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Nello Rosselli
Saggi sul Risorgimento

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  • II. Giuseppe Montanelli
    • 2. Giuseppe Montanelli e il problema toscano nel 1859
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2.
Giuseppe Montanelli e il problema toscano nel 1859

 

A Giuseppe Montanelli, agitatore politico, scrittore, statista, soldato, tutto fu perdonato dai suoi contemporanei – anche l'infelice prova ministeriale del '48-49, anche le oscillazioni, vere o presunte, del suo pensiero politico, e perfino la mediocrità dei suoi versi – ma non l'atteggiamento che assunse nell'anno decisivo per le sorti della Toscana e d'Italia. Il contrasto determinatosi allora fra la sua azione politica e le direttive del nuovo governo toscano raggiunse infatti tal gravità, tale asprezza che il Montanelli, si sa, ne uscí letteralmente stroncato nella sua fama di patriota; la morte, sopraggiunta nel giugno del 1862, quando egli aveva appena potuto riprendere la sua attività, gl'impedí d'altra parte di fruire di quella piena riabilitazione la cui doverosità cominciava ad imporsi agli stessi suoi piú accaniti avversari. Scomparso lui dalla scena del mondo, si poté anche inalzargli monumenti e variamente onorarne la memoria, ma un processo di revisione di quella specie di condanna morale che lo aveva colpito e atterrato negli ultimi anni non venne mai piú.

Intenti a ritracciare in base a nuovi documenti la vita di lui, singolarmente bistrattata quasi piú da incauti apologisti che non dai suoi stessi denigratori, vorremmo adesso non proprio avviarlo noi, questo processo di revisione, ma per lo meno radunarne gli elementi necessari: persuasi come siamo che il chiarimento di questo episodio possa giovare altresí a mettere in luce, piú generalmente, certi modi e certe forme, altamente caratteristici, del glorioso rivolgimento toscano.

Il 27 aprile del 1859, esattamente alla stessa ora nella quale a Firenze aveva luogo la pacifica cacciata del granduca, Giuseppe Montanelli, esule in Francia ormai da dieci anni, partiva per l'Italia, deliberato, nonostante la non piú giovane età (egli era nato a Fucecchio nel 1813) e la malferma salute, a prender parte alla guerra, arruolandosi fra i volontari toscani177. Giornata di vibrante entusiasmo, a Parigi: truppe in partenza, inni ed acclamazioni, l'Italia in tutti i cuori e su tutte le labbra. L'ex triumviro della Toscana, l'illustre autore delle Memorie, l'applaudito poeta della Tentazione e di Camma, a buon diritto poteva dar libero sfogo alla sua esultanza, giacché quel che accadeva gli appariva come una solenne conferma delle sue previsioni e in qualche modo come un altissimo premio alla sua incessante propaganda politica, costantemente ispirata al concetto fondamentale della complementarità del problema italiano con quello generale europeo. In particolare – e pur fra comprensibili dubbiezze e oscillazioni determinate dall'estrema fluidità della situazione – il suo punto fermo in politica era rimasto, dal '49 in poi, quell'uno: che senza l'aiuto di Francia, cioè, la libertà e l'indipendenza d'Italia sarebbero rimaste un bel sogno inattuabile. Questo aveva detto e scritto agli amici italiani di qua e di là delle Alpi, questo si era studiato di dimostrare nelle numerose pubblicazioni date alle stampe in quegli anni, e in questo senso aveva orientato la sua propaganda negli ambienti politici della capitale. Parlava ai Francesi d'Italia e agli Italiani di Francia; né mai si era stancato di ricercare e di additare i motivi e i modi di un allineamento franco-italiano, quand'anche i dati concreti della situazione fossero parsi contrastar nettamente con quei suoi piani politici.

Le innumerevoli e cospicue sue relazioni ed amicizie francesi – dal Lamartine all'Hugo, dal Michelet al Lamennais, dal Quinet al Légouvé, dal Martin al Perrens – non erano state da lui ricercate e coltivate proprio in vista di questa indispensabile illuminazione della «intelligenza» francese sui dati della questione italiana? Oggi sappiamo bene quanto merito risalga all'emigrazione politica italiana nell'attuazione del piano napoleonico concepito e stimolato dal Cavour: ma certo ben pochi fra gli emigrati erano al pari di lui riusciti ad introdursi (grazie anche ai clamorosi suoi successi letterari e teatrali) nei piú esclusivi ambienti della capitale, nessuno conosceva cosí a fondo le redazioni dei grandi giornali. Nel «Siècle», nella «Presse», gli organi piú apertamente italofili della stampa francese, parecchie erano state le «corrispondenze d'Italia» da lui fornite su dati che sistematicamente si procurava da Firenze, da Milano, da Torino178. Nella «Revue des Deux Mondes», nella «Revue de Paris» e in altre minori il suo nome era familiare. E gli amici toscani, quelli stessi che pur sovente dissentivano da lui circa l'azione da svolgere nel granducato in previsione di complicazioni politiche, a chi se non a lui si rivolgevano quando occorresse loro denunziare sulla stampa francese la situazione del loro paese?

In quei primissimi mesi del 1859, poi, l'attività spiegata da Montanelli aveva raggiunto un ritmo addirittura febbrile. Egli sperava ormai nella guerra, sí179, ma, introdotto com'era nel sancta sanctorum della politica imperiale (il Pietri e il Baciocchi eran fra le sue conoscenze), non poteva non registrarne tutte le oscillazioni, valutando l'entità delle resistenze che contro la guerra si andavano affermando in Francia, un po' in tutti i settori. «Qui l'opinione ha bisogno d'essere scaldata, – scriveva sul principio dell'anno ad un suo corrispondente, a Torino, l'Homodei, incitandolo a procurargli un sempre piú nutrito notiziario lombardo da trasmettere ai giornali amici, – ... Tutta la borghesia è spaventata»: orleanisti, cattolici, repubblicani, tutti all'opposizione, tutti contrari alla guerra!180. Pur di travolgere quelle opposizioni, pur di popolarizzare l'impresa italiana, il Montanelli si era messo a piena disposizione del conte di Cavour, relegando provvisoriamente in sott'ordine ogni sua prevenzione circa le finalità ultime della politica sabauda181: era entrato in rapporti indiretti con lui e conversando e scrivendo contribuiva per parte sua a realizzarne il serrato giuoco diplomatico. Suggeriva, per la Toscana, una energica ripresa del movimento di agitazione liberale, in vista di costringere il granduca a consentire ad un ministero costituzionale il quale preparasse la partecipazione della Toscana alla guerra auspicata: ché se il granduca vi si fosse opposto, per appellarsi all'Austria (scriveva e faceva scrivere, nel gennaio e nel febbraio, al Puccioni, al Parra, al Visconti Venosta e ad altri ancora), ecco trovato un eccellente pretesto per un contro-intervento franco-sardo, cioè appunto per provocare la guerra182. Da Torino, invece, gli si scriveva autorevolmente perché procurasse anche lui di persuadere i suoi amici toscani a organizzare piuttosto un moto insurrezionale che avrebbe dovuto scoppiare non appena in Piemonte i preparativi per la guerra fossero stati compiuti; e, insieme, s'invocava la sua presenza animatrice nella capitale sabauda183. Era quello il tempo nel quale sembrava che gli energici sforzi della politica inglese per scongiurare il conflitto dovesse trionfare, impantanando la questione italiana in un congresso delle potenze.

Il Montanelli frattanto s'adoperava a sollecitare l'afflusso di volontari dalla Toscana in Piemonte: l'indifferenza o la freddezza degl'italiani nell'imminenza della crisi presumibilmente risolutiva lo preoccupavano immensamente184. Si rendeva conto infatti che solamente sui campi di battaglia l'Italia avrebbe potuto fornire la prova decisiva della sua maturità nazionale: e i sintomi, già manifesti, di una rinnovata abdicazione dei suoi compatrioti del centro e del mezzogiorno di fronte all'attesa azione franco-sabauda lo inducevano ai piú tristi presagi. Il mirabile esempio lombardo – e con i lombardi egli si teneva da tempo in assiduo contatto – restava malauguratamente isolato185.

Innumerevoli lettere, innumerevoli articoli e pseudo-corrispondenze italiane, redatti in quel suo stile caldo, imaginoso, poetico, seppure talvolta un poco prolisso, uscivano dalla sua penna. Si poneva in rapporto col principe Gerolamo Napoleone186, si recava – per la prima volta in dieci anni – a intervistare l'imperatore nella vana speranza di penetrarne gl'intendimenti finali circa l'assetto che si sarebbe potuto dare all'Italia dopo la guerra187; studiava, d'intesa con gli amici di Firenze e di Torino, la possibile immediata fondazione, a Parigi di un giornale in lingua francese consacrato alla causa italiana188; si occupava a far tradurre e a diffondere il celebre opuscolo Toscana e Austria189; dettava manifesti alla nazione tedesca per incitarla a seguire con simpatia o almeno con minor diffidenza l'imminente impresa liberatrice d'Italia, imaginava, allo stesso scopo, un indirizzo dei protestanti italiani ai correligionari inglesi e tedeschi190; scriveva al Poerio, di fresco sbarcato in Inghilterra, reduce dalle galere borboniche, suggerendogli di sfruttare l'immensa sua popolarità in quel paese per indurre il governo a farsi banditore, nel temuto Congresso, della restituzione ai Toscani e ai Napoletani delle costituzioni del '48, illegalmente abrogate191.

Fu, ripetiamo, un periodo ansioso e attivissimo, durante il quale il Montanelli, trascurando ogni altro suo interesse192 e differenziandosi dai piú dei colleghi in repubblicanismo, clamorosamente ostili ad una guerra voluta dal despota napoleonico, si prodigò con incessante entusiasmo. E finalmente fu la guerra, la sospirata partenza per l'Italia.

Il Montanelli era cosí mal ridotto in salute193 che, pur avendo interrotto il suo viaggio a Chambéry194, appena giunto a Torino195, ammalò. Riavutosi, volle, prima di partire pel campo, conferire col Cavour (oltre che con vecchi suoi amici quali il La Farina, il Pallavicino, il Farini). I due, che fino allora non si erano mai incontrati – avrebbero dovuto vedersi a Parigi, un mese innanzi, ma poi l'affrettata partenza del Cavour aveva fatto mancare il ritrovo196, – ebbero un esauriente colloquio, e a quanto pare si lasciarono soddisfatti l'uno dell'altro. Il Cavour, anzi, ripetutamente insistette perché, rinunciando all'idea di prender parte alla guerra, il Montanelli – il quale non poteva servirsi del braccio sinistro, malamente ferito nel '48, a Curtatone – si disponesse ad accettare un qualche ufficio politico meglio atto a sfruttare le sue capacità197; anche gli amici francesi lo avevano scongiurato di non esporsi a fatiche troppo superiori alle sue deboli forze (come non capiva che, di fronte al nemico, un robusto contadino valeva mille volte piú di un intellettuale incurvato sui libri?)198. Ma il Montanelli che, come si è detto, avrebbe voluto vedere quella guerra trasformata dagli italiani in una specie di crociata nazionale, e che sentiva come vergogna e sciagura d'Italia che le truppe francesi avessero a far l'esperienza delle imbelli virtú della maggioranza dei suoi compatrioti, rifiutò netto: e con lo slancio di undici anni prima, soltanto men giovane e forte, partí per il campo, resistendo finanche al desiderio nostalgico di rivedere al piú presto la sua Toscana; ma invero il meglio della Toscana non erano proprio quei volontari che egli si apprestava a raggiungere?199. Si trovavano costoro ad Acqui, ordinati (per usare un'espressione eufemistica) nel corpo dei Cacciatori degli Appennini, sotto il comando dapprima di Girolamo Ulloa, intimo amico del Montanelli, quindi del Boldoni200: fra di essi il Montanelli prendeva il suo rango come semplice milite, rifiutando la nomina a sottotenente201; era un suo vecchio principio quello che la responsabilità del comando spettasse esclusivamente agli esperti, e non mai agli ufficiali improvvisati.

Qual era allora il suo punto di vista sulla situazione politica e in particolare sulle sorti della Toscana «protetta» dal re sabaudo? Egli partiva dalla premessa, ovvia a quei giorni, esser la Francia arbitra assoluta dei destini d'Italia; occorrer quindi non contrastare apertamente il programma imperiale, notoriamente mirante ad assicurare l'indipendenza alla penisola sulla base di una costituzione federale. Soprattutto premeva che sui primordi del conflitto non venissero sollevate discussioni e questioni concernenti il problema dinastico in Toscana, atte a smorzare lo slancio guerresco dell'imperatore, con l'insinuargli dei dubbi circa possibili deviazioni del governo di Torino dal piano concertato a Plombières.

Nel primo periodo della guerra dell'indipendenza, dalla scesa dei francesi in Italia fino all'entrata loro in Milano – preciserà piú tardi lo stesso Montanelli202 – mi parve inopportuno ogni movimento il quale accennasse alla formazione d'un solo Stato italiano retto da Vittorio Emanuele: ciò per due precipue ragioni. La prima delle quali era di non contradire al disegno federale convenuto a Plombières...; la seconda di non accrescere difficoltà a un moto napoletano, il quale costringesse il Borbone ad unire alla Francia e al Piemonte le sue milizie contro l'Austria. Ciò non vuol dire che il disegno federale francese mi sembrasse preferibile all'unità regia bene intesa.

Dove immediatamente si scorge come fino da allora il Montanelli subordinasse la soluzione del problema che piú gli stava a cuore, quello toscano, alla soluzione integrale del problema d'Italia; e anche come in lui durasse viva e cocente la memoria del '48, allorquando l'affrettata annessione della Lombardia al Piemonte aveva in qualche modo trasformato la guerra «nazionale» in una impresa ad apparente, esclusivo profitto della dinastia di Savoia.

Senonché si volle e si vuole dai suoi detrattori che fino da quella prima metà di maggio egli andasse invece già intrigando negli ambienti imperiali, ad Alessandria, per propugnare la candidatura del principe Napoleone al trono toscano203. Somma ingiustizia degli uomini e delle cose! Mentre il Montanelli militava in Acqui, felice di trovarsi fra quella gioventú animosamente impaziente di entrare in linea204, e risoluto a non occuparsi per allora di cose politiche, un influente personaggio toscano, già vecchio amico suo, ma poi tra gli oppositori del suo ministero e quind'innanzi sempre contrarissimo a lui, il Salvagnoli, si presentava, come ognun sa, il 17 maggio, all'imperatore, formalmente richiedendolo, fra l'altro, di mandare un corpo di truppe francesi in Toscana, per salvarla dai temuti eccessi dell'estremismo mazziniano. Di qui la destinazione in Toscana del 5° corpo d'armata, comandato dal principe Napoleone, di qui le innumerevoli gravissime complicazioni che sono nella memoria di tutti, di qui gli esiziali sospetti sulle intenzioni francesi, ravvivati dal fatto, non ignoto ai piú, che era proprio il Salvagnoli quegli che nel novembre del '58 aveva presentato all'imperatore un progetto di riordinamento della penisola comprendente la cessione dell'Italia centrale al principe Gerolamo!205. Di qui, finalmente, né proprio si riesce a intendere con qual fondamento, certe accuse... al Montanelli, anche di recente echeggiate da pur coscienziosi scrittori di cose toscane206.

In realtà quella missione del Salvagnoli costituiva una prova caratteristica del disorientamento che aveva colto, a Firenze, quella minoranza medesima dalla quale era pur stato promosso, o guidato, o volonterosamente accettato, l'ordine nuovo instaurato in Toscana alla fine d'aprile. E infatti se l'accordo fra quei patrioti era stato agevolmente raggiunto, e agevolmente si sosteneva quanto al lato negativo del loro programma (il bando definitivo al granduca), una disorientante varietà di propositi li divideva quanto ai criteri e alle finalità della ricostruzione. Lo stesso programma dell'annessione al Piemonte, che pure si presentava, fra tutti, come il piú concreto e maturo ed attuabile, dava luogo a profondi dissensi circa il tempo e il modo della sua attuazione. Annessionisti ad oltranza, postulanti la fusione immediata, e in qualche modo l'annullamento della personalità politica toscana nell'organismo piemontese, di contro ad annessionisti dell'ultima ora, solleciti invece di salvare, nell'operare l'unione, quanto piú si potesse delle tradizioni e delle leggi e insomma del patrimonio politico toscano; dissensi nel ministero, e poi fra i singoli ministri e i capi piú autorevoli della parte nazionale, e accuse incrociate di autonomismo o, per converso, di scarso amore della «patria» toscana; e, accanto agli annessionisti, i fautori di un piú modesto programma di rinnovamento, affidato ad una nuova dinastia, o addirittura gli unitari «italiani», i quali, parimenti opposti agli annessionisti ed agli autonomisti, assegnavano alla Toscana la missione e la funzione di centro iniziatore di una integrale unificazione italiana.

Divisi gli animi a questo modo nel partito «nazionale», la gran massa del paese supinamente indifferente, quando non ostile, alle novità dell'aprile e a quelle in corso di sviluppo; con una stampa non ancora adeguata e informata al nuovo clima politico ed alle nuove possibilità che ne derivavano; non è meraviglia davvero che l'annunzio del prossimo arrivo del principe Napoleone in Toscana gettasse a Firenze e a Torino allarme e subbuglio vivissimi. Impaccio del governo toscano, fulminea contromanovra del Cavour, lí per lí determinatosi, nonostante le tranquillanti dichiarazioni e dell'imperatore e del principe, a neutralizzare la malaugurata mossa francese, premendo sul Boncompagni e, attraverso quello, sul Ricasoli, perché senza indugio venisse proclamata l'annessione della Toscana al Piemonte.

Dichiaratamente contrario a che le questioni del futuro ordinamento dell'Italia centrale venissero pregiudicate finché durava la guerra, il Montanelli fin qui non si era mosso da Acqui. Senonché parve anche a lui che la spedizione del principe Napoleone venisse a creare una situazione nuova del tutto, suscettibile di decisivi sviluppi: e anch'egli si domandò se non si correva per caso il rischio di trovarsi, alla fine della guerra, dinanzi ad un irrimediabile fatto compiuto. 23 maggio, sbarco a Livorno del cugino dell'imperatore; due giorni appresso il Montanelli, recatosi in Alessandria, chiede ed ottiene udienza da Napoleone III. Il colloquio (il secondo fra loro) verte da principio sulla situazione toscana, intorno alla quale l'imperatore riceve da piú parti le informazioni piú desolantemente contraddittorie. «Mi sforzai di mostrargli – cosí il Montanelli in una sua relazione inedita207 – che quanto al non volere i Toscani divenir provincia del Piemonte, il Boncompagni poteva avere forse ragione». (Proprio cosí! Il Boncompagni, infatti, ignaro ancora della manovra cavourriana, e personalmente alieno dal forzar la mano ai Toscani, scriveva e operava allora in senso tutt'altro che annessionistico, mentre l'imperatore, per parte sua, deplorava o figurava di deplorare quello che gli sembrava, di tutto quell'«imbroglio», l'unico dato di fatto incontrovertibile: e cioè l'assoluta contrarietà dei toscani a rinunziare alla loro autonomia).

Ma quanto all'idea unitaria monarchica – cosí ancora, il Montanelli – la Toscana, e soprattutto le città di provincia, la sentivano profondamente... Idee di separazione in Toscana non ce ne erano davvero. E dalla Toscana il discorso s'elevò a tutta l'Italia, ed ebbi a persuadermi come li statisti italiani che avvicinavano l'imperatore erano lontani dall'avergli o per ignoranza o per malizia fatto apprezzare l'indole e la portata del nostro movimento unitario208.

Ecco dunque il preteso separatista, il francomane, il «plonplonista» Montanelli fare in altissimo loco propaganda unitaria, e, come tutti i propagandisti, del resto, accomodare ai suoi fini la verità di fatto, sostenendo imperturbabile non esservi in Toscana idee autonomistiche (!), esservi anzi l'idea unitaria profondamente radicata e diffusa... Avrebbe potuto affermar cosa meno esatta, ma, insieme, alterare la verità per un piú nobile oggetto? Avrebbe potuto, lui repubblicano, sacrificare piú di cosí al programma della unità monarchica? Protestandosi assolutamente disinteressato quanto alla soluzione da darsi al problema dinastico toscano, l'imperatore poteva essere in buona o in malafede: il Montanelli per parte sua lo credeva perfettamente sincero, riteneva comunque che, una volta sollevata, con la spedizione del principe Napoleone, la questione generale dei futuri destini d'Italia, tant'era prendere alla lettera quelle sue proteste, affacciando senza indugio e con spregiudicata franchezza la soluzione piú radicale e integrale. Al qual proposito sarà opportuno osservare come, bene o male ispirato che fosse nello scoprire siffattamente il programma della completa unificazione italiana, il Montanelli agisse in piena indipendenza e da Torino e da Firenze, nettamente precorrendo atteggiamenti e prese di posizione assai piú tardi diffusisi tra i suoi concittadini: salvo che allora gli si muoverà rimprovero di non volervisi associare, anzi di essere sordo al richiamo dell'unità italiana!

