distinzione cioè fra quattro gruppi: 1) mazziniani puri (giornalismo un po' educativo e un po' barricadiero; comizi e comizi; sindacalismo operaio; antiparlamentarismo); 2) repubblicani transigenti, alla Bertani (partecipazione alla lotta politica, rinvio sine die dell'attuazione del programma integrale); 3) repubblicani alla Alberto Mario (voto di castità, ma interessamento vivissimo alla politica; ottimi giornali, e idee chiare in testa); 4) repubblicani alla Garibaldi (filo-socialismo, confusione).

La storia delle relazioni fra socialisti e repubblicani negli ultimi trent'anni del secolo XIX è la storia dell'alterno prevalere, nella democrazia di sinistra, della prima, della seconda o dell'ultima di queste frazioni. Parrebbe, a prima vista, che con tutte i socialisti potessero accordarsi, meno che con quella dei mazziniani, legata per l'eternità al verbo antisocialista del Maestro. E invece fu proprio essa che – passata la bufera del 1871-72 e finché prevalsero fra i socialisti i rivoluzionari – si dimostrò la piú sensibile alle loro seduzioni. Gli è che i socialisti rivoluzionari erano in gran parte ex-mazziniani i quali del mazzinianismo avevano ereditato la frenesia per la cospirazione e per il «tentativo», nonché i metodi di lotta; gli è anche che i mazziniani, pur condannando fermissimamente le loro intemperanze teoriche, li consideravano come preziosi alleati per quell'eventuale colpo di forza che avrebbero pur tentato, un giorno o l'altro, al fine di rovesciare il regime monarchico. I socialisti avrebbero dato una mano col disegno di scatenare la rivoluzione sociale addirittura, ma si sarebbero poi dovuti necessariamente arrestare alla prima tappa, e cioè alla repubblica mazziniana, che almeno assicurava l'instaurazione di un serio regime democratico. Di qui, fra diffidenza e sospetti, Villa Ruffi (1874); e ci vuole una bella dose d'ingenuità per credere che soltanto a un inqualificabile arbitrio fossero dovuti gli arresti di repubblicani eminenti ivi eseguiti dal governo; per credere insomma che in un momento nel quale i socialisti rivoluzionari preparavano l'insurrezione armata, invocando anche pubblicamente l'adesione o almeno la neutralità benevola di tutti i democratici sinceri, i capi del movimento repubblicano si sarebbero adunati segretamente in campagna per avvisare ai modi atti a intensificare la lotta antisocialista! Bubbole.

Ma il mancato successo, con gli arresti e la sospensione della libertà d'associazione che ne seguirono, rinnovò i rancori: gl'internazionalisti non dimenticarono mai piú che i deputati repubblicani alla CameraFerrari eccettuato – nel gran chiasso d'interpellanze e discorsi, si limitarono a scagionare il loro partito dall'accusa di cospirazione, buttando a mare l'Internazionale; fra i repubblicani si fecero avanti – colla voce grossa e con gravi «l'avevamo detto noi» – gl'intransigenti antisocialisti, che ebbero, da allora in poi, almeno fino al 1880, larghissimo seguito.

 

Quali in Parlamento, quali fuori (i comizi popolari per agitar nel paese questioni di larga risonanza furono invenzione repubblicana rivelatasi efficacissima e a torto abbandonata), i repubblicani in questi anni furono attivissimi: si lottò per il suffragio universale, per la laicizzazione dello Stato, per l'obbligatorietà della scuola primaria, e via discorrendo. I mazziniani puri, alieni dal parlamentarismo, partecipavano a questa lotta, ma ribadendo periodicamente la pregiudiziale; non potendo altro, sfogavano il loro rivoluzionarismo impotente in dimostrazioni di piazza, coronate da discorsi sovversivi, con largo sfoggio di bandiere vietate. Era questo il loro modo di tener viva la scintilla, ma con tali sistemi si attirarono addosso il ridicolo, un ridicolo che li circondò poi sempre, aureola di maniera; se ne allontanavano gli uomini seri che ne avevano abbastanza di buffonate e di alfierianismi, gli scontenti e i rivoluzionari per davvero che, tanto, preferivano il positivo sovversivismo dei seguaci di Bakunin.

