I.
Si ragiona molto oggi, in sordina e no, di un desiderabile
riavvicinamento fra repubblicani e socialisti. Il connubio porterebbe
a una maggior valutazione del fatto politico da parte socialista
(della cui necessità i socialisti piú intelligenti si
rendono oggi perfettamente conto) e a una maggiore valutazione del
fatto sociale e a un piú stretto contatto con le esigenze e le
aspirazioni del proletariato, da parte repubblicana. Lascio ai
politici di determinare la convenienza del connubio: io vado
ripensando alla storia dei due partiti in Italia e alle ragioni
riposte o evidenti che valsero a separarli dapprima, e poi a
mantenerli divisi e corrucciati. C'è una vecchia ruggine fra
di loro, ci sono astiosità e malintesi: non sarà forse
del tutto inutile indagare quando e come si formarono e se per caso
la comune disavventura dei partiti democratici non potrebbe
costituire l'auspicata occasione di un chiarimento.
Premetto ch'io non son di quelli che ritengono contenere il
programma di Mazzini la soluzione integrale del problema sociale;
credo anzi che tale programma, quale Mazzini lo delineò, non
possa piú informare di sé un partito vivo e operante,
profondamente innestato nelle radici vitali della nazione. Parlo
volutamente di Mazzini, trascurando gli altri teorici nostrali del
repubblicanesimo, perché da lui son discese e a lui si son
costantemente ispirate la dottrina e la prassi del partito
repubblicano italiano nel campo sociale, che è quello che
presentemente c'interessa. Mazzini, non v'è dubbio, sta ai
repubblicani come Marx ai socialisti, e forse piú ancora; ché
un revisionismo mazziniano paragonabile sia pure alla lontana con
quello marxista non s'è mai avuto; nel che sta, per me, la
massima prova d'insufficienza del mazzinianismo.
Credo per contro che di un bagno di mazzinianismo – e se
volete solo o soprattutto di spirito mazziniano, rettamente inteso –
possa molto avvantaggiarsi il movimento socialista, che ora, ricco di
una durissima esperienza, va dolorosamente riprendendo il suo
cammino; se non altro è ormai chiaro a tutti che la
pregiudiziale repubblicana è destinata a diventare comune
denominatore di tutte le correnti sinceramente democratiche.
Il fascismo, che ha salutarmente
aperto gli occhi a molta gente e affrettato processi di composizione
e di decomposizione lentamente maturantisi, ha in sostanza, io penso,
segnato la vittoria del principio repubblicano e, nello stesso tempo,
probabilmente firmato l'atto di morte di un partito repubblicano
italiano; d'ora innanzi, invece di repubblicani tout court,
avremo dei socialisti repubblicani, dei democratici repubblicani, e
perché no?, dei cattolici repubblicani. Dire: io sono
repubblicano e basta, sarà dire assai poco, equivarrà
cioè a esprimere una quanto mai generica fede democratica.
Di necessità dunque, a parer mio, si giungerà o
prima o poi a un connubio tra socialisti e repubblicani, o meglio tra
socialisti e una frazione di repubblicani; connubio che non avrà
niente di transeunte, niente di opportunistico; che non si opererà
cioè in vista della formazione di un provvisorio fronte unico
di battaglia.
Ma sono andato fuor di strada, ché il mio intento è
solamente quello di riandare le vicende e studiare le relazioni corse
tra repubblicani e socialisti negli ultimi sessant'anni.
Di propaganda socialista in Italia non si principiò a
parlare prima del 1865: il partito repubblicano era allora forte e
combattivo; era il piú intransigente dei partiti d'opposizione
e, per quanto disposto a compromessi e a transazioni, il piú
sinistro; era, in una parola, il partito sovversivo. Socialismo era
parola vaga, mal compresa dai piú, usata a designare correnti
in Italia ancora di là da venire, da qualche scrittore
politico: fra i quali, deplorandola, se ne serviva Mazzini. C'era un
modesto movimento operaio, conteso fra democratici moderati e
repubblicani, che si limitava a raccogliere élites di
lavoratori nelle fila del mutuo soccorso, a convocare di quando in
quando i loro rappresentanti a congresso, a pubblicare giornaletti
popolari, a fondare e a incoraggiare le società cooperative.
Qua e là, nei centri industriali, v'eran gruppi di operai che
stavan scoprendo l'arma della resistenza e principiavano a proclamare
con crescente frequenza gli scioperi – spontanei perché
non suggeriti da alcun partito politico.
