2. Giuseppe Montanelli e
il problema toscano nel 1859
A Giuseppe Montanelli, agitatore
politico, scrittore, statista, soldato, tutto fu perdonato dai suoi
contemporanei – anche l'infelice prova ministeriale del '48-49,
anche le oscillazioni, vere o presunte, del suo pensiero politico, e
perfino la mediocrità dei suoi versi – ma non
l'atteggiamento che assunse nell'anno decisivo per le sorti della
Toscana e d'Italia. Il contrasto determinatosi allora fra la sua
azione politica e le direttive del nuovo governo toscano raggiunse
infatti tal gravità, tale asprezza che il Montanelli, si sa,
ne uscí letteralmente stroncato nella sua fama di patriota; la
morte, sopraggiunta nel giugno del 1862, quando egli aveva appena
potuto riprendere la sua attività, gl'impedí d'altra
parte di fruire di quella piena riabilitazione la cui doverosità
cominciava ad imporsi agli stessi suoi piú accaniti avversari.
Scomparso lui dalla scena del mondo, si poté anche inalzargli
monumenti e variamente onorarne la memoria, ma un processo di
revisione di quella specie di condanna morale che lo aveva colpito e
atterrato negli ultimi anni non venne mai piú.
Intenti a ritracciare in base a nuovi documenti la vita di lui,
singolarmente bistrattata quasi piú da incauti apologisti che
non dai suoi stessi denigratori, vorremmo adesso non proprio avviarlo
noi, questo processo di revisione, ma per lo meno radunarne gli
elementi necessari: persuasi come siamo che il chiarimento di questo
episodio possa giovare altresí a mettere in luce, piú
generalmente, certi modi e certe forme, altamente caratteristici, del
glorioso rivolgimento toscano.
Il 27 aprile del 1859, esattamente
alla stessa ora nella quale a Firenze aveva luogo la pacifica
cacciata del granduca, Giuseppe Montanelli, esule in Francia ormai da
dieci anni, partiva per l'Italia, deliberato, nonostante la non piú
giovane età (egli era nato a Fucecchio nel 1813) e la malferma
salute, a prender parte alla guerra, arruolandosi fra i volontari
toscani177. Giornata di vibrante entusiasmo, a Parigi: truppe
in partenza, inni ed acclamazioni, l'Italia in tutti i cuori e su
tutte le labbra. L'ex triumviro della Toscana, l'illustre autore
delle Memorie, l'applaudito poeta della Tentazione e di
Camma, a buon diritto poteva dar libero sfogo alla sua
esultanza, giacché quel che accadeva gli appariva come una
solenne conferma delle sue previsioni e in qualche modo come un
altissimo premio alla sua incessante propaganda politica,
costantemente ispirata al concetto fondamentale della complementarità
del problema italiano con quello generale europeo. In particolare –
e pur fra comprensibili dubbiezze e oscillazioni determinate
dall'estrema fluidità della situazione – il suo punto
fermo in politica era rimasto, dal '49 in poi, quell'uno: che senza
l'aiuto di Francia, cioè, la libertà e l'indipendenza
d'Italia sarebbero rimaste un bel sogno inattuabile. Questo aveva
detto e scritto agli amici italiani di qua e di là delle Alpi,
questo si era studiato di dimostrare nelle numerose pubblicazioni
date alle stampe in quegli anni, e in questo senso aveva orientato la
sua propaganda negli ambienti politici della capitale. Parlava ai
Francesi d'Italia e agli Italiani di Francia; né mai si era
stancato di ricercare e di additare i motivi e i modi di un
allineamento franco-italiano, quand'anche i dati concreti della
situazione fossero parsi contrastar nettamente con quei suoi piani
politici.
Le innumerevoli e cospicue sue relazioni ed amicizie francesi –
dal Lamartine all'Hugo, dal Michelet al Lamennais, dal Quinet al
Légouvé, dal Martin al Perrens – non erano state
da lui ricercate e coltivate proprio in vista di questa
indispensabile illuminazione della «intelligenza»
francese sui dati della questione italiana? Oggi sappiamo bene quanto
merito risalga all'emigrazione politica italiana nell'attuazione del
piano napoleonico concepito e stimolato dal Cavour: ma certo ben
pochi fra gli emigrati erano al pari di lui riusciti ad introdursi
(grazie anche ai clamorosi suoi successi letterari e teatrali) nei
piú esclusivi ambienti della capitale, nessuno conosceva cosí
a fondo le redazioni dei grandi giornali. Nel «Siècle»,
nella «Presse», gli organi piú apertamente
italofili della stampa francese, parecchie erano state le
«corrispondenze d'Italia» da lui fornite su dati che
sistematicamente si procurava da Firenze, da Milano, da
Torino178. Nella «Revue des Deux Mondes», nella
«Revue de Paris» e in altre minori il suo nome era
familiare. E gli amici toscani, quelli stessi che pur sovente
dissentivano da lui circa l'azione da svolgere nel granducato in
previsione di complicazioni politiche, a chi se non a lui si
rivolgevano quando occorresse loro denunziare sulla stampa francese
la situazione del loro paese?
In quei primissimi mesi del 1859, poi,
l'attività spiegata da Montanelli aveva raggiunto un ritmo
addirittura febbrile. Egli sperava ormai nella guerra, sí179,
ma, introdotto com'era nel sancta sanctorum della politica
imperiale (il Pietri e il Baciocchi eran fra le sue conoscenze), non
poteva non registrarne tutte le oscillazioni, valutando l'entità
delle resistenze che contro la guerra si andavano affermando in
Francia, un po' in tutti i settori. «Qui l'opinione ha bisogno
d'essere scaldata, – scriveva sul principio dell'anno ad un suo
corrispondente, a Torino, l'Homodei, incitandolo a procurargli un
sempre piú nutrito notiziario lombardo da trasmettere ai
giornali amici, – ... Tutta la borghesia è spaventata»:
orleanisti, cattolici, repubblicani, tutti all'opposizione, tutti
contrari alla guerra!180. Pur di travolgere quelle
opposizioni, pur di popolarizzare l'impresa italiana, il Montanelli
si era messo a piena disposizione del conte di Cavour, relegando
provvisoriamente in sott'ordine ogni sua prevenzione circa le
finalità ultime della politica sabauda181: era entrato
in rapporti indiretti con lui e conversando e scrivendo contribuiva
per parte sua a realizzarne il serrato giuoco diplomatico. Suggeriva,
per la Toscana, una energica ripresa del movimento di agitazione
liberale, in vista di costringere il granduca a consentire ad un
ministero costituzionale il quale preparasse la partecipazione della
Toscana alla guerra auspicata: ché se il granduca vi si fosse
opposto, per appellarsi all'Austria (scriveva e faceva scrivere, nel
gennaio e nel febbraio, al Puccioni, al Parra, al Visconti Venosta e
ad altri ancora), ecco trovato un eccellente pretesto per un
contro-intervento franco-sardo, cioè appunto per provocare la
guerra182. Da Torino, invece, gli si scriveva autorevolmente
perché procurasse anche lui di persuadere i suoi amici toscani
a organizzare piuttosto un moto insurrezionale che avrebbe dovuto
scoppiare non appena in Piemonte i preparativi per la guerra fossero
stati compiuti; e, insieme, s'invocava la sua presenza animatrice
nella capitale sabauda183. Era quello il tempo nel quale
sembrava che gli energici sforzi della politica inglese per
scongiurare il conflitto dovesse trionfare, impantanando la questione
italiana in un congresso delle potenze.
Il Montanelli frattanto s'adoperava a
sollecitare l'afflusso di volontari dalla Toscana in Piemonte:
l'indifferenza o la freddezza degl'italiani nell'imminenza della
crisi presumibilmente risolutiva lo preoccupavano
immensamente184. Si rendeva conto infatti che solamente sui
campi di battaglia l'Italia avrebbe potuto fornire la prova decisiva
della sua maturità nazionale: e i sintomi, già
manifesti, di una rinnovata abdicazione dei suoi compatrioti del
centro e del mezzogiorno di fronte all'attesa azione franco-sabauda
lo inducevano ai piú tristi presagi. Il mirabile esempio
lombardo – e con i lombardi egli si teneva da tempo in assiduo
contatto – restava malauguratamente isolato185.
Innumerevoli lettere, innumerevoli
articoli e pseudo-corrispondenze italiane, redatti in quel suo stile
caldo, imaginoso, poetico, seppure talvolta un poco prolisso,
uscivano dalla sua penna. Si poneva in rapporto col principe Gerolamo
Napoleone186, si recava – per la prima volta in dieci
anni – a intervistare l'imperatore nella vana speranza di
penetrarne gl'intendimenti finali circa l'assetto che si sarebbe
potuto dare all'Italia dopo la guerra187; studiava, d'intesa
con gli amici di Firenze e di Torino, la possibile immediata
fondazione, a Parigi di un giornale in lingua francese consacrato
alla causa italiana188; si occupava a far tradurre e a
diffondere il celebre opuscolo Toscana e Austria189;
dettava manifesti alla nazione tedesca per incitarla a seguire con
simpatia o almeno con minor diffidenza l'imminente impresa
liberatrice d'Italia, imaginava, allo stesso scopo, un indirizzo dei
protestanti italiani ai correligionari inglesi e tedeschi190;
scriveva al Poerio, di fresco sbarcato in Inghilterra, reduce dalle
galere borboniche, suggerendogli di sfruttare l'immensa sua
popolarità in quel paese per indurre il governo a farsi
banditore, nel temuto Congresso, della restituzione ai Toscani
e ai Napoletani delle costituzioni del '48, illegalmente
abrogate191.
Fu, ripetiamo, un periodo ansioso e
attivissimo, durante il quale il Montanelli, trascurando ogni altro
suo interesse192 e differenziandosi dai piú dei
colleghi in repubblicanismo, clamorosamente ostili ad una guerra
voluta dal despota napoleonico, si prodigò con incessante
entusiasmo. E finalmente fu la guerra, la sospirata partenza per
l'Italia.
Il Montanelli era cosí mal
ridotto in salute193 che, pur avendo interrotto il suo
viaggio a Chambéry194, appena giunto a
Torino195, ammalò. Riavutosi, volle, prima di partire
pel campo, conferire col Cavour (oltre che con vecchi suoi amici
quali il La Farina, il Pallavicino, il Farini). I due, che fino
allora non si erano mai incontrati – avrebbero dovuto vedersi a
Parigi, un mese innanzi, ma poi l'affrettata partenza del Cavour
aveva fatto mancare il ritrovo196, – ebbero un
esauriente colloquio, e a quanto pare si lasciarono soddisfatti l'uno
dell'altro. Il Cavour, anzi, ripetutamente insistette perché,
rinunciando all'idea di prender parte alla guerra, il Montanelli –
il quale non poteva servirsi del braccio sinistro, malamente ferito
nel '48, a Curtatone – si disponesse ad accettare un qualche
ufficio politico meglio atto a sfruttare le sue capacità197;
anche gli amici francesi lo avevano scongiurato di non esporsi a
fatiche troppo superiori alle sue deboli forze (come non capiva che,
di fronte al nemico, un robusto contadino valeva mille volte piú
di un intellettuale incurvato sui libri?)198. Ma il
Montanelli che, come si è detto, avrebbe voluto vedere quella
guerra trasformata dagli italiani in una specie di crociata
nazionale, e che sentiva come vergogna e sciagura d'Italia che le
truppe francesi avessero a far l'esperienza delle imbelli virtú
della maggioranza dei suoi compatrioti, rifiutò netto: e con
lo slancio di undici anni prima, soltanto men giovane e forte, partí
per il campo, resistendo finanche al desiderio nostalgico di rivedere
al piú presto la sua Toscana; ma invero il meglio della
Toscana non erano proprio quei volontari che egli si apprestava a
raggiungere?199. Si trovavano costoro ad Acqui, ordinati (per
usare un'espressione eufemistica) nel corpo dei Cacciatori degli
Appennini, sotto il comando dapprima di Girolamo Ulloa, intimo amico
del Montanelli, quindi del Boldoni200: fra di essi il
Montanelli prendeva il suo rango come semplice milite, rifiutando la
nomina a sottotenente201; era un suo vecchio principio quello
che la responsabilità del comando spettasse esclusivamente
agli esperti, e non mai agli ufficiali improvvisati.
Qual era allora il suo punto di vista sulla situazione politica e
in particolare sulle sorti della Toscana «protetta» dal
re sabaudo? Egli partiva dalla premessa, ovvia a quei giorni, esser
la Francia arbitra assoluta dei destini d'Italia; occorrer quindi non
contrastare apertamente il programma imperiale, notoriamente mirante
ad assicurare l'indipendenza alla penisola sulla base di una
costituzione federale. Soprattutto premeva che sui primordi del
conflitto non venissero sollevate discussioni e questioni concernenti
il problema dinastico in Toscana, atte a smorzare lo slancio
guerresco dell'imperatore, con l'insinuargli dei dubbi circa
possibili deviazioni del governo di Torino dal piano concertato a
Plombières.
Nel
primo periodo della guerra dell'indipendenza, dalla scesa dei
francesi in Italia fino all'entrata loro in Milano – preciserà
piú tardi lo stesso Montanelli202 – mi parve
inopportuno ogni movimento il quale accennasse alla formazione d'un
solo Stato italiano retto da Vittorio Emanuele: ciò per due
precipue ragioni. La prima delle quali era di non contradire al
disegno federale convenuto a Plombières...; la seconda di non
accrescere difficoltà a un moto napoletano, il quale
costringesse il Borbone ad unire alla Francia e al Piemonte le sue
milizie contro l'Austria. Ciò non vuol dire che il disegno
federale francese mi sembrasse preferibile all'unità regia
bene intesa.
Dove immediatamente si scorge come fino da allora il Montanelli
subordinasse la soluzione del problema che piú gli stava a
cuore, quello toscano, alla soluzione integrale del problema
d'Italia; e anche come in lui durasse viva e cocente la memoria del
'48, allorquando l'affrettata annessione della Lombardia al Piemonte
aveva in qualche modo trasformato la guerra «nazionale»
in una impresa ad apparente, esclusivo profitto della dinastia di
Savoia.