Riconoscendo la legittima dittatura morale del Cavour esercitata su tutta l'Italia, volle il Montanelli che il gran ministro venisse, a sua norma, puntualmente informato del suo colloquio con l'imperatore: ond'è che l'intendente d'Acqui, dietro sua espressa richiesta, gliene trasmise una precisa relazione209. Noi non conosciamo questa relazione, ma che il Cavour restasse soddisfatto dell'attività da lui svolta, dimostra appieno, ci sembra, la circostanza che il Montanelli venisse allora ufficialmente e calorosamente raccomandato, a nome del governo reale, alle locali autorità di Acqui e di Alessandria210. Piú tardi, del resto, anche Giorgio Pallavicino, spintovi dal Montanelli, suo vecchio amico, trasmise al Cavour un resoconto del colloquio imperiale211. Dal quale il Montanelli non usciva, a dire il vero, gran che ottimista circa la possibilità d'indurre l'imperatore a rivedere e a modificare il suo programma di ordinamento federalistico per l'Italia. Lo scrisse, fra gli altri, al Michelet: «Giorni sono ad Alessandria ebbi una conferenza con l'imperatore. Quanto alla questione dell'ordinamento politico non mi parve disposto di tener conto della opinione che su questo manifesterà a suo tempo l'Italia. Ma ora è vivamente preoccupato della guerra»212. Senonché gli argomenti usati dal Montanelli per avvalorare la tesi unitaria dovevano aver suscitato qualche impressione nell'animo del suo interlocutore. Pochi giorni dopo, infatti, avendo questi designato due personaggi del suo seguito, il senatore Pietri e il professor Rapetti, a studiare sul luogo la situazione toscana e a riferirgli in merito, uno di costoro, il Rapetti, ebbe ordine di recarsi innanzi tutto a interpellare, ad Acqui, il Montanelli. Resultato del loro incontro fu non solamente che il messo imperiale si dichiarò, e a voce e per iscritto, «persuaso della necessità di edificare su questa base» (cioè sulla base unitaria), ma che a Napoleone III egli rimise, del Montanelli un memorandum scritto al medesimo oggetto: memorandum che, al pari della relazione al Cavour, noi non conosciamo, ma che, ci si assicura, incontrò l'approvazione dell'imperatore213. In un suo appunto autografo, ahimè frammentario, il Montanelli, del resto, precisa che i due principali argomenti da lui svolti in quel documento erano, da un verso, l'ormai dimostrata incompatibilità del dominio temporale del papa con l'idea nazionale e con i principî dello Stato moderno, dall'altro (citiamo le sue parole) «il consenso ampiamente diffuso che, al di sopra d'ogni altra differenza di pareri, collegava gli animi italiani nell'ossequio all'autorità unitaria del re Vittorio Emanuele»214.

Il contegno del Montanelli, come si vede, non avrebbe potuto essere piú... italiano di cosí; del che gli era buon testimone, fra gli altri, il vecchio amico Vincenzo Malenchini, già ministro della guerra nel governo provvisorio toscano, ed ora suo commilitone, anzi suo superiore gerarchico nei Cacciatori degli Appennini215, in pieno accordo col quale il Montanelli andava svolgendo la sua azione politica. Eppure, come abbiamo piú sopra accennato, non mancavano già fino d'allora altri... amici, i quali si compiacevano di spargere, a Firenze, brutte voci sul suo conto. Lo sapevano francofilo convinto; giungeva l'eco dei suoi colloqui con l'imperatore e con i suoi emissari. Non ce n'era dunque piú che a sufficienza per bollarlo sostenitore segreto della pretesa candidatura del principe Napoleone al trono toscano?216. Egli era ad Acqui, ma non vi fu perfino chi scrisse «essere il Montanelli venuto a Firenze col principe Napoleone per il quale voleva fare un partito», o chi riuscí ad identificarlo frammisto a quella piccola folla che, la sera del 1° di giugno, improvvisava a Plon-Plon una dimostrazione di simpatia?217. In realtà egli univa allora in una medesima inequivocabile deplorazione autonomisti e plonplonisti218.

Propagandista presso l'imperatore di unità monarchica, il repubblicano Montanelli non ristava, nel contempo, dall'incuorare i suoi concittadini a pensare per allora unicamente alla guerra. Tale, oltre alla dichiarata fiducia nella efficienza dell'ausilio francese, della quale la recentissima vittoria di Montebello aveva fornito una prova quanto mai luminosa, era, ad esempio, il contenuto di un suo opuscoletto politico pubblicato a Livorno in quei giorni: Il ventinove maggio in Toscana219. In esso il Montanelli dichiarava che l'ottimo ordinamento per la sua Toscana era semplicemente quello il quale permettesse e promuovesse il piú largo afflusso di contingenti armati sul teatro delle operazioni. Era, questa, una censura al governo di Firenze che, mentre aveva sollecitato il presidio delle truppe francesi, non sapeva fare un esercito della gioventú toscana? Senza dubbio lo era, seppure il Montanelli non la esprimesse che sotto la forma di un incitamento per l'avvenire; e come tale Il ventinove maggio non era destinato di certo ad aumentare la già scossa popolarità da lui goduta in patria. Ma a noi quel suo scritto interessa in special modo in quanto ci fornisce la prova indiscutibile che, anche dopo il colloquio con l'imperatore, il Montanelli non altro aveva in mente, appunto, che la sorte della guerra e l'avvenire unitario d'Italia: l'antico banditore della Costituente, infatti andava giornalmente cedendo all'elettrizzante contagio monarchico, che si sprigionava, vorremmo dire, dai campi lombardi.

L'idea dell'indipendenza – scriveva egli in quegli stessi giorni a un amico – signoreggia tutte le altre: e perché a capo dell'indipendenza sono un imperatore e un re, sarebbe considerato come partigiano dell'Austria chiunque recasse nel moto attuale idee politiche contrarie all'autorità regia ed imperiale. Si è tanto detto che l'Italia s'è perduta per discordie e indisciplina, che ciascuno si fa come scrupolo di divenire causa di dissenzione o di scandalo220.

Palestro, 31 maggio; Magenta, 4 giugno; le porte di Milano si aprono al vittorioso esercito franco-sardo. Qual fremito di ricordi per chi, ora per ora, aveva vissuto, undici anni prima, autentico combattente, la tragedia lombarda! Il Montanelli, che con i suoi Cacciatori si è trasferito intanto da Acqui ad Alessandria221 – preludio forse dell'invocata entrata in campagna pei volontari toscani? – ha la suprema soddisfazione di constatare come il programma unitario stia apparentemente conquistando anche l'imperatore, galvanizzato dal successo.

I municipali di Milano – cosí si legge, infatti, in certi suoi appunti inediti222 – andavano incontro a Vittorio Emanuele rinnovando davanti all'imperatore dei Francesi il patto col quale la Lombardia erasi unita al Piemonte nel 1848. Questo era un ostacolo di piú al disegno d'una federazione di principati costituzionali... Il tacito consenso dell'imperatore a cotesto assetto, e piú il famoso suo bando di Milano, col quale chiamava gl'Italiani tutti a combattere sotto lo stendardo di Vittorio Emanuele, mi fecero pensare che ormai l'idea dell'opuscolo federativo [il celebre opuscolo del La Gueronnière, pubblicato a Parigi nel febbraio e notoriamente ispirato dall'imperatore] fosse per lui abbandonata, e che voleva soldati, e nulla gl'importava se l'Italia a lui li inviasse accoppiando all'impresa dell'indipendenza l'impresa dell'unità. Allora mi feci un dovere di predicare come opportune quelle dimostrazioni unitarie che avanti il proclama di Milano io avrei biasimate.

In altri termini: fu il proclama di Milano quello che lo indusse a uscire dalla riserva nella quale si era fino ad allora tenuto per passare alla propaganda diretta delle idee unitarie in Toscana.

Si vorrà censurarlo per aver egli dichiaratamente regolato la sua azione politica sui cenni imperiali? Per aver atteso, cioè, l'implicito consenso di Napoleone III prima di determinarvisi? Sarebbe senz'altro un errore: in tutta Italia, infatti, e tra gli stessi patrioti piú indipendenti, universale era allora la convinzione che l'arbitro della guerra sarebbe poi stato l'arbitro supremo della pace; che, per dirla con parole di G. B. Giorgini, «in Toscana [non] potrebbe consumarsi o reggersi un fatto qualunque non consentito dalla Francia»223. Il Montanelli che aveva ancora fresco il ricordo delle dichiarazioni antiunitarie fattegli pochi giorni innanzi dall'imperatore, non si sarebbe aspettato di certo una cosí brusca sua conversione; ma è inutile dire che l'accolse con esultanza; tanto piú che forse si lusingava di avere in qualche misura personalmente contribuito, con le sue parole e col suo memorandum, a questa improvvisa (e ahimè ingannevole) adesione imperiale al programma unitario.

 

Qual era allora la situazione in Toscana? Disorientato, da un verso, dalle insistenti pressioni piemontesi in senso annessionistico (missione Nigra-Cipriani, vivamente deplorata dal Ricasoli), quindi dall'improvviso loro abbandono in sulla fine di maggio (una volta accortosi il Cavour d'aver battuto una pista falsa); e, dall'altro verso, dalla conturbante presenza delle truppe francesi, il governo toscano si era accuratamente astenuto, nelle ultime settimane, da ogni concreta manifestazione di principî o di propositi sia nel senso dell'annessionismo che in quello autonomistico o unitario. Il rinvio di ogni decisione a guerra ultimata si rivelava ormai ben piú che un programma preordinato, il portato di una incoercibile repugnanza e quasi impossibilità collettiva, in seno al governo, a operare una scelta fra quei diversi partiti. La Toscana pareva davvero quella donnetta disputata da un gruppo di soldatacci, cui l'aveva amaramente paragonata il Capponi. Giudicò il Montanelli, cosí stando le cose, che fosse giunto il momento opportuno non solamente per iniziare, o riprendere, in Toscana manifestazioni unitarie extra-governative, ma per imprimer loro, possibilmente, quel carattere di autentica «popolarità» che fino ad allora era ad esse mancato, come l'imperatore gli aveva fatto espressamente notare in occasione del colloquio alessandrino, e che ben piú di ogni assicurazione di un Corsini o di un Ricasoli avrebbe valso a dimostrare la loro corrispondenza ai voti della cittadinanza. L'idea del Montanelli, in concreto, fu quella di promuovere, da parte dei municipi toscani, clamorose manifestazioni in favore della costituzione di un grande regno unito d'Italia, cui la Toscana, un giorno, avrebbe dovuto congiungersi. Anche il Cavour, allorquando aveva sperato di ottenere dalla Toscana un solenne voto annessionistico, aveva suggerito al Boncompagni di sollecitare quel voto dai municipi toscani: nell'assenza di una regolare assemblea legislativa (cos'era la Consulta dell'11 maggio se non un vero e proprio consiglio di Stato emanante dal potere esecutivo?), gli unici organismi rappresentativi del popolo toscano potevano dirsi infatti i consigli municipali. Essi erano composti, è vero, di membri nominati dal governo, e per giunta dal cessato governo granducale, ma in ragione della loro stessa molteplicità potevano ancora considerarsi, entro certi limiti, quasi uno specchio della cittadinanza o almeno del ceto possidente. Il Cavour, mutata la rotta, aveva finito col rinunziare al suo progetto, tanto piú che, a suo giudizio, esso avrebbe reso necessaria una preventiva ricomposizione dei consigli municipali mercé nuove elezioni amministrative; lo ripigliava adesso il Montanelli, con questo di mutato: che egli si diceva convinto di poter raccogliere larghe adesioni ad un programma unitario anche dai consigli esistenti.

Discusso il suo piano con taluni suoi colleghi di corpo, e prima di tutti col Malenchini224, il Montanelli lo sottopone al senatore Plezza, che nella sua qualità di commissario regio riveste in Alessandria la suprema autorità politica. Costui, che evidentemente divide le impressioni allora quasi universalmente diffuse a Torino circa le velleità autonomistiche del governo toscano, non solo approva incondizionatamente il progetto montanelliano, ma apertamente si associa alla sua attuazione. Sollecita l'approvazione del Cavour? Sembra di sí ma ad ogni modo il suo appoggio implica naturalmente quello del suo governo. Occorre mandare in Toscana una persona ben vista, pratica dell'ambiente, capace di tentare la conversione sul programma unitario di tutte le correnti «italiane», dagli uomini di governo fino all'estrema ala sinistra repubblicana. È il Montanelli che propone il nome d'un suo amico residente in Alessandria, Bartolomeo Aquarone, professore in quel liceo, noto giornalista e letterato, che ha lungamente soggiornato a Firenze. L'Aquarone accetta, vien fornito di mezzi pecuniari e di lasciapassare dal Plezza, di commendatizie, d'istruzioni e di abbozzi di proclami dal Montanelli225, e parte immediatamente. Quali sono le istruzioni del Montanelli? Ne abbiamo rinvenuto un frammento fra le sue carte226:

Fa d'uopo ripigliare la tradizione napoleonica del regno d'Italia. Fa d'uopo togliere ai separatisti il loro piú forte argomento, mostrando con qual magno nome di regno d'Italia che non si tratta d'incorporare Toscana né altre province di Italia al Piemonte, secondo che potrebbero dare ad intendere le errate formole unitarie che ora s'adoperano di fusione e d'annessione, ma d'unire Piemonte, Lombardia, Toscana, Liguria, e quante altre province italiane di mano in mano acquisteranno libertà di manifestarsi, in un regno d'Italia. La Toscana, dichiarando che vuole il regno d'Italia, renderà alla causa nazionale due servigi. 1) sostituirà la formola piú vasta e piú simpatica di regno d'Italia a quello di regno dell'alta Italia, che offende giustamente l'aspirazione unitaria. 2) rannoderà il movimento attuale italiano alla tradizione napoleonica. Sarei d'avviso che fin d'ora si rendesse popolare l'idea di adottare per codice civile del nuovo regno il codice Napoleone. Sarà una soddisfazione data alla Francia, e un benefizio per noi... L'imperatore dei Francesi potrà mostrare che le armi della Francia spianano la via a idee progressive. Le parole sacramentali del pronunciamento municipale sarebbero adunque: Viva il regno di Italia; viva Vittorio Emanuele re d'Italia; viva il codice Napoleone227.

La mossa montanelliana è, come si vede, tutt'altro che inabile: giacché d'un sol colpo essa mira ad atterrare i molteplici ostacoli che in Toscana si oppongono alla propaganda unitaria: agli annessionisti mostrando che l'unità verrà realizzata nel nome e a profitto della dinastia di Savoia; agli antiannessionisti che il Piemonte al pari della Toscana si fonderà a suo tempo nel nuovo regno; ai francofili che ci si riattaccherà alla tradizione napoleonica; e finalmente ai diffidenti della politica francese che l'omaggio alla Francia sarà puramente morale (codice Napoleone), in nessun modo implicando soddisfazione di presunti suoi appetiti territoriali, ai quali del resto il Montanelli non crede228.

Munito di cosí fatte istruzioni (cui, diversi mesi piú tardi, sviati apologisti del Montanelli pretesero attribuire, né si riesce ad intendere come, carattere di propaganda annessionistica229), l'Aquarone si dirige in Toscana: siamo ai primi di giugno, e presumibilmente al 9 del mese230. Quali sono i resultati della sua missione? Non ne sappiamo che poco. Vediamo comunque di orizzontarci alla meglio, sfruttando i pochi dati attualmente a disposizione. L'Aquarone, crediamo, non pubblicò relazioni di questo suo importantissimo viaggio politico; ma tra le carte del Montanelli si conserva una sua lettera del 12 giugno (da Livorno?) che contiene qualche notizia in proposito231:

Pare, come scrissi ieri al Plezza, che il Ricasoli sia interamente sulla nostra linea. A Firenze il Morandini232 e il Monzani mi diedero assicurazione di ciò; e in Livorno la cosa mi viene confermata da altri233. Dio sia lodato. Andremo insieme, potendo; se no, andremo da noi. Ma pare che s'abbia ad aspettare. Dicono che i municipi attuali, composti dal cessato governo, forse non corrisponderanno: e che però il Ricasoli vuole tosto procedere alla formazione dei nuovi, per le elezioni... Bene. Frattanto ho dato commissione di studiare i consigli municipali quali sono: e se que' di Firenze, Livorno, Pisa, Lucca, Pistoia, Siena e Arezzo possono corrispondere, o volentieri, o sotto la pressione, sono d'avviso che s'abbia a andare innanzi subito. Con questo fine andrò dimani, lunedí, a Pisa; e diman l'altro a Lucca; e indi anche a Pistoia; ché ad Arezzo, a Siena, e a Firenze, pensano Morandini e Monzani. Se abbiamo questi sei o sette municipi, a me paiono bastare: ché al voto universale ricorrerei a malincuore; e si ricorrerà, abbisognando, poi. Ora una cosa abbisognerebbe, un giornale che indirizzasse il paese... Vi sono alcune repugnanze che giova ottundere; alcune prevenzioni che vogliono essere dissipate; insomma abbisogna acchetare gli spiriti intorno ad alcuni sospetti, fomentati, soffiati, gonfiati, e inaspriti dall'amore delle personalità politiche toscane. Mi si parlò, e da uomo di polso, di centralità tirannica... Risposi che Firenze sarebbe pur sempre Firenze, il centro, la sede del Bello e delle Arti... Vedi che c'è dell'invidia in tali argomenti...; la quale gioverebbe fosse combattuta... da un giornale. Lo vuol fare il Cavour?

Da questo documento risaltano bene, non che certi stati d'animo allora ampiamente diffusi in Toscana, il carattere della propaganda italianissima svolta dall'Aquarone dietro precise istruzioni del Montanelli: e dire che ben presto quest'ultimo verrà gabellato per un autonomista, per antiunitario! Proprio lui che, quello stesso 12 giugno, scriveva all'amico Turchetti:

... Se la Provvidenza mi vorrà strumento utile al riordinamento civile del regno d'Italia che spero si farà volenti o nolenti gli eunuchi autonomisti toscani, come mi diede forza a resistere agli spasimi dell'esiglio, mi proteggerà nella gloriosa tempesta del campo...234.

Ma torniamo ai resultati della missione Aquarone, e vediamo in proposito la versione del Montanelli. Il 21 di giugno egli scriveva al Pallavicino a Torino, perché a sua volta questi ne informasse il Cavour, che il «lavoro unitario» da lui iniziato in Toscana era già a buon punto: «ben presto, aggiungeva, se ne vedranno i frutti»235. E poi, specificando:

Il pronunciamento per la formazione del regno d'Italia è cominciato. Spero che il governo piemontese ne apprezzerà l'importanza e sentirà che per acquistare autorità unificatrice è d'uopo che presto incominci ad unificare, lasciando per ora da parte le legazioni, e ritenendo come massa unificabile il vecchio Stato piemontese, la Lombardia, lo Stato parmense e la Toscana.

In un secondo tempo il nuovo regno

alle province che vi facessero adesione comunicherebbe la sua unità; si sposterebbero le antiche supremazie di capitali, si farebbe sentire alle province il vantaggio di questo spostamento, si cercherebbe la maggiore uniformità possibile delle nostre istituzioni civili con le francesi.

Diversi mesi piú tardi, facendo la storia della sua azione politica236, il Montanelli scriveva, della missione Aquarone, che proprio ad essa si era dovuta la prima, la decisiva spinta a quel memorabile movimento unitario dei municipi toscani, che si era svolto nella seconda metà di giugno e piú specialmente nei giorni immediatamente precedenti e seguenti a Villafranca.

Prima il municipio di Siena..., quindi il municipio di Livorno cominciarono la manifestazione unitaria della Toscana. Nelle adunanze che Aquarone promosse fu deciso di unire alla manifestazione municipale un movimento di firme che in alcune città prese colossali proporzioni. Il municipio di Livorno proferí primo la parola di Regno d'Italia. Nelle altre dichiarazioni municipali seguitava a prevalere l'errata e insidiosa formola di fusione o annessione al Piemonte.

Questa versione è integrata da un passo degl'inediti Cenni biografici dedicati al Montanelli dalla sua vedova: «Montanelli indirizzava Aquarone agli amici Antonio Parra237, Biscardi238, per cooperare alla riuscita, e si ebbe il bel resultato delle 25 000 firme dei Livornesi, che furono i primi e trascinarono gli altri municipi».