Il programma mazziniano (che ritengo superfluo riassumere qui sia
pure per sommi capi) era l'unico programma concreto di rivendicazione
che si offrisse alla classe lavoratrice. Attorno a Mazzini si
stringevano perciò, con e anche senza riguardo all'aspetto
politico e religioso della sua propaganda, tutti i democratici degni
di questo nome, che non avessero con lui particolari troppo vive
ragioni di dissenso. Mazzini, per quanto prevalentemente assorbito
dalle cure del partito, poteva fondatamente sperare di riuscire in un
giorno non lontano a organizzare sotto la sua insegna l'intera classe
lavoratrice italiana, contadiname escluso.
Capita in Italia il primo socialista di marca: il Bakunin,
introdotto e presentato da Mazzini il quale ignora le sue nuove
tendenze anarchico-socialiste. Bakunin d'altronde si è fino
allora curiosamente ingannato, come molti altri conoscitori per
sentito dire di Mazzini, sui fini e sui metodi del partito
repubblicano in Italia; lo ritiene un partito di opposizione
intransigente che si sforzi di introdurre in tutte le manifestazioni
della vita pubblica quel medesimo spirito di libertà su cui ha
fatto leva per cacciar d'Italia le dinastie straniere. Non ci fu
dunque né dabbenaggine da parte di Mazzini nell'unger le ruote
a Bakunin, né tradimento nero da parte di quest'ultimo
nell'immediato rivoltarsi contro Mazzini, che fece non appena
orientatosi un poco nell'ambiente italiano: non senza amarezza, come
provano le sue lettere di quegli anni. Ma è tuttavia notevole
il fatto (esaurientemente dimostrabile) che la prima propaganda
socialista in Italia fu facilitata da repubblicani e si compié
massimamente in ambiente repubblicano. Forse molti ignorano ancora
che Mazzini fu per quattro anni un amico dell'Internazionale.
Strano a dirsi, Bakunin, un forestiere, riesce in un battibaleno a
radunare intorno a sé e al suo programma di rivoluzione
sociale, direi a rivelare a sé medesimi, un non esiguo
gruppetto di democratici, mazziniani e garibaldini. Gli è che
la propaganda attivissima del libero pensiero e la fortuna incontrata
dalle correnti positivistiche che, fuori dagli ambienti piú
colti, si traducevano in gretto materialismo, hanno preparato al
socialismo un terreno assai favorevole. Bakunin non fa che
approfittarne con abilità e con fortuna, rivolgendosi dapprima
a una ristretta élite di intellettuali, quindi a un piú
vasto pubblico di operai e di artigiani, ai quali riesce a insinuare
il sospetto che Mazzini non ad altro tenda, col suo programma sociale
a scartamento ridotto, che a solleticare i lavoratori per ottenere
l'aiuto nella lotta per la conquista del potere politico.
Dell'opera piuttosto sotterranea
svolta da Bakunin si cominciarono a scorgere le conseguenze un paio
d'anni dopo la sua partenza dall'Italia, avvenuta nel 1867: si videro
sorgere qua e là robuste sezioni dell'Internazionale, si sentí
parlare di una società segreta tra democratici socialisti con
ramificazioni all'estero, fece capolino qualche primo giornaletto di
propaganda socialista, si videro italiani partecipare ai congressi
dell'Internazionale, s'intensificarono certi attacchi contro Mazzini
da parte di suoi gregari poco ortodossi, evolventi non more solito
verso destra, sibbene verso un'estrema sinistra, scorto dalla quale
il programma mazziniano pareva addirittura roba da conservatori.
Fondamento di tutte le accuse il suo misticismo religioso, la sua
visione di un Dio autoritario, primo gradino di una scala d'autorità,
di padroni e di sfruttatori cioè, che dal cielo si prolungava
in terra, fra gli uomini. Di qui, a torto o a ragione, pigliava le
mosse, e a quella come a punto centrale si richiamava, ogni altra
critica, fino al 1870, per altro, piú mormorata che detta,
timidamente affacciata e non sostenuta:
Mazzini si è cristallizzato in formule di quarant'anni
addietro. Mazzini ciancia di emancipazione operaia, ma dopo tutto gli
basta e gliene avanza dell'innocuo mutuo soccorso e di qualche
cooperativetta; Mazzini imborghesisce il movimento operaio; Mazzini
non capisce che la rivoluzione sociale, come tale, comprende e quindi
risolverà col problema sociale anche quello politico e non
viceversa, e che solo nella speranza della prima si moveranno gli
infimi strati sociali; Mazzini, infine, seguita a predicar la
rivoluzione, e sia pure una rivoluzione meramente politica, ma in
sostanza, come Bertoldo l'albero, non trova mai il momento opportuno
per scatenarla; per non mollare sulla questione monarchia o
repubblica, Mazzini perde insomma di vista faccende di assai maggior
rilievo.