Senonché si volle e si vuole
dai suoi detrattori che fino da quella prima metà di maggio
egli andasse invece già intrigando negli ambienti imperiali,
ad Alessandria, per propugnare la candidatura del principe Napoleone
al trono toscano203. Somma ingiustizia degli uomini e delle
cose! Mentre il Montanelli militava in Acqui, felice di trovarsi fra
quella gioventú animosamente impaziente di entrare in
linea204, e risoluto a non occuparsi per allora di cose
politiche, un influente personaggio toscano, già vecchio amico
suo, ma poi tra gli oppositori del suo ministero e quind'innanzi
sempre contrarissimo a lui, il Salvagnoli, si presentava, come ognun
sa, il 17 maggio, all'imperatore, formalmente richiedendolo, fra
l'altro, di mandare un corpo di truppe francesi in Toscana, per
salvarla dai temuti eccessi dell'estremismo mazziniano. Di qui la
destinazione in Toscana del 5° corpo d'armata, comandato dal
principe Napoleone, di qui le innumerevoli gravissime complicazioni
che sono nella memoria di tutti, di qui gli esiziali sospetti sulle
intenzioni francesi, ravvivati dal fatto, non ignoto ai piú,
che era proprio il Salvagnoli quegli che nel novembre del '58 aveva
presentato all'imperatore un progetto di riordinamento della penisola
comprendente la cessione dell'Italia centrale al principe
Gerolamo!205. Di qui, finalmente, né proprio si riesce
a intendere con qual fondamento, certe accuse... al Montanelli, anche
di recente echeggiate da pur coscienziosi scrittori di cose
toscane206.
In realtà quella missione del Salvagnoli costituiva una
prova caratteristica del disorientamento che aveva colto, a Firenze,
quella minoranza medesima dalla quale era pur stato promosso, o
guidato, o volonterosamente accettato, l'ordine nuovo instaurato in
Toscana alla fine d'aprile. E infatti se l'accordo fra quei patrioti
era stato agevolmente raggiunto, e agevolmente si sosteneva quanto al
lato negativo del loro programma (il bando definitivo al granduca),
una disorientante varietà di propositi li divideva quanto ai
criteri e alle finalità della ricostruzione. Lo stesso
programma dell'annessione al Piemonte, che pure si presentava, fra
tutti, come il piú concreto e maturo ed attuabile, dava luogo
a profondi dissensi circa il tempo e il modo della sua attuazione.
Annessionisti ad oltranza, postulanti la fusione immediata, e in
qualche modo l'annullamento della personalità politica toscana
nell'organismo piemontese, di contro ad annessionisti dell'ultima
ora, solleciti invece di salvare, nell'operare l'unione, quanto piú
si potesse delle tradizioni e delle leggi e insomma del patrimonio
politico toscano; dissensi nel ministero, e poi fra i singoli
ministri e i capi piú autorevoli della parte nazionale, e
accuse incrociate di autonomismo o, per converso, di scarso amore
della «patria» toscana; e, accanto agli annessionisti, i
fautori di un piú modesto programma di rinnovamento, affidato
ad una nuova dinastia, o addirittura gli unitari «italiani»,
i quali, parimenti opposti agli annessionisti ed agli autonomisti,
assegnavano alla Toscana la missione e la funzione di centro
iniziatore di una integrale unificazione italiana.
Divisi gli animi a questo modo nel partito «nazionale»,
la gran massa del paese supinamente indifferente, quando non ostile,
alle novità dell'aprile e a quelle in corso di sviluppo; con
una stampa non ancora adeguata e informata al nuovo clima politico ed
alle nuove possibilità che ne derivavano; non è
meraviglia davvero che l'annunzio del prossimo arrivo del principe
Napoleone in Toscana gettasse a Firenze e a Torino allarme e
subbuglio vivissimi. Impaccio del governo toscano, fulminea
contromanovra del Cavour, lí per lí determinatosi,
nonostante le tranquillanti dichiarazioni e dell'imperatore e del
principe, a neutralizzare la malaugurata mossa francese, premendo sul
Boncompagni e, attraverso quello, sul Ricasoli, perché senza
indugio venisse proclamata l'annessione della Toscana al Piemonte.
Dichiaratamente contrario a che le questioni del futuro
ordinamento dell'Italia centrale venissero pregiudicate finché
durava la guerra, il Montanelli fin qui non si era mosso da Acqui.
Senonché parve anche a lui che la spedizione del principe
Napoleone venisse a creare una situazione nuova del tutto,
suscettibile di decisivi sviluppi: e anch'egli si domandò se
non si correva per caso il rischio di trovarsi, alla fine della
guerra, dinanzi ad un irrimediabile fatto compiuto. 23 maggio, sbarco
a Livorno del cugino dell'imperatore; due giorni appresso il
Montanelli, recatosi in Alessandria, chiede ed ottiene udienza da
Napoleone III. Il colloquio (il secondo fra loro) verte da principio
sulla situazione toscana, intorno alla quale l'imperatore riceve da
piú parti le informazioni piú desolantemente
contraddittorie. «Mi sforzai di mostrargli – cosí
il Montanelli in una sua relazione inedita207 – che
quanto al non volere i Toscani divenir provincia del Piemonte, il
Boncompagni poteva avere forse ragione». (Proprio cosí!
Il Boncompagni, infatti, ignaro ancora della manovra cavourriana, e
personalmente alieno dal forzar la mano ai Toscani, scriveva e
operava allora in senso tutt'altro che annessionistico, mentre
l'imperatore, per parte sua, deplorava o figurava di deplorare quello
che gli sembrava, di tutto quell'«imbroglio», l'unico
dato di fatto incontrovertibile: e cioè l'assoluta contrarietà
dei toscani a rinunziare alla loro autonomia).
Ma
quanto all'idea unitaria monarchica – cosí ancora, il
Montanelli – la Toscana, e soprattutto le città di
provincia, la sentivano profondamente... Idee di separazione in
Toscana non ce ne erano davvero. E dalla Toscana il discorso s'elevò
a tutta l'Italia, ed ebbi a persuadermi come li statisti italiani che
avvicinavano l'imperatore erano lontani dall'avergli o per ignoranza
o per malizia fatto apprezzare l'indole e la portata del nostro
movimento unitario208.
Ecco dunque il preteso separatista, il francomane, il
«plonplonista» Montanelli fare in altissimo loco
propaganda unitaria, e, come tutti i propagandisti, del resto,
accomodare ai suoi fini la verità di fatto, sostenendo
imperturbabile non esservi in Toscana idee autonomistiche (!),
esservi anzi l'idea unitaria profondamente radicata e diffusa...
Avrebbe potuto affermar cosa meno esatta, ma, insieme, alterare la
verità per un piú nobile oggetto? Avrebbe potuto, lui
repubblicano, sacrificare piú di cosí al programma
della unità monarchica? Protestandosi assolutamente
disinteressato quanto alla soluzione da darsi al problema dinastico
toscano, l'imperatore poteva essere in buona o in malafede: il
Montanelli per parte sua lo credeva perfettamente sincero, riteneva
comunque che, una volta sollevata, con la spedizione del principe
Napoleone, la questione generale dei futuri destini d'Italia,
tant'era prendere alla lettera quelle sue proteste, affacciando senza
indugio e con spregiudicata franchezza la soluzione piú
radicale e integrale. Al qual proposito sarà opportuno
osservare come, bene o male ispirato che fosse nello scoprire
siffattamente il programma della completa unificazione italiana, il
Montanelli agisse in piena indipendenza e da Torino e da Firenze,
nettamente precorrendo atteggiamenti e prese di posizione assai piú
tardi diffusisi tra i suoi concittadini: salvo che allora gli si
muoverà rimprovero di non volervisi associare, anzi di essere
sordo al richiamo dell'unità italiana!
Riconoscendo la legittima dittatura
morale del Cavour esercitata su tutta l'Italia, volle il Montanelli
che il gran ministro venisse, a sua norma, puntualmente informato del
suo colloquio con l'imperatore: ond'è che l'intendente
d'Acqui, dietro sua espressa richiesta, gliene trasmise una precisa
relazione209. Noi non conosciamo questa relazione, ma che il
Cavour restasse soddisfatto dell'attività da lui svolta,
dimostra appieno, ci sembra, la circostanza che il Montanelli venisse
allora ufficialmente e calorosamente raccomandato, a nome del governo
reale, alle locali autorità di Acqui e di
Alessandria210. Piú tardi, del resto, anche Giorgio
Pallavicino, spintovi dal Montanelli, suo vecchio amico, trasmise al
Cavour un resoconto del colloquio imperiale211. Dal quale il
Montanelli non usciva, a dire il vero, gran che ottimista circa la
possibilità d'indurre l'imperatore a rivedere e a modificare
il suo programma di ordinamento federalistico per l'Italia. Lo
scrisse, fra gli altri, al Michelet: «Giorni sono ad
Alessandria ebbi una conferenza con l'imperatore. Quanto alla
questione dell'ordinamento politico non mi parve disposto di tener
conto della opinione che su questo manifesterà a suo tempo
l'Italia. Ma ora è vivamente preoccupato della
guerra»212. Senonché gli argomenti usati dal
Montanelli per avvalorare la tesi unitaria dovevano aver suscitato
qualche impressione nell'animo del suo interlocutore. Pochi giorni
dopo, infatti, avendo questi designato due personaggi del suo
seguito, il senatore Pietri e il professor Rapetti, a studiare sul
luogo la situazione toscana e a riferirgli in merito, uno di costoro,
il Rapetti, ebbe ordine di recarsi innanzi tutto a interpellare, ad
Acqui, il Montanelli. Resultato del loro incontro fu non solamente
che il messo imperiale si dichiarò, e a voce e per iscritto,
«persuaso della necessità di edificare su questa base»
(cioè sulla base unitaria), ma che a Napoleone III egli
rimise, del Montanelli un memorandum scritto al medesimo oggetto:
memorandum che, al pari della relazione al Cavour, noi non
conosciamo, ma che, ci si assicura, incontrò l'approvazione
dell'imperatore213. In un suo appunto autografo, ahimè
frammentario, il Montanelli, del resto, precisa che i due principali
argomenti da lui svolti in quel documento erano, da un verso, l'ormai
dimostrata incompatibilità del dominio temporale del papa con
l'idea nazionale e con i principî dello Stato moderno,
dall'altro (citiamo le sue parole) «il consenso ampiamente
diffuso che, al di sopra d'ogni altra differenza di pareri, collegava
gli animi italiani nell'ossequio all'autorità unitaria del re
Vittorio Emanuele»214.
Il contegno del Montanelli, come si
vede, non avrebbe potuto essere piú... italiano di cosí;
del che gli era buon testimone, fra gli altri, il vecchio amico
Vincenzo Malenchini, già ministro della guerra nel governo
provvisorio toscano, ed ora suo commilitone, anzi suo superiore
gerarchico nei Cacciatori degli Appennini215, in pieno
accordo col quale il Montanelli andava svolgendo la sua azione
politica. Eppure, come abbiamo piú sopra accennato, non
mancavano già fino d'allora altri... amici, i quali si
compiacevano di spargere, a Firenze, brutte voci sul suo conto. Lo
sapevano francofilo convinto; giungeva l'eco dei suoi colloqui con
l'imperatore e con i suoi emissari. Non ce n'era dunque piú
che a sufficienza per bollarlo sostenitore segreto della pretesa
candidatura del principe Napoleone al trono toscano?216. Egli
era ad Acqui, ma non vi fu perfino chi scrisse «essere il
Montanelli venuto a Firenze col principe Napoleone per il quale
voleva fare un partito», o chi riuscí ad identificarlo
frammisto a quella piccola folla che, la sera del 1° di giugno,
improvvisava a Plon-Plon una dimostrazione di simpatia?217.
In realtà egli univa allora in una medesima inequivocabile
deplorazione autonomisti e plonplonisti218.
Propagandista presso l'imperatore di
unità monarchica, il repubblicano Montanelli non ristava, nel
contempo, dall'incuorare i suoi concittadini a pensare per allora
unicamente alla guerra. Tale, oltre alla dichiarata fiducia nella
efficienza dell'ausilio francese, della quale la recentissima
vittoria di Montebello aveva fornito una prova quanto mai luminosa,
era, ad esempio, il contenuto di un suo opuscoletto politico
pubblicato a Livorno in quei giorni: Il ventinove maggio in
Toscana219. In esso il Montanelli dichiarava che l'ottimo
ordinamento per la sua Toscana era semplicemente quello il quale
permettesse e promuovesse il piú largo afflusso di contingenti
armati sul teatro delle operazioni. Era, questa, una censura al
governo di Firenze che, mentre aveva sollecitato il presidio delle
truppe francesi, non sapeva fare un esercito della gioventú
toscana? Senza dubbio lo era, seppure il Montanelli non la esprimesse
che sotto la forma di un incitamento per l'avvenire; e come tale Il
ventinove maggio non era destinato di certo ad aumentare la già
scossa popolarità da lui goduta in patria. Ma a noi quel suo
scritto interessa in special modo in quanto ci fornisce la prova
indiscutibile che, anche dopo il colloquio con l'imperatore, il
Montanelli non altro aveva in mente, appunto, che la sorte della
guerra e l'avvenire unitario d'Italia: l'antico banditore della
Costituente, infatti andava giornalmente cedendo all'elettrizzante
contagio monarchico, che si sprigionava, vorremmo dire, dai campi
lombardi.
L'idea
dell'indipendenza – scriveva egli in quegli stessi giorni a un
amico – signoreggia tutte le altre: e perché a capo
dell'indipendenza sono un imperatore e un re, sarebbe considerato
come partigiano dell'Austria chiunque recasse nel moto attuale idee
politiche contrarie all'autorità regia ed imperiale. Si è
tanto detto che l'Italia s'è perduta per discordie e
indisciplina, che ciascuno si fa come scrupolo di divenire causa di
dissenzione o di scandalo220.
Palestro, 31 maggio; Magenta, 4
giugno; le porte di Milano si aprono al vittorioso esercito
franco-sardo. Qual fremito di ricordi per chi, ora per ora, aveva
vissuto, undici anni prima, autentico combattente, la tragedia
lombarda! Il Montanelli, che con i suoi Cacciatori si è
trasferito intanto da Acqui ad Alessandria221 –
preludio forse dell'invocata entrata in campagna pei volontari
toscani? – ha la suprema soddisfazione di constatare come il
programma unitario stia apparentemente conquistando anche
l'imperatore, galvanizzato dal successo.
I
municipali di Milano – cosí si legge, infatti, in certi
suoi appunti inediti222 – andavano incontro a Vittorio
Emanuele rinnovando davanti all'imperatore dei Francesi il patto col
quale la Lombardia erasi unita al Piemonte nel 1848. Questo era un
ostacolo di piú al disegno d'una federazione di principati
costituzionali... Il tacito consenso dell'imperatore a cotesto
assetto, e piú il famoso suo bando di Milano, col quale
chiamava gl'Italiani tutti a combattere sotto lo stendardo di
Vittorio Emanuele, mi fecero pensare che ormai l'idea dell'opuscolo
federativo [il celebre opuscolo del La Gueronnière, pubblicato
a Parigi nel febbraio e notoriamente ispirato dall'imperatore] fosse
per lui abbandonata, e che voleva soldati, e nulla gl'importava se
l'Italia a lui li inviasse accoppiando all'impresa dell'indipendenza
l'impresa dell'unità. Allora mi feci un dovere di predicare
come opportune quelle dimostrazioni unitarie che avanti il
proclama di Milano io avrei biasimate.