Senonché la storia delle manifestazioni municipali toscane fu invero assai piú complessa che non appaia dalla narrazione montanelliana. La propaganda immediatamente iniziata dall'Aquarone era venuta infatti a sovrapporsi, e in parte a confondersi con analoghe iniziative o spontaneamente presentatesi in Toscana, o introdottevi e caldeggiate da esponenti della Società Nazionale accorsi a Firenze all'incirca nel medesimo tempo, con la missione di promuovere, invece, manifestazioni annessionistiche. Fino dal 6 giugno, intanto, e come per contraccolpo dell'entusiasmo sollevato dalla vittoria di Palestro, aveva cominciato a circolare in Firenze, e poi in tutta la Toscana, il noto indirizzo a re Vittorio, acclamato «re d'Italia»239, il quale, apertamente appoggiato da due dei ministri in carica, il Ricasoli e il Salvagnoli, era andato rapidamente coprendosi di migliaia di firme240. A questo indirizzo si erano evidentemente ispirati parecchi municipi, affrettatisi a votare, in omaggio al re sabaudo, ordini del giorno non meno calorosi seppure, in genere, assai piú prudentemente indeterminati nella formulazione241. Fu questa, in realtà, la prima manifestazione unitaria extragovernativa svoltasi in Toscana, e indubitatamente essa venne promossa e si svolse affatto indipendente dall'iniziativa montanelliana: si deve per contro riconoscere che la formola proposta dall'Aquarone presentava, di fronte a questa prima, una notevolissima accentuazione in senso unitario. Altro era infatti acclamare a un re d'Italia, che era del resto nelle tradizioni della innocua rettorica patriottica, altro promuovere una manifestazione sistematica in favore di un definito e concreto regno d'Italia.

Il 12 giugno, allorquando la propaganda svolta dall'Aquarone era ancora nella sua fase iniziale, una seconda manifestazione unitaria aveva luogo a Firenze: dove il consiglio dei ministri approvava un decreto (di poi né pubblicato né sottoposto all'approvazione della consulta, attesa l'opposizione del Cavour) proclamante in Toscana la sovranità di re Vittorio, «onde cooperare alla formazione d'una Italia una e forte». Questa volta era la tendenza annessionistica che prendeva nettamente il di sopra; e, con essa, il radicato presupposto ricasoliano di disporre delle sorti del paese senza ricorrere alla consultazione piú o meno indiretta della volontà popolare.

Contro questa tendenza veniva adesso ad urtare la propaganda dell'Aquarone, il quale, messaggero, sí, del Montanelli, ma insieme coperto da una sia pur generica autorizzazione del governo sabaudo, non si peritava di sollevare pubblicamente il problema unitario nella sua interezza, cioè il problema non pure della Toscana, ma, seppur gradualmente, di tutta l'Italia e delle sue sorti future, partendo dalla dichiarata premessa che la manifestazione della volontà toscana avrebbe dovuto svolgersi dal basso all'alto, e, se non all'insaputa, certo senza il diretto intervento delle autorità di governo. Il ragionamento del Montanelli-Aquarone filava, invero, perfettamente: che valore avrebbe mai rivestito, ragionavano essi, il voto unitario o annessionistico pronunziato o provocato da un ministero gerarchicamente dipendente dal commissario del governo piemontese? E come si poteva mai sperare che l'imperatore avesse a prenderlo in seria considerazione? Ond'è che l'Aquarone, evitando i circoli ufficiali, «batteva» soprattutto i ritrovi della democrazia militante, come non senza scandalo e allarme si dovette ben presto constatare a Palazzo Vecchio. Ci si trovava senza dubbio di fronte ad uno dei piú seri tentativi che fossero stati messi in opera dal 27 aprile in poi per sottrarre al governo l'iniziativa e la direzione della grande politica in una col controllo della cosí detta «volontà» popolare. Il ministero toscano si trovò, o ritenne di trovarsi, a mal partito; temette davvero un bis del '48; fantasticò che la «piazza» stesse per sopraffarlo242. Furono i contatti dell'Aquarone e dei suoi accoliti col gruppo dolfiano che lo preoccuparono? Credette davvero che il governo di Torino, mal ragguagliato delle cose toscane, avesse macchinato di rovesciarlo per sostituirgli degl'intriganti interessati appunto a dipingere l'oligarchia fiorentina come tendenzialmente autonomistica? E l'uno e l'altro motivo contribuirono certo a determinare all'azione il binomio Ricasoli-Salvagnoli243, ma forse piú che tutto il nome (ben presto rivelatosi, nonostante gli sforzi del Montanelli per tenersi nell'ombra244) di colui che nell'ottobre del '48 aveva «rovinato» la Toscana con la sua rivoluzione democratica, e che adesso, dal Piemonte, dirigeva le fila del nuovo complotto. Cedendo alla suggestione, o piuttosto alla «grande paura» del '48, non ci s'immaginava forse che allato del Montanelli, e consapevole, anzi solidale dei suoi progetti, fosse anche adesso il Guerrazzi?

Di tutto ciò ben poche tracce si trovano nel carteggio Ricasoli (almeno in quella parte che fin qui ci è stata resa nota), abbondantissime invece in quello del Cambray-Digny, allora in missione a Torino, che qualche intimo teneva, come si sa, giornalmente al corrente di tutto quello che né le gazzette né i dispacci d'ufficio potevano lasciar trapelare. «È positivo che ieri doveva esservi (a Firenze) gran dimostrazione in piazza», gli si scriveva ad esempio il 15 di giugno; aggiungendosi che solo a gran fatica si era potuto, all'ultim'ora, impedirla. Tra i promotori della dimostrazione, principalissimo l'Aquarone «che è stato a Livorno, a Lucca, a Pisa, a Siena ecc... È venuto anche lui per intrigare nel solito senso». (Solito? La contessa Digny doveva ben presto accorgersi che era quello un aggettivo singolarmente fuori di posto). «Chi ha portato a galla questa gente conviene si affretti a rimetterla all'ordine, altrimenti ne andremo tutti di sotto»245. Nuovi ragguagli il giorno appresso, con precisa denunzia delle «insinuazioni del Montanelli e del Guerrazzi, che si dice siano stati, e siano ascoltati a Torino piú di quello che credi. In sostanza, questi agenti spargono che il governo non deve prender parte alla cosa (cioè alla diffusione e alla votazione degl'indirizzi unitari); ma che se il paese vuol la cosa e la fa, cosa fatta capo ha»246. E il 17: «... pare certo che il partito estremo abbia avuto gran parte in questa faccenda, sia scrivendo di qua agli esaltati ed agli esuli Montanelli, Guerrazzi e compagni costà, sia ascoltando i consigli che dai medesimi riceveva. Forse anche questi stessi sono stati ascoltati da chi è al potere costà, e che sarà rimasto ingannato dalle fandonie che avranno raccontato»247. Alle quali informazioni, e alle vive sollecitazioni perché l'Aquarone ed altri agitatori della sua risma venissero immediatamente richiamati in Piemonte, il Cambray-Digny per parte sua rispondeva, il 18: «Pur troppo credo che l'agitazione nuova per la fusione non parta da Torino, ma finora da Acqui, ora da Piacenza (e cioè dal Montanelli, che – come vedremo – si era trasferito intanto, con i Cacciatori, in quest'ultima città, subito dopo lo sgombro austriaco). E credo che si faccia direttamente spendendo il nome del Cavour». Egli, per altro, poteva in coscienza attestare che il Cavour non c'entrava per nulla, che anzi deplorava del pari e le imprudenti manifestazioni annessionistiche del governo di Firenze, e quei pericolosi pronunciamenti unitari248. Ma il Nocchi, segretario del Ridolfi, di rimando (20 giugno):

Insisti sul fatto che Malenchini249 e Montanelli hanno ingiustamente e per passione svisato le cose nostre, e mandato da loro, contro un governo piemontese (e intendeva il governo toscano invigilato dal Boncompagni), il piemontese Aquarone, che, con un indirizzo e mene tendenti ad agitare il paese contro il governo, è venuto credendo di trovare tutti contrari alla fusione..., e ha spacciato ripetutamente di venire a nome e per commissione di Cavour. Mostra la convenienza di far cessare, potendo, queste mene250.

La quali «mene», ripetiamo, ponevano il gabinetto ricasoliano nel piú crudele imbarazzo. Come reagire se non in qualche modo impadronendosi delle idee diffuse nella «piazza» per tentare di controllarne l'attuazione, strappando cosí l'iniziativa agli agitatori? Tale fu in effetti la sapientissima manovra concepita ed eseguita dal Ricasoli indipendentemente affatto dalle istruzioni torinesi, se non proprio in contrasto con esse251. L'impressione che si ricava dai documenti fin qui venuti alla luce è che il progetto montanelliano dell'indirizzo municipale venisse insomma adottato nella sostanza, ma abilmente modificato, per mano del Salvagnoli, in quella che era la sua formulazione unitaria: l'espressione di «re d'Italia», la quale d'altronde era già stata usata in precedenza, venne, sí, mantenuta, ma s'introdusse al posto dell'altra «Regno d'Italia», quella, generica, di «famiglia italiana»252, sopprimendo altresí ogni accenno alla Francia e, in particolare, al codice Napoleone253. Cosí alterato, l'indirizzo cominciò a circolare in Firenze il 16 di giugno: gli amici del ministero provvedevano intanto a trasmetterlo in provincia con raccomandazione ai gonfalonieri di farlo votare dai rispettivi consigli. All'insaputa dello stesso Salvagnoli, suo alter ego, il Ricasoli fece anche di piú: si mise cioè d'accordo col Dolfi perché questi diramasse per suo conto e apparentemente di sua propria iniziativa una circolare ai gonfalonieri toscani, invitandoli a fargli recapitare gli ordini del giorno di approvazione del patriottico indirizzo254.

Le reazioni da parte degli autonomisti e in particolare del gruppo dei cosí detti «georgofìli» furono, si sa, vivacissime255; comunque fu proprio questo, a quel che sembra, il punto di partenza delle poi tanto celebrate manifestazioni municipali toscane: le quali, iniziatesi a Siena, il 17 di giugno256, indi seguite a Montepulciano, a Livorno, a Pistoia, a Pisa, a Fucecchio (patria del Montanelli)257, e in piú luoghi accompagnate da plebiscitarie adesioni della popolazione (onde si poté dire che costituirono in certo modo una prima prova del suffragio universale in Toscana)258, vennero ad assumere un ritmo precipitoso, e, vorremmo dire, «totalitario», nei giorni immediatamente seguenti all'armistizio. Che poi la formola effettivamente votata dalla maggioranza dei municipi fosse altrettanto diversa da quella del Salvagnoli quanto questa si era distaccata dal primitivo modello montanelliano; che insomma questa manifestazione municipale, ad opera segnatamente di zelantissimi agenti della Società Nazionale, si rivolvesse in pratica in un plebiscito per l'annessione della Toscana al Piemonte, questo è altro conto: senonché giova forse il notare che perfino il Ricasoli, e con lui, implicitamente, il Salvagnoli, ebbero in un primo tempo a deplorare, quasi con le identiche parole che vedemmo usate dal Montanelli, quelle formole, che «non rappresentavano il concetto grande d'un'Italia una e forte»259.

Dell'iniziativa Montanelli-Aquarone, comunque, chi piú si ricordava? La manifestazione municipale passava alla storia come concepita, organizzata, attuata esclusivamente a Palazzo Vecchio. Tanto che l'Aquarone, giunto a Firenze in veste di missus dominicus, ne ripartiva ben presto, cioè verso il 20 di giugno, con la fama di un temibile arruffapopoli, le cui prave intenzioni si erano fortunatamente spuntate contro l'insonne vigilanza del governo e la patriottica disciplina del paese260: peggio ancora, apertamente sconfessato da quel governo piemontese che pure aveva in qualche modo approvato la sua missione261, ma al quale nel frattempo si era fatto notare, dal quartier generale francese, quanto pericoloso e inopportuno si fosse l'andar sollevando, in piena guerra, con una propaganda unitaria, il delicatissimo problema di Roma e di Napoli262. «Il pericolo delle dimostrazioni – si scriveva il 20 giugno appunto da Firenze al Cambray-Digny – pare allontanato: il sig. Aquarone se ne partí con le trombe nel sacco»; e quegli, il 22: «Non dubito che alla disperazione dell'Aquarone e degli altri non abbia contribuito il sapere che la loro condotta non era approvata qua»263.

Se l'Aquarone se n'era partito con le trombe nel sacco, il Montanelli, dopo questo episodio, venne investito da una prima ondata di recriminazioni e di accuse. «Domani spero potremo trattare gli affari della Toscana – scriveva ad esempio il 28 giugno il Digny, – ed ho fiducia che presto gl'imbroglioni politici avranno una prova materiale che qui (a Torino) non si vuole per ausilio il disordine. Spero che presto vedrete rimettere il capo nel guscio guerrazziani, montanelliani ecc.»264. E il Ricasoli, 5 luglio, al fratello Vincenzo, che lo aveva informato della imperiale disapprovazione al «pronunciamento» nazionale toscano: «Se il governo attuale non si fosse disegnato come ha fatto, oggi la Toscana sarebbe in mano di Guerrazzi e Montanelli»265. Il Guerrazzi, per parte sua, difendeva il Montanelli in una lettera al Corsi:

Non so di M...; ch'ei si dolga è probabile, ma impedire alla vittima un lamento, e darlo ad intendere parricidio penso sia arte di quei nuovi Neroncini da 16 alla crazia, che vorrebbero anco essere adulati, e ringraziati. Che faccia opera cattiva, non lo posso credere: infermo e non giovane va a offrire il suo sangue: altro non può: sarebbe anco questo un tradimento alla Indipendenza?266

Tito Menichetti, che a quel tempo era ancora grande amico del Montanelli, rispondendo ad una sua lettera, affermava l'8 di luglio, che essa gli era giunta tanto piú opportuna e gradita in quanto «in quel momento alcuni amici tuoi (!) ti facevano la lunga mano di certi rigiri antinazionali. Io... per mostrare che tu, tutt'altro che preoccuparti delle questioni interne, tiravi innanzi diritto diritto nella tua via, portai la tua lettera al Ricasoli, che fu contentissimo d'aver in mano quella prova parlante del tuo indirizzo politico». (Il Ricasoli abbandonò dunque, da allora in poi, le sue prevenzioni contro il Montanelli? Neanche per immaginazione! E ne vedremo piú avanti le prove). Il Menichetti, comunque, non esitava a deplorare, per parte sua, che fosse stata cosí intempestivamente sollevata la questione della fusione della Toscana al Piemonte: «Ma io rammento – aggiungeva – quello che mi dicesti a Goito nel '48 quando venne fuori la questione albertista: È una piaga che non andrebbe scoperta, (ma ormai) va medicata»267, e cosí dico qui. Ormai che è messa fuori non va avversata»268. Il quale ultimo accenno conferma appieno, seppur ve ne fosse ancora bisogno, come alla radice di quelle accuse al Montanelli fosse appunto l'opinione da lui francamente professata dover la Toscana mantenere la sua autonomia fino alla costituzione di un regno unito, che andava intanto preparato nello spirito degl'Italiani e soprattutto dei Toscani269. L'«antinazionale» era dunque colui che, mentre tanti suoi concittadini eminenti si dichiaravano rassegnati a priori a qualunque soluzione della questione dinastica toscana, eccezion fatta soltanto per una restaurazione lorenese, informava la sua azione politica, come sempre aveva fatto, del resto, alla piú grande unità nazionale; colui che dal campo stava offrendo un esempio non comune di umile dedizione alla causa italiana!

 

Lontano, materialmente e, piú, spiritualmente da quel focolaio d'intrighi, sereno nella sua coscienza, il Montanelli si era trasferito frattanto, come già abbiamo detto, da Alessandria a Piacenza270. Certo, non era quella la guerra, la guerra combattuta che aveva sognato e cui si era consacrato! La vita delle retrovie lo esasperava: se aveva rinunziato con immenso suo sacrificio, non solo sentimentale, a ritornare in Toscana271, non lo aveva fatto davvero per seguire a quel modo, a rispettosa distanza, l'avanzante corpo d'operazioni. Giorno per giorno promettevano ai Cacciatori una prossima partenza pel fronte, ma intanto le settimane passavano, battaglie gloriose e decisive si susseguivano senza che quella promessa venisse mai mantenuta: in Italia, e anche in Francia, si sorrideva dei compiti «turistici» affidati alle truppe toscane...272. Il 21 di giugno, da Piacenza, il Montanelli scongiurava il Pallavicino, a Torino, d'interporsi perché i Cacciatori venissero finalmente riuniti all'esercito operante: «t'assicuro – scriveva – ... che urge prendere una risoluzione. Questi giovani si sentono umiliati di non avere avuto il battesimo del fuoco. Il primo e il secondo battaglione sono in ordine»273. Il giorno appresso, sempre a Piacenza, ebbero luogo le esequie di un volontario livornese, Giovanni Seteri, prosaicamente morto di malattia: nelle frementi parole pronunziate dal Montanelli sul feretro del suo compagno chi non sentí l'anelito verso quell'altra morte che già aveva sfiorato l'oratore nel '48, la morte gloriosa sul campo?274. Quel medesimo giorno truppe francesi del 5° corpo d'armata, in provenienza dalla Toscana, lasciavano Piacenza, dopo una breve sosta, dirette, esse, in prima linea. Era un immeritato avvilimento pei volontari toscani vedersi ancora una volta precedere al fuoco dalle truppe alleate! Il Montanelli, che pure, a Piacenza, ha occasione d'importanti e fruttuosi contatti e colloqui politici275, e benché non ignori affatto come proprio in quei giorni si stiano concludendo le trattative per la congiunzione dei Cacciatori degli Appennini con i Cacciatori delle Alpi, allora operanti in Valtellina276, si risolve finalmente a precedere i suoi commilitoni.

Generale – scrive al Garibaldi, che ha conosciuto a Firenze nel novembre del '48 e per le cui virtú militari nutre vivissima ammirazione277 –, non vi chiedo gradi, ma parte ai pericoli. La ferita che a Curtatone riportai nella spalla sinistra non mi consente maneggiare il fucile; ma posso col braccio destro maneggiare la sciabola... L'esilio m'incanutí il pelo, non l'anima. Mi ritrovo ardente soldato d'Italia come ai piú bei giorni dell'ultima impresa, e mi sento degno di ricominciare per lei le prove al vostro fianco, o prode condottiero di prodi.

Cosa gli rispondesse il Garibaldi ignoriamo: sappiamo solo che alla fine di giugno il Montanelli, in compagnia del suo Malenchini278, giunse a Tirano, festosamente accolto dal generale279. «Garibaldi lo teneva sempre seco, e facevano insieme le escursioni», scriveva qualche anno dopo, rievocando quel tempo, la vedova del Montanelli280. Verosimile, perciò, che il 5 e l'8 di luglio egli partecipasse personalmente alle brillanti scaramucce d'alta montagna svoltesi sullo Stelvio (le ultime di quella campagna!) e che il 9 del mese, quando, come un colpo di fulmine, pervenne al campo la notizia dell'armistizio, egli si trovasse a fianco del generale. Sorpresa, delusione, sdegno, dei volontari. E il Montanelli? «Quando accadde l'armistizio – cosí egli in un suo inedito appunto281 – io mi trovava a Tirano... Garibaldi mi mandò a Torino a trattare con Cavour di diversi negozi282; per via seppi la pace di Villafranca». Da un lasciapassare rimessogli dall'autorità militare resulta infatti che il Montanelli partí da Tirano il 10 di luglio, che il giorno appresso transitava da Sondrio, il 12 da Como e che quindi si arrestava a Milano. Fu a Milano, appunto, che venne a conoscenza delle inaspettatissime deliberazioni di Villafranca, e in particolare di quelle concernenti le restaurazioni nell'Italia centrale: «avrei voluto che coloro i quali non credono a comunione italiana mirassero, come a me avvenne, il tragico commovimento che all'annunzio delle condizioni di pace levossi in Milano»283. Col Garibaldi il Montanelli non aveva preso, in vista dell'armistizio, che delle intese molto generiche284. L'annunzio delle stipulate restaurazioni lo spinse naturalmente a concepire progetti piú circostanziati. In concreto: «ordinare l'Italia centrale a resistenza, dando a Garibaldi il generalato della lega»285; fare cioè di un'Italia centrale armata e indipendente il fulcro per la dilatazione del movimento nazionale in tutto il resto della penisola286. Montanelli comunicò senza indugio il suo piano al Garibaldi, ottenendone piena, immediata adesione287: indi (era il pomeriggio del 14 luglio) proseguí per Torino, dove avrebbe potuto intendersi col Cavour, dimissionario già dal giorno innanzi, e dove di ora in ora si attendevano l'imperatore ed il re288.

Esposi arrivato a Torino il mio disegno a Valerio, a Kossuth; chiesi a Cavour che ci desse Garibaldi: disse non potere come ministro di un re che aveva accettato la pace di Villafranca mandare nell'Italia centrale Garibaldi con la veste di generale piemontese; chiedesse egli il congedo; lo chiedessero i suoi soldati; e i governi dell'Italia centrale facessero il resto289.