Accuse velate e a mezza bocca, diserzioni alla chetichella
scoppiano in aperta rivolta nel 1871, quando tutta Italia è
corsa da un fremito rivoluzionario che è un riflesso, una
conseguenza e un contagio della Comune di Parigi: le masse operaie
s'affollano nelle neonate sezioni internazionaliste, i ceti
possidenti si buttano al conservatorismo reazionario, raddolcito da
prudenti proteste di pseudo-democraticismo, un gruppo d'intellettuali
e d'intellettualoidi inizia con entusiasmo la carriera degli
organizzatori; i mazziniani, disorientati, attraversano una penosa
crisi d'incertezze, che si traduce e si risolve in fierissima lotta
contro i socialisti non appena questi accennano a voler conquistare
le società operaie, tentando di travolgere la invidiabile
posizione fino allora goduta dai mazziniani, di quasi monopolisti del
movimento operaio italiano: repubblicani e socialisti sentono, primi
in Italia e per la prima volta, che la forza dei partiti da ora
innanzi sarà commisurata all'entità della loro
penetrazione nelle masse lavoratrici. Mazzini e Bakunin polemizzano
clamorosamente, mentre un'improvvisata stampa socialista copre tutta
l'Italia.
La rapida fortuna del socialismo è a tutte spese del
mazzinianismo: lo prova il fatto, documentabile, che quasi tutti i
capi del movimento socialista sono transfughi delle file
repubblicane; è tutta gente venuta su con Mazzini e che,
turbata per l'aspra condanna da Mazzini pronunciata contro la Comune
repubblicana, se prima sospettava, ora sostiene apertamente che
Mazzini, per incomprensione senile, tradisce il suo stesso programma,
che non ne intenda piú i logici necessari sviluppi. Mazzini
ribatte che repubblica non vuol dire comunismo; quei giovani (che
tali sono pressoché tutti) concludono che ormai per Mazzini
l'aspirazione repubblicana importa un semplice mutamento nella forma
del governo: il resto, immutato.
È proprio nel 1871, dunque, che si determina
l'incomprensione fra i due partiti; forse Mazzini avrebbe saputo in
progresso di tempo eliminarla e, calmati gli spiriti, passata la
raffica rivoluzionaria, trovare un punto d'accordo durevole; ma
purtroppo morí nel '72, in piena battaglia, e quel che è
ancora piú grave, senza poter lasciare il partito in mani
vigorose. Poiché credo si possa andare tutti d'accordo nel
negare ai Saffi, ai Campanella, ai Quadrio, ecc. (bravissime persone
del resto sotto molti altri punti di vista) un acuto temperamento
politico, una consapevole energia, la capacità insomma
d'intender nello spirito e non, come troppo spesso accadde, di
osservare bigottescamente l'insegnamento di Mazzini.
La frazione giovanile del partito repubblicano si gettò con
vera e propria voracità sugli ideali banditi
dall'Internazionale; con la voracità di chi da tempo ha sete,
insoddisfatta, d'ideali. Era un pezzo che il mazzinianismo non le
bastava piú. Nel 1871 la sua inadeguatezza alle aspirazioni
della gioventú intellettuale apparve evidente. Scriveva
Cafiero, l'ardente rivoluzionario pugliese, ad Engels:
Il povero vecchio (Mazzini) non vuole comprendere... che il suo
concetto di unità e libertà nazionale – grande al
suo tempo – impallidisce ora come la luce di una candela
innanzi alla luce del sole, venendo paragonato al sublimissimo
concetto dell'unità... di tutti i popoli nella nuova
organizzazione sociale, che avrà per base l'eguaglianza.