In altri termini: fu il proclama di Milano quello che lo indusse a
uscire dalla riserva nella quale si era fino ad allora tenuto per
passare alla propaganda diretta delle idee unitarie in Toscana.
Si vorrà censurarlo per aver
egli dichiaratamente regolato la sua azione politica sui cenni
imperiali? Per aver atteso, cioè, l'implicito consenso di
Napoleone III prima di determinarvisi? Sarebbe senz'altro un errore:
in tutta Italia, infatti, e tra gli stessi patrioti piú
indipendenti, universale era allora la convinzione che l'arbitro
della guerra sarebbe poi stato l'arbitro supremo della pace; che, per
dirla con parole di G. B. Giorgini, «in Toscana [non] potrebbe
consumarsi o reggersi un fatto qualunque non consentito dalla
Francia»223. Il Montanelli che aveva ancora fresco il
ricordo delle dichiarazioni antiunitarie fattegli pochi giorni
innanzi dall'imperatore, non si sarebbe aspettato di certo una cosí
brusca sua conversione; ma è inutile dire che l'accolse con
esultanza; tanto piú che forse si lusingava di avere in
qualche misura personalmente contribuito, con le sue parole e col suo
memorandum, a questa improvvisa (e ahimè ingannevole) adesione
imperiale al programma unitario.
Qual era allora la situazione in Toscana? Disorientato, da un
verso, dalle insistenti pressioni piemontesi in senso annessionistico
(missione Nigra-Cipriani, vivamente deplorata dal Ricasoli), quindi
dall'improvviso loro abbandono in sulla fine di maggio (una volta
accortosi il Cavour d'aver battuto una pista falsa); e, dall'altro
verso, dalla conturbante presenza delle truppe francesi, il governo
toscano si era accuratamente astenuto, nelle ultime settimane, da
ogni concreta manifestazione di principî o di propositi sia nel
senso dell'annessionismo che in quello autonomistico o unitario. Il
rinvio di ogni decisione a guerra ultimata si rivelava ormai ben piú
che un programma preordinato, il portato di una incoercibile
repugnanza e quasi impossibilità collettiva, in seno al
governo, a operare una scelta fra quei diversi partiti. La Toscana
pareva davvero quella donnetta disputata da un gruppo di soldatacci,
cui l'aveva amaramente paragonata il Capponi. Giudicò il
Montanelli, cosí stando le cose, che fosse giunto il momento
opportuno non solamente per iniziare, o riprendere, in Toscana
manifestazioni unitarie extra-governative, ma per imprimer loro,
possibilmente, quel carattere di autentica «popolarità»
che fino ad allora era ad esse mancato, come l'imperatore gli aveva
fatto espressamente notare in occasione del colloquio alessandrino, e
che ben piú di ogni assicurazione di un Corsini o di un
Ricasoli avrebbe valso a dimostrare la loro corrispondenza ai voti
della cittadinanza. L'idea del Montanelli, in concreto, fu quella di
promuovere, da parte dei municipi toscani, clamorose manifestazioni
in favore della costituzione di un grande regno unito d'Italia, cui
la Toscana, un giorno, avrebbe dovuto congiungersi. Anche il Cavour,
allorquando aveva sperato di ottenere dalla Toscana un solenne voto
annessionistico, aveva suggerito al Boncompagni di sollecitare quel
voto dai municipi toscani: nell'assenza di una regolare assemblea
legislativa (cos'era la Consulta dell'11 maggio se non un vero e
proprio consiglio di Stato emanante dal potere esecutivo?), gli unici
organismi rappresentativi del popolo toscano potevano dirsi infatti i
consigli municipali. Essi erano composti, è vero, di membri
nominati dal governo, e per giunta dal cessato governo granducale, ma
in ragione della loro stessa molteplicità potevano ancora
considerarsi, entro certi limiti, quasi uno specchio della
cittadinanza o almeno del ceto possidente. Il Cavour, mutata la
rotta, aveva finito col rinunziare al suo progetto, tanto piú
che, a suo giudizio, esso avrebbe reso necessaria una preventiva
ricomposizione dei consigli municipali mercé nuove elezioni
amministrative; lo ripigliava adesso il Montanelli, con questo di
mutato: che egli si diceva convinto di poter raccogliere larghe
adesioni ad un programma unitario anche dai consigli esistenti.
Discusso il suo piano con taluni suoi
colleghi di corpo, e prima di tutti col Malenchini224, il
Montanelli lo sottopone al senatore Plezza, che nella sua qualità
di commissario regio riveste in Alessandria la suprema autorità
politica. Costui, che evidentemente divide le impressioni allora
quasi universalmente diffuse a Torino circa le velleità
autonomistiche del governo toscano, non solo approva
incondizionatamente il progetto montanelliano, ma apertamente si
associa alla sua attuazione. Sollecita l'approvazione del Cavour?
Sembra di sí ma ad ogni modo il suo appoggio implica
naturalmente quello del suo governo. Occorre mandare in Toscana una
persona ben vista, pratica dell'ambiente, capace di tentare la
conversione sul programma unitario di tutte le correnti «italiane»,
dagli uomini di governo fino all'estrema ala sinistra repubblicana. È
il Montanelli che propone il nome d'un suo amico residente in
Alessandria, Bartolomeo Aquarone, professore in quel liceo, noto
giornalista e letterato, che ha lungamente soggiornato a Firenze.
L'Aquarone accetta, vien fornito di mezzi pecuniari e di
lasciapassare dal Plezza, di commendatizie, d'istruzioni e di abbozzi
di proclami dal Montanelli225, e parte immediatamente. Quali
sono le istruzioni del Montanelli? Ne abbiamo rinvenuto un frammento
fra le sue carte226:
Fa
d'uopo ripigliare la tradizione napoleonica del regno d'Italia.
Fa d'uopo togliere ai separatisti il loro piú forte argomento,
mostrando con qual magno nome di regno d'Italia che non si
tratta d'incorporare Toscana né altre province di Italia al
Piemonte, secondo che potrebbero dare ad intendere le errate formole
unitarie che ora s'adoperano di fusione e d'annessione,
ma d'unire Piemonte, Lombardia, Toscana, Liguria, e quante altre
province italiane di mano in mano acquisteranno libertà di
manifestarsi, in un regno d'Italia. La Toscana, dichiarando
che vuole il regno d'Italia, renderà alla causa
nazionale due servigi. 1) sostituirà la formola piú
vasta e piú simpatica di regno d'Italia a quello di
regno dell'alta Italia, che offende giustamente l'aspirazione
unitaria. 2) rannoderà il movimento attuale italiano alla
tradizione napoleonica. Sarei d'avviso che fin d'ora si rendesse
popolare l'idea di adottare per codice civile del nuovo regno il
codice Napoleone. Sarà una soddisfazione data alla Francia, e
un benefizio per noi... L'imperatore dei Francesi potrà
mostrare che le armi della Francia spianano la via a idee
progressive. Le parole sacramentali del pronunciamento municipale
sarebbero adunque: Viva il regno di Italia; viva Vittorio Emanuele re
d'Italia; viva il codice Napoleone227.
La mossa montanelliana è, come si vede, tutt'altro che
inabile: giacché d'un sol colpo essa mira ad atterrare i
molteplici ostacoli che in Toscana si oppongono alla propaganda
unitaria: agli annessionisti mostrando che l'unità verrà
realizzata nel nome e a profitto della dinastia di Savoia; agli
antiannessionisti che il Piemonte al pari della Toscana si fonderà
a suo tempo nel nuovo regno; ai francofili che ci si riattaccherà
alla tradizione napoleonica; e finalmente ai diffidenti della
politica francese che l'omaggio alla Francia sarà puramente
morale (codice Napoleone), in nessun modo implicando soddisfazione di
presunti suoi appetiti territoriali, ai quali del resto il Montanelli
non crede228.
Munito di cosí fatte istruzioni
(cui, diversi mesi piú tardi, sviati apologisti del Montanelli
pretesero attribuire, né si riesce ad intendere come,
carattere di propaganda annessionistica229), l'Aquarone si
dirige in Toscana: siamo ai primi di giugno, e presumibilmente al 9
del mese230. Quali sono i resultati della sua missione? Non
ne sappiamo che poco. Vediamo comunque di orizzontarci alla meglio,
sfruttando i pochi dati attualmente a disposizione. L'Aquarone,
crediamo, non pubblicò relazioni di questo suo importantissimo
viaggio politico; ma tra le carte del Montanelli si conserva una sua
lettera del 12 giugno (da Livorno?) che contiene qualche notizia in
proposito231:
Pare,
come scrissi ieri al Plezza, che il Ricasoli sia interamente sulla
nostra linea. A Firenze il Morandini232 e il Monzani mi
diedero assicurazione di ciò; e in Livorno la cosa mi viene
confermata da altri233. Dio sia lodato. Andremo insieme,
potendo; se no, andremo da noi. Ma pare che s'abbia ad aspettare.
Dicono che i municipi attuali, composti dal cessato governo, forse
non corrisponderanno: e che però il Ricasoli vuole tosto
procedere alla formazione dei nuovi, per le elezioni... Bene.
Frattanto ho dato commissione di studiare i consigli municipali quali
sono: e se que' di Firenze, Livorno, Pisa, Lucca, Pistoia, Siena e
Arezzo possono corrispondere, o volentieri, o sotto la pressione,
sono d'avviso che s'abbia a andare innanzi subito. Con questo fine
andrò dimani, lunedí, a Pisa; e diman l'altro a Lucca;
e indi anche a Pistoia; ché ad Arezzo, a Siena, e a Firenze,
pensano Morandini e Monzani. Se abbiamo questi sei o sette municipi,
a me paiono bastare: ché al voto universale ricorrerei a
malincuore; e si ricorrerà, abbisognando, poi. Ora una cosa
abbisognerebbe, un giornale che indirizzasse il paese... Vi sono
alcune repugnanze che giova ottundere; alcune prevenzioni che
vogliono essere dissipate; insomma abbisogna acchetare gli spiriti
intorno ad alcuni sospetti, fomentati, soffiati, gonfiati, e
inaspriti dall'amore delle personalità politiche toscane. Mi
si parlò, e da uomo di polso, di centralità
tirannica... Risposi che Firenze sarebbe pur sempre Firenze, il
centro, la sede del Bello e delle Arti... Vedi che c'è
dell'invidia in tali argomenti...; la quale gioverebbe fosse
combattuta... da un giornale. Lo vuol fare il Cavour?
Da questo documento risaltano bene, non che certi stati d'animo
allora ampiamente diffusi in Toscana, il carattere della propaganda
italianissima svolta dall'Aquarone dietro precise istruzioni del
Montanelli: e dire che ben presto quest'ultimo verrà gabellato
per un autonomista, per antiunitario! Proprio lui che, quello stesso
12 giugno, scriveva all'amico Turchetti:
...
Se la Provvidenza mi vorrà strumento utile al riordinamento
civile del regno d'Italia che spero si farà volenti o
nolenti gli eunuchi autonomisti toscani, come mi diede forza a
resistere agli spasimi dell'esiglio, mi proteggerà nella
gloriosa tempesta del campo...234.
Ma torniamo ai resultati della
missione Aquarone, e vediamo in proposito la versione del Montanelli.
Il 21 di giugno egli scriveva al Pallavicino a Torino, perché
a sua volta questi ne informasse il Cavour, che il «lavoro
unitario» da lui iniziato in Toscana era già a buon
punto: «ben presto, aggiungeva, se ne vedranno i
frutti»235. E poi, specificando:
Il
pronunciamento per la formazione del regno d'Italia è
cominciato. Spero che il governo piemontese ne apprezzerà
l'importanza e sentirà che per acquistare autorità
unificatrice è d'uopo che presto incominci ad unificare,
lasciando per ora da parte le legazioni, e ritenendo come massa
unificabile il vecchio Stato piemontese, la Lombardia, lo Stato
parmense e la Toscana.
In un secondo tempo il nuovo regno
alle province che vi facessero adesione comunicherebbe la sua
unità; si sposterebbero le antiche supremazie di capitali, si
farebbe sentire alle province il vantaggio di questo spostamento, si
cercherebbe la maggiore uniformità possibile delle nostre
istituzioni civili con le francesi.
Diversi mesi piú tardi, facendo la storia della sua azione
politica236, il Montanelli scriveva, della missione Aquarone,
che proprio ad essa si era dovuta la prima, la decisiva spinta a quel
memorabile movimento unitario dei municipi toscani, che si era svolto
nella seconda metà di giugno e piú specialmente nei
giorni immediatamente precedenti e seguenti a Villafranca.
Prima
il municipio di Siena..., quindi il municipio di Livorno cominciarono
la manifestazione unitaria della Toscana. Nelle adunanze che Aquarone
promosse fu deciso di unire alla manifestazione municipale un
movimento di firme che in alcune città prese colossali
proporzioni. Il municipio di Livorno proferí primo la parola
di Regno d'Italia. Nelle altre dichiarazioni municipali
seguitava a prevalere l'errata e insidiosa formola di fusione o
annessione al Piemonte.
Questa versione è integrata da un passo degl'inediti Cenni
biografici dedicati al Montanelli dalla sua vedova: «Montanelli
indirizzava Aquarone agli amici Antonio Parra237,
Biscardi238, per cooperare alla riuscita, e si ebbe il bel
resultato delle 25 000 firme dei Livornesi, che furono i primi e
trascinarono gli altri municipi».
Senonché la storia delle manifestazioni municipali toscane
fu invero assai piú complessa che non appaia dalla narrazione
montanelliana. La propaganda immediatamente iniziata dall'Aquarone
era venuta infatti a sovrapporsi, e in parte a confondersi con
analoghe iniziative o spontaneamente presentatesi in Toscana, o
introdottevi e caldeggiate da esponenti della Società
Nazionale accorsi a Firenze all'incirca nel medesimo tempo, con la
missione di promuovere, invece, manifestazioni annessionistiche. Fino
dal 6 giugno, intanto, e come per contraccolpo dell'entusiasmo
sollevato dalla vittoria di Palestro, aveva cominciato a circolare in
Firenze, e poi in tutta la Toscana, il noto indirizzo a re Vittorio,
acclamato «re d'Italia»239, il quale, apertamente
appoggiato da due dei ministri in carica, il Ricasoli e il
Salvagnoli, era andato rapidamente coprendosi di migliaia di
firme240. A questo indirizzo si erano evidentemente ispirati
parecchi municipi, affrettatisi a votare, in omaggio al re sabaudo,
ordini del giorno non meno calorosi seppure, in genere, assai piú
prudentemente indeterminati nella formulazione241. Fu questa,
in realtà, la prima manifestazione unitaria extragovernativa
svoltasi in Toscana, e indubitatamente essa venne promossa e si
svolse affatto indipendente dall'iniziativa montanelliana: si deve
per contro riconoscere che la formola proposta dall'Aquarone
presentava, di fronte a questa prima, una notevolissima accentuazione
in senso unitario. Altro era infatti acclamare a un re d'Italia, che
era del resto nelle tradizioni della innocua rettorica patriottica,
altro promuovere una manifestazione sistematica in favore di un
definito e concreto regno d'Italia.