Invero, egli si trovava allora nell'identico stato d'animo e sull'identica linea del Cavour, il quale dubitava di esercitare l'estremo suo potere per spronare i suoi agenti a Bologna, a Parma, a Modena, a Firenze a organizzare la resistenza contro le restaurazioni, a istituire governi forti, a richiamare dalla Lombardia le rispettive truppe, a suscitare insomma la rivolta armata delle popolazioni contro gl'iniqui deliberati di Villafranca: del resto era quello l'ovvio programma di tutti gli uomini della sinistra, dal Mazzini (le cui previsioni sui limiti e i resultati di quella guerra ricevevano purtroppo una impressionante conferma) al Guerrazzi. Ma se ovvio era il programma, e agevole il convenire della sua opportunità, meno ovvio e meno agevole era l'additarne un'attuazione possibile, cioè commisurata alle gravissime difficoltà della situazione. Nonostante le assicurazioni e gl'incitamenti del Cavour, restava intanto da appurare un punto di fondamentale importanza: cioè se Francia ed Austria si fossero accordate per un eventuale intervento militare in vista d'imporre le restaurazioni nell'Italia centrale o se si fossero limitate a sancirle in diritto. La mattina del 15, a Torino, si viveva ancora, a questo proposito, nella piú ansiosa incertezza. Anche Celestino Bianchi, che il Boncompagni e il Ricasoli avevano mandato d'urgenza nella capitale sabauda per esaminare la situazione e significare l'assoluta contrarietà dei toscani a piegarsi alla restaurazione granducale290, si dimostrava passabilmente all'oscuro e di questo e di molti altri dati essenziali concernenti le sorti del suo paese. In attesa di informazioni sicure, egli e il Montanelli, due vecchie conoscenze291, incontratisi nel primo pomeriggio del 15292, convennero in massima circa l'opportunità, anzi l'urgenza di armare la Toscana per prepararla a resistere contro eventuali imposizioni straniere293. A questo proposito, anzi, il Bianchi, com'è ben noto, ebbe subito una serie di decisivi colloqui con influenti personalità piemontesi: in seguito ai quali si sentí di spedire a Firenze un primo dispaccio tranquillizzante294. Pochi istanti dopo giungevano a Torino i due sovrani alleati. Nel corso della loro conversazione circa l'armamento della Toscana, tanto il Bianchi che il Montanelli avevano ravvisato l'opportunità di proporre il trasferimento sulle rive dell'Arno di quella legione ungherese che si era andata ordinando in Piemonte, ma che non aveva avuto il tempo di prender parte alla guerra (vecchia idea fissa dei democratici toscani quella di ricorrere, in caso di estremità, a volontari stranieri!) La sera stessa il Montanelli condusse l'amico, che già si era abboccato con alcuni esponenti ungheresi, dal Kossuth in persona, da lui conosciuto a Piacenza. Ma il vecchio agitatore non era affatto dell'opinione che la Toscana abbisognasse di straordinari apprestamenti difensivi. «Voi avete bisogno d'un plebiscito, di una urna per lo scrutinio, e non d'un esercito», diceva. Al che i due patrioti toscani opponevano l'eventualità di un intervento austriaco o austro-francese. Un intervento? Ma era un'ipotesi assurda, replicava il Kossuth. Del resto perché non se ne sinceravano il Bianchi e il Montanelli, sollecitando esplicite assicurazioni a Palazzo reale? Fu allora, secondo la versione dello stesso Kossuth, che il Montanelli annuendo al consiglio, si precipitò in piazza Castello «agitando furiosamente il suo unico (?!) braccio. Una mezz'ora dopo ritorna, irrompe nella mia stanza, mi getta le braccia al collo: Niente intervento! niente intervento! Il re mi ha dato la sua parola d'onore!»295.

Scrivendo parecchi anni piú tardi i suoi ricordi di quegli anni fortunosissimi, il Kossuth si lasciò sfuggire parecchie inesattezze; in questo caso, oltre a... tagliare un braccio al nostro Montanelli, egli scambiò l'imperatore col re, o almeno il Montanelli col Bianchi; il Montanelli infatti ottenne udienza, la sera del 15, da Napoleone III296, mentre fu il Bianchi che l'ebbe da Vittorio Emanuele. Ma, a parte questo, il suo racconto, colorito e vivace, resta sostanzialmente esatto. Come si svolse il colloquio fra il Montanelli e l'imperatore? E dal suo augusto interlocutore non altro seppe il Montanelli se non che le restaurazioni non sarebbero state imposte «armata manu»? Il Kossuth a questo proposito tace: bisogna dunque ricorrere ad altre testimonianze. Le dichiarazioni imperiali, integranti quelle già fatte al Pepoli e al Cavour297, ebbero in realtà tale importanza e furon causa, nel seguito, di cosí aspre polemiche che il lettore vorrà consentirci di entrare al proposito in qualche particolare.

La relazione piú diffusa della quale disponiamo circa questo colloquio è quella che ne dette, fino dal giorno appresso, il Bianchi in un suo dispaccio al Boncompagni:

Imperatore ha detto a Montanelli: la restaurazione della dinastia di Lorena non dee farsi con aiuti stranieri: soldati austriaci non possono adoperarsi fuori dei paesi attribuiti all'Austria. S'istituisca in Toscana un governo provvisorio; interroghi per o per no il paese, se voglia o no casa Lorena; plebiscito trasmettasi Congresso europeo, coi voti del paese qualora respinga lorenesi. Imperatore promette farsene sostenitore al Congresso. Insiste forte non accadano disordini e passioni demagoghe. Toscana farà bene richiamare tutti i suoi volontari... L'imperatore fattagli da Montanelli la questione cosa sarebbe avvenuto se la Toscana si fosse pronunziata per l'annessione ha risposto: impossibile!298.

Questa versione viene integrata da quella piú tardi redatta da un amico del Montanelli, il Redi:

Presa la parola per primo, l'imperatore gli svelò senza mistero la ragione per la quale si era fermato (Prussia), aggiungendo dover ritenersi la indipendenza d'Italia stabilita come base di un nuovo diritto pubblico europeo; non potersi però conseguire se non in due fasi, delle quali la prima aveva avuto luogo, e per la seconda si sarebbe poi presentata l'occasione opportuna. Mettendo nei preliminari per la pace il patto del non intervento ci aveva posti in grado di prepararci per quella. Richiesto dal Montanelli che cosa credesse doversi fare in attesa di questa seconda fase, egli rispose di adottare quelle istituzioni che sarebbero reputate piú confacenti al genio italiano e di farsi forti. Allora il Montanelli gli comunicò com'egli opinasse doversi intendere all'unità d'Italia. «L'unità? mai!»299, piuttosto irritato l'imperatore riprese: «Pensate che Roma è necessaria al papa». E informandolo di avere nei preliminari convenuto che avrebbe favorito una confederazione italiana, a quella gli disse bisognava attenersi. Osservatogli dal Montanelli siccome egli stesso avesse consigliato di rendersi forti, e siccome le confederazioni riescano generalmente deboli, dopo alcuni istanti di riflessione aggiunse: «Nel caso l'unità non potrebbe essere possibile che dal centro: ma non se ne può parlare per ora». E lo confortò a tornare in Toscana e ad usare di tutta la sua influenza per far adottare una politica che conducesse al risultato da lui suggerito300.

In base ad una terza versione, anche questa spettante ad un amico del Montanelli, il Pini, l'imperatore avrebbe inoltre esplicitamente dichiarato al suo interlocutore che la politica delle annessioni poteva riuscire assai pericolosa per l'Italia: «franche parole (le quali) produssero una forte sensazione sull'anima di Montanelli»301.

Tralasciamo altre versioni o calcate su queste302 o visibilmente inventate303, tralasciamo del pari l'accenno che al colloquio imperiale il Montanelli stesso dedicò in una sua lettera apologetica data alle stampe due anni piú tardi304. Nel complesso il punto di vista di Napoleone III resulta infatti già sufficientemente chiarito da quel che ne scrissero il Bianchi, il Redi, il Pini; mentre le loro narrazioni corrispondono a quanto, circa le intenzioni dell'imperatore all'indomani di Villafranca, ci resulta da altri suoi colloqui o lettere. Particolarmente importante a noi sembra, e lo additiamo al lettore in quanto vale a chiarire il successivo indirizzo dell'azione politica montanelliana, l'accenno del Redi circa la possibile unificazione «dal centro» (come contrapposto alla unificazione per via di annessioni al Piemonte) ammessa dall'imperatore, ancorché aggiungesse che non era il caso di occuparsene per allora.

Si parlò, nel colloquio, del principe Napoleone? A giudicare dai resoconti fin qui riportati, sembrerebbe di doverlo escludere; senonché in una lettera pubblicata sui giornali, nel gennaio del '61, dal Mariscotti, lancia spezzata del Montanelli, questi, polemizzando col Bianchi, che accusava il Montanelli di essersi rassegnato a quella candidatura fino dal suo primo ritorno a Firenze alla fine di luglio del '59305, ebbe a scrivere:

Il Montanelli non poteva promuovere la candidatura del principe Napoleone, come quegli che nell'ultimo abboccamento avuto a Torino con l'imperatore, era stato da quegli avvertito... che al tempo stesso che sarebbe stato consentito ai popoli dell'Italia centrale di eleggersi nuova dinastia, non pensassero per altro a nessun principe della casa imperiale di Francia, perché egli, lo imperatore, non avrebbe potuto accettare la elezione senza esporsi al pericolo di una guerra europea.

Questo e non altro avrebbe il Montanelli riferito al Bianchi, recisamente attenendosi al punto di vista imperiale306. Anche la testimonianza del Mariscotti deriva, certo, da confidenze del Montanelli: a renderla attendibile vale tuttavia la circostanza che essa non solamente non contrasta con informazioni d'altra provenienza sulle intenzioni allora nutrite dall'imperatore circa il principe Napoleone, ma anzi ne riceve integrale conferma. Prima di Villafranca e per diverse settimane dopo l'8 di luglio, l'imperatore infatti espresse invariabilmente la sua decisa contrarietà a progetti del genere: che poi il suo giuoco politico mirasse a rendere impossibile ogni altra soluzione della questione toscana e per questa via a far sí che la stessa diplomazia europea finisse col forzargli la mano sul punto della candidatura «plonploniana», resta da vedersi (invero noi crediamo che sulla astuzia sopraffina di Napoleone III si sia alquanto esagerato...); comunque ciò non ha a che fare col nostro assunto immediato.

Il colloquio con l'imperatore dette al Montanelli l'impressione che non convenisse in alcun modo opporsi alle sue vedute, o, come si dice, «prenderlo di punta». Napoleone aveva dichiarato formalmente impossibili le annessioni; su altre possibili soluzioni, per contro, non si era pronunciato con altrettanta risolutezza. Perché dunque, adottando il programma delle annessioni, sfidare apertamente quell'unico fra i potentati europei il quale, seppure aveva deluso, all'ultimo, le speranze degl'Italiani, aveva in concreto iniziato l'opera dell'indipendenza della patria loro? Questo programma annessionistico, d'altronde, non era mai stato veduto, già lo sappiamo, con particolare favore dal Montanelli: era forse logico attendersi che vi si convertisse proprio allorquando l'imperatore gli dichiarava d'esservi recisamente contrario? Lasciata a se stessa, certo la Toscana avrebbe potuto correre gravissimi pericoli, e l'esperienza del '49 era anche troppo eloquente in proposito; ma la garanzia del non intervento, da un lato, e la possibilità di una lega militare e politica con le altre regioni dell'Italia centrale non bastavano forse a eliminare ogni eccessiva ansietà al riguardo?

Villafranca, del resto, non aveva modificato l'opinione del Montanelli, quanto all'onnipossenza napoleonica nel fissare le condizioni della pace definitiva per l'Italia. Villafranca, se mai, additava sempre piú nell'imperatore il vero padrone d'Europa. Lo si era accusato di debolezza, di ondeggiamenti, d'irresolutezza; ma gli avvenimenti non dimostravano forse precisamente il contrario? L'imperatore aveva voluto la guerra, ed alla guerra era giunto nonostante le fortissime opposizioni scatenatesi in tutta la Francia, ne aveva fatto annunziare il programma ed i limiti in una celebre pubblicazione, e a quel programma e a quel limiti si era tenuto sostanzialmente fedele, nonostante che i travolgenti successi riportati lo avessero fatto temporaneamente pencolare verso soluzioni non prevedute; vittorioso, aveva saputo troncare la guerra; aveva sfidato l'Europa, ed ora aveva la saggezza di sacrificare all'Europa l'immensa popolarità che si era acquistato in Italia. Non dimostrava tutto ciò irrecusabilmente che l'imperatore sapeva quel che voleva, e quel che voleva sapeva ottenere? Conoscere tempestivamente i suoi effettivi propositi circa il riassetto italiano, e disporsi a secondarli, nella prevedibile impossibilità di una efficace opposizione, significava dunque mettersi in grado di ricavarne il massimo vantaggio.

Il quale ragionamento apparirebbe incontestabile se Napoleone III fosse stato davvero l'uomo che il Montanelli, in base alle apparenze, non poteva non supporre che fosse307, se Villafranca non avesse determinato in Italia una situazione estremamente dinamica e tale da imporre a tutta la penisola, o prima o poi, l'alternativa fra due, e soltanto due, soluzioni estreme, lo status quo ante, cioè, o la compiuta unità nazionale; se, finalmente, la politica napoleonica non avesse provocato nelle cancellerie europee, e piú particolarmente in quella inglese, le reazioni piú imprevedute. Perché il Montanelli non seppe preveder tutto ciò dovremo noi tacciarlo, per usare di una espressione moderna, di rinunciatarismo? No davvero. Pur costernato per la brusca interruzione della guerra, egli era infatti sinceramente persuaso che il programma della integrale indipendenza italiana sarebbe stato, in un secondo tempo, completato dallo stesso Napoleone, e che l'ormai inevitabile instaurazione e il libero funzionamento di regimi costituzionali in tutte le regioni d'Italia avrebbe fatalmente condotto, da ultimo, in un modo o nell'altro, all'unità nazionale. Condizione essenziale perché ciò potesse verificarsi era il non intervento: e si doveva rischiare che l'imperatore, contrariato dalle velleità annessionistiche degl'italiani lasciasse mano libera all'Austria o, peggio ancora, si concertasse con essa per procedere, a mano armata, ad eventuali occupazioni dell'Italia centrale al fine di sottrarla al Piemonte?

Il Montanelli, insomma, pur brancolando anch'egli nel buio, fu dei primi a intuire tutto il partito che si poteva e si doveva trarre da quell'armistizio che anche a lui si era presentato, in un primo tempo, come una tremenda iattura; dei primi a intuire, sia pure confusamente, che proprio su Villafranca avrebbe potuto imperniarsi la seconda fase della rivoluzione italiana: a condizione però che il centro propulsivo si spostasse ormai dal Piemonte all'Italia centrale. Giacché se con le annessioni si fosse liquidato il problema dell'Italia centrale, l'unità della penisola tutta, correva il rischio di non piú realizzarsi, determinandosi ormai un equilibrio possibile fra il regno dell'alta Italia, gli Stati della Chiesa e il regno delle Due Sicilie: il dinamismo rivoluzionario italiano avrebbe potuto in quel caso allentarsi fino anche ad annullarsi del tutto. Invece se l'Italia centrale, liberamente e fortemente governata, avesse conservato provvisoriamente la sua autonomia, ponendosi di fronte all'Europa come campione dell'indipendenza e della futura unificazione della penisola, la questione italiana sarebbe rimasta all'ordine del giorno della diplomazia mondiale, i sedimenti rivoluzionari serpeggianti nelle province romane, napoletane e siciliane ne sarebbero stati automaticamente stimolati e ravvivati, i governi di Roma e di Napoli si sarebbero sollecitamente trovati nel dilemma o di trasformarsi conformemente ai voti della popolazione (e quindi anche di compiere passi nel senso dell'unificazione italiana) o di affrontare a breve scadenza una rovinosa rivoluzione.

Tali le riflessioni che al Montanelli vennero suggerite dal colloquio con l'imperatore ed alle quali, come già si è detto, egli ispirò nel seguito la sua azione politica. Né gioverebbe qui di contrapporre ad esse le altre, non meno evidenti, che avrebbero pur potuto derivarsene, e che infatti ne derivarono i piú, pervenendo a conclusioni opposte alle sue: quelle appunto che vennero poi coronate dai fatti. Ma a noi deve bastare per adesso di avere accennato come un animo italianissimo potesse, all'indomani di Villafranca, oppugnare strenuamente la politica delle annessioni, non già – come si volle – in ragione ed in nome di nostalgie autonomistiche o, peggio, d'imperdonabili preferenze per etichette o per ordinamenti stranieri, ma per l'appunto in ragione ed in nome di quegli stessi principî unitari, o nazionali, ai quali obbediva allora ogni italiano cosciente. Accenno, ahimè, tutt'altro che superfluo, quando per un poco si tengan presenti le inaudite deformazioni e i camuffamenti che il programma bandito dal Montanelli ebbe allora a subire per parte dei suoi avversari politici.

Ma torniamo a Torino e a quella notte del 15 luglio. Uscito da palazzo reale, il Montanelli si affrettò dunque dal Kossuth, dal Valerio, dal Bianchi, ai quali riferí le dichiarazioni imperiali308. L'indomani egli riprendeva, con raddoppiata lena, le trattative per l'armamento dell'Italia centrale: non aveva, è vero, alcuna posizione ufficiale, ma mentre in qualche modo poteva dirsi il rappresentante dell'ala sinistra del patriottismo toscano rallié alla monarchia, poteva parlare altresí nel nome di Garibaldi. E Garibaldi alla testa di un esercito dell'Italia centrale non era già di per sé un apporto d'immensa importanza oltreché tutto un programma politico? Celestino Bianchi concordava con lui pienamente, almeno per allora: al punto che, essendosi il Montanelli, quella stessa mattina del 16 luglio, profferto di servire la causa toscana nel miglior modo che a lui fosse possibile ormai, recandosi cioè in missione a Parigi, dove avrebbe potuto mobilitare tutte le preziose sue aderenze, specie nel mondo giornalistico, e insieme fruttare a beneficio del suo paese la confidenza ripetutamente dimostratagli dall'imperatore, lo stesso Bianchi senz'altro s'impegnò di riferirne a Palazzo Vecchio, aggiungendo «che sperava che l'offerta dei suoi servigi non sarebbe stata respinta». Riteneva il Bianchi davvero utile il conferimento di un incarico del genere al Montanelli, oppure non ad altro mirava che ad allontanarlo dalla Toscana, dove – il Montanelli stesso doveva convenirne – egli avrebbe potuto diventare, suo malgrado, «bandiera di agitazione a causa dei suoi precedenti?»309. Chi sa. Diversi mesi piú tardi, invero, il Bianchi affermò che quel 16 luglio il Montanelli «era con noi», in altri termini che conveniva in pieno col programma del governo di Firenze, il quale «persisteva, quanto era in lui, nella sua politica unitaria»310. Ma che significava «politica unitaria»? Si poteva benissimo essere annessionisti-unitari, come antiannessionisti-unitari. Del resto, col propugnare apertamente il suo piano di una lega fra gli Stati dell'Italia centrale (quella lega che il Ricasoli, per parte sua, vide sempre di mal occhio), il Montanelli, ci sembra, chiariva abbastanza quali fossero, al proposito, le sue vedute politiche. Sarebbe assurdo presumere, d'altra parte, che, mentre gli risuonava ancora nell'orecchio quell'«impossibile» dell'imperatore, egli s'impegnasse col Bianchi nel senso annessionistico.

No: il Montanelli si limitò ad offrire, quali che fossero, i suoi servigi; e la prova indiscutibile l'abbiamo proprio nella lettera che, probabilmente dietro invito del Bianchi, egli ebbe a scrivere, il 17 luglio, al Ricasoli: nella quale invano si cercherebbe una professione di fede annessionistica. Essa311 non conteneva, in realtà, che una cavalleresca quanto generica raccomandazione della causa italiana al capo del ministero toscano, unitamente ad una esplicita presa di posizione contro quelle restaurazioni, che (bisogna pur ricordarlo) uomini come il Lamarmora, successore del Cavour, come il Minghetti, il Rattazzi e il Desambrois, primo plenipotenziario sardo al convocato Congresso, stimavano e dichiaravano in quei giorni difficilmente evitabili312. Sulle annessioni, «ne quidem verbum»!