Un merito per altro va riconosciuto a questi mazziniani, e grandissimo: che portarono tutti nella lotta politica una onestà, una purità d'intenti e uno spirito di sacrificio personale, che si può senz'altro dichiarare senza esempio in Italia. In periodi di piú sozza corruzione politica, si poté e si può rivolgersi alla loro scuola con un senso di vero sollievo. Peccato che alle eccezionali doti di moralità i discepoli di Mazzini non unissero doti altrettanto eccezionali di vivacità e originalità intellettuale. Proverbiale ad esempio divenne la indeterminatezza del loro programma massimo: ripetevano instancabili le formule di Mazzini, ma chi avesse domandato loro particolari precisi sull'ordinamento e il funzionamento della repubblica futura, avrebbe dovuto contentarsi di frasi, di certe frasi per giunta che parevano uscir tutte da un identico conio, tanto si trasmettevano identiche e immutabili di bocca in bocca, di penna in penna, d'anno in anno. Questa indeterminatezza favorí naturalmente le diserzioni di destra e di sinistra; ché i mazziniani si trovavano fra due calamite: l'una, quella parlamentaristica (dell'inserirsi, cioè) attirava soprattutto gli anziani che, a seguitar nell'intransigenza, vedevan tramontare qualsiasi possibilità di carriera; l'altra, socialista rivoluzionaria, soprattutto i giovani, piú spregiudicati, meno tradizionalisti, piú bisognosi d'azione. Reazione e causa ad un tempo, di qui nacque e prosperò la famosa e deprecata ortodossia mazziniana (carattere sacro attribuito alle virgole nei testi del Maestro). Con una falla a prua e una a poppa, i Saffi, i Quadrio e loro satelliti si chiusero a chiave nel punto di mezzo della nave, tappandosi le orecchie per non sentirsi chiamare da una parte o dall'altra (Dio sa se ce ne volle, per esempio, perché ammettessero, con infiniti ma e se, la partecipazione del partito alle urne!) Sapevano per esperienza che, quando si stabilivano contatti fra repubblicani e socialisti o fra repubblicani e gente di governo, chi ci perdeva era sempre il loro partito: come matrimoni fra ebrei e cattolici, che i figli, novantanove su cento, vengono su cattolici. Ciò nonostante il mazzinianismo fu sempre roso – o ravvivato, secondo i punti di vista – da un dissidentismo di destra e uno di sinistra. Gli è che in certe regioni – prima l'Emilia – si nasceva allora, di regola, repubblicani; si facevano le prime armi in quel partito e poi, da entro il medesimo, si mostravano le vere tendenze individuali. Chi, fra il '70 e il Novecento, non esordí alla vita politica con una milizia piú o meno breve tra le file repubblicane? (a guardarlo in prospettiva, il movimento repubblicano di quegli anni assomiglia un poco a quelle stazioni ferroviarie di smistamento nelle quali gli innumerevoli viaggiatori si trattengono quel tanto che basta per prendere il treno; e vi sono treni per tutte le direzioni).

 

Se sul terreno dell'azione internazionalisti e mazziniani avevano considerato tuttavia di quando in quando la possibilità d'accordi, sul terreno teorico il disaccordo era completo e inesauribile; piú ancora su quello sindacale. I mazziniani circondavano d'ogni cura le associazioni operaie aderenti al Patto di fratellanza mantenendole sul terreno della cooperazione e della mutualità; gl'internazionalisti facevano la concorrenza, incoraggiando ovunque lo sciopero.