Il 12 giugno, allorquando la propaganda svolta dall'Aquarone era
ancora nella sua fase iniziale, una seconda manifestazione unitaria
aveva luogo a Firenze: dove il consiglio dei ministri approvava un
decreto (di poi né pubblicato né sottoposto
all'approvazione della consulta, attesa l'opposizione del Cavour)
proclamante in Toscana la sovranità di re Vittorio, «onde
cooperare alla formazione d'una Italia una e forte». Questa
volta era la tendenza annessionistica che prendeva nettamente il di
sopra; e, con essa, il radicato presupposto ricasoliano di disporre
delle sorti del paese senza ricorrere alla consultazione piú o
meno indiretta della volontà popolare.
Contro questa tendenza veniva adesso
ad urtare la propaganda dell'Aquarone, il quale, messaggero, sí,
del Montanelli, ma insieme coperto da una sia pur generica
autorizzazione del governo sabaudo, non si peritava di sollevare
pubblicamente il problema unitario nella sua interezza, cioè
il problema non pure della Toscana, ma, seppur gradualmente, di tutta
l'Italia e delle sue sorti future, partendo dalla dichiarata premessa
che la manifestazione della volontà toscana avrebbe dovuto
svolgersi dal basso all'alto, e, se non all'insaputa, certo senza il
diretto intervento delle autorità di governo. Il ragionamento
del Montanelli-Aquarone filava, invero, perfettamente: che valore
avrebbe mai rivestito, ragionavano essi, il voto unitario o
annessionistico pronunziato o provocato da un ministero
gerarchicamente dipendente dal commissario del governo piemontese? E
come si poteva mai sperare che l'imperatore avesse a prenderlo in
seria considerazione? Ond'è che l'Aquarone, evitando i circoli
ufficiali, «batteva» soprattutto i ritrovi della
democrazia militante, come non senza scandalo e allarme si dovette
ben presto constatare a Palazzo Vecchio. Ci si trovava senza dubbio
di fronte ad uno dei piú seri tentativi che fossero stati
messi in opera dal 27 aprile in poi per sottrarre al governo
l'iniziativa e la direzione della grande politica in una col
controllo della cosí detta «volontà»
popolare. Il ministero toscano si trovò, o ritenne di
trovarsi, a mal partito; temette davvero un bis del '48; fantasticò
che la «piazza» stesse per sopraffarlo242. Furono
i contatti dell'Aquarone e dei suoi accoliti col gruppo dolfiano che
lo preoccuparono? Credette davvero che il governo di Torino, mal
ragguagliato delle cose toscane, avesse macchinato di rovesciarlo per
sostituirgli degl'intriganti interessati appunto a dipingere
l'oligarchia fiorentina come tendenzialmente autonomistica? E l'uno e
l'altro motivo contribuirono certo a determinare all'azione il
binomio Ricasoli-Salvagnoli243, ma forse piú che tutto
il nome (ben presto rivelatosi, nonostante gli sforzi del Montanelli
per tenersi nell'ombra244) di colui che nell'ottobre del '48
aveva «rovinato» la Toscana con la sua rivoluzione
democratica, e che adesso, dal Piemonte, dirigeva le fila del nuovo
complotto. Cedendo alla suggestione, o piuttosto alla «grande
paura» del '48, non ci s'immaginava forse che allato del
Montanelli, e consapevole, anzi solidale dei suoi progetti, fosse
anche adesso il Guerrazzi?
Di tutto ciò ben poche tracce
si trovano nel carteggio Ricasoli (almeno in quella parte che fin qui
ci è stata resa nota), abbondantissime invece in quello del
Cambray-Digny, allora in missione a Torino, che qualche intimo
teneva, come si sa, giornalmente al corrente di tutto quello che né
le gazzette né i dispacci d'ufficio potevano lasciar
trapelare. «È positivo che ieri doveva esservi (a
Firenze) gran dimostrazione in piazza», gli si scriveva ad
esempio il 15 di giugno; aggiungendosi che solo a gran fatica si era
potuto, all'ultim'ora, impedirla. Tra i promotori della
dimostrazione, principalissimo l'Aquarone «che è stato a
Livorno, a Lucca, a Pisa, a Siena ecc... È venuto anche lui
per intrigare nel solito senso». (Solito? La contessa
Digny doveva ben presto accorgersi che era quello un aggettivo
singolarmente fuori di posto). «Chi ha portato a galla questa
gente conviene si affretti a rimetterla all'ordine, altrimenti ne
andremo tutti di sotto»245. Nuovi ragguagli il giorno
appresso, con precisa denunzia delle «insinuazioni del
Montanelli e del Guerrazzi, che si dice siano stati, e siano
ascoltati a Torino piú di quello che credi. In sostanza,
questi agenti spargono che il governo non deve prender parte alla
cosa (cioè alla diffusione e alla votazione degl'indirizzi
unitari); ma che se il paese vuol la cosa e la fa, cosa fatta capo
ha»246. E il 17: «... pare certo che il partito
estremo abbia avuto gran parte in questa faccenda, sia scrivendo di
qua agli esaltati ed agli esuli Montanelli, Guerrazzi e compagni
costà, sia ascoltando i consigli che dai medesimi riceveva.
Forse anche questi stessi sono stati ascoltati da chi è al
potere costà, e che sarà rimasto ingannato dalle
fandonie che avranno raccontato»247. Alle quali
informazioni, e alle vive sollecitazioni perché l'Aquarone ed
altri agitatori della sua risma venissero immediatamente richiamati
in Piemonte, il Cambray-Digny per parte sua rispondeva, il 18: «Pur
troppo credo che l'agitazione nuova per la fusione non parta da
Torino, ma finora da Acqui, ora da Piacenza (e cioè dal
Montanelli, che – come vedremo – si era trasferito
intanto, con i Cacciatori, in quest'ultima città, subito dopo
lo sgombro austriaco). E credo che si faccia direttamente spendendo
il nome del Cavour». Egli, per altro, poteva in coscienza
attestare che il Cavour non c'entrava per nulla, che anzi deplorava
del pari e le imprudenti manifestazioni annessionistiche del governo
di Firenze, e quei pericolosi pronunciamenti unitari248. Ma
il Nocchi, segretario del Ridolfi, di rimando (20 giugno):
Insisti
sul fatto che Malenchini249 e Montanelli hanno ingiustamente
e per passione svisato le cose nostre, e mandato da loro, contro un
governo piemontese (e intendeva il governo toscano invigilato dal
Boncompagni), il piemontese Aquarone, che, con un indirizzo e mene
tendenti ad agitare il paese contro il governo, è venuto
credendo di trovare tutti contrari alla fusione..., e ha spacciato
ripetutamente di venire a nome e per commissione di Cavour. Mostra la
convenienza di far cessare, potendo, queste mene250.
La quali «mene», ripetiamo, ponevano il gabinetto
ricasoliano nel piú crudele imbarazzo. Come reagire se non in
qualche modo impadronendosi delle idee diffuse nella «piazza»
per tentare di controllarne l'attuazione, strappando cosí
l'iniziativa agli agitatori? Tale fu in effetti la sapientissima
manovra concepita ed eseguita dal Ricasoli indipendentemente affatto
dalle istruzioni torinesi, se non proprio in contrasto con
esse251. L'impressione che si ricava dai documenti fin qui
venuti alla luce è che il progetto montanelliano
dell'indirizzo municipale venisse insomma adottato nella sostanza, ma
abilmente modificato, per mano del Salvagnoli, in quella che era la
sua formulazione unitaria: l'espressione di «re d'Italia»,
la quale d'altronde era già stata usata in precedenza, venne,
sí, mantenuta, ma s'introdusse al posto dell'altra «Regno
d'Italia», quella, generica, di «famiglia
italiana»252, sopprimendo altresí ogni accenno
alla Francia e, in particolare, al codice Napoleone253. Cosí
alterato, l'indirizzo cominciò a circolare in Firenze il 16 di
giugno: gli amici del ministero provvedevano intanto a trasmetterlo
in provincia con raccomandazione ai gonfalonieri di farlo votare dai
rispettivi consigli. All'insaputa dello stesso Salvagnoli, suo alter
ego, il Ricasoli fece anche di piú: si mise cioè
d'accordo col Dolfi perché questi diramasse per suo conto e
apparentemente di sua propria iniziativa una circolare ai
gonfalonieri toscani, invitandoli a fargli recapitare gli ordini del
giorno di approvazione del patriottico indirizzo254.
Le reazioni da parte degli autonomisti e in particolare del gruppo
dei cosí detti «georgofìli» furono, si sa,
vivacissime255; comunque fu proprio questo, a quel che
sembra, il punto di partenza delle poi tanto celebrate manifestazioni
municipali toscane: le quali, iniziatesi a Siena, il 17 di
giugno256, indi seguite a Montepulciano, a Livorno, a
Pistoia, a Pisa, a Fucecchio (patria del Montanelli)257, e in
piú luoghi accompagnate da plebiscitarie adesioni della
popolazione (onde si poté dire che costituirono in certo modo
una prima prova del suffragio universale in Toscana)258,
vennero ad assumere un ritmo precipitoso, e, vorremmo dire,
«totalitario», nei giorni immediatamente seguenti
all'armistizio. Che poi la formola effettivamente votata dalla
maggioranza dei municipi fosse altrettanto diversa da quella del
Salvagnoli quanto questa si era distaccata dal primitivo modello
montanelliano; che insomma questa manifestazione municipale, ad opera
segnatamente di zelantissimi agenti della Società Nazionale,
si rivolvesse in pratica in un plebiscito per l'annessione della
Toscana al Piemonte, questo è altro conto: senonché
giova forse il notare che perfino il Ricasoli, e con lui,
implicitamente, il Salvagnoli, ebbero in un primo tempo a deplorare,
quasi con le identiche parole che vedemmo usate dal Montanelli,
quelle formole, che «non rappresentavano il concetto grande
d'un'Italia una e forte»259.
Dell'iniziativa Montanelli-Aquarone, comunque, chi piú si
ricordava? La manifestazione municipale passava alla storia come
concepita, organizzata, attuata esclusivamente a Palazzo Vecchio.
Tanto che l'Aquarone, giunto a Firenze in veste di missus dominicus,
ne ripartiva ben presto, cioè verso il 20 di giugno, con la
fama di un temibile arruffapopoli, le cui prave intenzioni si erano
fortunatamente spuntate contro l'insonne vigilanza del governo e la
patriottica disciplina del paese260: peggio ancora,
apertamente sconfessato da quel governo piemontese che pure aveva in
qualche modo approvato la sua missione261, ma al quale nel
frattempo si era fatto notare, dal quartier generale francese, quanto
pericoloso e inopportuno si fosse l'andar sollevando, in piena
guerra, con una propaganda unitaria, il delicatissimo problema di
Roma e di Napoli262. «Il pericolo delle dimostrazioni –
si scriveva il 20 giugno appunto da Firenze al Cambray-Digny –
pare allontanato: il sig. Aquarone se ne partí con le trombe
nel sacco»; e quegli, il 22: «Non dubito che alla
disperazione dell'Aquarone e degli altri non abbia contribuito il
sapere che la loro condotta non era approvata qua»263.
Se l'Aquarone se n'era partito con le
trombe nel sacco, il Montanelli, dopo questo episodio, venne
investito da una prima ondata di recriminazioni e di accuse. «Domani
spero potremo trattare gli affari della Toscana – scriveva ad
esempio il 28 giugno il Digny, – ed ho fiducia che presto
gl'imbroglioni politici avranno una prova materiale che qui (a
Torino) non si vuole per ausilio il disordine. Spero che presto
vedrete rimettere il capo nel guscio guerrazziani, montanelliani
ecc.»264. E il Ricasoli, 5 luglio, al fratello
Vincenzo, che lo aveva informato della imperiale disapprovazione al
«pronunciamento» nazionale toscano: «Se il governo
attuale non si fosse disegnato come ha fatto, oggi la Toscana sarebbe
in mano di Guerrazzi e Montanelli»265. Il Guerrazzi,
per parte sua, difendeva il Montanelli in una lettera al Corsi:
Non
so di M...; ch'ei si dolga è probabile, ma impedire alla
vittima un lamento, e darlo ad intendere parricidio penso sia arte di
quei nuovi Neroncini da 16 alla crazia, che vorrebbero anco essere
adulati, e ringraziati. Che faccia opera cattiva, non lo posso
credere: infermo e non giovane va a offrire il suo sangue: altro non
può: sarebbe anco questo un tradimento alla
Indipendenza?266
Tito Menichetti, che a quel tempo era ancora grande amico del
Montanelli, rispondendo ad una sua lettera, affermava l'8 di luglio,
che essa gli era giunta tanto piú opportuna e gradita in
quanto «in quel momento alcuni amici tuoi (!) ti facevano la
lunga mano di certi rigiri antinazionali. Io... per mostrare che tu,
tutt'altro che preoccuparti delle questioni interne, tiravi innanzi
diritto diritto nella tua via, portai la tua lettera al Ricasoli, che
fu contentissimo d'aver in mano quella prova parlante del tuo
indirizzo politico». (Il Ricasoli abbandonò dunque, da
allora in poi, le sue prevenzioni contro il Montanelli? Neanche per
immaginazione! E ne vedremo piú avanti le prove). Il
Menichetti, comunque, non esitava a deplorare, per parte sua, che
fosse stata cosí intempestivamente sollevata la questione
della fusione della Toscana al Piemonte: «Ma io rammento –
aggiungeva – quello che mi dicesti a Goito nel '48 quando venne
fuori la questione albertista: È una piaga che non andrebbe
scoperta, (ma ormai) va medicata»267, e cosí
dico qui. Ormai che è messa fuori non va
avversata»268. Il quale ultimo accenno conferma
appieno, seppur ve ne fosse ancora bisogno, come alla radice di
quelle accuse al Montanelli fosse appunto l'opinione da lui
francamente professata dover la Toscana mantenere la sua autonomia
fino alla costituzione di un regno unito, che andava intanto
preparato nello spirito degl'Italiani e soprattutto dei
Toscani269. L'«antinazionale» era dunque colui
che, mentre tanti suoi concittadini eminenti si dichiaravano
rassegnati a priori a qualunque soluzione della questione
dinastica toscana, eccezion fatta soltanto per una restaurazione
lorenese, informava la sua azione politica, come sempre aveva fatto,
del resto, alla piú grande unità nazionale; colui che
dal campo stava offrendo un esempio non comune di umile dedizione
alla causa italiana!
