II. Giuseppe
Montanelli
1. Frammento della
incompiuta vita di Giuseppe Montanelli
La giovinezza.
Fucecchio è un antico borgo che, armoniosamente,
toscanamente disposto sulle pendici di una collinetta, domina la
vallata dell'Arno fra Empoli e Pontedera. La piana, ai suoi piedi, è
maravigliosamente bella e feconda. In lontananza, a ponente, sfumano
i monti di Pisa, e a mezzogiorno le stanno di fronte le torri di San
Miniato, col lunghissimo corteggio di case allineate in doppia fila
sul crinale di un poggio. Dalla parte opposta, sono le giogaie
dell'Appennino, macchiate di castagneti, piú sotto il famoso
padule, oggi in gran parte prosciugato. Borgo antico, Fucecchio come
attestano i mozziconi di mura e le due torri rossastre, coronate di
verde che la sovrastano; come attestano certi suoi palazzotti, e le
viuzze sinuose e scoscese. La gente è industriosa, fiera,
risentita; cattolica, ma libera; povera, ma con altissimo senso di
sé. Dopo le chiese, piú numerosi vi sono le osterie e i
caffè: luoghi di ritrovo e questi e quelle, ché i
fucecchiesi amano di radunarsi a crocchio, per parteggiare e
motteggiare e accapigliarsi, o anche per implorare il Signore e
festeggiare, chiassosamente, il carnevale o il santo patrono.
In questo luogo, vero nodo strategico tra Firenze, Siena, Pisa,
Lucca e Pistoia, e dominante le tre vallate dell'Arno, della Pesa,
della Nievole; a due passi da Vinci e a mezz'ora di vettura dalla
Certaldo di Giovanni Boccaccio, in questo luogo, il 21 gennaio del
1813, nasceva Giuseppe Montanelli. La casa dei suoi, piú che
decente, sorgeva proprio nel centro, schiacciata in mezzo ad altre
case bige, un po' cupa, senza sfondo di giardini o di larghi,
tipicamente provinciale nel suo decoroso prospetto a pietrami, con un
gran tetto spiovente. Il padre, Alessandro, era un piccolo possidente
di terra e di case, ma soprattutto maestro dilettante di violino,
organista e compositore d'occasione, personaggio importante in un
paese in cui la passione musicale è sentitissima in tutti, e
in una regione in cui l'orgoglio di possedere una banda, e di
misurarla in periodiche sfide con l'altre del circondario, apporta
tradizionalmente magri bilanci municipali. Luisa Pratesi, la madre,
proveniva da una famiglia di grossi negozianti livornesi: avvenente
della persona, d'animo e di temperamento dolcissimi, e d'intelligenza
particolarmente vivace. La imaginiamo di fattezze un po' esili, di
poca salute, e forse un po' spaesata in quel borgo di gente grossa e
rumorosa, in cui le parentele erano e sono vastissime, e anzi metà
della popolazione portava quello stesso casato dei Montanelli.
Giuseppe, toscanamente Beppe, fu il primogenito: seguirono due
femmine, Teresa e Gegia. Prima infanzia senza storia nella bambagia
della casa paterna, mentre la patria vedeva senza rimpianti e senza
entusiasmi crollare la prestigiosa impalcatura francese e rientrare a
palazzo Pitti, dalle brume del Nord, il bonario granduca, in tiro a
quattro. Girate pei colli, a diporto o per visitare i poderi, e
lunghe soste in chiesa, col padre rapito all'organo o con la madre in
preghiere. Le due grandi passioni della sua vita, l'aperta campagna e
la musica, mentre il problema religioso fu sempre il suo piú
profondo e costante tormento: che eran poi tre modi diversi di
avvicinarsi a quel Dio che gli riempiva l'anima del suo mistero,
quando anche, fatto grande, volle provarsi a negarlo: certo, vie
migliori e piú attraenti che non gli sapesse additare,
dall'alto della sua professionale imperturbabilità, lo zio
prete, fratello del padre, che viveva in famiglia, all'ombra della
Collegiata, un po' pedagogo e un po' persecutore dei tre nipotini.
Con l'alfabeto, Beppe impara le note: sillabario e gorgheggio son
la sua dose di tutti i giorni. Ha una bella vocina perfettamente
intonata, che il babbo e un altro musicista del luogo – il
maestro titolare della banda – badano a educargli: a otto o
nove anni già trilla, in chiesa, negli assolo, tanto che i
paesi vicini se lo disputano per cantare nelle grandi solennità
religiose. Spesso, quando è in campagna, improvvisa secondo il
suo estro, o anche seduto al piano: e il padre sogna di mandarlo, un
giorno, a studiare nel celebre conservatorio di Napoli, che ha dato
al mondo il prodigio di un Bellini.
Lo zio prete, che ha fama di erudito e di poeta sacro, e che
comunque passa alcune ore del giorno rintanato fra i molti suoi
libri, è il suo primo maestro; o almeno è lui che,
oltre ad infliggergli i rudimenti del latino, lo inizia ai misteri
della versificazione.
Nove anni, bella vita: e se una precoce e malinconica maturità
vela talvolta il suo sguardo, se la fragilità della sua
complessione fa sí che in famiglia si trepidi sempre un poco
per lui, non per questo gli sono ignote le bande dei monelli, e il
libero errare in quella liberissima terra, e le spedizioni nei paesi
vicini, Castelfranco di Sotto, San Pierino, sulla grande strada
pisana, Lamporecchio, patria dei brigidini. Ma il culto per la mamma
– un culto spinto fin quasi alla morbosità –
sovrasta in lui ogni altro sentimento.
Cerca le carezze di lei con un abbandono e uno slancio che i piú
dei coetanei considerano indegno, ormai, della loro adolescenza
incipiente; e in lei si rifugia freneticamente, quasi presago di un
prossimo abbandono.
La bella vita, infatti, è al suo termine. Un altro zio
prete, che in Pisa è salito in grado eminente – rettore
del collegio di Santa Caterina – insiste perché il
fanciullo gli venga affidato: il collegio è il migliore di
Pisa, se Beppe ha ingegno là si farà le ali. Beppe
inizia il suo volo col cuore grosso; mai ragazzo di provincia soffrí
tanto allo stacco. Pisa è una risplendente meteora e vi ha
sede la famosissima università, che sforna medici e avvocati e
impiegati di governo; ma non è senza sgomento che da Fucecchio
ci si avventura in quel mare, e il collegio può sembrare una
prigione a chi è avvezzo a tanta aria, a tanto moto, a tanto
verde.
Addio Fucecchio, addio marmaglia giocosa, addio babbo e mamma e
sorelle: dalla diligenza che vola via tra suon di bubbole e schiocchi
di frusta, il «signorino» avviato alla tonaca o alla
toga, converte in lacrime l'invidia dei compagni, mentre gli sfilan
davanti le care cose di tutti i giorni.
Lo zio rettore lo accoglie bene in collegio, ma da uomo positivo
comincia subito a levargli i grilli dal capo: latino e grammatica han
da essere, e il pianoforte vien severamente proibito: la musica non è
che uno spasso lecito a tempo perduto.
Imprigionato in quelle alte mura, tra gente sconosciuta, privato
di quella divina armonia che gli parla la lingua della sua casa e dei
suoi colli nativi, Beppe si consuma in tristezza. Passano lunghi mesi
invernali, grigi come l'anima sua, cui già nella vita non par
di scorgere che dolore e rinunzia. Gli studi procedono cosí
fiacchi e mediocri che lo zio rettore risolve di rimandarlo a casa
per qualche mese, a ritemprarsi. E finalmente Beppe ritorna a Pisa
col sospirato permesso del pianoforte, la prima battaglia vinta: ché
se non si giunge a concedergli un maestro di musica, come vorrebbe,
pure si industria a esercitarsi da sé e del resto è già
in grado, fra i tasti e la voce, di saziare quel bisogno di pura
bellezza che lo tormenta e lo esalta. Si procura musica nuova, altra
ne compone da sé, e cosí rasserenato attende agli
studi, di latino, di greco, di filosofia, che segue senza sforzo e
non senza successo, ma con la marcata indifferenza di chi ha il capo
ad altre cose.
Collegio di preti, quello di Santa
Caterina96: preti insegnanti, preti prefetti, e
obbligatorietà di un culto che è troppo esterno ed
imposto perché possa conquidere i ragazzi.
D'altronde la continua convivenza con quegli ecclesiastici non
giova a persuadere i convittori del carattere sacro della loro
missione. Uno scetticismo, ora allegro e ora musone, che in
particolare si manifesta in una tenace repugnanza alla confessione
(intesa piú come sistema disciplinare che non come atto
puramente religioso) e alle estenuanti pratiche di devozione si
impadronisce di Beppe, come, del resto, dei piú fra i suoi
compagni. La religione ufficiale soffoca e svia, come accade, la
religiosità naturale, che quanto a lui, tuttavia, trova il suo
sfogo o piuttosto la sua perfetta espressione nel linguaggio
musicale, rifugio frequente di tanti mancati credenti.
Nel 1826, quando Beppe lascia finalmente il collegio per fare il
suo ingresso all'università (a tredici anni giusti, età
non infrequente allora per l'inizio degli studi superiori: quali
studi e quanto «superiori» è facile imaginare!),
quando, esordendo alla libera vita, piú gli occorrerebbe la
remora di un culto e di una fede, egli è adunque peggio che un
ribelle, uno scettico, cui la frettolosa imbottitura erudita e, piú,
l'età immatura non hanno ancora consentito di cercare altrove,
in sede filosofica, una nuova certezza interiore. Cosí
disarmato, e senza transizione, egli entra nella vita libera e
indipendente della università.
È uno sbandato. I suoi, cedendo
ai consigli dei due zii canonici, vogliono che studi legge; lui
preferisce la medicina, ma intanto non pensa che a godere della
sospirata libertà: e sono amicizie sperticate con altri
studenti, entusiasmanti scorpacciate di musica97 (l'organo
della chiesa del Carmine è il suo preferito; a un certo punto,
anzi, si offre e viene accettato come organista fisso, seppure
dilettante), frequenza saltuaria alle lezioni della Sapienza,
di medicina e di legge. Dal collegio di Santa Caterina lo zio
reverendo veglia come può, cioè poco e male,
soprattutto mercé periodici rabbuffi, sullo scapestrato
matricolino. Il quale, per quanto tenuto a stecchetto da casa,
assapora con delizia la vita studentesca, con quel che essa comporta
– e piú comportava allora, in una città come Pisa
– di scioperato, di senza pensieri, di baldanzoso fino a
credersi, i sapientoni, i padroni del mondo, in genere, e in
ispecie della città e delle sue bellezze, non solamente quelle
di marmo. La precocità di Beppe nella musica e nella poesia
(con quanta facilità non gli vien fatto di sciorinare versi, o
sia per solennizzare, su commissione, una ricorrenza sacra, o sia per
altri piú futili motivi!) lo rendono uno dei compagni piú
ricercati. Ma gli slanci romantici, e i romantici pudori, che se non
fossero in lui connaturali, basterebbero a instillargli le gran
letture che fa e il malioso mito romantico che tuttora perdura a Pisa
di uno Shelley e di un Byron, stati a lungo a poetare su quei
Lungarni e a riempir di stupore e di fragore e di scandali le quiete
vie della città, fan sí che Beppe s'accosti e
s'accomuni piú volentieri con quelli tra i condiscepoli cui la
gaia vita della Sapienza è, come per lui, non altro che un
mezzo per meglio vibrare e conoscere e amare, e non già mero
sbrigliamento dei sensi e occasione per quotidiane bisbocce.
Che gl'ispirava la musa? Fin dal 1827
– non aveva che quattordici anni – tre delle sue poesie
molto immeritatamente salivano agli onori della pubblica stampa: Per
S. Omobono; Conversione di S. Ranieri; L'Annunciazione
di Maria Vergine. Sapevano, a dir il vero, un po' troppo di
sacrestia, e per fortuna altre corde sostituirono presto, sulla sua
lira, quella chiesastica:
Qual
son di gioia e chi soverchia il giorno
con tanti rai? Voi
siete angeli ardenti?
siete
voi sí che con festosi accenti
all'augusto Omobon volate intorno.
Quell'«augusto Omobon» e quegli «angeli ardenti»
erano una peregrina trovata che meglio sarebbe stato confidare alla
discrezione, non dirò del cassetto, ma d'un cestino,
ingiustamente privato, anzitempo, delle sue spettanze...