Sí, al programma mazziniano mancava ormai un mito, mancava
un orizzonte lontano e magari irraggiungibile cui tendere. Il mito di
Mazzini era stato l'unità d'Italia e Mazzini aveva avuto la
fortuna (o la sfortuna) di vederlo bruscamente realizzato, se pur non
secondo le sue aspirazioni, per un colpo di bacchetta magica. Dopo il
'60, nonostante il rinforzo dato alla parte di rivendicazioni
sociali, il suo programma era rimasto come svuotato: poco seguite e
poco comprese erano le sue aspirazioni religiose, che gli davano una
luce vivissima d'idealità e lo proiettavano in un lontano
futuro; poco chiara era la sua visione della trasformazione sociale,
a mezzo della riunione nelle stesse mani del capitale e del lavoro;
evidentemente utopistico, nella sua realtà immediata, il suo
vagheggiato collaborazionismo tra borghesi e operai. Ai giovani che
hanno bisogno di guardar lontano, parve che il mazzinianismo avesse
terminata la sua trentennale funzione di propulsore della vita
italiana e che si riducesse ormai, in sede politica, a un ripicco da
vecchio intransigente, ripicco al cui soddisfacimento non meritava
davvero si dedicassero fresche energie, ansiose di provarsi (tanto
piú dopo che si era dimostrato parto di mente settaria il
ripetutissimo ammonimento non potersi giungere né a Venezia né
a Roma con l'Italia monarchica e dopo l'infelice esito delle ultime
spedizioni militari repubblicane); e in sede sociale si riducesse a
un metodo di lenta e severa educazione di alcune élites
operaie, ossia a un loro progressivo imborghesirsi – metodo
comunque incapace d'affrontare in pieno e risolvere la questione
appassionante del conflitto di classe, appena disegnato in Italia,
già in atto da tempo in altri paesi d'Europa.
Fra il 1860 e il 1870, certo, Mazzini non si preoccupò
abbastanza del necessario reclutamento di forze giovani, ossia non
pensò alle esigenze comprensibili dei giovani; non li
appassionò alla repubblica, presentando loro un suggestivo e
compiuto programma di rinnovamento politico e sociale, non seppe
appassionarli al lavoro di organizzazione degli operai, ravvivando
quei congressi, quei giornali, quegli istituti che andava convocando
e creando. Gli mancarono i collaboratori, è vero, ma egli
stesso perse il senso per l'innanzi cosí vivo in lui,
dell'ambiente, perse in sensibilità; si ostinò sulla
questione religiosa, senza avvertire che su quella strada, in quegli
anni, nessuno lo avrebbe seguito e non capí quel che di buono
e di sfruttabile anche a fini idealistici era in quell'ondata di
materialismo che lo rendeva furioso e a volte ingiusto e che pur
rispondeva a sentite necessità della vita italiana e
precisamente a quella fase della sua evoluzione nella quale gli
italiani dovevano guardarsi intorno, studiarsi, conoscersi, acquistar
la positiva nozione del proprio stato, delle proprie possibilità
economiche, provvedere con sollecitudine agli immensi bisogni di una
moltitudine priva di tutto.
La sua ostinazione, la sua sicurezza, la sua mancanza di
elasticità – ben comprensibile del resto, posta la sua
avanzata età – lo compromisero irrimediabilmente agli
occhi dei giovani, non appena questi giunsero, faticosamente, a
liberarsi del tradizionale fascino che egli esercitava su di loro, lo
misero in urto, in seno al suo partito, con quelle forze a cui teneva
di piú e nelle quali per l'avvenire fidava di piú.
Scatenò la sua battaglia, nel 1871, sicuro di vincere; e
invece morí quando volgeva a male. Questa fu la sua tragedia.
In un prossimo articolo cercherò di lumeggiare altri
aspetti di questa crisi, proseguendo la succinta storia delle
relazioni fra repubblicani e socialisti, dalla morte di Mazzini fino
ai giorni nostri.
II.
Dopo il 10 marzo 1872 il dissidio fra internazionalisti e
repubblicani, vivacissimo di già, inferocí: polemiche
violente sui giornali, risse per le strade.
Ma non tardò molto a cambiar vento: appunto perché
cosí aspro e acuto, il dissidio non poteva prolungarsi troppo.