Lontano, materialmente e, piú,
spiritualmente da quel focolaio d'intrighi, sereno nella sua
coscienza, il Montanelli si era trasferito frattanto, come già
abbiamo detto, da Alessandria a Piacenza270. Certo, non era
quella la guerra, la guerra combattuta che aveva sognato e cui si era
consacrato! La vita delle retrovie lo esasperava: se aveva rinunziato
con immenso suo sacrificio, non solo sentimentale, a ritornare in
Toscana271, non lo aveva fatto davvero per seguire a quel
modo, a rispettosa distanza, l'avanzante corpo d'operazioni. Giorno
per giorno promettevano ai Cacciatori una prossima partenza pel
fronte, ma intanto le settimane passavano, battaglie gloriose e
decisive si susseguivano senza che quella promessa venisse mai
mantenuta: in Italia, e anche in Francia, si sorrideva dei compiti
«turistici» affidati alle truppe toscane...272.
Il 21 di giugno, da Piacenza, il Montanelli scongiurava il
Pallavicino, a Torino, d'interporsi perché i Cacciatori
venissero finalmente riuniti all'esercito operante: «t'assicuro
– scriveva – ... che urge prendere una risoluzione.
Questi giovani si sentono umiliati di non avere avuto il battesimo
del fuoco. Il primo e il secondo battaglione sono in
ordine»273. Il giorno appresso, sempre a Piacenza,
ebbero luogo le esequie di un volontario livornese, Giovanni Seteri,
prosaicamente morto di malattia: nelle frementi parole pronunziate
dal Montanelli sul feretro del suo compagno chi non sentí
l'anelito verso quell'altra morte che già aveva sfiorato
l'oratore nel '48, la morte gloriosa sul campo?274. Quel
medesimo giorno truppe francesi del 5° corpo d'armata, in
provenienza dalla Toscana, lasciavano Piacenza, dopo una breve sosta,
dirette, esse, in prima linea. Era un immeritato avvilimento pei
volontari toscani vedersi ancora una volta precedere al fuoco dalle
truppe alleate! Il Montanelli, che pure, a Piacenza, ha occasione
d'importanti e fruttuosi contatti e colloqui politici275, e
benché non ignori affatto come proprio in quei giorni si
stiano concludendo le trattative per la congiunzione dei Cacciatori
degli Appennini con i Cacciatori delle Alpi, allora operanti in
Valtellina276, si risolve finalmente a precedere i suoi
commilitoni.
Generale
– scrive al Garibaldi, che ha conosciuto a Firenze nel novembre
del '48 e per le cui virtú militari nutre vivissima
ammirazione277 –, non vi chiedo gradi, ma parte ai
pericoli. La ferita che a Curtatone riportai nella spalla sinistra
non mi consente maneggiare il fucile; ma posso col braccio destro
maneggiare la sciabola... L'esilio m'incanutí il pelo, non
l'anima. Mi ritrovo ardente soldato d'Italia come ai piú bei
giorni dell'ultima impresa, e mi sento degno di ricominciare per lei
le prove al vostro fianco, o prode condottiero di prodi.
Cosa gli rispondesse il Garibaldi
ignoriamo: sappiamo solo che alla fine di giugno il Montanelli, in
compagnia del suo Malenchini278, giunse a Tirano,
festosamente accolto dal generale279. «Garibaldi lo
teneva sempre seco, e facevano insieme le escursioni», scriveva
qualche anno dopo, rievocando quel tempo, la vedova del
Montanelli280. Verosimile, perciò, che il 5 e l'8 di
luglio egli partecipasse personalmente alle brillanti scaramucce
d'alta montagna svoltesi sullo Stelvio (le ultime di quella
campagna!) e che il 9 del mese, quando, come un colpo di fulmine,
pervenne al campo la notizia dell'armistizio, egli si trovasse a
fianco del generale. Sorpresa, delusione, sdegno, dei volontari. E il
Montanelli? «Quando accadde l'armistizio – cosí
egli in un suo inedito appunto281 – io mi trovava a
Tirano... Garibaldi mi mandò a Torino a trattare con Cavour di
diversi negozi282; per via seppi la pace di Villafranca».
Da un lasciapassare rimessogli dall'autorità militare resulta
infatti che il Montanelli partí da Tirano il 10 di luglio, che
il giorno appresso transitava da Sondrio, il 12 da Como e che quindi
si arrestava a Milano. Fu a Milano, appunto, che venne a conoscenza
delle inaspettatissime deliberazioni di Villafranca, e in particolare
di quelle concernenti le restaurazioni nell'Italia centrale: «avrei
voluto che coloro i quali non credono a comunione italiana mirassero,
come a me avvenne, il tragico commovimento che all'annunzio delle
condizioni di pace levossi in Milano»283. Col Garibaldi
il Montanelli non aveva preso, in vista dell'armistizio, che delle
intese molto generiche284. L'annunzio delle stipulate
restaurazioni lo spinse naturalmente a concepire progetti piú
circostanziati. In concreto: «ordinare l'Italia centrale a
resistenza, dando a Garibaldi il generalato della lega»285;
fare cioè di un'Italia centrale armata e indipendente il
fulcro per la dilatazione del movimento nazionale in tutto il resto
della penisola286. Montanelli comunicò senza indugio
il suo piano al Garibaldi, ottenendone piena, immediata
adesione287: indi (era il pomeriggio del 14 luglio) proseguí
per Torino, dove avrebbe potuto intendersi col Cavour, dimissionario
già dal giorno innanzi, e dove di ora in ora si attendevano
l'imperatore ed il re288.
Esposi
arrivato a Torino il mio disegno a Valerio, a Kossuth; chiesi a
Cavour che ci desse Garibaldi: disse non potere come ministro di un
re che aveva accettato la pace di Villafranca mandare nell'Italia
centrale Garibaldi con la veste di generale piemontese; chiedesse
egli il congedo; lo chiedessero i suoi soldati; e i governi
dell'Italia centrale facessero il resto289.
Invero, egli si trovava allora nell'identico stato d'animo e
sull'identica linea del Cavour, il quale dubitava di esercitare
l'estremo suo potere per spronare i suoi agenti a Bologna, a Parma, a
Modena, a Firenze a organizzare la resistenza contro le
restaurazioni, a istituire governi forti, a richiamare dalla
Lombardia le rispettive truppe, a suscitare insomma la rivolta armata
delle popolazioni contro gl'iniqui deliberati di Villafranca: del
resto era quello l'ovvio programma di tutti gli uomini della
sinistra, dal Mazzini (le cui previsioni sui limiti e i resultati di
quella guerra ricevevano purtroppo una impressionante conferma) al
Guerrazzi. Ma se ovvio era il programma, e agevole il convenire della
sua opportunità, meno ovvio e meno agevole era l'additarne
un'attuazione possibile, cioè commisurata alle gravissime
difficoltà della situazione. Nonostante le assicurazioni e
gl'incitamenti del Cavour, restava intanto da appurare un punto di
fondamentale importanza: cioè se Francia ed Austria si fossero
accordate per un eventuale intervento militare in vista d'imporre le
restaurazioni nell'Italia centrale o se si fossero limitate a
sancirle in diritto. La mattina del 15, a Torino, si viveva ancora, a
questo proposito, nella piú ansiosa incertezza. Anche
Celestino Bianchi, che il Boncompagni e il Ricasoli avevano mandato
d'urgenza nella capitale sabauda per esaminare la situazione e
significare l'assoluta contrarietà dei toscani a piegarsi alla
restaurazione granducale290, si dimostrava passabilmente
all'oscuro e di questo e di molti altri dati essenziali concernenti
le sorti del suo paese. In attesa di informazioni sicure, egli e il
Montanelli, due vecchie conoscenze291, incontratisi nel primo
pomeriggio del 15292, convennero in massima circa
l'opportunità, anzi l'urgenza di armare la Toscana per
prepararla a resistere contro eventuali imposizioni
straniere293. A questo proposito, anzi, il Bianchi, com'è
ben noto, ebbe subito una serie di decisivi colloqui con influenti
personalità piemontesi: in seguito ai quali si sentí di
spedire a Firenze un primo dispaccio tranquillizzante294.
Pochi istanti dopo giungevano a Torino i due sovrani alleati. Nel
corso della loro conversazione circa l'armamento della Toscana, tanto
il Bianchi che il Montanelli avevano ravvisato l'opportunità
di proporre il trasferimento sulle rive dell'Arno di quella legione
ungherese che si era andata ordinando in Piemonte, ma che non aveva
avuto il tempo di prender parte alla guerra (vecchia idea fissa dei
democratici toscani quella di ricorrere, in caso di estremità,
a volontari stranieri!) La sera stessa il Montanelli condusse
l'amico, che già si era abboccato con alcuni esponenti
ungheresi, dal Kossuth in persona, da lui conosciuto a Piacenza. Ma
il vecchio agitatore non era affatto dell'opinione che la Toscana
abbisognasse di straordinari apprestamenti difensivi. «Voi
avete bisogno d'un plebiscito, di una urna per lo scrutinio, e non
d'un esercito», diceva. Al che i due patrioti toscani
opponevano l'eventualità di un intervento austriaco o
austro-francese. Un intervento? Ma era un'ipotesi assurda, replicava
il Kossuth. Del resto perché non se ne sinceravano il Bianchi
e il Montanelli, sollecitando esplicite assicurazioni a Palazzo
reale? Fu allora, secondo la versione dello stesso Kossuth, che il
Montanelli annuendo al consiglio, si precipitò in piazza
Castello «agitando furiosamente il suo unico (?!) braccio. Una
mezz'ora dopo ritorna, irrompe nella mia stanza, mi getta le braccia
al collo: Niente intervento! niente intervento! Il re mi ha dato la
sua parola d'onore!»295.
Scrivendo parecchi anni piú
tardi i suoi ricordi di quegli anni fortunosissimi, il Kossuth si
lasciò sfuggire parecchie inesattezze; in questo caso, oltre
a... tagliare un braccio al nostro Montanelli, egli scambiò
l'imperatore col re, o almeno il Montanelli col Bianchi; il
Montanelli infatti ottenne udienza, la sera del 15, da Napoleone
III296, mentre fu il Bianchi che l'ebbe da Vittorio Emanuele.
Ma, a parte questo, il suo racconto, colorito e vivace, resta
sostanzialmente esatto. Come si svolse il colloquio fra il Montanelli
e l'imperatore? E dal suo augusto interlocutore non altro seppe il
Montanelli se non che le restaurazioni non sarebbero state imposte
«armata manu»? Il Kossuth a questo proposito tace:
bisogna dunque ricorrere ad altre testimonianze. Le dichiarazioni
imperiali, integranti quelle già fatte al Pepoli e al
Cavour297, ebbero in realtà tale importanza e furon
causa, nel seguito, di cosí aspre polemiche che il lettore
vorrà consentirci di entrare al proposito in qualche
particolare.
La relazione piú diffusa della quale disponiamo circa
questo colloquio è quella che ne dette, fino dal giorno
appresso, il Bianchi in un suo dispaccio al Boncompagni:
Imperatore
ha detto a Montanelli: la restaurazione della dinastia di Lorena non
dee farsi con aiuti stranieri: soldati austriaci non possono
adoperarsi fuori dei paesi attribuiti all'Austria. S'istituisca in
Toscana un governo provvisorio; interroghi per sí o per
no il paese, se voglia o no casa Lorena; plebiscito
trasmettasi Congresso europeo, coi voti del paese qualora respinga
lorenesi. Imperatore promette farsene sostenitore al Congresso.
Insiste forte non accadano disordini e passioni demagoghe. Toscana
farà bene richiamare tutti i suoi volontari... L'imperatore
fattagli da Montanelli la questione cosa sarebbe avvenuto se la
Toscana si fosse pronunziata per l'annessione ha risposto:
impossibile!298.
Questa versione viene integrata da quella piú tardi redatta
da un amico del Montanelli, il Redi:
Presa
la parola per primo, l'imperatore gli svelò senza mistero la
ragione per la quale si era fermato (Prussia), aggiungendo dover
ritenersi la indipendenza d'Italia stabilita come base di un nuovo
diritto pubblico europeo; non potersi però conseguire se non
in due fasi, delle quali la prima aveva avuto luogo, e per la seconda
si sarebbe poi presentata l'occasione opportuna. Mettendo nei
preliminari per la pace il patto del non intervento ci aveva
posti in grado di prepararci per quella. Richiesto dal Montanelli che
cosa credesse doversi fare in attesa di questa seconda fase, egli
rispose di adottare quelle istituzioni che sarebbero reputate piú
confacenti al genio italiano e di farsi forti. Allora il Montanelli
gli comunicò com'egli opinasse doversi intendere all'unità
d'Italia. «L'unità? mai!»299, piuttosto
irritato l'imperatore riprese: «Pensate che Roma è
necessaria al papa». E informandolo di avere nei preliminari
convenuto che avrebbe favorito una confederazione italiana, a quella
gli disse bisognava attenersi. Osservatogli dal Montanelli siccome
egli stesso avesse consigliato di rendersi forti, e siccome le
confederazioni riescano generalmente deboli, dopo alcuni istanti di
riflessione aggiunse: «Nel caso l'unità non potrebbe
essere possibile che dal centro: ma non se ne può parlare per
ora». E lo confortò a tornare in Toscana e ad usare di
tutta la sua influenza per far adottare una politica che conducesse
al risultato da lui suggerito300.
In base ad una terza versione, anche
questa spettante ad un amico del Montanelli, il Pini, l'imperatore
avrebbe inoltre esplicitamente dichiarato al suo interlocutore che la
politica delle annessioni poteva riuscire assai pericolosa per
l'Italia: «franche parole (le quali) produssero una forte
sensazione sull'anima di Montanelli»301.
Tralasciamo altre versioni o calcate
su queste302 o visibilmente inventate303, tralasciamo
del pari l'accenno che al colloquio imperiale il Montanelli stesso
dedicò in una sua lettera apologetica data alle stampe due
anni piú tardi304. Nel complesso il punto di vista di
Napoleone III resulta infatti già sufficientemente chiarito da
quel che ne scrissero il Bianchi, il Redi, il Pini; mentre le loro
narrazioni corrispondono a quanto, circa le intenzioni
dell'imperatore all'indomani di Villafranca, ci resulta da altri suoi
colloqui o lettere. Particolarmente importante a noi sembra, e lo
additiamo al lettore in quanto vale a chiarire il successivo
indirizzo dell'azione politica montanelliana, l'accenno del Redi
circa la possibile unificazione «dal centro» (come
contrapposto alla unificazione per via di annessioni al Piemonte)
ammessa dall'imperatore, ancorché aggiungesse che non era il
caso di occuparsene per allora.