Peggio trattato quel povero san Ranieri, che, messo in guardia dal
poeta, per la sua vita indegna:
...
comprendi appieno
qual densa nebbia intorno ti circonda!
cosí, nel sonetto, improvvisamente si decideva a mutare
strada:
Sí,
disse Alberto. Allo splendor del giorno
schiuse,
riscosso dal letargo, il ciglio
e fe' Ranieri al sommo Iddio ritorno.
Dove il lettore può consolarsi pensando che l'autore di
quei rimati misfatti li aveva perpetuati per mera esercitazione, non
sentendo affatto il suo tema; e insieme costernare nel constatare che
si trovassero allora delle pie persone disposte a prestarsi alla
stampa di quelle sacre mostruosità, e, peggio ancora, a
leggerle!
Con l'Annunciazione siamo,
fortunatamente, in un'altra sfera, se non proprio nel cielo
dell'arte, lasciamo andare, ma certo meno remoti:
Stupí,
tremò la Verginella Ebrea
all'apparir
del messagger celeste
che
librato sull'ali e preste
d'inusato
chiaror raggi spandea
E poi:
Disse
e cosí come penetra il sole
entro
l'onda, nel sen di lei s'ascose
dell'eterno
Signor l'augusta prole.
Riser
le sfere e la sembianza amara
la
squallida Natura allor depose...
tanto bella umiltade al Ciel fu cara.
Sí, noi avremmo preferito qualunque altro verbo, in questa
occasione, a quello «spandere» prescelto dal poeta, e la
«sembianza amara» ci fa pensare piuttosto a qualche
ingrata droga che non all'inverno o al maltempo; ma chi vorrà
negare che per quattordici anni, via, non c'era male? La donna, anche
se col D maiuscolo, sapeva suggerire al poeta imagini piú
felici, e un versificare piú spontaneo e semplice che non gli
esempi dell'astratta virtú o le gloriose vicende dei santi
virili. Giacché la donna gli era nel cuore e nella fantasia di
ragazzo sognatore e romantico, mentre la storia sacra, come tale, non
gli diceva assolutamente piú nulla.
Non stampati, se Dio vuole, ma tra le
poesie di quel tempo, troviamo altri sonetti del Montanelli. Un
Temistocle al soglio di Serse, che, accusando di lontano un
miglio la bravura di un primo della classe, non saprebbe che
infastidire quando il primo endecasillabo, col richiamarci alla
memoria l'offenbachiana Belle Hélène, non ci
mettesse, piuttosto, di buon umore:
Quel Temistocle io son che un dí sostegno...
Il giovane arcade era, s'intende, un pacifista convinto: grave
sventura della causa antibellica quella di non riuscire a ispirare di
sé che trilustri!
Chi
fu, chi fu colui che armò primiero
l'omero e il
fianco di faretra e d'arco?
Quanto
spietato ei fu, qual grave incarco
sovrappose di mali all'orbe intero!
Senonché a qualche maggior indulgenza vuole indurci il
sospetto che di questi e altrettali sonettucci Beppe imbrattasse le
carte ancor prima del 1827. Si veda, ad esempio, quello consacrato
alla morte del Canova (e il Canova, si sa, morí nel 1822) dove
non sapresti se piú ammirare le «onorate porte»
dell'artista o il suo «mesto in letto» giacere o il
librare «le penne» dell'inesorabile giustiziera.
Indimenticabile la chiusa:
Pianse
allor la Scultura e ebra di sdegno
gridar
parve alla morte: – Ahi qual splendore
involasti, o crudele, al mio bel regno!
Ma se l'autore lo scrisse a nove anni, chi non vorrà
perdonargli?
Lo lasceremmo comunque senza rimpianti alle sue fatiche poetiche,
augurandogli una benefica maturazione, se non ci piacesse di
cogliere, prima, un altro aspetto della sua lira, quello scherzoso:
per allora senza dubbio il migliore. Due esempi soltanto.
S'approssimano le solennità natalizie, e il giovanissimo
studente è squattrinato: perciò si rivolge allo zio
canonico:
Prossimo è il giorno in
cui per nostro amore
volle
farsi bambino il sommo Iddio;
ve
lo rammento, o mio signore Zio.
E
perché mai? già vel predice il cuore
.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Voi
siete perspicace e m'intendete,
sicché
mi taccio e dal Ciel prego a voi
cento
anni e piú di vita, e se volete
sempre
buono appetito, e corpo sano
e
quanto puossi piú bramar; di poi
verrò a baciarvi, o caro zio, la mano.
La vigilia di Pasqua siamo alle solite:
Pensai
che i miei compagni in allegria
celebreran
di Pasqua or or la festa,
lieti
mangiando alla presenza mia.
Ed
io dovrò (che acerba pena è questa)
leccarmi
intanto i baffi ed andar via
.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il
giorno avanti Pasqua ormai s'abbuia,
sicché
voglio spiegarvi i desir miei,
ma,
o caro Zio, questa rimaccia in ria
non
mel permette dir... Cantar vorrei
al suon delle monete l'Alleluja.
Ché se lo zio canonico era un tipo da allentare i cordoni
della borsa a una richiesta cosí... disinvolta, buon pel
Montanelli; ma allora dovremmo inferirne che il bigottismo imperante
nel collegio di Santa Caterina fosse temperato alquanto dalla
bonarietà del suo rettore! Ed ora voltiamo pagina.
Chi furono, tra il '27 e il '30, gli
amici del Montanelli? Ne conosciamo alcuni. Si chiamavano Giuseppe
Giusti98, Vincenzo Malenchini, Giovanni Fabrizi99,
Leopoldo Galeotti, Tommaso Corsi, tutta gente della quale, detto il
nome, s'è detto tutto al lettore. Ma poi anche fra i meno noti
all'università e tuttavia tutt'altro che ignoti ai conoscitori
della storia italiana, civile e politica, dell'Ottocento, un Giuseppe
Barellai, un Leopoldo Pini, un Adriano Mari100, un Adriano
Biscardi, un Luigi Tonti, un Dell'Hoste: tutti studenti di legge,
meno il Barellai; tutti coetanei del Montanelli, meno il Giusti e il
Biscardi, di quattr'anni maggiori, e il Corsi e il Fabrizi piú
giovani d'un anno101. Bella infornata, via, per l'università
di Pisa, nel 1826, due anni dopo la laurea di Francesco Domenico
Guerrazzi! Dal piú al meno quegli studenti in erba vi
portavano tutti una gran voglia di studiare... la vita, e poco le
pandette; un entusiasmo per la poesia e in genere per le letture
«geniali», che le panche della Sapienza, se mai le
avessero assiduamente scaldate, avrebbero certo trattenuto e sviato
e, forse, spento del tutto. Legga chi vuole lo scintillante esordio
del Giusti studente regalatoci da Ferdinando Martini, dove per
vero piú si parla delle bizzarrie d'altri scolari (uno dei
quali battezzato con l'eloquente soprannome di Stravizio) e anche di
professori, che non dei primi studi del poeta valdinievolino. Se il
Giusti, da Pisa, faceva disperare quel povero cavalier Domenico, che
in Pescia predicava bene ma, come si sa, razzolava malissimo, gli
altri gli tenevan bordone; e per esempio Leonetto Cipriani, che del
Montanelli era stato compagno, se non amico, negli anni claustrali di
Santa Caterina, seppe accozzarne tante che non solamente il collegio
gli toccò lasciare, ma bensí anche Pisa e ben presto
l'Italia...102.
Il Malenchini non era neppure lui quel che si dice uno stinco di
santo, nei suoi giovani anni, né il Biscardi, né il
Fabrizi. Luigi Tonti, pistoiese, poetava e sognava cosí
romanticamente col suo fraterno amico Montanelli, e tanta luna,
pallida naturalmente, era nei suoi versi, che questi, al confronto,
avrebbe potuto dirsi inclinato addirittura all'epica!
Cosí le matricole; cosí,
se non peggio, gli anziani: tra i quali non possono dimenticarsi
Michele Carducci, babbo di Giosuè, ed un Giovanni Frassi, e
Giuseppe Mazzoni di Prato: ai quali vorrei aggiungere Francesco
Forti, il grandissimo giurista, di soli sette anni maggiore al
Montanelli, e come lui allievo del Carmignani103, e il
Guadagnoli, che per quanto assai piú vecchio di costoro, già
laureato da alcuni anni, seguitava a vivere e a folleggiare a Pisa,
in compagnia degli studenti, eterno studente lui pure, nei modi di
vita e in quel suo prender cosí sul serio le filastrocche che
scompisciava con troppo piú brio che arte. Un altro, che
studente non era piú da molto tempo, ma che a Pisa capitava di
tanto in tanto, e che – soprattutto – il Montanelli
incontrava durante le vacanze a Fucecchio, era Silvestro Centofanti:
un uomo di gran sapere, certo, e di grandissimo entusiasmo per gli
studi, cui però la soverchia opinione di sé e il facile
eclettismo tolsero di segnare in un campo o nell'altro quel profondo
solco fecondatore che non ha proprio nulla a che vedere coi
successoni mondani, libreschi o cattedratici. Montanelli, studente
svogliato di legge, ma lettore appassionato e assetato di coltura
extra accademica, gli si attaccò, a Fucecchio, con quello
smisurato slancio che era una delle piú belle e anche delle
piú pericolose caratteristiche del suo temperamento. Scorgeva
in lui il rinnovatore della filosofia italiana, il genio vivificatore
che dominava le scienze le piú disparate e ne illuminava i
nessi e i rapporti reciproci, la mente somma che con la ragione aveva
superato, non bestemmiato, la fede104. Gli si metteva alle
costole per intere giornate – sdegnando gli ammonimenti degli
zii canonici che lo avevano in sospetto di ateismo – e, alla
lettera, pendeva dalle sue labbra. Correvano quasi vent'anni fra
loro; pure il Centofanti non sgradiva affatto la compagnia del
ragazzo, che capiva a volo anche le astruserie e che, d'ingegno
precoce, ma duttile e influenzabile quanto si può esserlo a
quell'età, prometteva di diventare piú ancora che un
valido araldo dei suoi sistemi filosofici, addirittura come figlio
suo spirituale, un'opera sua, e magari un capo d'opera. Centofanti
parlava tutto il tempo, e di tutto: a un tratto, passeggiando, si
arrestava di colpo, e imponendo silenzio al discepolo: – Zitto
– gli diceva – mi passa un pensiero filosofico...
sorprendo la natura nell'atto... un giorno sentirai il mio nome
ripeterlo da tutti gli echi del mondo... Io sono il Napoleone del
pensiero –. Bum! Senonché l'implume Montanelli,
sprovvisto ancora del vivo senso dello humour, invece di sbottare in
una risata omerica, compreso di ammirazione obbediva, pago, e anzi
orgoglioso di assistere in tutta umiltà alla misteriosa genesi
dell'Idea. E non pure ascoltava reverente e commosso, ma si prestava
in mille modi a facilitare il geniale lavoro del suo «maestro»:
procurandogli libri, copiandogli manoscritti ed anche scrivendo
dietro dettatura105.
L'esempio del Centofanti, le immense soddisfazioni interiori che
costui ricavava o pareva ricavare dalla sua applicazione, e che si
traducevano in quella tranquilla, incrollabile sicurezza della sua
superiorità, persuasero il Montanelli a gettarsi a capofitto,
sotto la guida di lui, negli studi di filosofia. Legge? Medicina?
Musica? Poesia? Bazzeccole, minuscole sfaccettature d'un prisma che
solo la filosofia poteva abbracciare nel suo insieme, come altresí
scomporre e ricomporre. La religione? Un'impostura per i poveri di
spirito: o una giustificazione per i pigri di mente. Cosí, fra
i tredici e i sedici anni, piú che alla Sapienza di Pisa il
Montanelli fu a scuola da quella, non meno enciclopedica, gli pareva,
e senza dubbio piú unitaria, del Centofanti.
Principiò col D'Alembert, introduzione, appunto, alla
Enciclopedia, e poi giú a tutto spiano, illuministi e
sensisti, Volney e d'Holbach, il nuovo verbo. Destino consueto degli
ex seminaristi e dei nipoti di canonici.