A leggere oggi i resoconti dei vari congressi che il Patto radunò dal 1872 in poi, non si può a meno di ammirarne la saggezza, la moderazione; qualche volta, la praticità. Senza dubbio vi si tennero a balia gran parte di quegli istituti la cui propaganda e imposizione rappresenta l'immensa benemerenza del movimento socialista, e di quello solo. Perché mai nessuno ne va grato agli organizzatori del Patto? La risposta – fatta la debita parte alla consueta ignoranza delle cose di casa nostra – è semplice: le deliberazioni dei congressi mazziniani eran bellissime, ma non uscirono mai dai congressi, a confrontarsi con la realtà; o se uscirono, se ne accompagnò la prova con uno spirito eccessivamente timido e timoroso; né informarono mai di sé – si eccettui la bellissima campagna cooperativistica – una propaganda vivace e attraente. E fu cosí che il mazzinianismo preparò, il socialismo si appropriò ed attirò, ma imprimendo a tutto, anche a ciò che era sembrato meno moderno, un suo potente spirito vitale, una sua profondissima forza di rinnovamento, un suo eccezionale senso della realtà.

Altro errore dei mazziniani fu, io penso, la condanna degli scioperi (nel congresso del 1882 si decisero a considerarlo come una non sempre evitabile iattura!); e gli scioperi son la chiave del successo socialista. L'esservisi opposti, il non averne compresa l'indispensabilità e l'altissima funzione, anche morale, almeno nella prima fase dell'organizzazione operaia, condannò il sindacalismo mazziniano a morir dissanguato, nonché ad attirare su di sé la dolorosa ingratitudine della massa lavoratrice.

 

Nel 1879 il partito repubblicano, la cui ala sinistra aveva attraversato nei due anni precedenti e specie nel 1878 (attentato contro Umberto) un periodo di relativa stasi e di impopolarità, ebbe un impulso di vita piú fervida.

Gli giovavano la decadenza precipitosa dell'Internazionale rivoluzionaria, il sempre piú diffuso malcontento del paese (anche la sinistra, dopo tante promesse, ora che era al potere seguitava a picchiar tasse su tasse) e anche una maggior vivacità degli stessi dirigenti suoi, fra i quali si andavano rivelando personalità notevoli, battagliere, dotate di fine senso politico, venute su alla scuola di Mazzini e di Cattaneo, ma con cultura e mentalità indipendenti (aprile 1879, fondazione a Roma della Lega della democrazia). Un valido aiuto la causa repubblicana ricevette anche dalla rinascita massonica (quanti erano i repubblicani che non bazzicassero in Loggia? e dove, se non in Massoneria, si troverà la spiegazione di certe riconciliazioni, di una piú intensa propaganda, di una maggiore organicità?) e dall'agitazione irredentistica, patrocinata calorosamente, ma anche sfruttata a fini propri, dai repubblicani; agitazione che il supplizio di Oberdan portò ad un alto grado di passione.

Il partito operaio (fondato nel 1882) venne a dar nuovo indirizzo e nuovo tono alle relazioni fra socialisti e repubblicani: preoccupato di conquistar benefici economici e politici al proletariato, con un programma pratico antidottrinario e antirivoluzionario, il partito operaio – a parte il riconoscimento dello sciopero – può sembrar figlio, se si vuole illegittimo, della scuola repubblicana, e invece le si contrapponeva nettissimamente per la dichiarata intransigenza di fronte a tutti gli altri partiti sul terreno economico (sul politico eran previsti accordi) e per l'esclusivismo antiborghese: si sa che i mazziniani avevano tirato avanti le società operaie a forza di soci onorari factotum: consiglieri, delegati ai congressi, sovvenzionatori, ecc. Era un brusco colpo di timone; ed era, in sostanza, il primo serio tentativo di concorrenza al sindacalismo democratico in quanto che il partito operaio lottava sul suo terreno legalitario. La guerra si dichiarò quasi subito contro Milano. Le due organizzazioni si rubarono i soci, si oppugnarono nei congressi regionali e nazionali, si contrastarono il terreno perfino nelle elezioni politiche, tendendo i repubblicani ad allearsi con la democrazia radicale, i dirigenti del partito operaio a lasciare candidature indipendenti di lavoratori. Sono arcinote le accuse furibonde scagliate dai demo-repubblicani lombardi ai loro oppositori di aver applicato il tradizionale «non olet» alle interessate lusinghe dei gruppi di governo, pronti a gonfiare la nuova frazione pur di indebolire la temibile coalizione di sinistra: primo accenno a una politica antidemocratica di parte socialista, primo scontro di una lunghissima battaglia antisocialista condotta dai repubblicani in anni piú vicini ai nostri.