Si parlò, nel colloquio, del
principe Napoleone? A giudicare dai resoconti fin qui riportati,
sembrerebbe di doverlo escludere; senonché in una lettera
pubblicata sui giornali, nel gennaio del '61, dal Mariscotti, lancia
spezzata del Montanelli, questi, polemizzando col Bianchi, che
accusava il Montanelli di essersi rassegnato a quella candidatura
fino dal suo primo ritorno a Firenze alla fine di luglio del
'59305, ebbe a scrivere:
Il Montanelli non poteva promuovere la candidatura del principe
Napoleone, come quegli che nell'ultimo abboccamento avuto a Torino
con l'imperatore, era stato da quegli avvertito... che al tempo
stesso che sarebbe stato consentito ai popoli dell'Italia centrale di
eleggersi nuova dinastia, non pensassero per altro a nessun principe
della casa imperiale di Francia, perché egli, lo imperatore,
non avrebbe potuto accettare la elezione senza esporsi al pericolo di
una guerra europea.
Questo e non altro avrebbe il Montanelli riferito al Bianchi,
recisamente attenendosi al punto di vista imperiale306. Anche
la testimonianza del Mariscotti deriva, certo, da confidenze del
Montanelli: a renderla attendibile vale tuttavia la circostanza che
essa non solamente non contrasta con informazioni d'altra provenienza
sulle intenzioni allora nutrite dall'imperatore circa il principe
Napoleone, ma anzi ne riceve integrale conferma. Prima di Villafranca
e per diverse settimane dopo l'8 di luglio, l'imperatore infatti
espresse invariabilmente la sua decisa contrarietà a progetti
del genere: che poi il suo giuoco politico mirasse a rendere
impossibile ogni altra soluzione della questione toscana e per questa
via a far sí che la stessa diplomazia europea finisse col
forzargli la mano sul punto della candidatura «plonploniana»,
resta da vedersi (invero noi crediamo che sulla astuzia sopraffina di
Napoleone III si sia alquanto esagerato...); comunque ciò non
ha a che fare col nostro assunto immediato.
Il colloquio con l'imperatore dette al Montanelli l'impressione
che non convenisse in alcun modo opporsi alle sue vedute, o, come si
dice, «prenderlo di punta». Napoleone aveva dichiarato
formalmente impossibili le annessioni; su altre possibili soluzioni,
per contro, non si era pronunciato con altrettanta risolutezza.
Perché dunque, adottando il programma delle annessioni,
sfidare apertamente quell'unico fra i potentati europei il quale,
seppure aveva deluso, all'ultimo, le speranze degl'Italiani, aveva in
concreto iniziato l'opera dell'indipendenza della patria loro? Questo
programma annessionistico, d'altronde, non era mai stato veduto, già
lo sappiamo, con particolare favore dal Montanelli: era forse logico
attendersi che vi si convertisse proprio allorquando l'imperatore gli
dichiarava d'esservi recisamente contrario? Lasciata a se stessa,
certo la Toscana avrebbe potuto correre gravissimi pericoli, e
l'esperienza del '49 era anche troppo eloquente in proposito; ma la
garanzia del non intervento, da un lato, e la possibilità di
una lega militare e politica con le altre regioni dell'Italia
centrale non bastavano forse a eliminare ogni eccessiva ansietà
al riguardo?
Villafranca, del resto, non aveva modificato l'opinione del
Montanelli, quanto all'onnipossenza napoleonica nel fissare le
condizioni della pace definitiva per l'Italia. Villafranca, se mai,
additava sempre piú nell'imperatore il vero padrone d'Europa.
Lo si era accusato di debolezza, di ondeggiamenti, d'irresolutezza;
ma gli avvenimenti non dimostravano forse precisamente il contrario?
L'imperatore aveva voluto la guerra, ed alla guerra era giunto
nonostante le fortissime opposizioni scatenatesi in tutta la Francia,
ne aveva fatto annunziare il programma ed i limiti in una celebre
pubblicazione, e a quel programma e a quel limiti si era tenuto
sostanzialmente fedele, nonostante che i travolgenti successi
riportati lo avessero fatto temporaneamente pencolare verso soluzioni
non prevedute; vittorioso, aveva saputo troncare la guerra; aveva
sfidato l'Europa, ed ora aveva la saggezza di sacrificare all'Europa
l'immensa popolarità che si era acquistato in Italia. Non
dimostrava tutto ciò irrecusabilmente che l'imperatore sapeva
quel che voleva, e quel che voleva sapeva ottenere? Conoscere
tempestivamente i suoi effettivi propositi circa il riassetto
italiano, e disporsi a secondarli, nella prevedibile impossibilità
di una efficace opposizione, significava dunque mettersi in grado di
ricavarne il massimo vantaggio.
Il quale ragionamento apparirebbe
incontestabile se Napoleone III fosse stato davvero l'uomo che il
Montanelli, in base alle apparenze, non poteva non supporre che
fosse307, se Villafranca non avesse determinato in Italia una
situazione estremamente dinamica e tale da imporre a tutta la
penisola, o prima o poi, l'alternativa fra due, e soltanto due,
soluzioni estreme, lo status quo ante, cioè, o la compiuta
unità nazionale; se, finalmente, la politica napoleonica non
avesse provocato nelle cancellerie europee, e piú
particolarmente in quella inglese, le reazioni piú
imprevedute. Perché il Montanelli non seppe preveder tutto ciò
dovremo noi tacciarlo, per usare di una espressione moderna, di
rinunciatarismo? No davvero. Pur costernato per la brusca
interruzione della guerra, egli era infatti sinceramente persuaso che
il programma della integrale indipendenza italiana sarebbe stato, in
un secondo tempo, completato dallo stesso Napoleone, e che l'ormai
inevitabile instaurazione e il libero funzionamento di regimi
costituzionali in tutte le regioni d'Italia avrebbe fatalmente
condotto, da ultimo, in un modo o nell'altro, all'unità
nazionale. Condizione essenziale perché ciò potesse
verificarsi era il non intervento: e si doveva rischiare che
l'imperatore, contrariato dalle velleità annessionistiche
degl'italiani lasciasse mano libera all'Austria o, peggio ancora, si
concertasse con essa per procedere, a mano armata, ad eventuali
occupazioni dell'Italia centrale al fine di sottrarla al Piemonte?
Il Montanelli, insomma, pur brancolando anch'egli nel buio, fu dei
primi a intuire tutto il partito che si poteva e si doveva trarre da
quell'armistizio che anche a lui si era presentato, in un primo
tempo, come una tremenda iattura; dei primi a intuire, sia pure
confusamente, che proprio su Villafranca avrebbe potuto imperniarsi
la seconda fase della rivoluzione italiana: a condizione però
che il centro propulsivo si spostasse ormai dal Piemonte all'Italia
centrale. Giacché se con le annessioni si fosse liquidato il
problema dell'Italia centrale, l'unità della penisola tutta,
correva il rischio di non piú realizzarsi, determinandosi
ormai un equilibrio possibile fra il regno dell'alta Italia,
gli Stati della Chiesa e il regno delle Due Sicilie: il dinamismo
rivoluzionario italiano avrebbe potuto in quel caso allentarsi fino
anche ad annullarsi del tutto. Invece se l'Italia centrale,
liberamente e fortemente governata, avesse conservato
provvisoriamente la sua autonomia, ponendosi di fronte all'Europa
come campione dell'indipendenza e della futura unificazione della
penisola, la questione italiana sarebbe rimasta all'ordine del giorno
della diplomazia mondiale, i sedimenti rivoluzionari serpeggianti
nelle province romane, napoletane e siciliane ne sarebbero stati
automaticamente stimolati e ravvivati, i governi di Roma e di Napoli
si sarebbero sollecitamente trovati nel dilemma o di trasformarsi
conformemente ai voti della popolazione (e quindi anche di compiere
passi nel senso dell'unificazione italiana) o di affrontare a breve
scadenza una rovinosa rivoluzione.
Tali le riflessioni che al Montanelli
vennero suggerite dal colloquio con l'imperatore ed alle quali, come
già si è detto, egli ispirò nel seguito la sua
azione politica. Né gioverebbe qui di contrapporre ad esse le
altre, non meno evidenti, che avrebbero pur potuto derivarsene, e che
infatti ne derivarono i piú, pervenendo a conclusioni opposte
alle sue: quelle appunto che vennero poi coronate dai fatti. Ma a noi
deve bastare per adesso di avere accennato come un animo
italianissimo potesse, all'indomani di Villafranca, oppugnare
strenuamente la politica delle annessioni, non già –
come si volle – in ragione ed in nome di nostalgie
autonomistiche o, peggio, d'imperdonabili preferenze per etichette o
per ordinamenti stranieri, ma per l'appunto in ragione ed in nome di
quegli stessi principî unitari, o nazionali, ai quali obbediva
allora ogni italiano cosciente. Accenno, ahimè, tutt'altro che
superfluo, quando per un poco si tengan presenti le inaudite
deformazioni e i camuffamenti che il programma bandito dal Montanelli
ebbe allora a subire per parte dei suoi avversari politici.
Ma torniamo a Torino e a quella notte
del 15 luglio. Uscito da palazzo reale, il Montanelli si affrettò
dunque dal Kossuth, dal Valerio, dal Bianchi, ai quali riferí
le dichiarazioni imperiali308. L'indomani egli riprendeva,
con raddoppiata lena, le trattative per l'armamento dell'Italia
centrale: non aveva, è vero, alcuna posizione ufficiale, ma
mentre in qualche modo poteva dirsi il rappresentante dell'ala
sinistra del patriottismo toscano rallié alla
monarchia, poteva parlare altresí nel nome di Garibaldi. E
Garibaldi alla testa di un esercito dell'Italia centrale non era già
di per sé un apporto d'immensa importanza oltreché
tutto un programma politico? Celestino Bianchi concordava con lui
pienamente, almeno per allora: al punto che, essendosi il Montanelli,
quella stessa mattina del 16 luglio, profferto di servire la causa
toscana nel miglior modo che a lui fosse possibile ormai, recandosi
cioè in missione a Parigi, dove avrebbe potuto mobilitare
tutte le preziose sue aderenze, specie nel mondo giornalistico, e
insieme fruttare a beneficio del suo paese la confidenza
ripetutamente dimostratagli dall'imperatore, lo stesso Bianchi
senz'altro s'impegnò di riferirne a Palazzo Vecchio,
aggiungendo «che sperava che l'offerta dei suoi servigi non
sarebbe stata respinta». Riteneva il Bianchi davvero utile il
conferimento di un incarico del genere al Montanelli, oppure non ad
altro mirava che ad allontanarlo dalla Toscana, dove – il
Montanelli stesso doveva convenirne – egli avrebbe potuto
diventare, suo malgrado, «bandiera di agitazione a causa dei
suoi precedenti?»309. Chi sa. Diversi mesi piú
tardi, invero, il Bianchi affermò che quel 16 luglio il
Montanelli «era con noi», in altri termini che conveniva
in pieno col programma del governo di Firenze, il quale «persisteva,
quanto era in lui, nella sua politica unitaria»310. Ma
che significava «politica unitaria»? Si poteva benissimo
essere annessionisti-unitari, come antiannessionisti-unitari. Del
resto, col propugnare apertamente il suo piano di una lega fra gli
Stati dell'Italia centrale (quella lega che il Ricasoli, per parte
sua, vide sempre di mal occhio), il Montanelli, ci sembra, chiariva
abbastanza quali fossero, al proposito, le sue vedute politiche.
Sarebbe assurdo presumere, d'altra parte, che, mentre gli risuonava
ancora nell'orecchio quell'«impossibile» dell'imperatore,
egli s'impegnasse col Bianchi nel senso annessionistico.
No: il Montanelli si limitò ad
offrire, quali che fossero, i suoi servigi; e la prova indiscutibile
l'abbiamo proprio nella lettera che, probabilmente dietro invito del
Bianchi, egli ebbe a scrivere, il 17 luglio, al Ricasoli: nella quale
invano si cercherebbe una professione di fede annessionistica.
Essa311 non conteneva, in realtà, che una cavalleresca
quanto generica raccomandazione della causa italiana al capo del
ministero toscano, unitamente ad una esplicita presa di posizione
contro quelle restaurazioni, che (bisogna pur ricordarlo) uomini come
il Lamarmora, successore del Cavour, come il Minghetti, il Rattazzi e
il Desambrois, primo plenipotenziario sardo al convocato Congresso,
stimavano e dichiaravano in quei giorni difficilmente
evitabili312. Sulle annessioni, «ne quidem verbum»!
Sarebbe spettato, dunque, al governo toscano di esigere da lui,
nel caso, una preventiva professione di fede in tutto conforme alle
sue direttive: non si era dato tanto addosso al Montanelli, a
Firenze, per la missione Aquarone e per le pretese sue mene in favore
del principe Napoleone? È il Bianchi stesso, invece, che ci
assicura, non senza nostra legittima meraviglia, che «il
governo della Toscana accettò le proposizioni del Montanelli e
m'incaricò di trattare per l'assegnamento». Strano che
un incarico di tanta fiducia si assegnasse ad un... avversario
politico! Nuova riprova del grave (seppure comprensibilissimo)
smarrimento che colpí il governo di Firenze nei giorni
immediatamente seguenti all'armistizio: allorquando, diciamolo pure,
alle speranze annessionistiche si temette di dover ormai rinunziare.
Ma c'è di piú: incaricato di trattare col Montanelli
per l'assegnamento, il Bianchi a sua volta aveva delegato l'incarico
al «comune amico avvocato Menichetti», del quale vedemmo
già, piú sopra, la lettera 8 luglio al Montanelli. Era
costui, quel che si dice una «creatura» del Montanelli
stesso; ma nel '59 egli era diventato un pezzo grosso, a Palazzo
Vecchio! Esponente della Società Nazionale, già
commissario governativo in provincia, ben presto redattore della
«Nazione», poteva definirsi un fiduciario del governo
toscano. Ebbene, in che senso si esprimeva allora costui nelle sue
trattative col Montanelli? Leggiamo un'altra sua lettera del 18
luglio:
Di
fusione si capisce che non è a parlarsi – scriveva –:
pure forse non sarà male esprimere questo voto. In qualunque
modo la nostra professione di fede deve essere contro la passata
dinastia; per la dinastia mi pare, della principessa Clotilde
col principe Napoleone, per l'ingrandimento della
Toscana313.
Che dire, di fronte a questo singolare documento, se non che il
tanto deprecato possibilismo del Montanelli incontrava negli ambienti
di governo, a Firenze, una... concorrenza temibile?