Non ci voleva un gran che a levare dalla testa una religione che
non era nel cuore e che quantunque si chiamasse cristiana, aveva a
che fare col cristianesimo precisamente quanto il paganesimo
cosí il Montanelli nelle Memorie, rievocando la sua
adolescenza;
religione
tutta di pratiche esterne, di genuflessioni alle immagini, di
scappellature ai preti, di rosari, di messe, di vespri, di viacrucis,
religione che identificava con tutti i ricordi di tedio e
d'oppressione domestica, subita da noi fanciulli in quel barbaro
sistema d'educazione pretesca vigente nei nostri collegi e nelle
famiglie dette religiose. Una ruttata di Holbach e di Volney bastava
a persuaderci che, per essere uomini davvero, non dovevamo credere né
a Dio, né all'anima, né a Cristo, né al diavolo,
ma solamente alla ragione e alla natura106.
L'importante si fu che il Montanelli non studiava per far pompa,
all'«Ussero» o sui Lungarni, della scienza cosí
trangugiata, ma proprio per verace amore dello studio. Anzi, al caffè
degli studenti capitava ben poco, ormai, e come sopra pensiero; e
all'università ci andava per dovere d'ufficio, con la benigna
sopportazione di chi, avvezzo a volare per l'aria, sia costretto di
tanto in tanto a prender terra e ad accomunarsi col vile pedone.
Prendeva delle solenni indigestioni di libri, sepolto giorno e notte
a tavolino fra pile di volumi e catafalchi di appunti. L'Alfieri
rinsavito s'era fatto legare alla seggiola; lui, malato di troppa
saviezza, si legava alla vita un cordone con una campanella, perché,
caso mai si fosse addormentato, il movimento solo del chinare il
busto sul tavolo valesse a destarlo. La filosofia lo rimandava alle
scienze particolari, a tutte le scienze107; perciò si
muniva di trattati elementari di ogni disciplina, e ingurgitava anche
quelli con la furia frenetica di chi dovesse a tutti i costi giungere
a un momento determinato a un determinato traguardo, e magari
s'aspettasse un premio supplementare per ogni secondo d'anticipo.
Invece del Centofanti, che per lettera
o a voce lo spronava a seguitare per quella strada, col rischio e
anzi con la preventiva certezza che gli accadesse quel che accade a
noi del XX secolo che per piú vedere viaggiamo a cento
chilometri all'ora, salvo a dover rifare a piedi, more
antiquissimo, quel tanto di paese che veramente vogliam
conoscere, invece del Centofanti, gli ci sarebbe voluto, io penso, un
buon amico sensato che avesse saputo levargli di sotto quel troppo di
libri e condurlo seco a zonzo per la città, e la campagna, e
magari un Giuseppe Giusti innamorato e fannullone, che gli avesse
procurato l'occasione di una prima cotta a dovere, tanto
meglio se per qualche donnetta di quelle che a Pisa, allora, si
specializzavano in studenti a spasso. Non si accorgeva che
quell'imparaticcio affannato gli logorava i nervi e gli occhi e gli
affinava il già esile petto?
La sapienza è un po' come il vino, che a mezzi litri e
litri interi puoi anche, se lo stomaco è all'ordine,
pasteggiar tutti i giorni, e anzi ti fa pro', ma lo stravizio prima
ti dà alle gambe, poi alla testa, e finalmente, se séguiti,
ti ringrullisce davvero e per sempre.
Il Montanelli lo salvò una malattia, che sarà stata,
come si dice oggi, un bell'esaurimento nervoso: ma allora chissà
come l'avranno chiamata; certo stette male, e dovette curarsi a
lungo, e a lungo riposarsi. Morale: si persuase che «est modus
in rebus», e che, se proprio a lui non poteva parere che fosse
meglio un asino vivo che un dottore morto, per morire dottore era pur
d'uopo, intanto, vivere per addottorarsi. Natura gli aveva dato, s'è
detto, poco giro di petto, e un corpo secco e allungato, coi nervi a
fior di pelle e due occhi malinconicamente cerchiati e profondi, di
quelli che fan pensare al mal sottile in agguato. Una gran fronte li
sormontava, continuata, in alto, dalle stempiature precoci: dissero
poi che assomigliava al Mazzini (e piú gli somigliò
quando, come lui, si lasciò crescere una barbetta stenta e i
due baffi a ricasco), e, a giudicar dai ritratti, bisogna riconoscer
che è vero: né tanto in questo o quel particolare della
figura quanto nel suo complesso e negli atteggiamenti e nel rapporto
tra le membra e in quel caratteristico contrasto tra la fragilità
dell'aspetto e l'impressione di solidissima forza interiore che ne
promana irresistibilmente.
Riprese a studiare, ma con piú metodo e calma; non sembra,
ma a riempir la cisterna fa piú una pioggia continuata e calma
che non un grande scroscio calamitoso, il quale, anche se il cielo
incomba gonfio e nero, già si sa che dura poco, senza contare
che per la troppa sua forza rischia d'ingorgare i condotti e cosí
sperder l'acqua all'intorno, inutilizzata e inutilizzabile. Ancora i
suoi filosofi, sí, ma forse con minor presunzione di scoprire
in loro la chiave buona per tutte le toppe, forse con piú
gusto per i problemi che non per la loro soluzione, con piú
intelligenza insomma. E non piú il Centofanti unico nume,
seppur tuttavia al posto d'onore nel Pantheon, ma in associazione e
in contrasto con altri: giacché era legge del Montanelli
studente, come del resto dei piú fra i suoi colleghi d'allora,
di prima e di poi, di concepire e di imparare ad amare la scienza in
funzione e quasi per tramite di un particolare scienziato, e di aver
sempre, per cosí dire, un santo di settimana. Che è
poi, anche quello, un modo di espandere il prepotente bisogno d'amare
e di credere che tutti i giovani incalza, e chi non abbia una fede o
una donna, crederà nel maestro e amerà lui, e
disgraziato quello che, fra i quattordici e i diciotto, non abbia
adorato un sistema o un'idea o un ideale di vita personificandoli di
volta in volta in uomini vivi assunti a specchio di perfezione.
Aveva ormai sedici anni il Montanelli
quando al Centofanti scriveva, il 15 di giugno del '29, invocandolo a
Fucecchio: «... Ella solo può mettermi nella buona
strada per giungere al tempio vero della sapienza». Sí,
ma nel contempo dandogli conto, oltre che delle letture in corso
(ideologia del Traus) del buon proseguimento dei suoi studi legali,
lo informava di vittoriosi esami sostenuti alla Sapienza108:
s'era dunque messo di buona lena, finalmente, al suo curricolo
universitario, trovando anche là, come accade nonostante le
ostentate espressioni di scherno che saran sempre di prammatica tra
gli studenti di piú robusta e sveglia vita intellettuale, pan
pei suoi denti, e non affatto insipido o secco. Certo, l'università
di Pisa non era allora proprio nel suo fiore; tramontati da tempo i
suoi astri maggiori (l'ultimo, il celebre Pacchiani, aveva appena
lasciato la cattedra di fisica), rimanevano riditori e
accademizzatori; cosicché, un po' per colpa di qualche singolo
docente e un po' perché dal '15 in poi tanti germi di libera
vita, cioè di cultura, erano stati, anche in Toscana,
sistematicamente soffocati e isteriliti – non per nulla le
università sono i registratori piú certi, e direi quasi
i termometri, d'ogni minima oscillazione della temperatura spirituale
di un determinato paese – la Sapienza poteva già dirsi
in lento, ma certo decadimento. Comunque, qualche bel nome continuava
ancora ad adornare di sé le liste professorali: e basterà
citare un Rosini e un Ragnoli, a lettere, un Carmignani e un Del
Rosso, a legge109, alle cui lezioni accorreva sempre una gran
folla non di soli studenti, e delle cui opere si parlava non pure in
Toscana, ma in tutta la Italia dotta, e anche al di là delle
Alpi. Al Rosini (vedremo come si facesse rider dietro per le sue
correzioni... al Manzoni) proverbiato per la sua prosopopea, tutti
perdonavano sorridendo la mania di scrivere romanzi e commedie, che
lui soltanto considerava immortali, perché come insegnante,
era indubbiamente assai dotto e infaticabile, e come uomo d'una bontà
e d'un candore a tutta prova. Certo, il Montanelli frequentava i suoi
corsi e, se non la sua casa, certo, o al caffè o in altre
conversazioni, lo avvicinò di frequente. Per quanto attempato
e togato, per quanto lo chiamassero Pompa, il Rosini sapeva mettersi
in confidenza con i giovani d'ingegno, con taluni dei quali non
sdegnava – cosí col Giusti – di scambiar versi per
darne o riceverne impressioni e consigli; e con i giovani scrittori
talvolta anche polemizzava o s'imbizziva per la recisione dei loro
giudizi critici, come accadde ad esempio col Montanelli qualche anno
piú tardi, a proposito di una sua non so quale sentenza
intorno alla nuova e alla vecchia scuola in un articolo di
rivista110. Allora il Montanelli si mostrava severo col
vecchio maestro, che aveva la debolezza di far recitare a Pisa, a un
pubblico composto in gran parte di suoi studenti, commediole da
strapazzo, come – nel marzo del '36 – I nipoti e la
zia, che fu un memorabile fiasco111; ma prima d'allora,
negli anni della formazione, non era stato cosí, s'è
detto, e anzi gli si era sinceramente legato.
Ma il maestro cui piú dovette
il Montanelli, e in primo luogo il gusto degli studi legali, fu senza
dubbio il Carmignani, titolare di diritto penale, legittimo vanto
della facoltà pisana, uomo di prodigiosa erudizione e
versatilità, allora all'apogeo della sua grande carriera
d'insegnante e di avvocato. Era una bella tradizione dell'università
di Pisa quella che il piú e il meglio dell'insegnamento, per
gli studenti volonterosi, non si facesse in aula, dalla cattedra, ma
in casa dei singoli professori, che anticipavano cosí,
all'infuori dei regolamenti, i moderni seminari di facoltà. Il
Montanelli fu tra gli assidui del Carmignani, dal quale si disse
allora che non sapeva staccarsi mai, seguendolo a casa, allo studio,
al caffè, alle veglie serali presso questa o quella famiglia
pisana, sfruttando la sua biblioteca112; affettuosa
ammirazione da una parte, fiducioso incoraggiamento dall'altra: il
Montanelli non piú se ne scordò, quand'anche, piú
tardi, il Carmignani, grave di anni e intellettualmente diminuito,
mutasse assai d'umore nei di lui confronti, ingelositosi dei suoi
successi, quasi che il merito primo non ne spettasse per l'appunto a
lui.
Si veda a riprova di questa
riconoscente equità del Montanelli l'altissimo encomio che al
suo maestro egli tributò, venti anni dopo, nelle sue Memorie,
sottolineando la novità e l'importanza delle sue dottrine
giuridiche e filosofiche113.
Scorsero cosí, tra maestri,
libri ed amici, gli anni dell'università: anni quieti e
fruttuosi pel Montanelli, almeno a giudicare dal tono e dal contenuto
delle sue lettere e dal pochissimo ch'egli credette di dovercene
dire, appunto nelle Memorie. Anche la grande scossa del 1830,
che pure infiammò tanto la gioventú italiana, se
certamente lasciò traccia nel suo spirito, risvegliandovi un
mondo di idee e di aspirazioni fino allora o immature o inespresse,
non valse a distorglierlo dagli studi. Il suo nome, ad esempio, non
comparve mai, per allora, tra quelli, registrati dal Buon Governo,
degli studenti piú infiammati o imprudenti: vero è che
non aveva che 17 anni. Pure si furon proprio quei libri, quelle
abitudini di disciplina intellettuale, quel frequentare l'élite
della intelligenza toscana che di lui, come di tanti altri, suoi
amici e compagni, fecero il patriota italiano nel senso moderno della
parola. La generazione che nel '48 si mostrò matura ad
affrontare, se non proprio a risolvere, il problema italiano, era
quella appunto che intorno al 1830 sedeva ancora sui banchi
dell'università e che – le poche eccezioni confermano la
regola – assisté senza direttamente parteciparvi al
grande esperimento fallito del '30-31. Prendiamo i nomi dei giovani
compromessi, in Toscana, nei disordini di quel biennio, e
constateremo che salvo il Guerrazzi e pochissimi altri, nessuno di
costoro prese parte attiva, nell'età matura, alle risolutive
vicende del successivo ventennio: molti, anzi, fra i giovani liberali
del '30, nel '48 erano diventati codini... La generazione del
Montanelli cominciò ad agire politicamente, cioè a dar
daffare alla polizia, disorientata dai nuovi metodi di cospirazione e
di propaganda, proprio dopo il tramonto delle illusioni del 1830-31.