Una volta affermatisi nonostante i repubblicani, gli
internazionalisti si buttarono alla positiva propaganda
insurrezionale, agendo in piccoli gruppi di artigiani, operai e
piccoli borghesi, risoluti, piú per disperazione che per
convinzione, a passare ai fatti: era dunque naturale che la lotta con
i repubblicani passasse in seconda linea. (Dell'atteggiamento dei
socialisti evoluzionisti non è il caso di parlare: troppo
esigua era ancora la loro forza perché potesse pesare sulle
sorti della battaglia politica e sociale, e ben lo seppero Marx ed
Engels). Un altro incentivo alla pacificazione degli animi venne da
una nuova ondata di quel confusionismo, che Mazzini aveva tanto
virilmente combattuto e che costituiva invece la riconosciuta
specialità dei garibaldini, i quali si vantavano socialisti e
repubblicani, ma – Garibaldi in testa – da un lato
castravano placidamente il socialismo dei suoi «eccessi»
(ossia di quanto lo distingue da un radicalismo di maniera),
dall'altro dimostravano d'avere in uggia grandissima Mazzini e la sua
scuola. Garibaldi essendo dunque il duce della democrazia italiana
(tot capita tot sententiæ) volle tentare il pateracchio fra le
due ali estreme. E nel novembre del 1872, in un congresso torre di
Babele fece varare un mastodontico Patto di Roma, che avrebbe dovuto
essere il loro minimo denominatore comune. Questo Patto è
senza dubbio un documento di notevole interesse; programma d'azione
di quella democrazia repubblicana che trovava ridicolo ormai il voto
di castità politica degli intransigenti, ebbe un solo difetto:
che ai filo-socialisti parve troppo blando e reticente; ai mazziniani
– che si dilettavano a declinare candidamente passato presente
futuro del verbo insorgere – e agli antisocialisti arrabbiati
in genere, troppo acceso; ci si accennava nientedimeno che alla
repubblica sociale e al lavoro come unica sorgente della proprietà.
Il pateracchio andò a monte; e invece di confusionismo, portò
alla democrazia repubblicana: almeno per allora, distinzione netta.
Distinzione cioè fra quattro gruppi: 1) mazziniani puri
(giornalismo un po' educativo e un po' barricadiero; comizi e comizi;
sindacalismo operaio; antiparlamentarismo); 2) repubblicani
transigenti, alla Bertani (partecipazione alla lotta politica, rinvio
sine die dell'attuazione del programma integrale); 3) repubblicani
alla Alberto Mario (voto di castità, ma interessamento
vivissimo alla politica; ottimi giornali, e idee chiare in testa); 4)
repubblicani alla Garibaldi (filo-socialismo, confusione).
La storia delle relazioni fra socialisti e repubblicani negli
ultimi trent'anni del secolo XIX è la storia dell'alterno
prevalere, nella democrazia di sinistra, della prima, della seconda o
dell'ultima di queste frazioni. Parrebbe, a prima vista, che con
tutte i socialisti potessero accordarsi, meno che con quella dei
mazziniani, legata per l'eternità al verbo antisocialista del
Maestro. E invece fu proprio essa che – passata la bufera del
1871-72 e finché prevalsero fra i socialisti i rivoluzionari –
si dimostrò la piú sensibile alle loro seduzioni. Gli è
che i socialisti rivoluzionari erano in gran parte ex-mazziniani i
quali del mazzinianismo avevano ereditato la frenesia per la
cospirazione e per il «tentativo», nonché i metodi
di lotta; gli è anche che i mazziniani, pur condannando
fermissimamente le loro intemperanze teoriche, li consideravano come
preziosi alleati per quell'eventuale colpo di forza che avrebbero pur
tentato, un giorno o l'altro, al fine di rovesciare il regime
monarchico. I socialisti avrebbero dato una mano col disegno di
scatenare la rivoluzione sociale addirittura, ma si sarebbero poi
dovuti necessariamente arrestare alla prima tappa, e cioè alla
repubblica mazziniana, che almeno assicurava l'instaurazione di un
serio regime democratico. Di qui, fra diffidenza e sospetti, Villa
Ruffi (1874); e ci vuole una bella dose d'ingenuità per
credere che soltanto a un inqualificabile arbitrio fossero dovuti gli
arresti di repubblicani eminenti ivi eseguiti dal governo; per
credere insomma che in un momento nel quale i socialisti
rivoluzionari preparavano l'insurrezione armata, invocando anche
pubblicamente l'adesione o almeno la neutralità benevola di
tutti i democratici sinceri, i capi del movimento repubblicano si
sarebbero adunati segretamente in campagna per avvisare ai modi atti
a intensificare la lotta antisocialista! Bubbole.