Il 18 di luglio, intanto, il
Montanelli, dopo avere annunziato al Ricasoli il prossimo arrivo a
Firenze del Siccoli, noto emissario garibaldino, verosimilmente
incaricato di allacciare le trattative per la lega militare e per il
comando a Garibaldi314, partiva alla volta di Lovere per
riferire al suo generale circa le prime intese strette a
Torino315. L'abboccamento ebbe luogo il giorno 19316
e il resultato ne fu che il Garibaldi gli rilasciò la nota
dichiarazione: «In caso che i governi provvisori di Modena,
Toscana, e Bologna, mi offrissero il comando in capo delle truppe
dell'Italia centrale, io lo accetterò volentieri»317.
Senza indugio il Montanelli riprese perciò (il 20 luglio) il
suo viaggio in direzione di Piacenza, Modena e Bologna318,
dove, munito di questa dichiarazione e accompagnato, a quanto sembra,
dal Malenchini319, si proponeva di entrare in rapporti col
Farini e col Pepoli320.
Senonché non si era ancora
separato dal Garibaldi, si può dire, che da Torino il Peruzzi
si affrettava a telegrafare e a scrivere al Ridolfi, a Firenze:
«Dicesi parta da Milano per Toscana il Montanelli. Qui
consigliano d'impedire lui e Guerrazzi»; «conviene
impedire il ritorno del Montanelli e del Guerrazzi non tanto per quel
che farebbero, quanto per quello di cui potrebbero essere il
pretesto, e per il cattivo effetto che i loro nomi farebbero
all'estero. Perciò mi varrò dell'azione confidenziale
ed amichevole dei loro amici...»321. Questa era la
lusinghiera accoglienza che all'esule impaziente, dopo dieci anni, di
rivedere la patria, si preparava! Ignorava dunque il Peruzzi –
il quale, il 21 del mese, partiva da Torino per Parigi, investito
della nota missione diplomatica – che il Montanelli era stato
designato a seguirvelo, e, verosimilmente, a collaborare con lui?
Vedremo piú oltre che il Peruzzi, in realtà, stimava,
sí, pericoloso il Montanelli in Toscana, utilissimo invece a
Parigi. Senonché ed egli ed altri toscani eminenti, come lui
timorosi della popolarità di un Montanelli in Toscana, non
sapevano e non ricordavano che proprio l'imperatore (sul quale
affettavano di credere che il nome del Montanelli, evocante il '48,
potesse suscitare sfavorevole impressione) lo aveva spinto a recarsi
in Toscana?
L'ex triumviro, intanto, ignaro di
tutto ciò, proseguiva nel suo viaggio diplomatico. Ottenuto
senza difficoltà l'assenso del Farini e del Pepoli alla
proposta lega e al «generalato» del Garibaldi322,
varcava gli Appennini, ansioso di conferire personalmente col
Ricasoli, oltreché di rivedere finalmente la sua terra e la
sua casa323. Giunse a Firenze il 25 o il 26 di luglio, e
subito si recò a Palazzo Vecchio, dove – attestò
il Corsi in una lettera al Guerrazzi, del 27 – «tutti gli
hanno stretta la mano, e con ciò solo furono sopite tutte le
vecchie ruggini»324. Altro che sopite, come vedremo!
Altro che «riconciliazioni con tutti o quasi tutti gli antichi
amici» come, per parte sua, ebbe a scrivere il
Cambray-Digny!325.
Moltissime, e di tutti i partiti,
furono le personalità politiche che si affrettarono a
visitarlo, tanto che quasi subito egli si trovò nel bel mezzo
degli affari toscani, adesso particolarmente agitati per l'imminenza
delle elezioni dell'assemblea: autonomisti piú o meno lorenesi
in cuor loro, fautori di un regno separato dell'Italia centrale,
napoleonisti326, annessionisti, sostenitori di una
candidatura sabauda indipendente, malcontenti e intriganti. «Non
citerò le molte persone che appena arrivato in Firenze vennero
a trovarmi... e mi parlarono nello stesso senso della lettera
menichettiana», scrisse piú tardi il Montanelli
stesso327; e il Redi: «Gli davano pensiero i popolani
del Dolfi i quali chiedevano con insistenza la fusione al
Piemonte..., avendo (egli) preso impegno di fare della Toscana il
centro egemonico della futura unità»328.
Celestino Bianchi non fu degli ultimi a visitarlo; ma ormai le loro
vie divergevano: «Non entrerò in molti particolari sul
nostro colloquio – cosí il segretario generale del
governo toscano, quando, nel gennaio del '61, gli stava a cuore di
«silurare» la candidatura del Montanelli al Parlamento
nazionale329 –: dirò solo che lasciandomi
conchiuse dicendo: bisogna persuadersi che l'idea dell'unità
era un bel sogno al quale è forza rinunziare. Non c'è
che una volontà in Europa che sia rispettata; non c'è
che una parola che sia ascoltata: quella dell'imperatore dei
Francesi: la Toscana ormai nella sua mente è destinata: sapete
a chi: bisogna piegare la testa... Da quel giorno in poi non ebbi mai
piú occasione di trovarmi col professor Montanelli, né
di parlare con lui». Orbene: è verosimile che il
Montanelli tenesse col Bianchi un discorso di questo genere? Innanzi
tutto si deve osservare che non una sola parola scritta dal
Montanelli allora, prima di allora o dopo di allora, ci permette di
credere che egli rinunziasse mai alla vagheggiata unità
d'Italia, seppure si vedesse o si credesse costretto a relegarne
l'attuazione in un avvenire piú o meno lontano (e sí
che la censura postale, accuratamente eseguita nell'ufficio stesso
del Bianchi, non si faceva troppo riguardo nel sequestrare la
corrispondenza dei personaggi sospetti; figuriamoci se al Montanelli,
fatto segno ad accuse cosí aspre e persistenti, si fosse
potuto contestare la prova provata di questa sua rinunzia: lo si
sarebbe senz'altro ridotto al silenzio!) Sembrerebbe inconcepibile,
d'altronde, che proprio allorquando il Montanelli andava tenendo
discorsi cosí poco... ortodossi, i governanti toscani (vedi
testimonianza del Corsi) lo accogliessero con tanta cordialità,
almeno apparente...
Come si difese il Montanelli da questa accusa del Bianchi? Nel
modo piú ragionevole: riconoscendo francamente, cioè,
quel tanto di vero che in essa si conteneva.
Il
Bianchi, – egli rispose infatti330, – non fu
narratore veridico... quando della conversazione che avemmo in
Firenze riferí parole che non ricordo avere pronunciate, e non
pronunciai certo nel senso che egli volle dar loro, per insinuar
dubbi sulla indipendenza del mio carattere, e sulla schiettezza dei
miei sentimenti italiani. Sbaglia poi grandemente il signor Celestino
Bianchi, se mi stima uomo da aver paura di dichiarare che dopo la
pace di Villafranca vi furono momenti sí incerti, e sí
perigliosi, nei quali anch'io potei credere salutare all'Italia
l'eventualità di una Reggenza del principe Napoleone,
benché nulla oprassi a tal uopo, e non contraessi alcun
impegno.
Or dunque, esclamerà a questo punto il lettore, «habemus
confitentem reum!» A che continuare, dopo questa franca
ammissione, a contestare la versione del Bianchi? Senonché ci
si permetterà di osservare che, quand'anche fosse dimostrato
che fino dalla seconda metà di luglio del '59 il Montanelli
optasse per la soluzione napoleonica del problema toscano, questa non
implicava affatto, almeno nelle sue intenzioni, una definitiva
rinunzia al programma unitario. «Reggenza», infatti, non
significa che temporanea occupazione del trono nel nome e nell'attesa
del legittimo e definitivo suo detentore. Orbene, in nome di chi il
principe Napoleone sarebbe stato proclamato reggente se non,
notoriamente, in quello di re Vittorio suo suocero? E qual meraviglia
che a molti patrioti toscani l'idea di quella reggenza si presentasse
allora spontanea come la sola via d'uscita dalla gravissima
situazione determinatasi dopo Villafranca, in quanto su di essa si
sarebbero potuti raccogliere i consensi sia del Piemonte che della
Francia? Si è visto già come il Menichetti fosse per
l'appunto di quella opinione; uomo di secondo rango costui? E sia
pure; ma che dite di fronte a documenti ineccepibili dimostranti che
personaggi politici di prima grandezza, come il Peruzzi, il
Matteucci, il Corsi, il Ridolfi, ed altri ancora331,
inclinarono nettissimamente, in quel torno di tempo, verso la
candidatura napoleonica al trono toscano, se non addirittura verso
altre ben piú di quella straniere all'Italia? Sbagliarono
anch'essi, si dirà; e in ogni caso il loro errore non può
certo addursi a discolpa del Montanelli. Verissimo: a condizione però
che il giudizio di condanna o di assoluzione sia uguale per tutti...
È nostra opinione, comunque,
che alla fine di luglio del '59 il Montanelli, pur non scartando a
priori l'ipotesi napoleonica, non si esprimesse in concreto che in
senso antilorenese, antiannessionistico332, e in favore della
costituzione di un forte organismo politico nell'Italia centrale. Il
suo programma immediato era pur sempre quello di far designare il
Garibaldi a comandante degli eserciti collegati. E che? Poteva mai il
Montanelli immaginarsi che il generale si sarebbe messo al servizio
del principe Napoleone? Le altre testimonianze delle quali disponiamo
non contraddicono al nostro assunto. Non quella del Capponi («ora
il Montanelli promette, o minaccia, o annunzia PlonPlon; ma senza
però raccomandarlo»)333, non quella del
Cambray-Digny («non manca chi faccia partito per altre
dinastie. La napoleonica è messa avanti da diversi, tra i
quali primeggia il Montanelli. Io, per dire il vero, non l'ho udito
proporla decisamente, ma mi parve che andasse per quella
via»)334, e neanche quella del Peruzzi, che da Parigi
riportava, sul conto del Montanelli, pretese rivelazioni del ministro
francese a Firenze335. Solo il Massari e il La Farina,
entrambi, allora, fieri avversari del Montanelli, ce lo dipingeranno
sordamente intrigante, non appena rientrato in Firenze, in favore del
principe Napoleone: senonché non si dovranno prendere con
ampio beneficio d'inventario le costoro asserzioni? Il La Farina
intanto, non si fece eco di queste accuse che alla fine di settembre,
retrospettivamente cioè, e proprio allorquando la canéa
antimontanelliana ebbe raggiunto il suo apice336; quanto al
Massari, questi, pur attribuendo a re Vittorio in persona il severo
giudizio sul Montanelli supposto campione di «plonplonismo»,
non dubitò di metterlo in fascio col Cipriani e col
Farini337: or chi non sa quanto sospetti, a dir poco, siano i
giudizi torinesi del tempo sull'attività, nonché di
costoro, di chiunque non si mostrasse rigidamente ossequente ai cenni
del governo piemontese?
Quale si fosse, sulla fine di luglio del '59, l'effettivo
programma del Montanelli noi sappiamo di già; ma in base a
qualche altro documento ci è dato entrare al proposito in
qualche maggiore precisazione. Ecco ad esempio lo schema di un
discorso da lui pronunziato nella sua Fucecchio, il 28 del mese:
So
che qualcuno volle farmi delitto d'amare la Francia. Lo compatisco.
Non li vide partire (i soldati francesi) come li ho veduti io. Non
passò con loro come ho passato io le Alpi. Tutto il mio credo
si riepiloga in tre principali principî, e in tre uomini.
Principî: 1) Indipendenza; 2) Unità nazionale; 3)
Alleanza con la Francia. Il resto sono espedienti. Gli uomini: 1)
Napoleone III: mosse la questione italiana. Senza di lui non saremmo
qui. Difficoltà immense: le vincerà. 2) Vittorio
Emanuele: fermo allo Statuto; strinse la alleanza con la Francia. 3)
Garibaldi, personificazione della democrazia, il capitano del popolo.
Mano di Garibaldi a Vittorio, mano di Vittorio a Napoleone; o con
l'annessione o senza, tutto anderà. Guai se il nodo si
scioglie338.
Dove, a parte l'insistenza probabilmente eccessiva sui beneficî
dell'alleanza francese, ben si vede come il Montanelli, nonché
abbandonare il caposaldo dell'unità, vi si afferrasse tutto,
anzi, su di essa imperniando la sua propaganda. Ma – si dirà
– come prevedeva il Montanelli che questa unificazione sotto
gli auspicî francesi potesse realizzarsi? Ci viene qui in
soccorso, ancora una volta, la testimonianza del Redi339:
secondo il quale l'idea montanelliana sarebbe stata, fino d'allora,
quella di ottenere dall'imperatore e, mercé i suoi buoni
uffici, dal Congresso delle potenze, che, in cambio della volontaria
rinunzia da parte dell'Italia centrale ad annettersi al Piemonte,
venisse concessa al Veneto l'autonomia amministrativa e politica,
oltre alla facoltà di ordinare un suo esercito. L'uscita delle
truppe austriache dai confini d'Italia avrebbe d'altronde permesso di
sollecitare il ritiro anche del corpo di occupazione francese a Roma,
cioè il definitivo conseguimento dell'indipendenza e della
nazionalità italiane.
Riconosciute
esse nel diritto pubblico europeo (ragionava il Montanelli),
l'unificazione d'Italia, non avversata dalla Francia, diviene una
questione d'ordine interno, e la Toscana non tarderà ad
attrarre a sé a una a una tutte le membra della patria
italiana. Se torniamo con la mente a quel tempo – cosí
il Redi – ... il concetto non apparirà tanto da nemici
del proprio paese come si fece passare340.
Senonché questa presa di posizione, in pieno contrasto con
quelle che erano allora le direttive del governo responsabile, non
era destinata di certo a migliorare le relazioni del Montanelli, con
i circoli ministeriali.
I governi dell'Italia centrale,
intanto, primo in ordine di tempo quello di Firenze, offrivano al
generale Garibaldi, conformemente agli accordi presi e col Montanelli
e col Malenchini341, il famoso comando in capo. Il Garibaldi,
superate talune difficoltà che si opponevano alla sua
accettazione342, si dirigeva immediatamente in
Toscana343; ben presto veniva formalmente conclusa la lega
militare fra gli Stati dell'Italia centrale. Erano, entrambi,
avvenimenti della piú alta importanza (in buona parte dovuti,
come sappiamo, all'opera personale svolta dal Montanelli); i quali,
preceduti dalla convocazione dei collegi elettorali in Toscana e in
quegli altri Stati, venivano a determinare in questa parte d'Italia
una situazione nuova, cosí suscettibile di prevedibili
sviluppi rivoluzionari, che il Montanelli non si sentí piú
di lasciar la Toscana come avrebbe dovuto fare se avesse accettato la
nota missione in Francia. Gli pareva, adesso, che la causa italiana
si potesse servire assai piú efficacemente a Firenze che non a
Parigi nelle anticamere dei ministeri o nelle redazioni dei grandi
giornali; e ciò tanto piú che la diplomazia francese
pareva allora sviarsi, con le successive missioni De Reiset e
Poniatowski344 – con le quali, diciamolo subito ben
chiaro e ben alto, il Montanelli non ebbe assolutamente nulla a che
fare345 – in assurdi e sterili tentativi volti a
persuadere i toscani ad accettare una restaurazione lorenese.