Ma si deve a questo punto rilevare un carattere dell'università
pisana che non è senza importanza per determinare il tipo di
patriottismo e, in genere, di passione politica che furono del
Montanelli e di moltissimi fra i suoi condiscepoli. Questa
università, se ancora non contava fra i suoi docenti
scienziati di altre regioni d'Italia, come ben presto fu suo vanto e
fortuna (una fortuna dovuta proprio all'ondata di repressioni che
investí il mondo intellettuale della penisola all'indomani del
'30, ma che in Toscana ben presto s'andò attenuando fin quasi
a scomparire del tutto), già da tempo si era segnalata e come
specializzata nella larghissima ospitalità che accordava agli
studenti forestieri, né solamente italiani. Era un poco la
tradizionale mitezza e liberalità del governo toscano, in
materia politica, commerciale, di culto, che attirava gli studenti
stranieri, molti dei quali già stabiliti con le loro famiglie
in Toscana, o destinati a prendervi radice una volta laureati; era un
poco il portato del magico clima e della magica bellezza della
Toscana; e finalmente era un poco l'effetto della comparativa
indulgenza che, all'indomani della grande crisi italiana del 1820-21,
si era usata verso i relitti, qualche volta illustri, di quel
drammatico naufragio di speranze: in quale altro Stato della penisola
sarebbe stato tollerato un gabinetto letterario di fama europea come
quello Viesseux dove, attorno ad uno svizzero, si fossero riuniti
sistematicamente i rappresentanti dell'intelligenza locale con un
Colletta, un Pepe, un Leopardi, un Tommaseo, un Poerio, un Montani,
un Giordani, ospiti semi-permanenti della città di Firenze? E
quale altro governo avrebbe permesso che costoro accogliessero, come
facevano, ogni straniero di distinzione che fosse di passaggio, senza
riguardo per le dottrine politiche che professasse, e anzi tanto piú
gradito e onorato se di sentimenti liberali? Il Buon Governo, si sa,
si limitava a sorvegliare, a prender nota degli incontri, di tanto in
tanto a sussurrare, non mai a intimare, consigli di prudenza: le
filze dell'archivio segreto ingrossavano, delizia degli storici
futuri, ma le riunioni seguitavano tranquillamente, alimentate dal
rigoglioso fiorire dell'«Antologia», e a loro volta
alimentatrici di quella famosa rivista.
L'università di Pisa, dunque, era un po' il frutto di quel
sistema e di quelle abitudini: ed appariva, in qualche modo, come una
specie d'immenso gabinetto Vieusseux per gli studenti. Gli studenti
toscani non costituivano, anno piú anno meno, che all'incirca
una metà della popolazione studentesca – gli altri eran
lombardi e piemontesi ed emiliani e romani; piú, con qualche
francese o tedesco, due grossi nuclei distinti, uno straniero e di
nazione e di lingua, l'altro soltanto per appartenenza politica:
quello dei greci e quello dei corsi, che si contavano di anno in anno
a parecchie diecine, e in qualche anno salivano a piú
centinaia. Che i corsi, legati alla Toscana da antichissimi vincoli,
e da perduranti interessi commerciali, mandassero i loro figliuoli a
studiare a Pisa, nulla di strano: tanto piú che il francese,
ancora, lo masticavano poco (ma fu una circostanza, quella, di
decisiva importanza per l'avvenire della Toscana, e ben lo seppe il
Mazzini che seppe mirabilmente sfruttare ai suoi fini quella
periodica migrazione di cittadini francesi); piú singolare,
invece, l'afflusso dei greci, fattosi particolarmente intenso col
crescente peggiorare delle relazioni fra governo e governati, nelle
province cristiane dell'impero turco, e poi con lo scoppio e il
prolungarsi della irresistibile rivolta. Li dicevano greci tutti
quanti, ma venivano da Corfú come dall'Albania, dal
Dodecanneso come dai principati di Moldavia e Valacchia o
dall'Armenia. Portavano a Pisa la nostalgia della loro patria
schiava, il fascino di un'antichissima civiltà soffocata, la
dolcezza della loro lingua, il loro gusto agli studi, alle sètte,
agli intrighi. Se dai compagni corsi gli studenti di Pisa
apprendevano quel che fosse fierezza e solidarietà regionale e
in piú ne derivava interesse ai problemi della politica
interna francese, quelli greci davano loro il senso vivo di come la
questione nazionale premesse non pure l'Italia, ma mezza Europa, e
perciò solo si imponesse la necessità di una stretta
unione fra combattenti per la libertà nazionale, a qualunque
paese appartenessero, di contro al fronte unico della Santa Alleanza.
La loro università, insomma, era un poco lo specchio d'Italia
e d'Europa: e in nessun altro luogo veniva fatto cosí
naturalmente ai giovani colti di discorrere della grande politica, di
sprovincializzarsi, di cogliere il lato universale di certi problemi
che altrove venivano posti con esclusivo riferimento alle vicende e
alle necessità italiane.
Questo carattere cosmopolitico dell'università pisana non è
stato sufficientemente rilevato o rammentato sin qui: eppure ebbe
decisiva importanza nella formazione del patriottismo toscano. E
ancora non bene si sa quanta parte l'ateneo pisano, a un passo dal
porto franco di Livorno, prendesse alla organizzazione e alla
alimentazione della rivolta greca; né con quanta commozione vi
si seguissero le vicende della infelice Polonia. E in quale altro
centro italiano si era meglio informati delle cose francesi? E dove
piú rapidamente e frequentemente potevano pervenire le notizie
della emigrazione italiana, che, col fissarsi numerosissima in
Corsica, pareva voler serbare la speranza o l'illusione di un piú
facile e prossimo ritorno in patria, mentre piú agevole le
riusciva di mantenere di là contatti con i gruppi cospiranti
all'interno?
A Pisa il Byron aveva concepito la generosa sua spedizione, e vi
era rimasto, nell'aria, un profumo di gentile eroismo; a Pisa si
erano rifugiati, per ritemprarsi, sfortunati campioni della lotta
antiturca; a Pisa, famosa allora pel clima di eccezionale mitezza,
usavano svernare personaggi stranieri, inglesi i piú, cioè
protestanti, liberali, umanitari, e per giunta gran propagandisti
delle loro dottrine.
Questo l'ambiente, estremamente vivo e stimolante, nel quale si
formò il futuro triumviro del 1849: del quale vedremo ben
presto come si andasse scegliendo gli amici piú intimi non
solamente fra i piú congeniali dei compatrioti toscani, ma tra
studenti d'ogni parte d'Italia, e fra i Corsi e Greci. Anticipazione
di un internazionalismo tutto spontaneo, che fu sempre uno dei
fondamenti incrollabili della sua ideologia politica.
Ed ora avviciniamoci un poco di piú
al Montanelli tra i diciotto e i vent'anni, subito prima e subito
dopo la laurea, ottenuta a pieni voti nell'estate del
1831»114.
Le lettere di lui, che si conservano copiose, seppur disperse, a
partir da quest'epoca, ci permetteranno di tratteggiare con qualche
maggior precisione la sua indole, le sue inclinazioni, i suoi sogni.
Con piú abbandono, con piú frequenza che a chiunque
altro, scrive sempre al Centofanti, a Firenze, quando non sono
insieme a Fucecchio, e a lui, sicuro della sua comprensione e della
sua simpatia, traccia, di lettera in lettera, un quadro anche troppo
minuto e fedele del mutevole suo stato d'animo e delle minime
perturbazioni che valgono a modificarlo. Del resto è la gran
moda, quella, intorno al '30: quasi tutti gli epistolari del tempo
offrono una documentazione concorde della mania introspettiva che si
è impadronita del ceto colto, contagiato dalle tendenze
romantiche della letteratura corrente. Il che vale a dire che, nel
piú dei casi, quegli epistolari sono tutt'altro che
dilettevoli, a leggersi oggi: tanta è la ingenua sicurezza che
anima gli scrittori di non aver proprio nulla di piú urgente
da raccontare che le private vicende dell'io interiore,
registrate col compiaciuto apparente distacco di chi osservi le fasi
di un imponente fenomeno naturale. E non già, badiamo bene,
raccontarle in sede di confidenza e d'espansione amorosa, lui a lei,
e lei a lui, ma da uomo a uomo, con una serietà e una
compunzione che, quando, ed è quello che accade piú
spesso, non t'infastidiscono, ti fanno sorridere.
Ed ecco qui il Montanelli che, sulla fine del '30, fa parte al
Centofanti della sua irrequietezza interiore, del suo spasimante
desiderio d'amore, del palpito patriottico che tutto lo pervade. Ogni
due righe una fila di punti esclamativi e una manciata di puntolini e
da principio a fine un tono da febbricitante, che si estrinseca nelle
concitate proteste d'eterna amicizia e in un perpetuo altalenare tra
la compassione e l'orgoglio del proprio stato, il cui privilegio
sembra essere la precocità del dolore. Quanto al dolore,
passi. Ma l'eterna amicizia... Verso la fine del '31 i due hanno un
primo passaggio d'armi in seguito al quale, offesissimo, il
Centofanti non vuole aver piú nulla a che fare col Montanelli.
Tocca a questo, cinque mesi dopo, venire a Canossa:
Dopo le cose che son passate fra noi io non ardirei di scriverle
se l'interesse della patria, e della scienza, non me lo imponesse...
Mi prevarrò di questa occasione per parlarle di me, dello
stato terribile in cui mi trovo da cinque mesi in poi, e del bisogno
che sento di riottenere la sua affezione? Il cuore mi consiglierebbe
a farlo... ma quando rifletto alla giustizia del suo sdegno,
quantunque, ingenuamente lo ripeto, per parte mia non sia stato
provocato maliziosamente, mi perdo di coraggio. Che le dirò
dunque? Le dirò che non ho cessato un momento di amarlo..., e
lo amerò sempre finché io vivo, come il mio padre, come
il mio amico, come il mio tutto.
E il Centofanti, toccato, perdona: ... «io aspetto con
desiderio – e tu vorrai non ritardare... la tua venuta in
questa città». Onde il Montanelli, che sospira allora un
giornale nel quale lavorare sotto la direzione di «quell'uomo
straordinario»: «Noi tutti saremo a sua
disposizione – senza altro scopo che quello di riflettere
nell'Italia la luce che riceveremo da lei»115.
Altra volta il Montanelli discorre,
sempre col Centofanti, e non senza enfasi, del dovere di prodigarsi
per l'umanità e la patria, che egli avverte prepotentissimo:
«Ancora pochi anni, ed io pure mi vedrò circondato da
giovanetti, che, nuovi alla vita, mi domanderanno di ciò che
feci per il bene dell'umanità e della patria, e mi
interrogheranno sulle passate vicende». Il Centofanti gli
risponde in chiave: non vede l'ora che «il suo giovane amico»
lo raggiunga a Firenze, gli magnifica l'accoglienza che da tutti
riceverà: «Io ti aspetto con ansietà! Parliamo
ogni giorno di te, dei nostri cari e ardenti cooperatori, e della
futura vita letteraria che condurremo!»116. E qualche
mese dopo:
Se
tu sapessi le seccature che mi hanno tanto impedito in questi ultimi
giorni, avresti già nell'anima quell'impeto generoso con cui
spesso avrei voluto liberarmi da quei vincoli... E il Tonti che fa?
Sveglialo con un bacio in mio nome... Nel cuore rimane il sentimento
di quella armonia di divina bellezza del mondo morale al cui concento
godo ora di poterti abbracciare col desiderio117.
L'amore pel Montanelli era grande; ma
piú grande ancora l'amore di sé. Una volta fu chiamato
d'urgenza a Fucecchio per qualche guaio successo in famiglia. «Ho
voluto darti questa nuova testimonianza di amore comunicando teco
questi miei dolori, prima di entrare in carrozza», scrisse
subito al Montanelli, aggiungendogli con tutta semplicità che
quel contrattempo gli aveva impedito, come desiderava, di cominciare
finalmente «l'edificio della sua vera gloria», cui si
sentiva ormai maturo «riposando su fondamenta di
ferro»118.
E quattro giorni dopo: «Tu, mio
dolce amico, non sei stato meco in questi amarissimi giorni! Oh se tu
avessi saputo le mie pene, saresti volato da me per reggere sul tuo
seno questo mio capo non oppresso, ma grave de' piú tremendi
pensieri!»119.