Sarebbe spettato, dunque, al governo toscano di esigere da lui, nel caso, una preventiva professione di fede in tutto conforme alle sue direttive: non si era dato tanto addosso al Montanelli, a Firenze, per la missione Aquarone e per le pretese sue mene in favore del principe Napoleone? È il Bianchi stesso, invece, che ci assicura, non senza nostra legittima meraviglia, che «il governo della Toscana accettò le proposizioni del Montanelli e m'incaricò di trattare per l'assegnamento». Strano che un incarico di tanta fiducia si assegnasse ad un... avversario politico! Nuova riprova del grave (seppure comprensibilissimo) smarrimento che colpí il governo di Firenze nei giorni immediatamente seguenti all'armistizio: allorquando, diciamolo pure, alle speranze annessionistiche si temette di dover ormai rinunziare.

Ma c'è di piú: incaricato di trattare col Montanelli per l'assegnamento, il Bianchi a sua volta aveva delegato l'incarico al «comune amico avvocato Menichetti», del quale vedemmo già, piú sopra, la lettera 8 luglio al Montanelli. Era costui, quel che si dice una «creatura» del Montanelli stesso; ma nel '59 egli era diventato un pezzo grosso, a Palazzo Vecchio! Esponente della Società Nazionale, già commissario governativo in provincia, ben presto redattore della «Nazione», poteva definirsi un fiduciario del governo toscano. Ebbene, in che senso si esprimeva allora costui nelle sue trattative col Montanelli? Leggiamo un'altra sua lettera del 18 luglio:

Di fusione si capisce che non è a parlarsi – scriveva –: pure forse non sarà male esprimere questo voto. In qualunque modo la nostra professione di fede deve essere contro la passata dinastia; per la dinastia mi pare, della principessa Clotilde col principe Napoleone, per l'ingrandimento della Toscana313.

Che dire, di fronte a questo singolare documento, se non che il tanto deprecato possibilismo del Montanelli incontrava negli ambienti di governo, a Firenze, una... concorrenza temibile?

Il 18 di luglio, intanto, il Montanelli, dopo avere annunziato al Ricasoli il prossimo arrivo a Firenze del Siccoli, noto emissario garibaldino, verosimilmente incaricato di allacciare le trattative per la lega militare e per il comando a Garibaldi314, partiva alla volta di Lovere per riferire al suo generale circa le prime intese strette a Torino315. L'abboccamento ebbe luogo il giorno 19316 e il resultato ne fu che il Garibaldi gli rilasciò la nota dichiarazione: «In caso che i governi provvisori di Modena, Toscana, e Bologna, mi offrissero il comando in capo delle truppe dell'Italia centrale, io lo accetterò volentieri»317. Senza indugio il Montanelli riprese perciò (il 20 luglio) il suo viaggio in direzione di Piacenza, Modena e Bologna318, dove, munito di questa dichiarazione e accompagnato, a quanto sembra, dal Malenchini319, si proponeva di entrare in rapporti col Farini e col Pepoli320.

Senonché non si era ancora separato dal Garibaldi, si può dire, che da Torino il Peruzzi si affrettava a telegrafare e a scrivere al Ridolfi, a Firenze: «Dicesi parta da Milano per Toscana il Montanelli. Qui consigliano d'impedire lui e Guerrazzi»; «conviene impedire il ritorno del Montanelli e del Guerrazzi non tanto per quel che farebbero, quanto per quello di cui potrebbero essere il pretesto, e per il cattivo effetto che i loro nomi farebbero all'estero. Perciò mi varrò dell'azione confidenziale ed amichevole dei loro amici...»321. Questa era la lusinghiera accoglienza che all'esule impaziente, dopo dieci anni, di rivedere la patria, si preparava! Ignorava dunque il Peruzzi – il quale, il 21 del mese, partiva da Torino per Parigi, investito della nota missione diplomatica – che il Montanelli era stato designato a seguirvelo, e, verosimilmente, a collaborare con lui? Vedremo piú oltre che il Peruzzi, in realtà, stimava, sí, pericoloso il Montanelli in Toscana, utilissimo invece a Parigi. Senonché ed egli ed altri toscani eminenti, come lui timorosi della popolarità di un Montanelli in Toscana, non sapevano e non ricordavano che proprio l'imperatore (sul quale affettavano di credere che il nome del Montanelli, evocante il '48, potesse suscitare sfavorevole impressione) lo aveva spinto a recarsi in Toscana?

L'ex triumviro, intanto, ignaro di tutto ciò, proseguiva nel suo viaggio diplomatico. Ottenuto senza difficoltà l'assenso del Farini e del Pepoli alla proposta lega e al «generalato» del Garibaldi322, varcava gli Appennini, ansioso di conferire personalmente col Ricasoli, oltreché di rivedere finalmente la sua terra e la sua casa323. Giunse a Firenze il 25 o il 26 di luglio, e subito si recò a Palazzo Vecchio, dove – attestò il Corsi in una lettera al Guerrazzi, del 27 – «tutti gli hanno stretta la mano, e con ciò solo furono sopite tutte le vecchie ruggini»324. Altro che sopite, come vedremo! Altro che «riconciliazioni con tutti o quasi tutti gli antichi amici» come, per parte sua, ebbe a scrivere il Cambray-Digny!325.

Moltissime, e di tutti i partiti, furono le personalità politiche che si affrettarono a visitarlo, tanto che quasi subito egli si trovò nel bel mezzo degli affari toscani, adesso particolarmente agitati per l'imminenza delle elezioni dell'assemblea: autonomisti piú o meno lorenesi in cuor loro, fautori di un regno separato dell'Italia centrale, napoleonisti326, annessionisti, sostenitori di una candidatura sabauda indipendente, malcontenti e intriganti. «Non citerò le molte persone che appena arrivato in Firenze vennero a trovarmi... e mi parlarono nello stesso senso della lettera menichettiana», scrisse piú tardi il Montanelli stesso327; e il Redi: «Gli davano pensiero i popolani del Dolfi i quali chiedevano con insistenza la fusione al Piemonte..., avendo (egli) preso impegno di fare della Toscana il centro egemonico della futura unità»328. Celestino Bianchi non fu degli ultimi a visitarlo; ma ormai le loro vie divergevano: «Non entrerò in molti particolari sul nostro colloquio – cosí il segretario generale del governo toscano, quando, nel gennaio del '61, gli stava a cuore di «silurare» la candidatura del Montanelli al Parlamento nazionale329 –: dirò solo che lasciandomi conchiuse dicendo: bisogna persuadersi che l'idea dell'unità era un bel sogno al quale è forza rinunziare. Non c'è che una volontà in Europa che sia rispettata; non c'è che una parola che sia ascoltata: quella dell'imperatore dei Francesi: la Toscana ormai nella sua mente è destinata: sapete a chi: bisogna piegare la testa... Da quel giorno in poi non ebbi mai piú occasione di trovarmi col professor Montanelli, né di parlare con lui». Orbene: è verosimile che il Montanelli tenesse col Bianchi un discorso di questo genere? Innanzi tutto si deve osservare che non una sola parola scritta dal Montanelli allora, prima di allora o dopo di allora, ci permette di credere che egli rinunziasse mai alla vagheggiata unità d'Italia, seppure si vedesse o si credesse costretto a relegarne l'attuazione in un avvenire piú o meno lontano (e sí che la censura postale, accuratamente eseguita nell'ufficio stesso del Bianchi, non si faceva troppo riguardo nel sequestrare la corrispondenza dei personaggi sospetti; figuriamoci se al Montanelli, fatto segno ad accuse cosí aspre e persistenti, si fosse potuto contestare la prova provata di questa sua rinunzia: lo si sarebbe senz'altro ridotto al silenzio!) Sembrerebbe inconcepibile, d'altronde, che proprio allorquando il Montanelli andava tenendo discorsi cosí poco... ortodossi, i governanti toscani (vedi testimonianza del Corsi) lo accogliessero con tanta cordialità, almeno apparente...

Come si difese il Montanelli da questa accusa del Bianchi? Nel modo piú ragionevole: riconoscendo francamente, cioè, quel tanto di vero che in essa si conteneva.

Il Bianchi, – egli rispose infatti330, – non fu narratore veridico... quando della conversazione che avemmo in Firenze riferí parole che non ricordo avere pronunciate, e non pronunciai certo nel senso che egli volle dar loro, per insinuar dubbi sulla indipendenza del mio carattere, e sulla schiettezza dei miei sentimenti italiani. Sbaglia poi grandemente il signor Celestino Bianchi, se mi stima uomo da aver paura di dichiarare che dopo la pace di Villafranca vi furono momenti sí incerti, e sí perigliosi, nei quali anch'io potei credere salutare all'Italia l'eventualità di una Reggenza del principe Napoleone, benché nulla oprassi a tal uopo, e non contraessi alcun impegno.

Or dunque, esclamerà a questo punto il lettore, «habemus confitentem reum!» A che continuare, dopo questa franca ammissione, a contestare la versione del Bianchi? Senonché ci si permetterà di osservare che, quand'anche fosse dimostrato che fino dalla seconda metà di luglio del '59 il Montanelli optasse per la soluzione napoleonica del problema toscano, questa non implicava affatto, almeno nelle sue intenzioni, una definitiva rinunzia al programma unitario. «Reggenza», infatti, non significa che temporanea occupazione del trono nel nome e nell'attesa del legittimo e definitivo suo detentore. Orbene, in nome di chi il principe Napoleone sarebbe stato proclamato reggente se non, notoriamente, in quello di re Vittorio suo suocero? E qual meraviglia che a molti patrioti toscani l'idea di quella reggenza si presentasse allora spontanea come la sola via d'uscita dalla gravissima situazione determinatasi dopo Villafranca, in quanto su di essa si sarebbero potuti raccogliere i consensi sia del Piemonte che della Francia? Si è visto già come il Menichetti fosse per l'appunto di quella opinione; uomo di secondo rango costui? E sia pure; ma che dite di fronte a documenti ineccepibili dimostranti che personaggi politici di prima grandezza, come il Peruzzi, il Matteucci, il Corsi, il Ridolfi, ed altri ancora331, inclinarono nettissimamente, in quel torno di tempo, verso la candidatura napoleonica al trono toscano, se non addirittura verso altre ben piú di quella straniere all'Italia? Sbagliarono anch'essi, si dirà; e in ogni caso il loro errore non può certo addursi a discolpa del Montanelli. Verissimo: a condizione però che il giudizio di condanna o di assoluzione sia uguale per tutti...

È nostra opinione, comunque, che alla fine di luglio del '59 il Montanelli, pur non scartando a priori l'ipotesi napoleonica, non si esprimesse in concreto che in senso antilorenese, antiannessionistico332, e in favore della costituzione di un forte organismo politico nell'Italia centrale. Il suo programma immediato era pur sempre quello di far designare il Garibaldi a comandante degli eserciti collegati. E che? Poteva mai il Montanelli immaginarsi che il generale si sarebbe messo al servizio del principe Napoleone? Le altre testimonianze delle quali disponiamo non contraddicono al nostro assunto. Non quella del Capponi («ora il Montanelli promette, o minaccia, o annunzia PlonPlon; ma senza però raccomandarlo»)333, non quella del Cambray-Digny («non manca chi faccia partito per altre dinastie. La napoleonica è messa avanti da diversi, tra i quali primeggia il Montanelli. Io, per dire il vero, non l'ho udito proporla decisamente, ma mi parve che andasse per quella via»)334, e neanche quella del Peruzzi, che da Parigi riportava, sul conto del Montanelli, pretese rivelazioni del ministro francese a Firenze335. Solo il Massari e il La Farina, entrambi, allora, fieri avversari del Montanelli, ce lo dipingeranno sordamente intrigante, non appena rientrato in Firenze, in favore del principe Napoleone: senonché non si dovranno prendere con ampio beneficio d'inventario le costoro asserzioni? Il La Farina intanto, non si fece eco di queste accuse che alla fine di settembre, retrospettivamente cioè, e proprio allorquando la canéa antimontanelliana ebbe raggiunto il suo apice336; quanto al Massari, questi, pur attribuendo a re Vittorio in persona il severo giudizio sul Montanelli supposto campione di «plonplonismo», non dubitò di metterlo in fascio col Cipriani e col Farini337: or chi non sa quanto sospetti, a dir poco, siano i giudizi torinesi del tempo sull'attività, nonché di costoro, di chiunque non si mostrasse rigidamente ossequente ai cenni del governo piemontese?

Quale si fosse, sulla fine di luglio del '59, l'effettivo programma del Montanelli noi sappiamo di già; ma in base a qualche altro documento ci è dato entrare al proposito in qualche maggiore precisazione. Ecco ad esempio lo schema di un discorso da lui pronunziato nella sua Fucecchio, il 28 del mese:

So che qualcuno volle farmi delitto d'amare la Francia. Lo compatisco. Non li vide partire (i soldati francesi) come li ho veduti io. Non passò con loro come ho passato io le Alpi. Tutto il mio credo si riepiloga in tre principali principî, e in tre uomini. Principî: 1) Indipendenza; 2) Unità nazionale; 3) Alleanza con la Francia. Il resto sono espedienti. Gli uomini: 1) Napoleone III: mosse la questione italiana. Senza di lui non saremmo qui. Difficoltà immense: le vincerà. 2) Vittorio Emanuele: fermo allo Statuto; strinse la alleanza con la Francia. 3) Garibaldi, personificazione della democrazia, il capitano del popolo. Mano di Garibaldi a Vittorio, mano di Vittorio a Napoleone; o con l'annessione o senza, tutto anderà. Guai se il nodo si scioglie338.

Dove, a parte l'insistenza probabilmente eccessiva sui beneficî dell'alleanza francese, ben si vede come il Montanelli, nonché abbandonare il caposaldo dell'unità, vi si afferrasse tutto, anzi, su di essa imperniando la sua propaganda. Ma – si dirà – come prevedeva il Montanelli che questa unificazione sotto gli auspicî francesi potesse realizzarsi? Ci viene qui in soccorso, ancora una volta, la testimonianza del Redi339: secondo il quale l'idea montanelliana sarebbe stata, fino d'allora, quella di ottenere dall'imperatore e, mercé i suoi buoni uffici, dal Congresso delle potenze, che, in cambio della volontaria rinunzia da parte dell'Italia centrale ad annettersi al Piemonte, venisse concessa al Veneto l'autonomia amministrativa e politica, oltre alla facoltà di ordinare un suo esercito. L'uscita delle truppe austriache dai confini d'Italia avrebbe d'altronde permesso di sollecitare il ritiro anche del corpo di occupazione francese a Roma, cioè il definitivo conseguimento dell'indipendenza e della nazionalità italiane.

Riconosciute esse nel diritto pubblico europeo (ragionava il Montanelli), l'unificazione d'Italia, non avversata dalla Francia, diviene una questione d'ordine interno, e la Toscana non tarderà ad attrarre a sé a una a una tutte le membra della patria italiana. Se torniamo con la mente a quel tempo – cosí il Redi – ... il concetto non apparirà tanto da nemici del proprio paese come si fece passare340.

Senonché questa presa di posizione, in pieno contrasto con quelle che erano allora le direttive del governo responsabile, non era destinata di certo a migliorare le relazioni del Montanelli, con i circoli ministeriali.

I governi dell'Italia centrale, intanto, primo in ordine di tempo quello di Firenze, offrivano al generale Garibaldi, conformemente agli accordi presi e col Montanelli e col Malenchini341, il famoso comando in capo. Il Garibaldi, superate talune difficoltà che si opponevano alla sua accettazione342, si dirigeva immediatamente in Toscana343; ben presto veniva formalmente conclusa la lega militare fra gli Stati dell'Italia centrale. Erano, entrambi, avvenimenti della piú alta importanza (in buona parte dovuti, come sappiamo, all'opera personale svolta dal Montanelli); i quali, preceduti dalla convocazione dei collegi elettorali in Toscana e in quegli altri Stati, venivano a determinare in questa parte d'Italia una situazione nuova, cosí suscettibile di prevedibili sviluppi rivoluzionari, che il Montanelli non si sentí piú di lasciar la Toscana come avrebbe dovuto fare se avesse accettato la nota missione in Francia. Gli pareva, adesso, che la causa italiana si potesse servire assai piú efficacemente a Firenze che non a Parigi nelle anticamere dei ministeri o nelle redazioni dei grandi giornali; e ciò tanto piú che la diplomazia francese pareva allora sviarsi, con le successive missioni De Reiset e Poniatowski344 – con le quali, diciamolo subito ben chiaro e ben alto, il Montanelli non ebbe assolutamente nulla a che fare345 – in assurdi e sterili tentativi volti a persuadere i toscani ad accettare una restaurazione lorenese.

Tramontata dunque la prospettiva di un impiego diplomatico, e tramontata, sembra, unicamente per volontà del Montanelli346, l'ex triunviro si presentò candidato alle elezioni politiche. Che gli ambienti ufficiali non vedessero con soverchio entusiasmo questo suo divisamento (il Montanelli era pur sempre l'uomo della Costituente: una volta membro dell'assemblea non avrebbe cercato di riesumare l'antico progetto?) è piú che comprensibile, e del resto ci consta sicuramente347: si deve per altro riconoscere che nulla di men che corretto fu tentato dal governo per escluderlo dall'assemblea: tanto che il 7 d'agosto egli otteneva, nella sua Fucecchio, una votazione quasi plebiscitaria348.

Eccolo adunque deputato; eccolo investito, con gli altri suoi colleghi, di una immensa responsabilità di fronte all'Italia e all'Europa. Ben si sapeva, a Palazzo Vecchio, che si poteva contare su di lui per la progettata solenne votazione antilorenese; c'era da aspettarsi perciò, che gli amici del governo facessero di tutto, in quella prima metà d'agosto, per convertire lui e i molti altri deputati antiannessionisti anche al programma dell'unione al Piemonte. Quindi lusinghe, pressioni, intercessioni autorevoli. Pel Montanelli, in particolare, vennero messi di mezzo, fra gli altri, perfino il Manzoni e il Garibaldi, ai cui consigli si pensò che egli si sarebbe, per deferenza, inchinato349. Ma il Montanelli non piegò. Era forse legato da impegni assunti personalmente con l'imperatore? Cosí si sussurrò da molti, i quali evidentemente ignoravano come un uomo di fede possa, per non tradire le sue convinzioni, sfidare sereno l'impopolarità e, peggio, gli oltraggiosi sospetti anche degli amici. Ma sarà proprio necessario ricorrere a supposizioni del genere, quand'anche si voglia considerare la sua mancata adesione, in seno all'assemblea, al voto dell'immensa maggioranza dei deputati, un gravissimo errore?

Le accuse di «plonplonismo» al suo indirizzo si erano andate intensificando e aggravando. Le echeggiavano a gara, ormai, da Parigi il Pasolini350 e il Peruzzi351, da Londra il Corsini352 e a Firenze un po' tutti quanti, dal Capponi353 al Mazzini, di fresco giuntovi, come si sa, in un incognito parecchio trasparente354. Queste accuse acquistavano adesso tanta maggior consistenza in quanto resultava che alla corte imperiale, nonostante le recise smentite degli ambienti ufficiali, il progetto «plonploniano» cominciava ad essere favorevolmente gustato355. Non si venne perfino a sapere che il 19 d'agosto eran partiti da Parigi alla volta d'Italia due agenti del principe Napoleone, uno dei quali, il Texier, amico personale del Montanelli, e l'altro, il Sarda Garuga, espressamente incaricato dal principe di visitare diverse personalità dell'Italia centrale356, fra le quali il Farini, il Cipriani, il Pepoli, il Matteucci, l'Albéri, il Montanelli?357.

Sembrerebbe dunque di dover convenire che, se non alla fine di luglio, almeno verso la metà del mese successivo il Montanelli «scoprisse le sue batterie». Viceversa è nostro preciso parere che, nonostante l'imponente mole di prove a suo carico, il suo atteggiamento restasse anche allora quello che già avemmo a chiarire per l'addietro: e cioè che né egli né gli altri «francesizzanti» promuovessero attivamente la candidatura napoleonica, ma nel contempo neanche la scartassero, ritenendosi positivamente obbligati, per il bene stesso del loro paese, a indagare la convenienza e la probabilità di riuscita nel modo stesso che adoperavano per le altre soluzioni proposte del problema toscano358. Il Montanelli si era tenuto, nel complesso, in riserva fin quando i destini di questa parte d'Italia erano rimasti impregiudicati; ma ormai che, riunita l'assemblea, si voleva dal governo sforzarla a votare un partito definitivo, egli avvertiva l'imprescindibile dovere di uscire da quel riserbo per definire il suo punto di vista: il quale comportava l'attiva collaborazione delle quattro assemblee dell'Italia centrale in vista di addivenire alla formazione di un unico Stato da sottoporsi, in attesa degli eventi ad una dittatura o reggenza provvisoria. Questo era e restava, del suo programma immediato, il punto essenziale; mentre era di secondaria importanza – una volta escluso il pericolo di un ritorno dei Lorena – la questione a qual principe affidare, sempre nel nome di re Vittorio, l'ufficio. Le sue personali preferenze, già si è visto, cadevano sul principe Napoleone, simbolo vivente della indispensabile alleanza italo-francese; ma il Montanelli non s'impegnava sul nome suo, come s'impegnava invece, aperto e risoluto, sulla questione della provvisoria autonomia dell'Italia centrale359; e ne abbiamo la riprova nel coscienzioso voto da lui dato, nella seduta dell'assemblea del 9 novembre, al progetto di reggenza di Eugenio di Carignano360.