Tramontata dunque la prospettiva di un
impiego diplomatico, e tramontata, sembra, unicamente per volontà
del Montanelli346, l'ex triunviro si presentò
candidato alle elezioni politiche. Che gli ambienti ufficiali non
vedessero con soverchio entusiasmo questo suo divisamento (il
Montanelli era pur sempre l'uomo della Costituente: una volta membro
dell'assemblea non avrebbe cercato di riesumare l'antico progetto?) è
piú che comprensibile, e del resto ci consta
sicuramente347: si deve per altro riconoscere che nulla di
men che corretto fu tentato dal governo per escluderlo
dall'assemblea: tanto che il 7 d'agosto egli otteneva, nella sua
Fucecchio, una votazione quasi plebiscitaria348.
Eccolo adunque deputato; eccolo
investito, con gli altri suoi colleghi, di una immensa responsabilità
di fronte all'Italia e all'Europa. Ben si sapeva, a Palazzo Vecchio,
che si poteva contare su di lui per la progettata solenne votazione
antilorenese; c'era da aspettarsi perciò, che gli amici del
governo facessero di tutto, in quella prima metà d'agosto, per
convertire lui e i molti altri deputati antiannessionisti anche al
programma dell'unione al Piemonte. Quindi lusinghe, pressioni,
intercessioni autorevoli. Pel Montanelli, in particolare, vennero
messi di mezzo, fra gli altri, perfino il Manzoni e il Garibaldi, ai
cui consigli si pensò che egli si sarebbe, per deferenza,
inchinato349. Ma il Montanelli non piegò. Era forse
legato da impegni assunti personalmente con l'imperatore? Cosí
si sussurrò da molti, i quali evidentemente ignoravano come un
uomo di fede possa, per non tradire le sue convinzioni, sfidare
sereno l'impopolarità e, peggio, gli oltraggiosi sospetti
anche degli amici. Ma sarà proprio necessario ricorrere a
supposizioni del genere, quand'anche si voglia considerare la sua
mancata adesione, in seno all'assemblea, al voto dell'immensa
maggioranza dei deputati, un gravissimo errore?
Le accuse di «plonplonismo»
al suo indirizzo si erano andate intensificando e aggravando. Le
echeggiavano a gara, ormai, da Parigi il Pasolini350 e il
Peruzzi351, da Londra il Corsini352 e a Firenze un
po' tutti quanti, dal Capponi353 al Mazzini, di fresco
giuntovi, come si sa, in un incognito parecchio
trasparente354. Queste accuse acquistavano adesso tanta
maggior consistenza in quanto resultava che alla corte imperiale,
nonostante le recise smentite degli ambienti ufficiali, il progetto
«plonploniano» cominciava ad essere favorevolmente
gustato355. Non si venne perfino a sapere che il 19 d'agosto
eran partiti da Parigi alla volta d'Italia due agenti del principe
Napoleone, uno dei quali, il Texier, amico personale del Montanelli,
e l'altro, il Sarda Garuga, espressamente incaricato dal principe di
visitare diverse personalità dell'Italia centrale356,
fra le quali il Farini, il Cipriani, il Pepoli, il Matteucci,
l'Albéri, il Montanelli?357.
Sembrerebbe dunque di dover convenire
che, se non alla fine di luglio, almeno verso la metà del mese
successivo il Montanelli «scoprisse le sue batterie».
Viceversa è nostro preciso parere che, nonostante l'imponente
mole di prove a suo carico, il suo atteggiamento restasse anche
allora quello che già avemmo a chiarire per l'addietro: e cioè
che né egli né gli altri «francesizzanti»
promuovessero attivamente la candidatura napoleonica, ma nel contempo
neanche la scartassero, ritenendosi positivamente obbligati, per il
bene stesso del loro paese, a indagare la convenienza e la
probabilità di riuscita nel modo stesso che adoperavano per le
altre soluzioni proposte del problema toscano358. Il
Montanelli si era tenuto, nel complesso, in riserva fin quando i
destini di questa parte d'Italia erano rimasti impregiudicati; ma
ormai che, riunita l'assemblea, si voleva dal governo sforzarla a
votare un partito definitivo, egli avvertiva l'imprescindibile dovere
di uscire da quel riserbo per definire il suo punto di vista: il
quale comportava l'attiva collaborazione delle quattro assemblee
dell'Italia centrale in vista di addivenire alla formazione di un
unico Stato da sottoporsi, in attesa degli eventi ad una dittatura o
reggenza provvisoria. Questo era e restava, del suo programma
immediato, il punto essenziale; mentre era di secondaria importanza –
una volta escluso il pericolo di un ritorno dei Lorena – la
questione a qual principe affidare, sempre nel nome di re Vittorio,
l'ufficio. Le sue personali preferenze, già si è visto,
cadevano sul principe Napoleone, simbolo vivente della indispensabile
alleanza italo-francese; ma il Montanelli non s'impegnava sul nome
suo, come s'impegnava invece, aperto e risoluto, sulla questione
della provvisoria autonomia dell'Italia centrale359; e ne
abbiamo la riprova nel coscienzioso voto da lui dato, nella seduta
dell'assemblea del 9 novembre, al progetto di reggenza di Eugenio di
Carignano360.
Tale era allora e tale in sostanza
rimase, checché pretendessero in contrario i suoi detrattori,
il suo punto di vista sulla questione toscana361. Solo si
deve aggiungere come a radicarlo in quella opinione contribuisse
essenzialmente una constatazione che al suo cuore di soldato
dell'indipendenza dovette riuscire particolarmente penosa: quella
cioè che i suoi concittadini non sembravano invero troppo
disposti ad affrontate virilmente i rischi, anche di guerra, che da
una proclamazione annessionistica fatta contro la volontà
della Francia, avrebbero potuto derivare, ed anzi sarebbero derivati
con tutta probabilità. Garibaldi, sí, giungeva in
Toscana (per venire, del resto, di lí a poco, sostituito dal
Fanti nel comando in capo degli eserciti collegati) e la lega
militare era, sulla carta, conclusa; ma che perciò? Né
il popolo toscano si mostrava, allora, risoluto a difendere a
qualunque costo e contro chiunque la sua libertà, né il
suo governo, conveniamone, andava apprestando con la dovuta
sollecitudine i mezzi per rendere possibile, in qualunque evenienza,
quella difesa. In cosí fatte circostanze – osservava il
Montanelli – l'attentarsi a sfidare, con la Francia, l'Europa
tutta sarebbe stato un gesto sublime, ma inutilmente temerario:
giacché, per quanto ingrossato dai contingenti dei volontari,
per quanto valorosissimo, l'esercito sardo non avrebbe potuto di
certo resistere contro eventuali interventi offensivi di una o di
entrambe le potenze firmatarie dei patti di Villafranca362.
Ma torniamo all'assemblea toscana; della quale non importa davvero
di ricordare in questa sede, come il 16 agosto procedesse unanime
alla votazione della proposta Ginori proclamante la decadenza
definitiva della dinastia lorenese. Forse non furono molti i deputati
che, in quella solenne occasione, sentirono, come il Montanelli
sentí, di compiere un sacro dovere: giacché pochi
avevano, come lui, lealmente servito il granduca, e sinceramente
sperato di farne un principe italiano; pochi, come lui, erano stati
in grado di valutare tutta l'irrimediabile sua inadeguatezza di
fronte all'alta missione assegnatagli; pochi, come lui, avevano,
finalmente, dal 6 febbraio del '49 in poi, realizzata l'assoluta
incompatibilità e di quel principe e in genere di tutta la sua
casata con la resurrezione italiana. Per breve ora, dunque, il
Montanelli provava l'ebbrezza, solitamente negata agli spiriti piú
alti, dell'unanime consentimento. Per breve ora: ché già
fino dal 13 agosto egli aveva creduto di doversi opporre alla
votazione della proposta Romanelli per una mozione di plauso al
governo in carica ed al cessato governo provvisorio363; e
quello stesso 16 agosto non aveva potuto nascondere la sua
contrarietà a che la proposta Mansi e Massei per l'annessione
della Toscana al Piemonte venisse rinviata agli uffici. La
discussione di queste due proposte si svolse, come è noto, la
mattina del 20, nel segreto delle sezioni: in seno alle quali il
Montanelli non dubitò, naturalmente, di svolgere i motivi
della sua opposizione364, salvo ad astenersi, d'intesa con
altri due deputati, dall'intervenire alla successiva seduta pubblica,
nel corso della quale l'annessione della Toscana al Piemonte venne
approvata all'unanimità. Era il piú gran sacrificio che
il Montanelli potesse fare alla causa governativa, quello di
rinunziare ad esporre pubblicamente le ragioni del suo atteggiamento,
per non turbare la manifestazione della maggioranza365. Ma
nessuno gliene fu grato366: ed anzi furono proprio taluni fra
i suoi colleghi i quali l'annessione avevano votato pur convintissimi
che fosse quella una manifestazione platonica, dopo la quale ci si
sarebbe dovuti acconciare ad un qualsivoglia altro partito, e magari
anche all'accettazione della duchessa di Parma, furon proprio costoro
i piú accaniti contro il Montanelli: che senza altro
accusarono di lesa patria, cominciando con l'accreditare la falsa
leggenda che egli avesse votato contro l'annessione.
È esagerato di certo, anzi è positivamente infondato
quel che scrisse il D'Ancona – che del Montanelli ebbe a
pubblicare, da par suo, parte del carteggio, – che cioè
da quel 20 d'agosto in poi il Montanelli «perdette ogni
autorità, e quel resto di popolarità della quale si
lusingava essere ancora in possesso si dileguò del tutto. Morí
fisicamente ai 17 giugno 1862; politicamente, era già morto
dopo quel voto»367. Ma è pure indubitato che
dopo il 20 d'agosto il Montanelli, già poco grato ai potenti
della sua terra, si trasmutò ai loro occhi in un vero e
proprio nemico pubblico, piú infido e dannoso d'un
Poniatowski, piú temuto, e, certo, meno rispettato d'un
Mazzini. Perché mai tanto risentimento e, diciamolo aperto,
tante persecuzioni contro un oppositore cosí solitario? Che
mai poteva rappresentare costui, e con lui i due suoi compagni di
astensione, di fronte all'assemblea unanime? Si aveva forse il dubbio
che quel voto di un'assemblea eletta a suffragio ristretto non
corrispondesse che assai imperfettamente ai propositi ed alle
aspirazioni della maggioranza dei cittadini pensanti? La verità
si è che quella voce isolata, o piuttosto quella voce rimasta
silenziosa nel coro, veniva a costituire come una frattura in quella
facciata di unanimità formale che da tempo ormai i governanti
toscani si erano preoccupati di edificare nel loro paese per opporla
a un'Europa diffidente; che essa rappresentava un principio
pericoloso d'indipendenza, mal tollerabile fintanto che durasse
quello stato di pericolosa incertezza sulle sorti toscane: tanto piú
che era la voce di un patriota antico, ben noto nel mondo straniero,
contro il quale si spuntavano, in definitiva, le assurde
insinuazioni, che pur si osava da taluno rivolgergli, di venduto allo
straniero e perfino di segreto fautore delle
restaurazioni!368.
Dal 20 d'agosto, perciò, il
Montanelli avrà la vita difficile, nella sua Toscana. I
giornali governativi (e cioè quasi tutta la stampa) non gli
daranno piú tregua369; la censura postale sorveglierà
accuratamente la sua corrispondenza; le sue parole ed ogni suo
movimento verranno controllati e riferiti a Palazzo Vecchio; ogni sua
passata o presente benemerenza verrà dimenticata o svisata;
ogni suo gesto sarà cagione di sospetto. I documenti in nostro
possesso ed altri che ci siamo procurati (e che a suo tempo
pubblicheremo) non lasciano dubbi a questo proposito. Pian piano gli
si farà davvero il vuoto d'intorno, un po' pel timore che
molti proveranno di frequentare la compagnia di un oppositore
sorvegliato, un po' anche perché le calunnie diffuse contro di
lui370 finiranno con l'alienargli effettivamente ogni
simpatia. Montanelli sperimenterà come sia piú amaro
l'esilio in patria che non lo stesso esilio materiale dal proprio
paese! Non si giunse perfino a negargli la restituzione di quella
cattedra pisana che aveva pur abbandonato, nel '48, dopo sette anni
di celebrato insegnamento, per andare a combattere?371. Non
gli si vietò con ogni mezzo l'ingresso nel Parlamento
nazionale radunato a Torino, rendendogli ancora piú amaro
questo ostracismo col contrapporgli, nei singoli collegi un dopo
l'altro tentati, concorrenti affatto ignoti ed oscuri?372. I
suoi scritti – e ve ne furono di bellissimi, profusi in
giornali minori o in opuscoli, attestanti non solamente l'usata
acutezza della sua mente e la profondità e l'estensione del
suo sapere, ma anche il coscienziosissimo studio delle questioni
prese in esame373 – vennero sistematicamente ignorati
o, peggio ancora, sommariamente stroncati. Caso tipico fra tutti,
quello del suo volumetto L'Impero, il papato, e la democrazia in
Italia, pubblicato nel novembre del '59, il quale non provocò
nella stampa toscana che recensioni beffarde e sprezzanti: eppure
v'era in quel suo scritto, che, fra innegabili divagazioni e
genericità, ricercava e additava un possibile componimento dei
troppi dati contraddittori del problema italiano, v'era in esso tanto
nobile fervore, tanta altezza di concetti, tanta sottigliezza di
argomentazioni, da fornire non pure la giustificazione ideale del suo
contegno politico, ma bensí la conferma di come il Montanelli
andasse annoverato fra le piú fini e originali e nutrite menti
politiche dell'Italia d'allora. Ma chi pensò, ad esempio, dopo
il 5 maggio del 1860, a ricordare che in quelle pagine si conteneva
tra l'altro un presagio chiarissimo della spedizione garibaldina
nell'Italia del sud?
Tutto ciò non contava. Il peccato del Montanelli, già
colpevole di rappresentare i brucianti ricordi del '49, era senza
remissione per gli unitari dell'ultima ora. Ond'è che questo
geniale pubblicista, questo cittadino sempre e soprattutto sollecito
del bene del proprio paese, questo antico antesignano dell'unità
italiana, poté venir condannato, nella propria terra, alla
morte morale; cioè ad assistere, inoperoso, alla grande
fatica, sempre sognata, del costruire in concreto la nazione
italiana, appena sbozzata nei campi di battaglia. Al quale tormento,
sí, lo sottrasse la morte fisica, ben presto sopraggiunta.
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