Per fortuna il dialogo epistolare non
toccava sempre e unicamente questi vertici di lirismo; spesso era
questione di libri e d'idee, ché il Montanelli, appena
laureato, si cibava di Filangieri, di Vico120, di Romagnosi e
di Rousseau e amava scambiare col Centofanti le impressioni di
codeste sode letture121. Talvolta, respiriamo, era anche
questione di piú lievi interessi: pettegolezzi
universitari122, interessi legali dal Centofanti affidati al
suo giovane amico123, o interessi del cuore; ché, a
forza di praticare quel dotto suo amico, il Beppe, o piuttosto
Geppino, come egli lo chiamava, aveva finito, sembra, con
l'innamorarsi, ricambiato, di una sorella di lui,
Antonietta124: la quale, forse, si accompagnava talvolta a
loro, nelle quotidiane passeggiate a Fucecchio125.
Ma il cerchio di conoscenze e
d'amicizie del giovane fucecchiese si andava allargando: notevole
come egli inclinasse sempre verso persone di piú di lui e per
età e per cultura; notevole come riuscisse a cattivarsi, di
costoro, non pure quel bonario incoraggiamento che dall'alto si suole
concedere ai giovani di belle speranze, ma addirittura un affettuoso
ricambio di stima, da pari a pari. Uno dei «grossi calibri»
che fin d'allora corrispose col Montanelli è Niccolò
Tommaseo. Si conoscono nel principio del '32126 e alla metà
d'anno già si dànno confidenzialmente del
tu127: il dalmata sollecita il giovane amico a scrivere, gli
colloca articoli, lo incarica di traduzioni, gli propina consigli
letterari, che quegli dichiara «savissimi» e si propone
di «praticare per sempre»: anche gli comunica la passione
per la purezza della lingua («Mi occupo indefessamente dello
studio della lingua – gli scrive infatti il Montanelli, da
Fucecchio, il 22 d'ottobre del '32 – ed ho preso grand'amore ai
trecentisti, e principalmente al Cavalca») e stimola in lui gli
scrupoli religiosi:
A
questa occupazione, – continua il Montanelli, – congiungo
lo studio dei Santi Padri, e principalmente di sant'Agostino. Non son
contento finché non ho inteso il sistema cristiano in
tutta la sua integrità. La profonda cognizione e comprensione
di questo sistema è necessaria in tutti coloro i quali
altamente convinti della verità delle idee religiose vogliono
rialzarle nei popoli, e proporzionatamente ai bisogni della nuova
civiltà.
Il Tommaseo gli ha proposto di collaborare a una raccolta di
biografie: il Montanelli accetta con entusiasmo. «Il desiderio
di poter giovare in qualche parte alla umanità m'infiamma
talmente che son pronto a fare qualunque cosa, ove mi sia indicata.
Ti prego a disporre di me in tutto ciò che ti
piace»128. Attraversa quel periodo beato dal quale si
crede che il mondo non sia che un gigantesco laboratorio per le
proprie impazienze risanatrici: ad ogni male un rimedio e, perché
torni piú efficace, non altro che il fermo volere dei «buoni».
Nel novembre del '32 Montanelli legge
sull'«Antologia» un articolo del Tommaseo sulle cose
italiane. È fuori di sé, l'entusiasmo suo e dei suoi
«giovani amici egualmente infiammati d'amore per la umanità»
non conosce piú limiti. Saluta in Tommaseo un maestro nella
piú vera ed estesa accezione del termine129.
Credimi
– continua – che fra i tanti giovani che frequentano
l'università alcuni ve ne sono dai quali può molto
sperare la nostra patria. Se i precettori sapessero fecondare questi
germi che natura ha posto nel cuore di molti, il numero dei buoni
sarebbe anco maggiore, perché oh quanto male rispondono, mio
caro Tommaseo, allo slancio della gioventú i metodi degli
insegnamenti!, e se tu domandassi a quelli che hanno intrapresa la
rischiosa via della sapienza da chi abbiano ricevuto l'impulso al ben
fare, ben di rado ti sarà risposto che questo impulso fu dato
da un istitutore. Io m'ingegno di trasferire in tutti i miei compagni
quei nobili sentimenti dai quali sono infiammato, e tale è lo
scopo dei miei pensamenti e delle mie opere giornaliere. Ci occupiamo
nel risolvere i grandi problemi sociali, e ci addestriamo all'arte
della parola. È fra noi unione veramente fraterna e la nostra
mente è governata da una sola idea, come il nostro cuore non
palpita che d'un solo affetto. Nella dissoluzione universale dei
vincoli sociali ci congratuliamo ben sovente con noi medesimi nel
sentirci stretti dai dolci nodi dell'amore, e della fratellanza, e ci
sforziamo di avvalorare con l'esempio le nostre parole...130.
Subito dopo il Tommaseo fu a Pisa, e
vide a lungo il Montanelli e i suoi amici (al Montanelli, e forse al
Bianchi, alluse senza dubbio in un passo di quella sua Gita a Pisa
che si legge nella «Antologia» del novembre '32: «Con
questo sentimento (di religioso raccoglimento) io passeggiava stasera
nelle tenebre la piazza di Santa Caterina131..., dove mi
aspettavano due cari giovani di belle speranze, perché il cuor
loro è in armonia con l'ingegno».
La
tua presenza – gli scrisse per parte sua il Montanelli il 5
dicembre132 – lasciò un gran vuoto nei nostri
cuori, ma sebbene lontani noi siamo uniti, e in questa unione
consiste la felicità della nostra vita. Molti giovani si sono
avvicinati a me, e sebbene non tutti siano dotati del medesimo
ingegno, in tutti però è
grande l'entusiasmo, e in te abbiamo riposto grandi e belle
speranze... Mio caro Tommaseo – amami – consigliami –
dirigimi – ed io consiglierò e dirigerò i miei
amici. Cosí adoprando potremo in poco tempo impadronirci della
gioventú e rendere un grande servizio all'umanità e
alla patria.
Analoghe professioni di fede, analoghi slanci in altre lettere di
quei giorni133: in una delle quali Montanelli accenna ai due
suoi amici, e amici del Tommaseo, il Tonti134 e il
Monzani135, chiamandoli «nostri fratelli»; in
un'altra, dopo avergli parlato d'altri due comuni amici, il Tolomei e
il Bianchi, il secondo dei quali «assisteva alle nostre
conversazioni», gli raccomanda di «compiegare in modo le
tue lettere da non poter essere lette da qualche occhio profano.
Sarei dispiacente di una infrazione di sigillo»136 In
una terza, infine, il Montanelli, discorrendo con lode delle Mie
prigioni del Pellico, di fresco pubblicate:
Non
ci stanchiamo di ripetere – scrive – che le verità
religiose sono la principalissima garanzia della felicità
individuale e sociale. Impadroniamoci per quanto è possibile
d'un terreno che oggi occupano uomini ignoranti, superstiziosi e
codardi e l'ufficio del letterato sia un vero sacerdozio morale.
La libertà dei popoli, come altra volta tu osservavi, sarà
frutto non d'odio ma d'amore. E non ameranno veramente, e
potentemente i loro simili se non che gli uomini persuasi fermamente
delle grandi verità della vita.
E prosegue: «I vincoli fra i giovani si stringono sempre con
maggiore intimità».
Il lettore avrà già notato da sé quanto
siffatte espressioni trascendano il valore di generiche affermazioni
di fede o di semplici attestazioni di una sia pur calorosa colleganza
spirituale. Qui c'è qualcosa di piú. Ci son dei
«fratelli», v'è un apostolato di fede, v'è
una sistematica azione svolta fra gli studenti, vi son ritrovi tra
elementi di diverse città e di diversa provenienza, v'è
insomma, chiara e evidente, una organizzazione nascente. Di che si
tratta? Il nome della Giovane Italia sorge spontaneo alla mente: ma
allora quell'insistere piuttosto sui doveri verso l'umanità
che su quelli verso la patria? Quella preminenza accordata ai valori
religiosi? No, siamo su altro e ben diverso terreno. Siamo
precisamente in presenza di un tentativo, uno fra i pochissimi mai
compiuti in Italia, di trapiantare a Pisa una «chiesa»
cioè, una sezione del movimento sansimonista. Qualche notizia
in proposito del resto, ce l'aveva già data il Montanelli
medesimo, pur naturalmente restío, negli anni successivi, a
ricordare un cosí «superato» episodio della sua
vita giovanile. Leggiamo le sue Memorie, nel capitolo dedicato
al Liberalismo cattolico: descritto magistralmente il suo
passaggio dall'ingenuo cattolicismo dell'infanzia al disinvolto
materialismo e sensismo degli anni universitari, il Montanelli
prosegue osservando che per alcun tempo l'eccitazione politica
verificatasi nel 1830 fece sí che egli non sentisse il «vuoto
desolante» dovuto alla morte della fede religiosa.
Cosí
non mi avvidi della sterilità di una dottrina che abbassava il
pensiero alla sensazione, e i sentimenti morali al tornaconto, altro
che quando, andate a rovescio le rivoluzioni italiane del '31, e
mancate le promesse di Francia, e immolata l'eroica Polonia,
all'ebbrezza divina dei primi entusiasmi concepiti nell'amore della
libertà, e nella certezza del suo trionfo, sottentravano le
amarezze del disinganno, e le cupe riflessioni suggerite dallo
spettacolo delle umane sventure. Avventuratamente ai primi del 1832
mi caddero in mano i libri della scuola sansimoniana, non ancora
bamboleggianti nelle sguaiataggini teocratiche del padre
Enfantin. E questa dottrina che
ci conciliava col nome di religione, bandito dalle scuole
materialiste, e a difetto di sintesi religiosa attribuiva i mali
presenti, e separando i periodi critici dai periodi organici, un
nuovo periodo organico prometteva a ricomporre l'armonia fra la
materia e lo spirito, l'individualità e l'associazione, la
libertà e l'autorità, la conservazione e il progresso,
dottrina siffatta dai pantani del gretto materialismo mi sollevò
a piú spirabil aere; e colla certezza di cooperare alla
sintesi religiosa futura partecipai alla piccola chiesa sansimoniana
nel 1832 formatasi nell'università di Pisa, e seguitai dipoi
con altri miei compagni di studi il movimento delle questioni
chiamate sociali137.
Cosí il Montanelli stesso, nel
1853; ma già sei anni innanzi, conversando col sopraintendente
dell'università di Pisa, gli aveva confessato di avere «nei
tempi andati seminato nel popolo gli errori del
sansimonismo»138.
Nel maggio del '32, del resto, lo stesso Montanelli aveva scritto
al Centofanti:
Da
quattro mesi in poi ho abbracciato interamente con molti altri miei
amici la dottrina di Saint-Simon, ed ho sofferto ancora delle
vessazioni. Fin da questa epoca il vecchio uomo è in me
interamente disperso. La mia vita è cangiata – essa ha
uno scopo139.
Queste notizie vennero confermate dai
biografi del Montanelli, prima di tutti dalla moglie di
lui140, la quale, attingendo, senza dubbio, alle confidenze
verbali del consorte, raccontò altresí come rapidamente
e miseramente quel tentativo andasse a finire.
Lo zio rettore (di Santa Caterina) lo invigilava seriamente. Una
sera lo chiama nel suo appartamento del collegio, ciò che
indicava male e rimescolava tutto il giovane Montanelli...; chiudendo
la stanza gli disse con molto mistero che la polizia conosceva
esistere una società di giovani sansimoniani e lo avvertiva
che se gliene fosse parlato badasse bene di non andarci. Siccome
questa società si riuniva in casa sua avvisò gli amici
che erano sorvegliati e sapendosi scoperti non poterono piú
riunirsi.
Gli archivi del Buon Governo,
compulsati in proposito, non rivelano, a dir vero, alcuna traccia di
questa pur importante vicenda141. Di sansimonismo, ch'io
sappia, vi si parla una volta sola, e diversi mesi piú tardi,
e con riferimento a Firenze, ed è comico osservare come sotto
quel nome la polizia toscana registrasse non già, come ci si
aspetterebbe, una conventicola politico-religiosa-sociale, ma una
specie di società malfamata tra giovani sfruttatori per... la
tratta delle bianche! Eterno, poco invidiabile destino dei partiti o
delle sette malvisti dai governi che il loro nome venga usato a
designare ogni sorta di birbonate che con la politica o la religione
non hanno proprio nulla a che fare...