Ma il mancato successo, con gli arresti e la sospensione della
libertà d'associazione che ne seguirono, rinnovò i
rancori: gl'internazionalisti non dimenticarono mai piú che i
deputati repubblicani alla Camera – Ferrari eccettuato –
nel gran chiasso d'interpellanze e discorsi, si limitarono a
scagionare il loro partito dall'accusa di cospirazione, buttando a
mare l'Internazionale; fra i repubblicani si fecero avanti –
colla voce grossa e con gravi «l'avevamo detto noi» –
gl'intransigenti antisocialisti, che ebbero, da allora in poi, almeno
fino al 1880, larghissimo seguito.
Quali in Parlamento, quali fuori (i comizi popolari per agitar nel
paese questioni di larga risonanza furono invenzione repubblicana
rivelatasi efficacissima e a torto abbandonata), i repubblicani in
questi anni furono attivissimi: si lottò per il suffragio
universale, per la laicizzazione dello Stato, per l'obbligatorietà
della scuola primaria, e via discorrendo. I mazziniani puri, alieni
dal parlamentarismo, partecipavano sí a questa lotta, ma
ribadendo periodicamente la pregiudiziale; non potendo altro,
sfogavano il loro rivoluzionarismo impotente in dimostrazioni di
piazza, coronate da discorsi sovversivi, con largo sfoggio di
bandiere vietate. Era questo il loro modo di tener viva la scintilla,
ma con tali sistemi si attirarono addosso il ridicolo, un ridicolo
che li circondò poi sempre, aureola di maniera; se ne
allontanavano gli uomini seri che ne avevano abbastanza di buffonate
e di alfierianismi, gli scontenti e i rivoluzionari per davvero che,
tanto, preferivano il positivo sovversivismo dei seguaci di Bakunin.
Un merito per altro va riconosciuto a questi mazziniani, e
grandissimo: che portarono tutti nella lotta politica una onestà,
una purità d'intenti e uno spirito di sacrificio personale,
che si può senz'altro dichiarare senza esempio in Italia. In
periodi di piú sozza corruzione politica, si poté e si
può rivolgersi alla loro scuola con un senso di vero sollievo.
Peccato che alle eccezionali doti di moralità i discepoli di
Mazzini non unissero doti altrettanto eccezionali di vivacità
e originalità intellettuale. Proverbiale ad esempio divenne la
indeterminatezza del loro programma massimo: ripetevano instancabili
le formule di Mazzini, ma chi avesse domandato loro particolari
precisi sull'ordinamento e il funzionamento della repubblica futura,
avrebbe dovuto contentarsi di frasi, di certe frasi per giunta che
parevano uscir tutte da un identico conio, tanto si trasmettevano
identiche e immutabili di bocca in bocca, di penna in penna, d'anno
in anno. Questa indeterminatezza favorí naturalmente le
diserzioni di destra e di sinistra; ché i mazziniani si
trovavano fra due calamite: l'una, quella parlamentaristica
(dell'inserirsi, cioè) attirava soprattutto gli anziani che, a
seguitar nell'intransigenza, vedevan tramontare qualsiasi possibilità
di carriera; l'altra, socialista rivoluzionaria, soprattutto i
giovani, piú spregiudicati, meno tradizionalisti, piú
bisognosi d'azione. Reazione e causa ad un tempo, di qui nacque e
prosperò la famosa e deprecata ortodossia mazziniana
(carattere sacro attribuito alle virgole nei testi del Maestro). Con
una falla a prua e una a poppa, i Saffi, i Quadrio e loro satelliti
si chiusero a chiave nel punto di mezzo della nave, tappandosi le
orecchie per non sentirsi chiamare da una parte o dall'altra (Dio sa
se ce ne volle, per esempio, perché ammettessero, con infiniti
ma e se, la partecipazione del partito alle urne!) Sapevano per
esperienza che, quando si stabilivano contatti fra repubblicani e
socialisti o fra repubblicani e gente di governo, chi ci perdeva era
sempre il loro partito: come matrimoni fra ebrei e cattolici, che i
figli, novantanove su cento, vengono su cattolici. Ciò
nonostante il mazzinianismo fu sempre roso – o ravvivato,
secondo i punti di vista – da un dissidentismo di destra e uno
di sinistra. Gli è che in certe regioni – prima l'Emilia
– si nasceva allora, di regola, repubblicani; si facevano le
prime armi in quel partito e poi, da entro il medesimo, si mostravano
le vere tendenze individuali. Chi, fra il '70 e il Novecento, non
esordí alla vita politica con una milizia piú o meno
breve tra le file repubblicane? (a guardarlo in prospettiva, il
movimento repubblicano di quegli anni assomiglia un poco a quelle
stazioni ferroviarie di smistamento nelle quali gli innumerevoli
viaggiatori si trattengono quel tanto che basta per prendere il
treno; e vi sono treni per tutte le direzioni).