Tale era allora e tale in sostanza rimase, checché pretendessero in contrario i suoi detrattori, il suo punto di vista sulla questione toscana361. Solo si deve aggiungere come a radicarlo in quella opinione contribuisse essenzialmente una constatazione che al suo cuore di soldato dell'indipendenza dovette riuscire particolarmente penosa: quella cioè che i suoi concittadini non sembravano invero troppo disposti ad affrontate virilmente i rischi, anche di guerra, che da una proclamazione annessionistica fatta contro la volontà della Francia, avrebbero potuto derivare, ed anzi sarebbero derivati con tutta probabilità. Garibaldi, sí, giungeva in Toscana (per venire, del resto, di lí a poco, sostituito dal Fanti nel comando in capo degli eserciti collegati) e la lega militare era, sulla carta, conclusa; ma che perciò? Né il popolo toscano si mostrava, allora, risoluto a difendere a qualunque costo e contro chiunque la sua libertà, né il suo governo, conveniamone, andava apprestando con la dovuta sollecitudine i mezzi per rendere possibile, in qualunque evenienza, quella difesa. In cosí fatte circostanze – osservava il Montanelli – l'attentarsi a sfidare, con la Francia, l'Europa tutta sarebbe stato un gesto sublime, ma inutilmente temerario: giacché, per quanto ingrossato dai contingenti dei volontari, per quanto valorosissimo, l'esercito sardo non avrebbe potuto di certo resistere contro eventuali interventi offensivi di una o di entrambe le potenze firmatarie dei patti di Villafranca362.

Ma torniamo all'assemblea toscana; della quale non importa davvero di ricordare in questa sede, come il 16 agosto procedesse unanime alla votazione della proposta Ginori proclamante la decadenza definitiva della dinastia lorenese. Forse non furono molti i deputati che, in quella solenne occasione, sentirono, come il Montanelli sentí, di compiere un sacro dovere: giacché pochi avevano, come lui, lealmente servito il granduca, e sinceramente sperato di farne un principe italiano; pochi, come lui, erano stati in grado di valutare tutta l'irrimediabile sua inadeguatezza di fronte all'alta missione assegnatagli; pochi, come lui, avevano, finalmente, dal 6 febbraio del '49 in poi, realizzata l'assoluta incompatibilità e di quel principe e in genere di tutta la sua casata con la resurrezione italiana. Per breve ora, dunque, il Montanelli provava l'ebbrezza, solitamente negata agli spiriti piú alti, dell'unanime consentimento. Per breve ora: ché già fino dal 13 agosto egli aveva creduto di doversi opporre alla votazione della proposta Romanelli per una mozione di plauso al governo in carica ed al cessato governo provvisorio363; e quello stesso 16 agosto non aveva potuto nascondere la sua contrarietà a che la proposta Mansi e Massei per l'annessione della Toscana al Piemonte venisse rinviata agli uffici. La discussione di queste due proposte si svolse, come è noto, la mattina del 20, nel segreto delle sezioni: in seno alle quali il Montanelli non dubitò, naturalmente, di svolgere i motivi della sua opposizione364, salvo ad astenersi, d'intesa con altri due deputati, dall'intervenire alla successiva seduta pubblica, nel corso della quale l'annessione della Toscana al Piemonte venne approvata all'unanimità. Era il piú gran sacrificio che il Montanelli potesse fare alla causa governativa, quello di rinunziare ad esporre pubblicamente le ragioni del suo atteggiamento, per non turbare la manifestazione della maggioranza365. Ma nessuno gliene fu grato366: ed anzi furono proprio taluni fra i suoi colleghi i quali l'annessione avevano votato pur convintissimi che fosse quella una manifestazione platonica, dopo la quale ci si sarebbe dovuti acconciare ad un qualsivoglia altro partito, e magari anche all'accettazione della duchessa di Parma, furon proprio costoro i piú accaniti contro il Montanelli: che senza altro accusarono di lesa patria, cominciando con l'accreditare la falsa leggenda che egli avesse votato contro l'annessione.

È esagerato di certo, anzi è positivamente infondato quel che scrisse il D'Ancona – che del Montanelli ebbe a pubblicare, da par suo, parte del carteggio, – che cioè da quel 20 d'agosto in poi il Montanelli «perdette ogni autorità, e quel resto di popolarità della quale si lusingava essere ancora in possesso si dileguò del tutto. Morí fisicamente ai 17 giugno 1862; politicamente, era già morto dopo quel voto»367. Ma è pure indubitato che dopo il 20 d'agosto il Montanelli, già poco grato ai potenti della sua terra, si trasmutò ai loro occhi in un vero e proprio nemico pubblico, piú infido e dannoso d'un Poniatowski, piú temuto, e, certo, meno rispettato d'un Mazzini. Perché mai tanto risentimento e, diciamolo aperto, tante persecuzioni contro un oppositore cosí solitario? Che mai poteva rappresentare costui, e con lui i due suoi compagni di astensione, di fronte all'assemblea unanime? Si aveva forse il dubbio che quel voto di un'assemblea eletta a suffragio ristretto non corrispondesse che assai imperfettamente ai propositi ed alle aspirazioni della maggioranza dei cittadini pensanti? La verità si è che quella voce isolata, o piuttosto quella voce rimasta silenziosa nel coro, veniva a costituire come una frattura in quella facciata di unanimità formale che da tempo ormai i governanti toscani si erano preoccupati di edificare nel loro paese per opporla a un'Europa diffidente; che essa rappresentava un principio pericoloso d'indipendenza, mal tollerabile fintanto che durasse quello stato di pericolosa incertezza sulle sorti toscane: tanto piú che era la voce di un patriota antico, ben noto nel mondo straniero, contro il quale si spuntavano, in definitiva, le assurde insinuazioni, che pur si osava da taluno rivolgergli, di venduto allo straniero e perfino di segreto fautore delle restaurazioni!368.

Dal 20 d'agosto, perciò, il Montanelli avrà la vita difficile, nella sua Toscana. I giornali governativi (e cioè quasi tutta la stampa) non gli daranno piú tregua369; la censura postale sorveglierà accuratamente la sua corrispondenza; le sue parole ed ogni suo movimento verranno controllati e riferiti a Palazzo Vecchio; ogni sua passata o presente benemerenza verrà dimenticata o svisata; ogni suo gesto sarà cagione di sospetto. I documenti in nostro possesso ed altri che ci siamo procurati (e che a suo tempo pubblicheremo) non lasciano dubbi a questo proposito. Pian piano gli si farà davvero il vuoto d'intorno, un po' pel timore che molti proveranno di frequentare la compagnia di un oppositore sorvegliato, un po' anche perché le calunnie diffuse contro di lui370 finiranno con l'alienargli effettivamente ogni simpatia. Montanelli sperimenterà come sia piú amaro l'esilio in patria che non lo stesso esilio materiale dal proprio paese! Non si giunse perfino a negargli la restituzione di quella cattedra pisana che aveva pur abbandonato, nel '48, dopo sette anni di celebrato insegnamento, per andare a combattere?371. Non gli si vietò con ogni mezzo l'ingresso nel Parlamento nazionale radunato a Torino, rendendogli ancora piú amaro questo ostracismo col contrapporgli, nei singoli collegi un dopo l'altro tentati, concorrenti affatto ignoti ed oscuri?372. I suoi scritti – e ve ne furono di bellissimi, profusi in giornali minori o in opuscoli, attestanti non solamente l'usata acutezza della sua mente e la profondità e l'estensione del suo sapere, ma anche il coscienziosissimo studio delle questioni prese in esame373 – vennero sistematicamente ignorati o, peggio ancora, sommariamente stroncati. Caso tipico fra tutti, quello del suo volumetto L'Impero, il papato, e la democrazia in Italia, pubblicato nel novembre del '59, il quale non provocò nella stampa toscana che recensioni beffarde e sprezzanti: eppure v'era in quel suo scritto, che, fra innegabili divagazioni e genericità, ricercava e additava un possibile componimento dei troppi dati contraddittori del problema italiano, v'era in esso tanto nobile fervore, tanta altezza di concetti, tanta sottigliezza di argomentazioni, da fornire non pure la giustificazione ideale del suo contegno politico, ma bensí la conferma di come il Montanelli andasse annoverato fra le piú fini e originali e nutrite menti politiche dell'Italia d'allora. Ma chi pensò, ad esempio, dopo il 5 maggio del 1860, a ricordare che in quelle pagine si conteneva tra l'altro un presagio chiarissimo della spedizione garibaldina nell'Italia del sud?

Tutto ciò non contava. Il peccato del Montanelli, già colpevole di rappresentare i brucianti ricordi del '49, era senza remissione per gli unitari dell'ultima ora. Ond'è che questo geniale pubblicista, questo cittadino sempre e soprattutto sollecito del bene del proprio paese, questo antico antesignano dell'unità italiana, poté venir condannato, nella propria terra, alla morte morale; cioè ad assistere, inoperoso, alla grande fatica, sempre sognata, del costruire in concreto la nazione italiana, appena sbozzata nei campi di battaglia. Al quale tormento, sí, lo sottrasse la morte fisica, ben presto sopraggiunta.






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177 Cfr. Il 29 maggio in Toscana. Parole di Giuseppe Montanelli, Livorno 1859. Era stato l'annunzio della partenza pel Piemonte dei volontari toscani comandati dal Malenchini che lo aveva indotto ad arruolarsi: «Fossi stato moribondo quest'annunzio mi avrebbe trattenuto sull'orlo del sepolcro», p. 2.



178 Abbiamo qui sotto gli occhi l'autografo di una sua «corrispondenza» relativa alla situazione toscana, datata «Florence, 18 mars 1859». Per la cordialità e la continuità dei suoi rapporti con la redazione del «Siècle» cfr. nella «Nazione», Firenze, 1° settembre 1859, la lettera con la quale il Montanelli aderiva entusiasticamente all'iniziativa bandita da quel giornale per un dono nazionale al «Siècle».



179 A Giovanni Dragonetti scriveva l'8 gennaio: «Mi pare che questa volta qualche cosa certamente vedremo. L'eccitazione d'Italia è ormai irresistibile. Il Piemonte dovrà agire e il resto verrà dietro... Speriamo rivederci presto... sui campi lombardi». G. Dragonetti, Spigolature nel carteggio letterario e politico di L. Dragonetti, Firenze 1886, pp. 320-21.



180 Minuta di lettera che si conserva fra le carte Montanelli-Parra, nell'Autografoteca Bastogi della Biblioteca Labronica di Livorno, cass. 40, ins. 2242. D'ora innanzi citeremo questa importantissima raccolta con le iniziali B. L.



181 Alla politica del Cavour il Montanelli aveva cominciato ad accostarsi fino dal 1856: di qui polemiche vivacissime con taluni dei suoi compagni di emigrazione, e per esempio con Girolamo Ulloa.



182 Puccioni, Il risorgimento italiano nell'opera, negli scritti, nella corrispondenza di Piero Puccioni, Firenze 1932, pp. 12 sg. Lettera del Parra e del Visconti Venosta in risposta ad altre del Montanelli in B. L.; taluna del Parra (che era figliastro del M.) anche in nostro possesso (Raccolta Rosselli, che indicheremo con le iniziali R. R.).



183 Lettera dell'Homodei da Torino, il febbraio 1859 in B. L., cass. 231, ins. 197. Superfluo rammentare come a Torino si temesse che l'eventuale successo di un'agitazione per la costituzione, in Toscana, potesse consolidare la dinastia lorenese.



184 Verosimilmente fu sua l'idea, suggerita il 21 aprile dal Tommasi Crudeli al Puccioni, a Firenze, di promuovere in Toscana il rifiuto delle imposte per devolvere l'ammontare al Piemonte sotto forma di contributo di guerra. Puccioni, op. cit., p. 48.



185 Fino dal gennaio 1859 il suo corrispondente Homodei gli aveva confidato il piano cavourriano tendente a provocare la diserzione in massa dei coscritti lombardi, nella speranza d'indurre l'Austria «a cercar di riprenderli, dal che una dichiarazione di guerra». B. L., c. 31, i. 197.



186 Il 20 febbraio una deputazione di esuli italiani si recava, com'è noto, a rendere omaggio al principe, reduce, con l'augusta sua sposa, dal Piemonte. Il Montanelli, quantunque designato a «capitanare» la deputazione, non vi partecipò, forse perché ammalato: cfr. in B. L., c. 40, i. 2220, la minuta autografa di una sua lettera, senza data, al «Monitore Toscano»; lettera che va probabilmente assegnata al gennaio del 1861 e che non venne pubblicata (si vedrà piú oltre come altre due lettere del Montanelli venissero pubblicate da quel giornale in quell'epoca). È certo comunque che il Montanelli ebbe un abboccamento col principe prima della sua partenza per l'Italia.



187 Redi, Ricordi biografici su Giuseppe Montanelli, Firenze 1883, pp. 53-54.



188 Cfr. il carteggio col Visconti-Venosta in B. L., c. 60, i. 781.



189 Lettera del Montanelli al Corsi, 30 maggio 1859, in Biblioteca Nazionale di Firenze, Nuovi Acquisti, 588.



190 Montanelli, L'Impero, il Papato e la Democrazia in Italia, Firenze 1859, p. 21. Tra le carte montanelliane in R. R. troviamo anche l'abbozzo di un'ode Italia all'Alemagna, scritta evidentemente allo stesso fine e nello stesso tempo. Comincia cosí: «Lamagna, che temi se sfolgoro in armi, / se rompo la nube che vieta mostrarmi / con serto di stelle qual fecemi Iddio / signora del santo terreno natio?» In B. L., c. 40, i. 2221, è invece l'abbozzo autografo dell'indirizzo I protestanti italiani ai protestanti inglesi e tedeschi.



191 La minuta della lettera, in data 28 marzo, in B. L., c. 40, i. 2236.



192 Tra l'altro le prove del Poliuto, che egli aveva tradotto in versi italiani su preghiera della Ristori, sua amicissima, e che questa si apprestava a mettere in scena.



193 La salute del Montanelli era sempre stata estremamente cagionevole; fra l'altro egli era tormentato da una grave malattia oftalmica, peggiorata sui primi del '59.



194 Le tappe di questo suo viaggio resultano dal suo passaporto (B. L., c. 40, i. 2259). Sulla fermata a Chambéry troviamo ragguagli in un quinternetto manoscritto di Cenni biografici del Montanelli, scritti dalla moglie di lui, Laura Cipriani, vedova Di Lupo Parra (R. R.). Da Chambéry, d'altronde, il Montanelli datò, il 29 aprile, una patriottica lettera alla «Gazette de Savoie» (B. L., c. 40, i. 2242).



195 Sul suo arrivo cfr. De La Varenne, Les chasseurs des Alpes et des Appennins, Firenze 1860, p. 315.



196 Cfr. il biglietto del Cavour al Montanelli, da Parigi, 30 marzo, in D'Ancona, Ricordi storici del Risorgimento italiano, Firenze 1914, p. 310.



197 Su questo colloquio cfr. Redi, op. cit., p. 54; Cenni biografici, ms cit. Molti particolari anche in certi appunti di mano del Montanelli, ora in R. R., e negli Schiarimenti elettorali, Firenze 1861, p. 14, della stesso Montanelli. Fu il Pallavicino che presentò il Montanelli al Cavour, il 1° maggio: cfr. Pallavicino, Memorie, III, Torino 1895, p. 516. Cfr. per contro il Diario del Massari, Beltrani, Bologna 1931, p. 325, sotto la data del 4 maggio: al Massari stesso e al Farini che gli parlavano del Montanelli, il Cavour avrebbe detto: «Fa bene ad andare ad Acqui. A me pare sia matto». Il lettore tenga presente, però, che il Massari, già amicissimo del Montanelli, si era violentemente urtato con lui fino dal 1849, tanto che i due, scambiatisi lettere quasi di sfida, erano stati lí lí per battersi a duello. Cfr. «Il Nazionale», Firenze, 13 ottobre 1849; Collezioni di documenti per servire alla storia della Toscana dei tempi nostri e alla difesa di Guerrazzi, Firenze 1853, p. 62. Un'altra lettera del Montanelli al Massari, 30 settembre 1849, trovasi in B. L., c. 40, i. 2264. Vedremo anche piú oltre come il diario Massari formicoli di maligne e non sempre fondate insinuazioni a carico del Montanelli.



198 Cosí il Perrens, le cui lettere al Montanelli trovansi in B. L., c. 45, i. 898.



199 Della Toscana gli riapriva le porte, dopo la condanna riportata nel '53, l'amnistia decretata il 3 maggio 1859 dal governo provvisorio: quell'amnistia contro la quale un altro esule illustre, il Guerrazzi, scagliava, com'è risaputo, i suoi strali, né, a dir vero, ingiustificatamente.



200 Sull'Ulloa, che alla fine d'aprile era stato trasferito in Toscana, cfr. Doria, La vita e il carteggio di Girolamo Ulloa, Napoli 1930, p. 33; sul Boldoni e gli altri ufficiali di quel corpo De La Varenne, op. cit., passim.



201 Il brevetto di nomina a sottotenente nel corpo dei Cacciatori venne notificato al Montanelli, a Fucecchio, da Edolo, 30 luglio; sulla busta, di mano del Montanelli stesso, si trova scritto «Rifiuta la carica». B. L., c. 40, i. 2259. L'esempio di modestia e di coraggio dato dal Montanelli suscitò larga ammirazione. Cfr. ad esempio le attestazioni del Verdi, che gli era personalmente amico, ne I copialettere di Giuseppe Verdi, pubblicati da Cesari e Luzio, Milano 1913, pp. 443-44.



202 Negli appunti autografi, inediti, già piú sopra cit.



203 Cfr., ad esempio, Della Torre, L'evoluzione del sentimento nazionale in Toscana dal 27 aprile 1859 al 15 marzo 1860, Roma 1915, pp. 94-96.



204 Al Corsi, 30 maggio (lettera cit.): «Sembra che presto anche noi Cacciatori degli Appennini entreremo in campagna. Questa gioventú lo desidera con grande ardore. Non ti sto a dire quanto io goda trovarmi fra amici cosí potentemente infiammati d'amore di patria». E al Michelet, 1° giugno: «Per intendere il moto attuale d'Italia bisogna vivere in mezzo a questa gioventú... L'amore dell'Italia fa di tutti una sola famiglia, un'anima sola. Io era lontano a Parigi dall'immaginarmi i progressi che il sentimento nazionale ha fatto in quest'ultimo decennio» (Tacchini, Michelet et Montanelli, Carrara 1931, pp. 13-14).



205 Il memoriale del Salvagnoli all'imperatore, in Bianchi, Storia della diplomazia europea in Italia, vol. VIII, Torino 1872, pp. 15-16.



206 Cfr., ad esempio, Calamari, L. Galeotti e il moderatismo toscano, Modena 1935, p. 124.



207 Trovasi in R. R.



208 In un altro documento, anch'esso inedito (B. L., c. 40, i. 2220), il Montanelli scrive: «Conferii con l'imperatore in Alessandria nel 25 maggio, e mentre due toscani, i quali poi hanno figurato tra i caporioni dell'annessione, gli avevano fatto credere che il principio unitario repugnava al nostro paese, io distinguendo unità da unità cercai lasciarlo persuaso del contrario». Cfr. a riprova Salvagnoli a Ricasoli, 17 maggio 1859: l'imperatore «ha convenuto meco della necessità di conservare l'autonomia (della Toscana) e della opportunità d'ingrandirla». Doria, Carteggio inedito Salvagnoli-Ricasoli, in «Il Risorgimento italiano», luglio-dicembre 1925, p. 658. Il 14 maggio il segretario del ministro Ridolfi aveva scritto al Cambray-Digny, a Torino, che la grande maggioranza degli uomini politici conosciuti erano per un regno separato! Carteggio politico Cambray-Digny, Milano 1913, pp. 26-29.



209 Lettera inedita cit. del Montanelli al «Monitore Toscano».



210 Ciò resulta da piú carte conservate negl'inserti montanelliani in B. L.



211 Cfr. Montanelli a Pallavicino, 21 giugno 1859, e Pallavicino a Cavour, 26 giugno, in Pallavicino, Memorie, Torino 1882 sg., vol. III, pp. 527-29, 532.