Non mancarono anche, tra i repubblicani e quelli del Partito operaio, provvisori accordi. Ma la nuova tendenza sindacale che questi ultimi rappresentavano, modificatasi sotto l'influsso dei socialisti intellettuali imbevuti di Marx, i quali, attraverso il partito operaio operarono la loro conversione tattica verso il proletariato militante, era destinata a portare un fierissimo colpo al movimento repubblicano, conducendo a morte il vecchio Patto di fratellanza che ne costituiva la base granitica; condannandolo cioè, per molti anni, a essere un partito essenzialmente se non unicamente politico, disinteressato o ridotto a vivere in margine alla rigogliosa attività sociale che da allora in poi caratterizzò la vita italiana. Di fronte al rigoglio d'idee nuove, di metodi nuovi, di forze nuove, il vecchio Patto, capitanato dagli stessi uomini del 1871, ma inquinato da elementi sospetti vagheggianti un accordo tra il mazzinianismo e il collettivismo socialista, non seppe resistere; posto di fronte alla necessità di adeguarsi alle mutate esigenze dell'ambiente operaio, non fu elastico, non fu politico; si contrasse, s'irrigidí e fu travolto. Che i mazziniani vedessero con orrore il collettivismo acquistar diritto di cittadinanza nel Patto creato da Mazzini, è comprensibile; ma non è piú comprensibile ancora che i giovani, gli uomini nuovi provassero un irresistibile desiderio di sbarazzarsi di certi Catoni oltrepassati che – come il Minuti, ad esempio – erano ancora nel '90 o giú di contrari all'agitazione per le otto ore?

Con la morte del Patto sparivano dall'orizzonte operaio alcuni postulati, sui quali, come sul nucleo della dottrina sociale mazziniana, i suoi dirigenti avevano costantemente battuto; e ai quali dopo tanti anni di lotta e di esperienze gli operai italianicadute le attuali elefantesche soprastrutture bestemmiatrici dello spirito medesimo di un sano associazionismodovranno pur tornare: non voglio citare che l'indispensabile conciliazione fra emancipazione del lavoro e senso nazionale; e l'importanza straordinaria del fatto politico.

 

Nel 1895 nacque il partito repubblicano italiano; ma di ciò e delle successive relazioni fra socialisti e repubblicani, altra volta.

Mi preme per ora concludere rilevando la sempre piú netta distinzione che, dopo il 1890, va operandosi tra repubblicani alla vecchia e repubblicani moderni: Bovio, Colajanni, Ghisleri, Imbriani, Papa, per non citare che i piú eminenti, ricchi d'idee e di attività, stretti intorno a giornali che ancor oggi si rileggono imparandovi, hanno infatti ben poco a che fare, per esempio, col d'altronde rispettabilissimo gruppo che si riunisce intorno alla Fratellanza artigiana di Firenze. «Cuore e Critica», «L'Italia del Popolo», rappresentano degnamente la generazione repubblicana che seppe fondere e integrare le idealità mazziniane col positivismo di Cattaneo; e cioè con una vigile coscienza dei sempre nuovi complessi problemi della vita nazionale.




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