Se sul terreno dell'azione internazionalisti e mazziniani avevano
considerato tuttavia di quando in quando la possibilità
d'accordi, sul terreno teorico il disaccordo era completo e
inesauribile; piú ancora su quello sindacale. I mazziniani
circondavano d'ogni cura le associazioni operaie aderenti al Patto di
fratellanza mantenendole sul terreno della cooperazione e della
mutualità; gl'internazionalisti facevano la concorrenza,
incoraggiando ovunque lo sciopero.
A leggere oggi i resoconti dei vari congressi che il Patto radunò
dal 1872 in poi, non si può a meno di ammirarne la saggezza,
la moderazione; qualche volta, la praticità. Senza dubbio vi
si tennero a balia gran parte di quegli istituti la cui propaganda e
imposizione rappresenta l'immensa benemerenza del movimento
socialista, e di quello solo. Perché mai nessuno ne va grato
agli organizzatori del Patto? La risposta – fatta la debita
parte alla consueta ignoranza delle cose di casa nostra – è
semplice: le deliberazioni dei congressi mazziniani eran bellissime,
ma non uscirono mai dai congressi, a confrontarsi con la realtà;
o se uscirono, se ne accompagnò la prova con uno spirito
eccessivamente timido e timoroso; né informarono mai di sé
– si eccettui la bellissima campagna cooperativistica –
una propaganda vivace e attraente. E fu cosí che il
mazzinianismo preparò, il socialismo si appropriò ed
attirò, ma imprimendo a tutto, anche a ciò che era
sembrato meno moderno, un suo potente spirito vitale, una sua
profondissima forza di rinnovamento, un suo eccezionale senso della
realtà.
Altro errore dei mazziniani fu, io penso, la condanna degli
scioperi (nel congresso del 1882 si decisero a considerarlo come una
non sempre evitabile iattura!); e gli scioperi son la chiave del
successo socialista. L'esservisi opposti, il non averne compresa
l'indispensabilità e l'altissima funzione, anche morale,
almeno nella prima fase dell'organizzazione operaia, condannò
il sindacalismo mazziniano a morir dissanguato, nonché ad
attirare su di sé la dolorosa ingratitudine della massa
lavoratrice.
Nel 1879 il partito repubblicano, la cui ala sinistra aveva
attraversato nei due anni precedenti e specie nel 1878 (attentato
contro Umberto) un periodo di relativa stasi e di impopolarità,
ebbe un impulso di vita piú fervida.
Gli giovavano la decadenza precipitosa dell'Internazionale
rivoluzionaria, il sempre piú diffuso malcontento del paese
(anche la sinistra, dopo tante promesse, ora che era al potere
seguitava a picchiar tasse su tasse) e anche una maggior vivacità
degli stessi dirigenti suoi, fra i quali si andavano rivelando
personalità notevoli, battagliere, dotate di fine senso
politico, venute su alla scuola di Mazzini e di Cattaneo, ma con
cultura e mentalità indipendenti (aprile 1879, fondazione a
Roma della Lega della democrazia). Un valido aiuto la causa
repubblicana ricevette anche dalla rinascita massonica (quanti erano
i repubblicani che non bazzicassero in Loggia? e dove, se non in
Massoneria, si troverà la spiegazione di certe
riconciliazioni, di una piú intensa propaganda, di una
maggiore organicità?) e dall'agitazione irredentistica,
patrocinata calorosamente, ma anche sfruttata a fini propri, dai
repubblicani; agitazione che il supplizio di Oberdan portò ad
un alto grado di passione.
Il partito operaio (fondato nel 1882) venne a dar nuovo indirizzo
e nuovo tono alle relazioni fra socialisti e repubblicani:
preoccupato di conquistar benefici economici e politici al
proletariato, con un programma pratico antidottrinario e
antirivoluzionario, il partito operaio – a parte il
riconoscimento dello sciopero – può sembrar figlio, se
si vuole illegittimo, della scuola repubblicana, e invece le si
contrapponeva nettissimamente per la dichiarata intransigenza di
fronte a tutti gli altri partiti sul terreno economico (sul politico
eran previsti accordi) e per l'esclusivismo antiborghese: si sa che i
mazziniani avevano tirato avanti le società operaie a forza di
soci onorari factotum: consiglieri, delegati ai congressi,
sovvenzionatori, ecc. Era un brusco colpo di timone; ed era, in
sostanza, il primo serio tentativo di concorrenza al sindacalismo
democratico in quanto che il partito operaio lottava sul suo terreno
legalitario. La guerra si dichiarò quasi subito contro Milano.