Comunque, non c'è alcun dubbio, nei primi mesi del 1832 il
Montanelli fu sansimonista, come ebbero ad attestare piú tardi
anche taluni suoi confidenti ed amici, tra gli altri il Minghetti e
il Levi.
La
sua mente – scrisse quest'ultimo – fu colpita dalla
grandezza come dalla novità del sistema... Malgrado i divieti
della censura sospettosa il Montanelli ebbe modo di procacciarsi i
libri del maestro, e le molte pubblicazioni che venivano allora in
luce a Parigi sulla dottrina. La sua mente affettuosa e appassionata
s'infervorò per essa; raccolse intorno a sé un nucleo
di seguaci fra i giovani e la scolaresca di Pisa. Si scorgeva nel
genio del Montanelli una cotale affinità con quella del padre
Enfantin, il san Paolo del sansimonismo... E il Montanelli fondò
in Pisa una chiesuola, la quale teneva adunque adunanze regolari,
aveva ministri e riti. Ogni giorno vi si facevano letture per
insegnare il sistema dal punto di vista storico, filosofico ed
economico; già cominciavano le dottrine a propagarsi fra la
scolaresca... quando la polizia fu messa in sull'avviso: ne spiò
i convegni, li scopi, sostenne in carcere alcuni discepoli, soppresse
il tempio, ed i credenti vennero dispersi142.
Chi mise la polizia sull'avviso? Non lo sappiamo; certo è
che la studentesca veniva sistematicamente sorvegliata, né era
facile nascondere dei ritrovi frequenti e affollati. Conoscendo però
le abitudini della polizia toscana, e tenendo presente il silenzio
degli archivi del Buon Governo in proposito, non è da
escludere (a parziale correzione del postumo del Levi) che l'unica
misura adottata dalle autorità pisane fosse quella di
suggerire al canonico Montanelli di dare al nipote una buona lavata
di capo, accompagnata da precisi riferimenti alle «scoperte»
della polizia. Né il metodo, a quel che pare, si dimostrò
sbagliato...
Ho sotto gli occhi alcune delle
pubblicazioni di propaganda messe in giro, proprio sui primi del '32,
dalla «centrale» parigina della chiesa sansimonista.
Probabilmente furono quelle che capitarono in mano al vero dottore in
utroque. Una, di un 180 pagine, s'intitola:
Religion Saint-Simonienne. Economie
politique et politique. Articles extraits du «Globe»,
Paris, marzo 1832. Un'altra, sempre intestata alla stessa
Religion: Politique industrielle. Système de la
Méditerranée, di Michel Chevalier, Paris, marzo
1832. La terza, dell'aprile, piú voluminosa di tutte (pp.
207): Morale. Réunion générale
de la famille. Enseignements du Père Suprême. Les trois
familles. In copertina vedo richiamati
i fascicoli già usciti: Exposition
de la doctrine; Lettres sur la religion et la politique; Reveil de
predications; Appel aux artistes, ecc.
Leggo anche un avviso di un certo interesse: «Les publications
de la réligion S. S. ne sont pas une spéculation, mais
une œuvre d'apostolat. L'enseignement qu'elles renferment est
distribué aux mêmes conditions que les autres
enseignements, c'est à dire gratuitement».
Siamo al tempo in cui la chiesa sansimoniana, giunta all'apice
dell'effimera sua popolarità, inizia la parabola della
decadenza, affrettata dai profondi e clamorosi dissensi che dividono
i suoi dirigenti. Trionfa padre Enfantin, ma è un trionfo che
condurrà ben presto al ridicolo e alla dissoluzione
definitiva. Comunque qual è, ancora nel '32, il messaggio del
sansimonismo? Frutto della sete di religiosità seguita alle
perentorie negazioni del secolo XVIII, tentativo di armonizzare la
fede e la scienza, la rivelazione e la ragione, la libertà e
l'autorità, il rinnovato dogma dell'eguaglianza sociale e
politica con la necessità dell'ordine, esso pareva rispondere
alle esigenze fondamentali e pure antitetiche di ogni spirito colto,
cioè libero, nell'Europa della restaurazione. Era un generoso
tentativo di anticipar sulla terra, mediante una progressiva riforma,
essenzialmente sociale, le beatitudini relegate dal cristianesimo
nell'al di là: un sogno di bontà e di bellezza basato
su una concezione ottimistica dell'umanità e inteso appunto a
rendere alla vita terrena le attrattive negate, o piuttosto respinte,
dal dogma teocratico. La grande forza morale fino allora sottratta ai
suoi compiti vitali, sviata dalle sue mete, incapsulata, isterilita
nella contemplazione di un avvenire inconoscibile, la fede religiosa
veniva finalmente chiamata a facilitare il raggiungere di quel
massimo di giustizia sociale e quel minimo di benessere per tutti
senza dei quali l'umanità non avrebbe mai trovato un suo
stabile e precipuo assetto. Emancipazione del proletariato,
emancipazione della donna, queste le maggiori rivelazioni del nuovo
verbo. Tutto l'afflato romantico del principio del secolo tradotto ed
espresso in un secondo Vangelo, integrazione e avveramento di quello
del Cristo. L'amore universale, l'armonia spontanea, la fine d'ogni
egoismo individuale di classe, di patria, come leva e meta insieme
del grande rivolgimento pacifico profetizzato. Tale, nelle sue linee
maestre, il messaggio sansimonista, cui particolari approfondimenti
teorici, specie nel campo dell'economia, valevano a conferire una tal
quale apparenza scientifica atta a sedurre, oltre alle coscienze
bramose di un accordo fra religione e vita, fra spirito e materia,
anche la mente degli zelatori di una mera riforma sociale.
Venne in Italia qualche apostolo del sansimonismo? Venne a Pisa? O
bastò al Montanelli e ai suoi amici la semplice lettura del
«Globe», giornale del movimento, e delle altre
pubblicazioni di propaganda? Chi furono, nella università
pisana, i componenti di quell'effimera chiesa? Si misero essi in
rapporto con la «centrale» di Parigi? Tutte domande alle
quali, sin qui, non siamo in grado di dare alcuna risposta, salvo che
ci sembra probabile che il Bianchi, il Monzani, il Tonti e forse il
Tolomei, che sono i nomi piú spesso citati nella
corrispondenza montanelliana del tempo, e taluni di essi, come
vedemmo, qualificati «fratelli», facessero parte del
gruppo. E il Tommaseo? Seppe mai precisamente a qual titolo i suoi
giovani seguaci di Pisa avessero stabilito tanta reciproca
fraternità? Fu anch'egli, sia pur per breve tempo, un
simpatizzante sansimonista? Altra domanda alla quale non ci sentiamo
di rispondere perentoriamente: invitiamo però i biografi di
lui a tenere il massimo conto delle strane, ripetute allusioni a un
sodalizio di giovani fattegli da Montanelli. Se egli restò
all'infuori del sansimonismo, qual senso esse avevano per lui?
Scioltasi nel modo che si è
detto quella comunità, non per questo gli affiliati
rinunziarono alla reciproca intimità, agli studi e alle
aspirazioni comuni. Il Levi ci assicura che quando egli giunse la
prima volta a Pisa (e dovette essere nel 1837)143, «il
Montanelli me ne espose le dottrine (del sansimonismo) con
l'entusiasmo del credente, la fantasia del filosofo-poeta»; in
lui, «come in pochi altri spiriti piú ardenti,
sopravviveva nel fondo dell'anima la fede alla idea sansimonista, e
si adoperava ancora a propagarla nei cuori aperti ai facili
entusiasmi... Il sansimonismo aveva smesso la forma autoritaria di
religione, ma era divenuto una dottrina, una scuola sociale; non si
posava piú come domma, ma presentavasi come un corpo di
dottrine filosofiche, economiche e religiose, che chiedeva di essere
discusso»144. Il seme aveva dunque germogliato,
lasciando negli adepti, come derivato di quella breve e sfortunata
esperienza, alcuni punti fermi, ai quali il Montanelli, se non altri,
si manteneva poi fedele per sempre: l'ansia di pacificare il penoso
dissidio interiore fra la istintiva incoercibile religiosità
del cuore e l'insoddisfacente dogmatismo cattolico, cosí
inadeguato a risolvere, e fin anche a percepire, i problemi
fondamentali del secolo; l'assillo di un piú equo e razionale
assetto sociale; l'insoddisfazione per una impostazione meramente
politica della grande lotta allora in pieno corso per l'affermazione
dei valori nazionali.
È cosí che, seppure non
sotto il segno proibito del sansimonismo, vediamo il Montanelli
avvicinarsi, dal '32 in poi, a tutte quelle forze che, nella Toscana
del tempo, agiscono nella medesima direzione, spinte da analoghe
necessità ideali.
Sulla fine dell'anno, a Pisa, un
gruppo di giovani, capitanati dal livornese Enrico Mayer (si noti
bene, un protestante-mazziniano) e del quale fan parte il professor
Rossellini, il Tonti, il Monzani, il Corinaldi e il Montanelli,
decide di fondare un giornaletto settimanale145 dal titolo
significativo di «Educatore del povero»: il giornale (che
forse non è altro che l'estrinsecazione di un vecchio progetto
già da mesi caldeggiato dal Montanelli)146 è
dedicato alle «classi inferiori», alle quali si vuole
instillare il culto del dovere, della patria, della moralità
all'infuori di ogni influenza chiesastica; soprattutto si vuole
abituarle a pensare147. «Si spera che tu sarai uno dei
piú assidui collaboratori», scrive il Montanelli al
Tommaseo; «se hai qualche cosa preparata mandala, e la
stamperemo nei primi numeri»148. E qualche giorno dopo:
Ho letto, e meditato la tua lettera. Io non sono né il
capo, né il direttore dell'impresa – ma nulladimeno
potrò insinuare molti buoni principî al giovane
Leondarachis, il quale è il centro di tutto. – I miei
articoli procurerò sieno scritti secondo quei principî
che tu raccomandi... Il tuo articolino sarà inserito nel terzo
fascicolo. – Io faccio un dialoghetto diretto a togliere dalla
mente del popolo quel pregiudizio comune – che si debbano
rispettare le cose le quali ci sono state lasciate dai nostri
antenati.
Il Leondarachis era un giovane greco, amico del Montanelli, che
allora dirigeva, a Pisa, la tipografia Capurro. Ben presto lo vedremo
sorvegliato dalla polizia come sospetto editore di stampe clandestine
patriottiche. Sui primi di gennaio del '33 nuova lettera del
Montanelli al Tommaseo per esprimere talune sue riserve a due
articoli da lui mandati all'«Educatore». Non aveva ancora
vent'anni, il redattore del giornaletto, eppure si sentiva già
da tanto da dire schiettamente la sua al già illustre
Tommaseo; uno di questi articoli non gli pareva «accomodato
alle circostanze attuali» dell'Italia.
Non
bisogna predicare confidenza nello straniero al popolo –
di cui vogliamo servirci per liberare questa povera patria
dall'invasione ecc. ecc. – Verrà un tempo in cui il
principio della fratellanza dei popoli risuonerà sul labbro di
tutti. Per ora può giovare un poco d'egoismo nazionale...
Ti dirò ancora che il linguaggio dei tuoi articoli mi sembra
un poco troppo ascetico. Bisogna valersi delle idee religiose, e
rieccitarle in tutti i cuori profondamente – ma ci sono certe
formule che non convengono agli scritti d'un giornale, e che
potrebbero renderci ridicoli nel cominciamento dell'opera. Ti parlo
con libertà fraterna. Del resto la semplicità dei tuoi
articoli mi piace molto.
L'«Educatore del povero»
vide effettivamente la luce nel gennaio del '33. Ma nacque morto.
Fossero dissensi fra i redattori, o tra questi e lo stampatore, fosse
l'improvvisa partenza dall'Italia, nel marzo, del Mayer, che
verosimilmente lo finanziava, o fosse un veto piú o meno
formale della censura, certo è che ne uscí un numero
solo149, – e il povero restò senza...
educazione! Il tentativo, comunque, era stato importante: sarebbe
proprio un errore il sostenere che fu quello, nell'Italia della
restaurazione, il primissimo esperimento di un giornale tutto per il
popolo, volto a studiare e a illustrare la questione sociale? Noi non
diremo. Del dialoghetto montanelliano, rimasto fra gli inediti del
disgraziato giornale, non altro sappiamo che quanto ce ne dice
l'autore medesimo: e sarà inutile sottolineare il
caratteristico soggetto in tutto degno di uno zelante neofita di un
sansimonismo purgato da ogni eccesso teocratico.