212 Lettera cit. Nella lettera al Corsi, cit., il Montanelli si mostrava assai lieto dell'ardore guerresco dimostrato dall'imperatore. Nella lettera 21 giugno al Pallavicino, cit., il Montanelli, precisando, scriveva che dall'insieme della conferenza aveva recato questa persuasione: «... Che l'imperatore dei francesi non sarebbe punto contrario alla unificazione politica d'Italia, quando l'opinione italiana si dimostrasse decisamente favorevole a quella... Che noi siamo piú padroni della nostra politica di quello che non avrei creduto. Questa persuasione mi venne confermata da persone che hanno il carico di fare a conto dell'imperatore dei rapporti sulle opinioni italiane». Senonché è evidente che l'ottimismo qui dimostrato dal Montanelli deriva piuttosto dagli avvenimenti svoltisi successivamente al colloquio imperiale che non dalle impressioni che quello gli aveva lasciato.



213 Redi, op. cit.; lettera inedita, cit., del Montanelli al «Monitore Toscano».



214 Si conserva in R. R. Quanto allo svolgimento della missione Pietri-Rapetti, non è qui certo il caso di soffermarvisi, tanto essa è nota nei suoi particolari agli studiosi del periodo. Ma forse non è privo d'interesse il notare come lo stesso Montanelli provvedesse a munire di lettere di raccomandazione per suoi amici influenti i due messaggeri imperiali. Cfr. su ciò la cit. lettera al Corsi (il Pietri – gli scriveva – «è uomo d'ingegno, e di cuore, e ama infinitamente l'Italia, e ci potrà essere molto utile appresso l'imperatore... per le opinioni che dovranno prelevare nel periodo di riordinamento»). È probabile, del resto, che anche al Guerrazzi, il quale vide il Pietri a due riprese (Lettere, Carducci, Livorno 1880, II, pp. 445, 452), costui fosse stato presentato dal Montanelli.



215 Lettera cit. del Montanelli al Corsi.



216 Candidatura contro la quale, come è ben noto, il principe stesso si dichiarava allora in termini inequivocabili, tanto da sospingere il governo fiorentino a proclamare senz'altro l'annessione al Piemonte. Carteggio Cavour-Nigra dal 1858 al 1861, Bologna 1926, II, passim, e specialmente pp. 209-16.



217 Memorie di Vittoria Giorgini, in Manzoni intimo, Milano 1923, I, 134; Giannelli, Cenni autobiografici e ricordi politici, Milano 1926, pp. 217, 363. Del principe Napoleone, in realtà, il Montanelli non sapeva per allora che poco o nulla, e col suo entourage, a Livorno o a Firenze, non aveva il benché minimo contatto. Notizie molto generiche intorno a lui e al contegno dei toscani a suo riguardo non gli pervenivano che da qualche privato corrispondente, come il Masi (il noto emigrato romano, suo compagno d'esilio), che da Firenze invidiava la nobile vita del campo scelta dal Montanelli. (Cfr. la sua lettera al Montanelli, 7 giugno in B. L., c. 37, i. 1128; «il 1848 – costui gli scriveva in un accesso di amarezza – non è titolo a noi, ma peccato originale!»).



218 Lettera cit. a Pallavicino.



219 L'opuscolo, già cit., recava la data di Acqui, 22 maggio, e si pubblicava «a benefizio dei volontari toscani».



220 Lettera cit. al Michelet.



221 Il reggimento operava il trasferimento in data 2 giugno (De La Varenne, op. cit. p. 680), il Montanelli lo seguiva il giorno appresso, come resulta da un foglio di via allora rilasciatogli (B. L., c. 40, i. 2259)



222 Cit., R. R.



223 Giorgini a Ricasoli, 7 giugno, in Lettere e documenti del barone Ricasoli, a cura di Tabarrini e Cotti, Firenze 1887 sg., III, p. 90. Cfr. anche, ivi, la lettera 19 giugno del Lambruschini: «Qualunque cosa si dica e si faccia, sarà di noi quel che Napoleone III crederà ben fatto e vorrà».



224 Sulla cui attività politica nel '59 troviamo ben pochi ragguagli nel vol. di Puccioni, Vincenzo Malenchini nel Risorgimento Italiano, Firenze 1930.



225 Mariscotti, Il prof. G. Montanelli e gli esclusivi, Firenze 1861, p. 106; Pini, Lettere di un elettore di S. Miniato ad alcuni suoi amici, San Miniato 1861; Marradi, G. Montanelli e la Toscana dal 1815 al 1862, Roma 1909, pp. 136-37 (è, quest'ultima, l'unica biografia che fin qui sia stata scritta del Montanelli; giacché non si possono onorar di tale titolo precedenti opericciuole apologetiche. Ma quante lacune anche in questa e come malamente inquadrata la figura del Montanelli nella storia del suo tempo! Sulla azione politica da lui svolta nel '59 i dati forniti sono, in particolare, assolutamente inadeguati).



226 R. R.



227 Cfr. queste istruzioni col programma tracciato dal Montanelli nella cit. sua lettera 21 giugno al Pallavicino: «Il mio programma è: a) Regno d'Italia. 2) Vittorio Emanuele capo costituzionale del regno (non toccando questioni di capitale). 3) Codice Napoleone. Quand'anche il regno d'Italia non dovesse per ora comporsi che dell'alta Italia e della Toscana sarebbe un fatto immenso». Occorrerà comunque dare al nuovo Stato «tale una prevalenza unitaria da ridurre gli altri Stati a un satellizio che li costringa a fondersi o piú presto o piú tardi nel regno d'Italia».



228 Dal colloquio imperiale egli aveva ricavato la netta impressione che, se Napoleone teneva «molto a lasciare in Italia tracce delle istituzioni francesi... non aveva tenerezze dinastiche per i suoi». Lettera cit. al Pallavicino.



229 Cosí il Pini, op. cit. Sostenendo su questo come su molti altri punti l'inverosimile, il Pini (come anche il Mariscotti) finí col nuocere positivamente al suo eroe, se non altro provocando acide repliche da parte dei suoi informatissimi detrattori.



230 Nei suoi appunti inediti il Montanelli pone in relazione, infatti, la missione Aquarone col proclama di Milano dell'8 giugno; d'altra parte, l'Aquarone scrive già una prima relazione al Plezza, da Firenze, l'11 del mese.



231 Questa lettera (B. L., c. 2, i. 721) reca soltanto la data «domenica 12»; ma nel '59 una domenica 12 non cadde che nel mese di giugno. Un breve estratto ne fu pubblicato dal Pini, op. cit., ma con la data evidentemente erronea 12 luglio.



232 Parecchie lettere del Montanelli al Morandini, intimissimo suo (nella giornata di Curtatone, egli si era fatto prendere prigioniero per non abbandonarlo), si trovano nella Biblioteca del Risorgimento, Firenze.



233 Il «Monitore Toscano», organo ufficiale, recava d'altronde nel numero del 9 giugno un editoriale, che venne assai notato, nel quale si accennava alle legittime speranze della costituzione di una nazione italiana, deplorando per contro le «chiacchiere» di fusioni e di autonomie.



234 Pini, op. cit., p. 14.



235 Quest'altra lettera del Montanelli al Pallavicino si trova, inedita, nel Museo del Risorgimento di Torino, 165, n. 188.



236 Appunti inediti cit.



237 Figlio di primo letto della moglie del Montanelli, il Parra, pressoché coetaneo del Montanelli, gli fu sempre esemplarmente devoto.



238 Adriano Biscardi, livornese, fu probabilmente il piú intimo e costante amico del Montanelli, del quale divise sempre le idealità politiche.



239 Rubieri, Storia intima della Toscana, Prato 1861, pp. 389-90. Il «Monitore Toscano» dell'8 giugno invitava la cittadinanza e sottoscriverlo.



240 Della Torre, op. cit., pp. 137 sg.; Zobi, Cronaca degli avvenimenti d'Italia nel 1859, Firenze 1859, I, pp. 379-82.



241 Nessun accenno in essi al «re d'Italia», ma solo al magnanimo campione dell'indipendenza, ecc. Cfr. «Monitore Toscano», 11 giugno.



242 Salvagnoli a Cambray-Dignv, 25 giugno 1859 in Carteggio politico Cambray-Digny cit., pp. 120-22.



243 Baccini, Carteggio politico del conte e della contessa Cambray-Digny, Firenze 1910, pp. 58-60.



244 «Non ho bisogno d'avvertirti che per ora la mia mano nel programma unitario toscano non si deve conoscere», scriveva il 21 giugno il Montanelli al Pallavicino (brano omesso nelle Memorie del Pallavicino).



245 Baccini, op. cit., pp. 45-46.



246 Ibid., pp. 48-50.



247 Ibid., pp. 50-52.



248 Al Nocchi, 3 giugno e in altre lettere, Carteggio politico cit., pp. 90 sg. e Baccini, op. cit., p. 52.



249 Il testo, veramente reca «Mazzini», ma è evidentemente un errore che noi crediamo di poter correggere con «Malenchini».



250 Carteggio politico cit., pp. 108-10. Cfr. anche Cambray-Digny a Corsini, 24 giugno: «Ho avuto la certezza che i vecchi nomi del '49 incominciano a farsi vivi», p. 124.



251 Baccini, op. cit., pp. 50-52. Su questo punto, del resto, le citazioni si potrebbero moltiplicare, ma senza pro. Il 18 giugno il Cambray-Digny scriveva da Torino: «Se la Toscana deve pronunziarsi per l'unione, qui si vorrebbe che lo facesse legalmente per mezzo di indirizzi spontanei dei municipi, piuttosto che tumultuariamente, ma soprattutto non si vorrebbe che la Toscana venisse a sollevare questioni gravi come quella del papa e di Napoli», pp. 56-58. Un consiglio, questo, del quale il Ricasoli, non aveva davvero bisogno.



252 «Non ho veduto l'indirizzo, so che è stato molto modificato, giacché il primo progetto era avversissimo al governo attuale», scriveva la contessa Cambray-Digny al marito fin dal 16 giugno. Ibid., pp. 48-50.



253 L'influenza del Montanelli si potrebbe forse ravvisare nelle deliberazioni prese dal municipio di Lucca, ostentatamente improntate a un francofilismo accentuato. Cfr. il «Monitore Toscano», 29 giugno 1859.



254 Puccioni, L'Unità d'Italia cit., pp. 74-75; Valeggia, G. Dolfi, Firenze 1913, p 36; Zobi, op. cit., I, pp. 379-81; Rubieri, op. cit., pp. 390-91; Doria, Carteggio cit., p. 659.



255 Cfr. per tutti il Lambruschini nella lettera 28 giugno al Cambray-Digny. Carteggio politico cit., p. 137-39.



256 Puccioni, L'Unità d'Italia cit., pp. 78-79; Carletti, La Fusione, Firenze 1859, pp. 22-24; Rubieri, op. cit., p. 166.



257 Ond'è che lo stesso Montanelli, redigendo, alcuni mesi piú tardi, per conto, sembra, di quel suo comune, un indirizzo a re Vittorio (B. L., c. 40, i. 2222), ne sottolineava con orgoglio il primato patriottico e unitario.



258 A Livorno vennero raccolti oltre 20 000 voti, 6000 a Pisa, ecc. Sulla autenticità di queste cifre qualcuno sollevò i suoi dubbi; il Lambruschini, ad esempio, parlò senza ambagi di firme false (nella cit. lettera al Cambray-Digny).



259 Ricasoli a Ricci, 22 giugno: «Una sola parola non mi piace (nella formola senese), ed è annessione; convien preferire l'altra: unione. Le due parole annessione, fusione, non rappresentano il concetto d'un'Italia una e forte». Puccioni, L'Unità cit., p. 81. Sulle preferenze unitarie del Montanelli, cfr. anche Cambray-Digny a Corsini, 20 giugno, in Carteggio politico cit., p. 99; ivi anche (pp. 120-22) accenni al Salvagnoli.



260 Occorrerà far luce, comunque, sugl'indubitati contatti che l'Aquarone ebbe, a Firenze, col Salvagnoli: per ora cfr. Diario Massari cit., p. 390.



261 Fors'anche perché il Plezza, nel frattempo, era decaduto dal suo ufficio di commissario regio ad Alessandria.



262 Diario Massari cit., p. 409; Carteggio politico Digny cit., pp. 157-58.



263 Baccini, op. cit., pp. 62, 72. Ulteriori accenni all'Aquarone, trasferitosi a Torino, ibid., pp. 76, 97.



264 Onestamente il Cambray-Digny aggiungeva però che della confusione regnante in Toscana tutti erano un poco responsabili nessuno eccettuato. Da allora in poi non ci si doveva occupare che della guerra, «e finché parlano di guerra e vanno alla guerra applaudiamo anche il Montanelli e compagnia». Baccini, op. cit., pp. 94-95.



265 Lettere e documenti cit., III, p. 140. Di questa disapprovazione imperiale si era già fatto autorevole interprete il Pietri: al quale il Salvagnoli aveva «detto che il governo non c'entrava» (nell'agitazione unitaria). «Menzogna», prorompeva il Tabarrini, 21 giugno, nel suo inedito Libro di ricordi: Puccioni, L'Unità cit., p. 74.



266 Lettera autografa nella Biblioteca Nazionale di Firenze, Nuovi Acquisti, 588: senza data, ma, dal contesto, sicuramente attribuibile a questo periodo.



267 Le parole fra parentesi non figurano nel testo, ma è da supporsi che siano state omesse nella trascrizione.



268 Marradi, op. cit., pp. 242-44.



269 «Chi parla adesso di fusione e d'unità italiana... è un traditore della patria», scriveva la contessa Digny il 26 giugno. Baccini, op. cit., p. 87.



270 Il 1° e 2° battaglione dei Cacciatori partirono per Piacenza l'11 giugno; un secondo scaglione non giunse invece a Piacenza che il 21. Il Montanelli partí certamente col primo scaglione unitamente al Malenchini, comandante del 1° battaglione. Il 18, infatti, il Cambray-Digny, alludendo a lui, lo diceva a Piacenza; e il 19 lo vide in questa città «un povero prete» che portò i suoi saluti al Verdi, a Busseto: Cori, Galeotti, Mari e Montanelli. Commemorazione, Firenze 1913, p. 35.



271 Dieci anni di esilio avevano ridotto allo stremo l'esiguo suo patrimonio; le vicende processuali di una eredità contestata avrebbero reso indispensabile e urgente il suo ritorno a Fucecchio.



272 Cfr., ad esempio, Perrens a Montanelli, 11 agosto 1839, in B. L., c. 45, i. 898.



273 Lettera cit. nel Museo del Risorgimento, Torino. Cfr., della stessa data, anche l'altra lettera, cit., nelle Memorie del Pallavicino.



274 Il discorso del Montanelli nella Lente, Firenze, 27 luglio 1859; cfr. anche (Provenzal), Alla cara memoria di Giuseppe Montanelli, Livorno 1862, p. 34, e le patetiche informazioni del Bourbon del Monte, in De La Varenne, op. cit., pp. 682-83.



275 Cosí, il 26 del mese, s'incontra col Kossuth, di passaggio per Piacenza. Kossuth, Souvenirs et écrits de mon exil, Paris 1880, p. 285. È verosimile che il Montanelli s'incontrasse altresí con l'Ulloa, giunto a Reggio, con i volontari toscani, il 24 e col Pallieri, commissario regio a Parma.



276 I Cacciatori degli Appennini giungevano infatti a Milano il 4 luglio, e a Sondrio l'8.



277 Troviamo questa minuta di lettera, non datata, in B. L., c. 40, i. 2239. È presumibile però che il Montanelli la scrivesse appunto da Piacenza.



278 Il quale venne ben presto chiamato, come si sa, a prendere il comando dei Cacciatori degli Appennini.



279 Cfr. le Memorie di Garibaldi, redazione definitiva, Bologna 1932, p. 387; e De La Varenne, op. cit., p, 666.



280 Cenni biografici cit.



281 Lettera inedita cit., al «Monitore Toscano».



282 Pini, Lettera cit., 15: si trattava di affari concernenti i Cacciatori.



283 L'Impero, il Papato cit., p. 3.



284 Un brano delle istruzioni impartitegli dal Garibaldi, in Pini, op. cit., p. 15: «Nelle lamentazioni dirette al governo ed al quartier generale del re si deve osservare che non vi sia gesuitismo, tendente a gettare la discordia tra genti che devono rimanere concordi ad ogni costo... Che vi sia tregua, o che diavolo si voglia, non tralasciamo di fare l'esercito italico grosso, grossissimo».



285 Lettera cit., al «Monitore Toscano».



286 Pini, Elogio storico del professor Giuseppe Montanelli, San Miniato 1862 e Lettera di un elettore cit., passim.



287 Garibaldi a Mordini, 17 luglio: «Io diedi già la mia adesione al Montanelli circa le idee vostre, che sono le mie. Aspetto dal suddetto mi dica qualche cosa». Rosi, Il Risorgimento italiano e l'azione di un patriota cospiratore e soldato, Roma 1906, p. 176.



288 Anche il Massari partiva per Torino col medesimo convoglio. Diario cit., p. 419: «Entro nel vagone e veggo Montanelli (infausto augurio), che entra in un altro. Chi sa cosa va a rimestare questo imbroglione!» (sic!)



289 Lettera cit. al «Monitore Toscano».



290 Lettere e documenti Ricasoli cit., III, p. 156; Bianchi, Storia della diplomazia cit., VIII, pp. 536-38.



291 Col Bianchi, direttore del «Nazionale», il Montanelli si era tenuto in assidui rapporti nel primo periodo del suo esilio.



292 Cfr. il telegramma del Bianchi al Boncompagni, 15 luglio, ore 4 pom., in Lettere e documenti Ricasoli cit., III, p. 157.



293 Lettera del Bianchi al direttore del «Monitore Toscano», 26 gennaio 1861: col Montanelli «non si parlò se non di armamenti».



294 Chiala, Lettere di Cavour, Torino 1884, III, p. CCXXIII.



295 Kossuth, op. cit., pp. 317-18.



296 «Presentatosi al palazzo reale vestito dell'assisa dei Cacciatori, si accorse (il Montanelli) esser preso in sospetto, ma dato ad un uffiziale il suo nome, fu all'Imperatore annunziato. Esso lo fece tosto passare». Redi, op. cit., p. 62.



297 Cavour a Lamarmora, 16 luglio, in Chiala, op. cit., III, pp. 110-11; Tivaroni, L'Italia degli italiani, 1883, II, pp. 114-15.



298 Lettere e documenti Ricasoli cit., II, p. 158.



299 Al Pepoli l'imperatore aveva detto: «Se l'annessione valicasse gli Appennini l'unità sarebbe fatta, e io non voglio l'unità, voglio l'indipendenza soltanto».



300 Redi, op. cit., pp. 62-63.



301 Pini, Elogio cit., pp. 21-22; Lettera cit., pp. 10-11 (qui per altro il Pini avverte che «le parole dell'augusto personaggio non possono tutte essere riferite»).



302 Mariscotti, op. cit., pp. 117-18. Diario Massari cit., p. 421: «Napoleone III ha veduto stasera anche Montanelli! Gli ha parlato del voto popolare: è proprio l'uomo degno di stare a paro con quel figuro (sic!) del Montanelli».



303 Tale quella contenuta in una lettera del La Farina al Franchi, 24 settembre '59 (Epistolario La Farina, Franchi, Milano 1869, II, pp. 209-10), secondo la quale subito dopo il colloquio il Montanelli avrebbe dichiarato al La Farina «che bisognava insistere per l'annessione della Toscana al Piemonte, che eravamo tutti d'accordo, che bisognava fare in modo che la deliberazione dell'assemblea toscana riuscisse all'unanimità» (ma se l'assemblea toscana era ancora in mente Dei!) Dunque l'imperatore avrebbe spinto il Montanelli sulla via delle annessioni?! Il lettore tenga presente che nel settembre del '59 il La Farina era divenuto fierissimo avversario del Montanelli.



304 «Monitore Toscano», Firenze, 29 gennaio 1861.



305 «Monitore Toscano», 26 gennaio 1861.



306 Lettera del Mariscotti nel «Monitore Toscano», 29 gennaio 1861.



307 È vero che gli amici francesi del Montanelli, che erano quasi tutti dei democratici fieramente antinapoleonici, non avevano mancato di metterlo in guardia contro il pericolo del riporre eccessiva fiducia nell'imperatore: cosí, ad esempio, il Perrens; ma non fu se non molti mesi piú tardi che il Montanelli dovette rimpiangere di non avere prestato loro piú ascolto!



308 Sulla soddisfazione dimostrata dal Bianchi per questa assicurazione del non intervento e sulla sua costernazione per il veto alle annessioni, cfr. le contrapposte asserzioni del Bianchi stesso e del Montanelli nelle citate lettere pubblicate sul «Monitore Toscano», 26 e 29 gennaio 1861.