Le due organizzazioni si rubarono i soci, si oppugnarono nei
congressi regionali e nazionali, si contrastarono il terreno perfino
nelle elezioni politiche, tendendo i repubblicani ad allearsi con la
democrazia radicale, i dirigenti del partito operaio a lasciare
candidature indipendenti di lavoratori. Sono arcinote le accuse
furibonde scagliate dai demo-repubblicani lombardi ai loro oppositori
di aver applicato il tradizionale «non olet» alle
interessate lusinghe dei gruppi di governo, pronti a gonfiare la
nuova frazione pur di indebolire la temibile coalizione di sinistra:
primo accenno a una politica antidemocratica di parte socialista,
primo scontro di una lunghissima battaglia antisocialista condotta
dai repubblicani in anni piú vicini ai nostri.
Non mancarono anche, tra i repubblicani e quelli del Partito
operaio, provvisori accordi. Ma la nuova tendenza sindacale che
questi ultimi rappresentavano, modificatasi sotto l'influsso dei
socialisti intellettuali imbevuti di Marx, i quali, attraverso il
partito operaio operarono la loro conversione tattica verso il
proletariato militante, era destinata a portare un fierissimo colpo
al movimento repubblicano, conducendo a morte il vecchio Patto di
fratellanza che ne costituiva la base granitica; condannandolo cioè,
per molti anni, a essere un partito essenzialmente se non unicamente
politico, disinteressato o ridotto a vivere in margine alla
rigogliosa attività sociale che da allora in poi caratterizzò
la vita italiana. Di fronte al rigoglio d'idee nuove, di metodi
nuovi, di forze nuove, il vecchio Patto, capitanato dagli stessi
uomini del 1871, ma inquinato da elementi sospetti vagheggianti un
accordo tra il mazzinianismo e il collettivismo socialista, non seppe
resistere; posto di fronte alla necessità di adeguarsi alle
mutate esigenze dell'ambiente operaio, non fu elastico, non fu
politico; si contrasse, s'irrigidí e fu travolto. Che i
mazziniani vedessero con orrore il collettivismo acquistar diritto di
cittadinanza nel Patto creato da Mazzini, è comprensibile; ma
non è piú comprensibile ancora che i giovani, gli
uomini nuovi provassero un irresistibile desiderio di sbarazzarsi di
certi Catoni oltrepassati che – come il Minuti, ad esempio –
erano ancora nel '90 o giú di lí contrari
all'agitazione per le otto ore?
Con la morte del Patto sparivano dall'orizzonte operaio alcuni
postulati, sui quali, come sul nucleo della dottrina sociale
mazziniana, i suoi dirigenti avevano costantemente battuto; e ai
quali dopo tanti anni di lotta e di esperienze gli operai italiani –
cadute le attuali elefantesche soprastrutture bestemmiatrici dello
spirito medesimo di un sano associazionismo – dovranno pur
tornare: non voglio citare che l'indispensabile conciliazione fra
emancipazione del lavoro e senso nazionale; e l'importanza
straordinaria del fatto politico.
Nel 1895 nacque il partito repubblicano italiano; ma di ciò
e delle successive relazioni fra socialisti e repubblicani, altra
volta.
Mi preme per ora concludere rilevando la sempre piú netta
distinzione che, dopo il 1890, va operandosi tra repubblicani alla
vecchia e repubblicani moderni: Bovio, Colajanni, Ghisleri, Imbriani,
Papa, per non citare che i piú eminenti, ricchi d'idee e di
attività, stretti intorno a giornali che ancor oggi si
rileggono imparandovi, hanno infatti ben poco a che fare, per
esempio, col d'altronde rispettabilissimo gruppo che si riunisce
intorno alla Fratellanza artigiana di Firenze. «Cuore e
Critica», «L'Italia del Popolo», rappresentano
degnamente la generazione repubblicana che seppe fondere e integrare
le idealità mazziniane col positivismo di Cattaneo; e cioè
con una vigile coscienza dei sempre nuovi complessi problemi della
vita nazionale.
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