Siamo venuti a parlare di un sansimonismo dell'«Educatore
del povero» di sulla traccia fornitaci dal catalogo del
Montanelli col Tommaseo. Adesso seguiamo un altro filone di non
minore importanza: i rapporti Viesseux-Montanelli.
Nella Nazionale di Firenze, fondo
Viesseux, si conservano ben 140 lettere del Montanelli al veramente
benemerito creatore dell'«Antologia», del «Gabinetto
letterario», dell'«Archivio storico italiano»:
cominciano dal 1831, finiscono soltanto con la morte di uno dei due
corrispondenti. La prima lettera è del 25 novembre
1831150 e s'inizia con un riferimento alla conoscenza fatta
dal Viesseux, a Firenze, due mesi prima. Il Montanelli aveva poco piú
di diciotto anni ed era appena laureato: pure lo si era già
ammesso agli onori della collaborazione all'«Antologia»,
l'unica rivista italiana che varcasse allora le Alpi, l'unica che
stacciasse ben bene, prima di accettarli, i candidati collaboratori.
Erano stati molto probabilmente il Centofanti e il Carmignani a
procurare al loro discepolo questa soddisfazione, certo piú
ambita e invidiabile di uno straccio di laurea. Scrivere
nell'«Antologia» voleva dire, infatti, allinearsi nella
stessa schiera col fior fiore dell'intelligenza italiana, saper la
propria prosa messa sott'occhio di lettori di primissima scelta e di
gusto veramente raffinato; scrivere nell'«Antologia»
valeva anche una distinzione d'altra natura, non meno ambita: una
distinzione politica. Non era giornale di parte, ché anzi fu
merito del Viesseux il mantenerlo sempre sulla linea di quello
spregiudicato eclettismo che era valso ad assimilarle un cosí
denso pubblico, ma era inteso, o per lo meno si risapeva, che firme
dell'«Antologia» erano tutte di patrioti provati, con
l'Italia in cima dei pensieri e non importa se proprio l'Italia una,
ma certo l'Italia: purgata dai barbari, e riconsacrata ai suoi
antichi, alti destini.
Il Viesseux – come del resto
tutti i buoni direttori di riviste – cominciava cosí,
con le reclute: le metteva al banco di prova delle recensioni, per
poi – se meritavano – promuoverle al rango di
articolisti. Anche il Montanelli seguí la trafila. Il primo
suo scritto accettato dal Viesseux fu una severa recensione a due
operette di un certo abate Orlandi, Apologia delle Scienze e delle
Arti. Elogio delle principali scoperte. Firenze 1831. Fu
pubblicata nel fascicolo di dicembre 1831151, non senza prima
aver subito, a sua volta, l'esperta critica del Viesseux. «Tanto
mi sono dispiaciute le cose discorse da questo Autore, che non ho
potuto fare a meno di stendere alcune idee in una notizia
letteraria», scriveva il Montanelli al Viesseux, il 16
dicembre; e cinque giorni dopo:
Con
sommo piacere ho inteso dalla sua gentilissima lettera del 20 corr.,
che il mio articolo ha incontrato la di lei approvazione. Ciò
mi incoraggisce non poco, e mi anima a seguire con ardore la carriera
che ho intrapresa. Modificherò volentieri quelle espressioni
un poco pungenti che mi sono sfuggite nell'impeto della composizione.
Fu il lavoro di una mattinata e non ebbi tempo di riflettervi sopra
gran cosa. Ma è troppo giusto e ragionevole che nella critica
si conservi sempre quella dignità, che conviene allo stato
attuale delle cognizioni ed è il carattere distintivo della
vera sapienza. La prego ad indicarmi i luoghi che desidera
precisamente mutati nella stampa che mi rimetterà152.
Cosí il «patriarca del giornalismo italiano»,
come assai piú tardi lo definirà il Montanelli,
insegnava il mestiere ai «pivellini»153.
L'articolino, cosí, riuscí una buona cosa, senza
pretese, ma chiaro e suadente: anche oggi, a leggerlo, si capisce che
il Montanelli aveva ricavato dagli studi fatti un'abitudine alla
precisione e alla concretezza, anche filosofica, non proprio comune.
L'abate Orlandi sapeva certo un monte di cose e molte delle sue
osservazioni erano buone; «ma assai maggiore sarebbe stato il
loro pregio – cosí il giovanissimo critico – se
alla erudizione e alla dottrina si fosse aggiunta una disposizione
piú metodica nel soggetto, una analisi piú severa nelle
investigazioni parziali, una elocuzione insomma meno retorica e piú
filosofica». Ma di che si occupano, precisamente, gli opuscoli
incriminati? Lasciamo stare, amico lettore: non turbiamo il divino
silenzio dell'oblio che li ha pietosamente ricoperti d'un velo; ti
seccheresti tu, e piú dovrei seccarmi io se volessimo, per
ogni quisquilia, risalire pedantescamente alle fonti...
Una seconda recensione del Montanelli
fu pubblicata sull'«Antologia» del febbraio '32: Sul
giornaletto poetico stampato in Corfú, osservazioni di Achille
Delviniotti corcirense, Pisa 1832154. Anche questa volta
non ci occupiamo dell'opera presa in esame se non per avvertire che
l'autore era un amico del Montanelli e fu ben presto un sospetto
politico; cerchiamo invece di scoprire il recensore nel suo mondo
ideale, tanto piú che, acquistata qualche maggiore franchezza,
il Montanelli abbordò in questo articolo, cosí
particolare, sfere piú ampie e piú alte, o vogliamo
dire questioni di carattere generale. Ascoltiamolo, senza dimenticare
la contemporanea esperienza del sansimonismo:
Il
fondamento principalissimo dell'ordine sociale sta nella rettitudine
dei costumi. Chiunque intende a promuovere il perfezionamento della
morale, e a consolidare l'impero della virtú, merita dunque la
riconoscenza della società. È dolce il vedere che a
questo santissimo scopo mirano le opere piú celebri dei nostri
giorni: ma piú dolce ancora si è il considerare che una
gran parte di tali opere appartiene alla gioventú... Noi, che
partecipiamo con l'autore al desiderio di vedere la poesia compagna
indivisibile della morale, non possiamo se non che far eco a tutte le
cose da lui discorse contro un genere di scritti diretti a corrompere
i costumi e la gioventú. Il poeta è l'interprete dei
sentimenti piú generosi e sublimi che onorano la umanità.
Inspirando agli uomini le affezioni virtuose e sociali con le forme
della bellezza, egli può cooperare mirabilmente ai progressi
della civiltà... Sarebbe tempo una volta che le arti del bello
adempissero ai bisogni del secolo, e si mostrassero le vergini
custodi delle fiamme del sentimento, e le umane propagatrici della
luce della virtú.
Dove, a parte le piú ampie riserve sulla... verginità
delle arti, ben si discopre il caloroso afflato idealistico che tutto
animava il Montanelli e, meglio ancora, come l'argomento di questi
suoi primi scritti non fosse che un pretesto, piú o meno
trasparente, per proclamare certi veri che gli fremevano
dentro.
Mentre sfornava le recensioni, il Montanelli pensava, s'intende, a
farsi onore con qualche articolo originale. Anzi, si era fatto
coraggio fin dalla prima sua lettera al Viesseux:
Già da qualche mese – gli aveva scritto – ho
concepito la idea di una opera, il soggetto della quale si è
«una introduzione allo studio di diritto, per servire ai
giovani che vogliono dedicarsi al medesimo». Ho già
preparato moltissimo materiale, ne ho distribuito tutte le parti, e
non molto tempo né molta fatica mi costerebbe il condurle a
termine... Vorrei pertanto far conoscere il mio piano, e le mie idee
in un articolo di codesto giornale l'«Antologia». E se
Ella me lo permettesse, me ne occuperei immediatamente.
Viesseux, che anche coi giovani era un
puntualissimo corrispondente, rispose subito: non s'impegnava mai,
per sistema, a pubblicare articoli che non avesse letti, ma il
Montanelli scrivesse, ed egli, una volta veduto l'articolo,
s'augurava di poterlo stampare155. D'altronde i suoi amici lo
consigliavano, molto saggiamente, a portar prima a compimento l'opera
progettata (mirante a «supplire in qualche modo al difetto
delle nostre scuole», rivolgendosi ai «giovani che si
dedicano allo studio del Diritto, e si trovano in una provincia del
tutto nuova senza che gli si mostri né come ci sono entrati,
né a quale scopo, ecc.»), e poi ad annunziarla nelle
riviste. Montanelli fece al Viesseux un caldo elogio
dell'«Antologia», il cui capo «non potrebbe essere
né piú lodevole, né piú adatto alle
condizioni attuali dei tempi e dell'Italiana società...
Chiunque ama la Italia, e desidera il perfezionamento della umanità
dee professarle la piú viva gratitudine per una impresa sí
utile e bella»; reiterò le sue proteste di voler
aiutare, nonostante la sua «tenuità» il sempre
maggior successo della rivista, essendo «animato dal piú
vivo desiderio di giovare alla mia patria, studiandomi di conoscere
la verità»156; e della introduzione al diritto
non parlò piú.
Il 28 dicembre tornò alla
carica: si proponeva questa volta di dar conto di una nuova
Philosophie du droit del Germinier, uno scrittore col quale,
diceva, «io simpatizzo molto»157; ma il Viesseux
gli rispose158 che l'opera era già stata affidata, per
la recensione, ad altro collaboratore. E il Montanelli:
Mi
dispiace che sia già impegnato il relatore dell'opera del
Germinier. Se Ella ha altri libri dei quali desideri che sia reso
conto nell'«Antologia», la prego a prevalersi di me
liberamente. Le Scienze che hanno particolarmente formato per
l'addietro il soggetto dei miei studi sono la Filosofia razionale, la
Morale, il Diritto, e la Scienza sociale. Mi sono occupato ancora di
Storia, e non ho tralasciato le lettere. Ma non ne ho fatto uno
studio cosí esclusivo come delle prime159.
Sorrise il buon Viesseux? Speriamo di sí; ma era, il suo,
un sorriso indulgente, che non disarmava i giovani, anche quelli che
avrebbero meritato una lezioncina di modestia...
Comunque, il Viesseux non rispose. E
allora il Montanelli, che non lasciava presa (7 febbraio, inedita):
«Ho quasi terminato un articolo sull'ultima opera del Romagnosi
che contiene: Una raccolta dei principali sistemi di filosofia
morale presso gli antichi», lo voleva l'«Antologia»?
No, l'«Antologia» non lo voleva, perché del
Romagnosi si era già occupato il Marzucchi. «Pazienza! –
cosí l'infaticabile critico. – Il signor professore avrà
trattato l'argomento assai meglio di quello che avrei potuto fare
io»160. Ma il Viesseux aveva saputo indorare la
pillola:
Io le manderò con piacere – gli aveva scritto infatti
l'11 febbraio (lettera inedita) – la prima opera della quale
potrò disporre... Quando le verrà fatto di scrivere
qualche cosa del tutto originale su qualche punto di quei rami delle
scienze morali delle quali ama d'occuparsi, mandi pure, io le dirò
ingenuamente se ciò che m'avrà mandato potrà
convenire pel mio giornale.
Finalmente, era... la promozione!
Giacché
Ella mi dice che posso spedire anco qualche articolo originale in
scienze morali e politiche – rispose a volta di corriere il
Montanelli – ho pensato di trattare un argomento che forse non
le dispiacerà: La esposizione del sistema Bentham e la
storia delle sue vicende. La rapidità con la quale il
sistema Bentham si diffuse in Europa, e la eguale rapidità con
la quale è caduto in discredito ai nostri giorni, possono
fornire soggetto di bellissime ricerche sulla direzione che lo studio
del Diritto ha preso in questi ultimi tempi.
E chiedeva un'opera del Compte che gli sarebbe servita per
l'articolo in questione161.