309 Cit. lettera del Bianchi al «Monitore Toscano».



310 Cfr. il Montanelli nella cit. sua lettera inedita al «Monitore Toscano»: «al governo da lui (dal Bianchi) rappresentato io non poteva non palesarmi amico, e desideroso di cooperazione, quando c'incontravamo sulla medesima via».



311 Vedila in Lettere e documenti Ricasoli cit., III, pp. 167-68.



312 Lo stesso Massari, tanto severo col Montanelli, si prese di lí a poco la bella responsabilità di dichiarare allo Hudson, ministro inglese a Torino, il quale lo aveva interpellato a nome e per conto del suo ministro degli esteri, che a suo giudizio i toscani avrebbero accettato sul trono granducale la dinastia borbonica di Parma! (Diario cit., p. 458).



313 Questo brano di lettera venne dal Montanelli pubblicato – con la data «lunedí luglio 1859» – nella cit. sua lettera al «Monitore Toscano», 29 gennaio 1861. Senonché essa non può essere che di lunedí 18 luglio, giacché il lunedí precedente la missione da affidarsi al Montanelli era ancora fuor di questione, mentre il lunedí successivo il Montanelli si trovava già a Firenze.



314 Lettera cit. del Montanelli al Ricasoli, 18 luglio.



315 Il 17 luglio il Garibaldi era ancora all'oscuro dei resultati di quelle trattative, come dimostra la citata sua lettera al Mordini.



316 Il Montanelli dovette lasciare Torino il giorno 18 (data della sua lettera al Ricasoli), giungendo in serata a Bergamo (annotaz. sul suo foglio di via cit.).



317 Puccioni, Malenchini cit., p. 85. La lettera del Garibaldi reca invero l'indirizzo del Montanelli a Torino, ma il Montanelli stesso, nella cit. sua lettera inedita al «Monitore Toscano», scrive: «Tornato al q. g. di Garibaldi ebbi da lui una lettera...»



318 Cfr. le annotazioni delle varie tappe del viaggio, iniziatosi a Brescia il giorno 20, nel foglio di via cit.



319 Lettera inedita cit., al «Monitore Toscano».



320 Il Pepoli venne sostituito il giorno 23 dal Cipriani, nominato commissario straordinario per la Romagna; ma il Montanelli che col Cipriani era in grave urto già da piú anni, non ebbe contatti che col primo.



321 Lettere e documenti Ricasoli cit., III, pp. 170-72.



322 Pini, Lettera cit., p. 11.



323 Il 28 luglio Fucecchio lo accoglieva con commoventi dimostrazioni di affetto. Fra le carte montanelliane in B. L., c. 40, i. 2262, si conservano, fra l'altro, due epigrafi stampate in quell'occasione in suo onore. L'annunzio di queste onoranze che si preparavano al Montanelli aveva dato sui nervi al Ricasoli: «Vedrai pure come, in mezzo ai nostri pensieri, si pensi da quegli sciocchi di Fucecchio di fare sciocchezze al ritorno di Montanelli. La risposta del governo non può essere dubbia, ma dev'essere dignitosa»: cosí il barone al Salvagnoli, il 23 di luglio (Doria, Carteggio cit., p. 687). Sembra dunque che la comunità di Montanelli avesse richiesto l'adesione del governo alle onoranze al Montanelli: questo, invero, era troppo pretendere!



324 Guerrazzi, Proemio all'appendice degli scritti politici, Milano 1861, p. 24. Onde il Guerrazzi al Corsi, 30 luglio: «Sento che Montanelli comparso riconciliavasi con gli emuli: di ciò non lo biasimo, anzi lo lodo» (Biblioteca Nazionale di Firenze, Nuovi Acquisti, 588).



325 Carteggio politico cit., pp. 198-99.



326 Che un movimento napoleonista si fosse dichiarato a Firenze assai prima del ritorno del Montanelli, sarebbe invero superfluo attardarsi a dimostrare. Basti qui citare, a riprova, l'opuscolo anonimo L. Napoleone dopo l'11 luglio 1859 uscito per le stampe, a Firenze, pochissimi giorni dopo l'armistizio.



327 Lettera inedita cit., al «Monitore Toscano».



328 Op. cit., pp. 67-68; cfr. anche Pini, Lettera cit., p. 11.



329 Lettera cit. al «Monitore Toscano», 26 gennaio 1861.



330 Lettera al «Monitore Toscano» in data 30 gennaio 1861, pubblicata il 2 febbraio seguente.



331 Cfr. Bianchi, Matteucci e l'Italia del suo tempo, Torino 1874, p. 282 e passim; Diario Massari cit., pp. 445, 451, 466; Della Torre, op cit., pp. 230-31; Carteggio politico Digny cit., p. 191.



332 Come ben sapeva e, per parte sua, deplorava il Malenchini, che lo scongiurava a voler ulteriormente riflettere su quell'essenziale problema: cfr. la sua lettera 30 luglio al Montanelli, in Puccioni, Malenchini cit., pp. 92-93.



333 Capponi a Matteucci, 29 luglio, in Lettere di G. Capponi e di altri a lui raccolte e pubblicate da A. Carraresi, Firenze 1882-90, III, p. 279.



334 Lettera cit,, 6 agosto, al Massari; anche in una successiva lettera del 23 agosto al Peruzzi, il Cambray-Digny accennava alla possibile, ma non provata attività plonploniana del Montanelli. (Carteggio politico cit., p. 206).



335 Secondo il Peruzzi (al Ridolfi, 2 agosto, in Poggi, op. cit., III, p. 88) il Walewski, ministro degli esteri francese, gli avrebbe segnalato l'attività plonploniana svolta dal Montanelli a Firenze e dal Matteucci a Torino, aggiungendo che il ministro francese a Firenze non aveva mancato di «richiamare» il Montanelli e che questi aveva ammesso di «non poter affermare che tale (cioè favorevole alla nota candidatura) fosse realmente la volontà imperiale». Ma cosa si può onestamente desumere da questa apertura del Montanelli, se non che le voci a carico del Montanelli erano giunte fino all'orecchio del ministro di Francia? In linea di fatto l'unico dato positivo riguardante il Montanelli è costituito, ci sembra, dalle sue dichiarazioni a discarico dell'Imperatore.



336 Lettera cit, del La Farina al Franchi, 24 settembre 1859.



337 Diario cit., pp. 460-61.



338 Lo schema di discorso in R. R.



339 Cfr. del resto anche gli Schiarimenti elettorali del Montanelli stesso, cit.: dove, riferendosi appunto al periodo successivo a Villafranca, egli scriveva che gli era parso meglio, allora, «circoscrivere la rivoluzione ad acquisto di libertà unificatrice sotto guarentigia della Francia, che aspirare ad unica monarchia abbandonata alle sole sue forze. E mi pareva che le autonomie del centro e del mezzogiorno, governate da uomini di parte nazionale unite col Piemonte in sodalizio militare, politico, economico, rappresentate in un Parlamento comune, potessero tanto bene provvedere alle unificazioni necessarie all'indipendenza, per lo meno quanto l'unità emanuelliana».



340 Redi, op. cit., pp. 69-71. Lo stesso Redi ci assicura che questo suo progetto venne dal Montanelli trasmesso all'imperatore a mezzo di uno dei suoi amici, fatto partire espressamente per Parigi. «Da questa missione, il 20 ottobre, venne fuori la lettera dell'imperatore al re Vittorio Emanuele». Degno di fede questo racconto? Chi sa. Certo che in quella lettera l'imperatore, se affacciava l'idea di una amministrazione separata per il Veneto, prospettava pur sempre la restaurazione granducale in Toscana e il riconoscimento di Modena alla duchessa di Parma!



341 Pini, Lettere cit., p. 11.



342 Malenchini a Montanelli, 10 agosto, in D'Ancona, op. cit., p. 312.



343 Nelle sue Memorie il Garibaldi scrive che il Montanelli e il Malenchini, reduci dal loro giro nell'Italia centrale, sarebbero venuti a sollecitare la sua accettazione: «Quando io risposi a Montanelli, che marcerei senza indugio..., egli m'abbracciò commosso». In realtà il solo Malenchini si recò in quella occasione dal Generale, il quale, scrivendo, dovette confondere l'incontro col Malenchini in agosto con quello col Montanelli il 20 luglio. Secondo il Puccioni, Il Risorgimento cit., p. 95, sarebbero stati, invece, il Malenchini e il Cempini a suggerire al Ricasoli l'idea della lega militare e del comando a Garibaldi; ma la testimonianza del generale rende al Montanelli quel che gli spetta.



344 Il De Reiset (Souvenir, Parigi, 1902-903) giungeva a Firenze il 10 agosto; otto giorni piú tardi il Poniatowski.



345 Il Planat de la Faye, che al Montanelli non perdonava d'aver dissentito dal suo Manin, in una lettera da Parigi, 27 agosto, all'Ulloa (Doria, op. cit., p. 61), insinuò che il Montanelli «scontento di non essere nulla e di vedersi screditato in patria, intrigasse col Poniatowski in favore del granduca decaduto». Accusa ingiuriosa e gratuita che neanche i piú fieri nemici del Montanelli osarono pronunziare! Per quanto avesse avuto, in passato, rapporti con lui (non lo aveva forse nominato, nel novembre del '48, ministro toscano a Parigi?) sembra infatti che il Montanelli non vedesse neanche il Poniatowski durante la sua breve e ingloriosa permanenza a Firenze.



346 Perfino il Bianchi dovette ammettere, sia pure a denti stretti, che al lusinghiero incarico il Montanelli preferí il posto di deputato all'assemblea. (Lettera cit. al «Monitore Toscano»); cfr. anche Mariscotti e Redi, op. cit. Ancora il 29 luglio, del resto lo stesso Peruzzi segnalando, da Parigi, il contegno ostile al governo toscano di una parte della stampa francese, scriveva al Ricasoli: «A me pare che adesso un giornale che propugnasse la causa dell'Italia centrale sarebbe utilissimo...; consiglierei di profittare delle disposizioni del Montanelli che dicono desideri di venire qui a lavorare nella stampa per la causa italiana: e ciò mi scrive anche il Matteucci. Mi pare che cosí fareste un viaggio e due servizi». Lettere e documenti Ricasoli cit., III, p. 186. Cfr. anche Poggi, op. cit., III, p. 98. Ma il Ricasoli, come si sa, era sfavorevole a questo progetto giornalistico: Ibid., p. 94.



347 Cfr. la lettera del Fabrizi, prefetto di Livorno e un tempo amico e collaboratore del Montanelli, al Ricasoli, 25 luglio, in Lettere e documenti Ricasoli cit., III, pp. 182-83. Il Rosso, Lettere inedite di G. Mazzoni ad A. Vannucci, Torino 1905, p. 27, scrive addirittura che il Montanelli, nel '59, tentò «di rimettere fuori la sua proposta di una Costituente», ma non sappiamo dove abbia pescato questa notizia del tutto infondata.



348 Della Torre, op. cit., p. 283; Poggi, op. cit., III, pp. 78 sg. Del resultato complessivo delle elezioni si rallegrava il Massari: «Sono tutti liberali; ma mi spiace vederci il Montanelli: lui che è per Napoleone!». Diario cit., p. 464.



349 Cfr. Malenchini a Montanelli, 10 agosto, cit.; e Garibaldi a Montanelli, 15 agosto, in D'Ancona, op. cit., p. 314.



350 Pasolini, Memorie, Torino 1887, I, p. 310.



351 Poggi, op. cit., III, pp. 100, 104; Morpurgo-Zanichelli, Lettere politiche di Ricasoli, Peruzzi, Corsini e Ridolfi, Bologna 1898, pp. 95-96. Il Peruzzi, del resto, doveva buscarsi i rimproveri del suo governo per non essersi mostrato abbastanza risolutamente contrario al disegno, attribuito appunto al Montanelli, di una reggenza napoleonica nell'Italia centrale.



352 Poggi, op. cit., III, pp. 123-24; Morpurgo, op. cit., pp. 141-42.



353 Carteggio inedito Tommaseo-Capponi, Bologna 1911-32, IV (2), pp. 176-78.



354 Mazzini, Scritti editi ed inediti, Edizione nazionale, Imola, LXIII, p. 317.



355 È noto come il periodo del massimo favore per quel progetto fosse a Parigi quello che andò dalla metà di agosto alla fine di settembre del '59. Verso la metà di ottobre tanto il principe che l'imperatore mostrarono per chiari segni di aver definitivamente rinunziato ad ogni speranza in proposito.



356 Diario Massari cit., p. 479, Peruzzi a Galeotti, 24 agosto, in Morpurgo, op. cit., pp. 97-105, Vincenzo a Bettino Ricasoli, 28 e 30 agosto, in Sapori, Dalla rivoluzione del 27 aprile all'annessione, Firenze 1926, pp. 39, 42. Che tra il Sarda Garuga e il Montanelli corressero effettivamente dei rapporti è dimostrato da una lettera del primo al secondo, in data 10 settembre, inclusa in altra del Biscardi, che trovasi in B. L., c. 7, i. 1497.



357 Fra le carte del Montanelli abbiamo trovato tracce di cordiali ma generici suoi rapporti epistolari col Farini; di piú intimi e seguitati, invece, con 1'Albéri: questi ultimi meritano di venire esaurientemente chiariti.



358 Un incidente caratteristico: il 13 agosto un giornale fiorentino, l'«Indipendenza», stampava, desumendolo da un foglio piemontese, il seguente trafiletto: «L'imperatore Napoleone fece un gran bene verso all'Italia centrale con l'ammonizione severa data al Montanelli di cessare da ogni propaganda in favore del principe figlio di re Girolamo». Il Montanelli non si lasciò intimidire: «Ricorro al suo pregiato giornale – scrisse al direttore della «Nazione» – per dichiarare pretta menzogna quanto sul conto mio fu riferito dall'«Indipendenza» (cfr. «Nazione», 17 agosto). Dopo di che, l'«Indipendenza» si affrettò a lasciar presa, gettando la responsabilità della informazione sul confratello piemontese. A che si riferiva la smentita del Montanelli: alla pretesa ammonizione imperiale, o piuttosto alla pretesa propaganda da lui svolta? Non si capisce bene. Quel che è evidente si è che la tattica del Montanelli consisteva allora nell'impedire che un'eventuale candidatura napoleonica potesse venir definitivamente pregiudicata: bisognava tenere in piedi anche quella possibilità, pur senza promuoverla attivamente.



359 A questo impegno del Montanelli di fronte all'imperatore fecero allusione i deputati toscani recatisi in missione a Torino, durante il loro colloquio col Cavour, 3 settembre '59: poco caritatevolmente aggiungendo che il Montanelli stesso definiva il Cavour «una donna isterica». Il Giorgini, anzi, avrebbe specificato (cosí il Massari nel suo Diario cit., pp. 493-494) avere il Montanelli «a lui per tre ore spifferato che con Plon-Plon farebbe in Toscana un esperimento di principato democratico-sociale». All'onesto Giorgini crederemmo senz'altro: ma ad un Giorgini raccontato dal Massari siamo proprio tenuti a prestar fede piena?



360 Per le dichiarazioni da lui fatte in quella occasione (egli considerava la concorde designazione del principe di Carignano da parte delle diverse assemblee dell'Italia centrale un passo decisivo verso la formazione di quel nuovo Stato che avrebbe facilitato l'ulteriore unificazione della penisola tutta) cfr. Assemblee del Risorgimento. Toscana, III, Roma 1911, pp. 727 sg.



361 D'altronde il Montanelli era persuaso che Napoleone III sarebbe stato in ogni caso costretto a rifiutare la corona dell'Italia centrale per il cugino, né piú né meno come Luigi Filippo aveva dovuto rifiutare quella belga offerta a suo figlio. Ma gli sembrava che la semplice offerta della reggenza o del trono sarebbe bastata ad assicurare la neutralità benevola della Francia agli ulteriori sviluppi della rivoluzione italiana nel centro e nel mezzogiorno. «Mi si potranno citare parole animate da cotali intendimenti – scrisse nella cit. lettera inedita al «Monitore Toscano» – ma sfido a provare, o che io spendessi in senso favorevole alla candidatura del principe Napoleone la parola imperiale, o che muovessi la benché minima pratica per sostenere che quando pure s'avesse a rinunziare all'unità fosse da preferire nel regno centrale il principe Napoleone a un principe della casa di Savoia... Prima che la reggenza del principe di Carignano fosse proposta mi era stata fatta parola di reggenza che il principe Napoleone avrebbe accettato... d'accordo col re Vittorio Emanuele. Certo io non avrei combattuto cosiffatto partito».



362 Cfr. a questo proposito i particolari datici dal Brofferio di un colloquio ch'egli ebbe col Montanelli, a Firenze, sui primi di settembre (Una visita all'Italia centrale, estratto da I miei tempi, Italia 1860, pp. 75-84). Si tenga presente che il Brofferio, pur amico e in qualche misura compagno di lotta politica del Montanelli, dissentí apertamente dal suo atteggiamento nella questione delle annessioni: ciò che aumenta valore alla sua testimonianza.



363 Questa proposta venne approvata per alzata e seduta: due soli deputati, i cui nomi non figurano nei resoconti ufficiali, non si alzarono: sembra proprio che uno di essi fosse il Montanelli (cfr. Poggi, op. cit., I, pp. 211-12).



364 Di queste discussioni segrete non sappiamo che ben poco (cfr. in particolare Carletti, op. cit., 140-46). Ma forse fu in questa occasione che il Montanelli sottopose ai colleghi due sue proposte di voto (per un indirizzo all'imperatore Napoleone e per una riunione plenaria di tutte le assemblee dell'Italia centrale), le cui minute si trovano fra le carte montanelliane in B. L., c. 40, i. 2248.



365 Cfr. le considerazioni svolte dal Montanelli in una lettera ad un suo ignoto corrispondente (forse il Farini?), evidentemente del marzo o aprile 1860, in B. L., c. 40, i. 2234.



366 Sosterranno, sí, gli apologisti del Montanelli (Mariscotti, op. cit., p. 125; Pini, Lettera cit., p. 12) che il Ricasoli gli fu personalmente riconoscente per l'astensione dal voto; tanto che glielo mandò a dire, a nome del governo, a mezzo del Menichetti. Ma non si può dire davvero che, nel seguito, il barone adeguasse a riconoscenza il suo atteggiamento verso il Montanelli.



367 Op. cit., p. 314.



368 Cfr., ad esempio, le allusioni anche troppo scoperte della «Nazione», 22 agosto.



369 Verso la fine d'agosto, ad esempio, l'agenzia Stefani comunicò ai giornali (cfr. L'«Indipendenza» del 29) che gli elettori di Fucecchio erano scontentissimi dell'atteggiamento assunto dal loro deputato. Informazione notoriamente infondata: a Fucecchio la parola del Montanelli era vangelo addirittura!



370 Montanelli ad un giornalista francese, il Morin, novembre 1859 (B. L., c. 40, i. 2234): «Quiconque ne partage pas les illusions des annexionnistes est calomnié somme réactionnaire... Nous n'avons pas de liberté. Le parti annexionniste a confisqué à son profit toutes les armes de la presse... Dans la Toscane ainsi que dans toute l'Italie centrale nous vivons sous le règne le plus dictatorial... Dans nos assemblées on a tout organisé d'une façon à empêcher qu'une parole libre puisse se faire entendre».



371 Cosí enorme parve quella esclusione che non mancarono contro di essa veementi proteste. Cfr., ad esempio, Vessillo della libertà, Vercelli, 11 ottobre 1860; e Unità Italiana, Firenze, 14 ottobre 1860. Non fu se non nella primavera del '62, caduto il Ricasoli, che il Montanelli, ormai sull'orlo del sepolcro, poté ottenere dal Matteucci, ministro dell'Istruzione nel gabinetto Rattazzi, l'estrema soddisfazione di vedersi reintegrato nell'insegnamento universitario.



372 A sentire il Menichetti, che fu eletto in sua vece, nel gennaio del '61, nel suo collegio natío, dopo una lotta d'indicibile asprezza, lo stesso Cavour, poche settimane prima di morire, avrebbe testualmente dichiarato: «Alla Camera, meno Montanelli, ci sono tutti coloro che hanno contribuito a fare l'Italia. Mi disse anche che ne avrebbe combattuto a oltranza la candidatura» (Puccioni, Il Risorgimento cit., p. 249). Senonché converrebbe conoscere a quali confidenze del Menichetti facesse seguito questo sfogo del gran conte!



373 Memorabile fra tutti la serie di articoli sull'Ordinamento nazionale, pubblicati sulla «Nuova Europa», Firenze, nel 1861-62: al loro uscire nessuno li notò o parve notarli; salvo che, morto il Montanelli, pensarono gli amici a raccoglierli in opuscolo, sotto quel titolo (Firenze 1862): e allora se ne fece gran caso!





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