Questa volta andò bene:
Viesseux, di massima, accettò, non senza rinnovare
raccomandazioni e consigli di lavorare con la massima calma e di
mostrarsi un po' piú severo nella critica di... se stesso,
spedí il Compte162. Il 3 marzo Montanelli scriveva:
«Il mio lavoro su Bentham progredisce. Ma seguo il suo
consiglio. Faccio e rifaccio – e volentieri imbratto molta
carta»163. E a novembre: «Quando in qualche
giornale inglese capiterà la biografia di Bentham la prego di
avvisarmi perché desidererei di parlare di questo grand'uomo
dopo aver molto meditato sulle sue opere»164. Un buon
discepolo, via.... Cosí buono e dimesso che, a quanto pare,
finí per spaventarsi della gravità dell'assunto, tanto
che all'ultimo momento vi rinunciò.
Era fra i suoi difetti quello di
affrontare alla leggera temi troppo diversi e impegnativi. Una
toscana facilità e fluidità di scrittore, benissimo
identificata dal direttore dell'«Antologia», gli nuoceva
piú di tutto. Non venne fuori, il 21 di novembre, con due
nuove proposte di pubblicazione, una d'un articolo già
scritto, nientedimeno che sulla Critica sistematico-universale e
Guida alla rinnovazione della filosofia di un Giovanni Maggi,
«giovane italiano, il quale alla docilità dell'ingegno
congiungeva ardentissimo desiderio del bene dell'umanità,
l'altro ancora da scrivere sulle ultime vicende e lo stato attuale
della musica, trovandone le cagioni nelle grandi trasformazioni
sociali»?165. Viesseux strabilia:
Io non posso fare a meno di
osservare quanto vi seducano gli argomenti piú difficili a
trattarsi...166. Basta, vedremo. Checché ne sia, devo
ammirate la vostra lodevolissima ambizione, e la facilità
della quale mi date prova... Se avessi saputo che siete intelligente
della storia della musica e della sua filosofia vi avrei mandato
un'operetta sulla quale mi è stato chiesto un articolo di
rivista. Ora ve la mando167.
Ebbe dal Centofanti, che già lo
aveva letto ed approvato, e che del resto vi era citato con lode, il
primo articolo del Montanelli; glielo rimandò con preghiera
di... rifarlo168, e poi lo pubblicò nel fascicolo di
dicembre.
L'articolo era degno dell'«Antologia». Del Maggi, al
solito, non c'importa nulla; ma vediamo Montanelli al lavoro, vediamo
come in pochi mesi l'aquilotto avesse fatto le sue penne al volo.
Ecco
lo slancio d'una bell'anima che volge intorno lo sguardo, che
apprende la dissoluzione universale dell'epoca in cui viviamo, che
cerca un rimedio ai tanti mali che ne circondano, e non lo trovando
nelle antiche dottrine domanda una nuova ma magnifica rigenerazione
di principî filosofici.
Il
desiderio del signor Maggi è il desiderio di tutte le anime
generose: e noi pure e come uomini e come italiani lo abbiamo comune
con lui. Ma sotto molti aspetti anco in questo punto le nostre idee
sono dalle sue essenzialmente diverse... si attende una nuova scienza
sociale in cui siano rigorosamente dimostrate le conseguenze del
principio dell'eguaglianza morale di tutti gli uomini,
promulgato dal cristianesimo... Quando affermiamo essere necessaria
una rinnovazione filosofica, vogliamo dire che un nuovo sistema di
principî generali dee sorgere dalle scoperte, e dalle
osservazioni parziali della moderna sapienza... Ma la italiana
gioventú, anziché applicare l'ingegno a queste grandi
creazioni filosofiche, le quali richiedono maturità
d'intelletto e lungo corso d'osservazione e d'esperienza, può
essere in altro modo assai piú utile alla patria comune,
intraprendendo specialmente una sistematica illustrazione del nostro
passato filosofico... È pur tempo che l'Italia nella
conoscenza del passato acquisti il sentimento dei suoi futuri
destini. È pur tempo che noi sappiamo ciò che ci deve
l'Europa, e superbi delle nostre glorie nazionali occupiamo il posto
che ci conviene nella storia della moderna filosofia. È
impresa lunga e difficile: ma guai se gli ostacoli e le difficoltà
dovessero diminuire l'ardore dell'italiana gioventú!
Amico lettore, cosí scriveva il Montanelli non ancora
ventenne: con questa altezza di concetti, con questa coscienza di
patria, con questa serietà di studioso e di cittadino. Non
vorremmo perdonargli allora il peccato veniale d'un ostentato
enciclopedismo da strapazzo? E non vorremo finalmente intendere come,
pur muovendo dai piú diversi lidi egli drizzasse, e pur
sempre, la prora, o almeno proponesse di farlo, verso quell'unica
meta, la grandezza auspicata della patria restituita al suo glorioso
destino?
Ma proseguiamo nella lettura del carteggio Montanelli-Viesseux.
Per tutto il gennaio e una buona metà di febbraio del '33,
silenzio. Il 22 febbraio, Montanelli:
Bisognerebbe
che io vi potessi significare le cause del mio silenzio perché
voi interamente mi scusaste. Vi basti il sapere che già da un
mese non ho aperto un libro, e che ora solamente il mio cuore
comincia a riacquistare un poco di calma dopo tante agitazioni
sofferte. Nulladimeno, quantunque, oppresso dai piú tristi
pensieri, mi sono spesso ricordato di voi...
Avrei già fatto da qualche tempo l'articolo sulla musica. Ma
non ho potuto applicare. Spero però di mandarvelo quanto
prima. D'ora in poi son tutto per voi169.
Perché questa crisi? Perché questi tristi pensieri?
Tenteremo piú oltre di venirne a capo. Il 13 marzo, sempre il
Montanelli: «Vi manderò l'articolo sulla musica
unitamente ad altre cose... Vi ripeto che mi vergogno di questo
prolungamento...» E, a una proposta del Viesseux di retribuire
i suoi scritti:
Mi
dispiace che le circostanze nelle quali mi trovo mi obblighino ad
accettare la vostra graziosissima offerta... Mi sforzerò di
scrivere sempre in modo che ne siate contento... Sono circondato da
alcuni giovani i quali con un poco piú di coltura potranno
essere ottimi collaboratori. Speriamo che gli ostacoli frapposti ad
un'opera cosí utile, e cosí generosa saranno presto
distrutti. Speriamo!170.
Era l'«Antologia», si sa, che cominciava a... far
acqua in parte anche per quell'articolo del Tommaseo che al
Montanelli era tanto piaciuto non senza, tuttavia, suscitare la sua
meraviglia che la censura lo avesse permesso. A Firenze la gran
battaglia per la salvezza o la perdita della rivista era ormai in
pieno corso, scatenata dalla «Voce della verità».
Viesseux ostentava ancora la sua bella
tranquillità: tanto che il 14 marzo spediva al Montanelli due
nuovi libri da recensire – la versione di due manuali giuridici
tedeschi annotati dal Romagnosi – e altri da consegnare, per lo
stesso oggetto, a un amico171. Montanelli accettava
volonteroso l'incarico: «Avrò occasione di dir qualche
cosa relativamente alla filosofia tedesca, ai pregiudizi che
impediscono in Italia lo studio di quella filosofia, e alla necessità
di conoscerla, perché il movimento intellettuale italiano
possa associarsi al movimento generale europeo»; e nel contempo
spediva al Viesseux il famoso articolo musicale172.
Ma il governo toscano aveva vinto (o piuttosto perduto) intanto la
sua battaglia: l'«Antologia» era morta, un lutto
nazionale piú doloroso, piú grave e piú
universalmente sentito che se fosse scomparso, davvero, un grande
italiano. «Già da qualche tempo io prevedevo ciò
che realmente è avvenuto!» scrisse, ai dieci d'aprile,
il Montanelli, costernato e indignato. «Potete immaginare però
di qual dolore mi riescisse la notizia della soppressione
dell'"Antologia" sebbene aspettata! Presto verrò a
Firenze. Ho bisogno di discorrere molto con voi»173.
Era tutto un periodo della sua vita che si chiudeva; era una pia
illusione – quella di un compromesso possibile fra governo e
governati, fra conservatorismo e progresso, fra autorità e
libertà – che s'infrangeva; era anche, per lui, una via
luminosa che gli veniva sbarrata proprio allorquando avrebbe potuto
cominciare a percorrerla piú speditamente e non senza frutto,
anche materiale e immediato. Vero è che l'esperienza
dell'«Antologia», per quanto breve, gli era stata
preziosa. Non invano si andava a scuola da quel maestro del buon
senso, dell'equilibrio, del contenuto ardore, della disinteressata
probità scientifica che si chiamava Viesseux.
Vent'anni piú tardi, riconoscente, lo scolaro illustre
doverosamente scriveva:
Se
Firenze un giorno vorrà temperare sulla piazza di Santa
Trinità i funesti coi grati ricordi, inalzerà ivi, in
nome della filosofia educatrice, un monumento alla operosità
instancabile, perseverante e modesta del fondatore
dell'«Antologia»174.
L'«Antologia», del resto,
non era stata la sola palestra aperta al Montanelli per dar le prime
prove del suo ingegno. Già nell'estate del 1831, diciottenne,
egli era venuto a Firenze per leggervi, nell'Imperiale e Reale Ateneo
Italiano, due suoi discorsi: quelli stessi che, a quanto pare,
attiraron su di lui l'attenzione dell'«Antologia»175.
Un ragazzo prodigioso in una assemblea di parrucconi: certo, dovette
fare impressione. Tanto piú che questi due discorsi, subito
dopo stampati, non avevano nulla a che fare con le solite, inutili e
asfissianti comunicazioncelle erudite. Nel primo: Della morale e
della critica considerate nei loro rispetti scambievoli, oltre
alla chiara impostazione storica e filosofica, quel che piú
c'interessa è la decisa professione di fede idealistica e
romantica, antiutilitaria e antisensistica, del giovanissimo oratore.
... il fatto primitivo della morale è il bisogno della
virtú; il fatto primitivo dell'Estetica è il bisogno
della creazione dell'arte... Questi bisogni sono ambedue una
emanazione di quella forza mirabile per cui l'animo esce in certa
guisa fuori di se stesso, e si diffonde negli oggetti che lo
circondano.
Passando a parlar di poesia come massima espressione di morale in
azione, il Montanelli accettava la teoria dell'Ancillon, secondo la
quale la grande distinzione fra poesia antica e moderna era quella
che l'antica intendeva principalmente a «dipingere l'uomo nel
contrasto delle sue affezioni»: che era poi l'antinomia
maggiore fra paganesimo e cristianesimo. «Che cosa è la
vita nel sistema del cristianesimo se non un contrasto continuo della
libertà con le passioni, dello spirito e del mondo? E come può
in questo contrasto dilettar l'uomo l'aspetto della natura, e delle
bellezze dell'universo?» Perciò la poesia moderna era
«sentimento e malinconia, dipingendo l'uomo con tutti i suoi
contrasti». La vita moderna, col progresso dell'industrialismo,
spingeva l'uomo sempre piú al perseguimento del suo materiale
interesse: ed ecco il compito supremo degli artisti, correggere
quelle tendenze, rialzare l'umana dignità «con le forme
della bellezza tenere vivo quel fuoco sacro da cui si partono tutti
quei sentimenti che onorano l'umanità». Ingenuità
di poeta? E sia pure: ma, in questo caso, benedetta ingenuità!
A non dissimile meta tendeva l'altro
discorso: Dell'amore nella poesia antica e moderna176:
dove, seppure con illazione assai contestabile nella sua
perentorietà, il Montanelli stabiliva che «l'amore come
bisogno puramente fisico signoreggia nella poesia degli antichi, ed è
l'anima della moderna (massimo campione il Petrarca) come sentimento
eminentemente morale... Il sentimento morale dell'amore... nacque con
la formazione della novella civiltà». Quale il compito
dei novissimi poeti? Quello di rivolgere principalmente le potenze
dell'arte alla riforma dei costumi, alla rigenerazione morale
dell'umanità... Cantarono d'amore gli antichi, ne cantarono i
moderni poeti. Ma questo affetto fu nei primi un semplice bisogno
della natura, fu negli altri uno slancio egoistico del cuore. A voi
(giovani poeti) è riserbata la nobilissima missione di riunire
i pregi degli antichi a quelli dei moderni». La missione della
poesia era dunque assai altamente sentita dal Montanelli: il quale,
come accade, sapeva per allora altrettanto bene ragionar su di essa,
quanto mal gli riusciva di applicar nella pratica, in veste di poeta
egli stesso, quei troppo superbi dettami.
Giurista, filosofo, critico, poeta, musico. Che piú?
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