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Nello Rosselli
Saggi sul Risorgimento

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  • III. La Destra storica
    • Presunte passività.
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Presunte passività.

Abbiam visto, nelle sue linee essenziali, l'attivo raggiunto dai governi della Destra. C'è un passivo?

Altro che. Secondo taluni anzi esso soverchierebbe di gran lunga l'attivo. Unità? Sí, ma a spese delle distrutte autonomie locali383 e spargendo a piene mani germi di pericoloso malcontento. Pareggio? Sí, ma con danno gravissimo anzi irreparabile dell'economia nazionale e mercé una politica di grettezze, inintelligente e arbitraria384. (Nel 1870 l'illustre Cialdini scagliava in faccia al ministero le sue dimissioni dall'esercito, motivandole con le economie eccessive che all'esercito appunto si erano volute imporre: «monumento della nostra politica insufficienza»; economie fino all'osso che «tagliano nervi, arterie, muscoli al corpo cui sono applicate, e lo lasciano quindi senza moto e senza vita»). Politica estera debole e incerta385; interna, scorretta, e oscillante tra una sconfinata libertà e una ingiustificata reazione. Politica scolastica? Senza larghe vedute e con risultati inferiori all'universale attesa. Scarso impulso alle magnifiche possibilità del Nord, annientamento di quelle del Sud. Nessun grande principio nuovo da opporre a quello, nei primi tempi necessariamente nemico, millenario e augusto, proclamato dal Vaticano.

I fatti noti, e quel che è diventata l'Italia, e alcune considerazioni che sarà opportuno svolgere in seguito dimostrano l'infondatezza sostanziale di tali riserve, le quali tutte si spiegano peraltro col desiderio paradossale, ma umano, dei contemporanei di veder la nuova Italia di fresco liberata dai ceppi della dominazione straniera e dello spezzettamento, balzare alla testa delle nazioni civili, e col rimpianto e quasi la vergogna dei posteri che ci volessero tanti anni per renderla pari a quelle, pari soltanto e non mai superiore. Mirabile in realtà è il ritmo di progresso che la Destra seppe imprimere in tutti i campi alla vita del paese; ed è proprio in quel ritmo ancor meglio che nel dettaglio delle opere compiute che va ravvisato il suo merito precipuo.

Altri invece, pur riconoscendo le tremende difficoltà incontrate e superate dalla Destra, le rimproverò e rimprovera quel che si potrebbe dire, e che essa veramente in un certo senso si propose e attuò, imborghesimento della rivoluzione, soffocamento cioè di un processo ideale sotto motivi prosaici, prevalentemente economici: acquisto e non conquista di Roma e della Venezia, prudente e ingloriosa guerra del '66 e finalmente Aspromonte e Mentana, prove supposte di una deplorevole inadeguatezza di fronte al sognato coronamento romantico, eroico dell'epoca del Risorgimento386.

Come se la dote essenziale degli uomini di Stato non fosse, per dirla con parola di moda, il tempismo: quel loro spontaneo e immediato adeguarsi, cioè, al mutare di talune profonde esigenze della vita del paese, contro le quali è follia lottare. Come se, in concreto, la Destra non si fosse trovata, nel '61, di fronte a una Europa arcigna, pronta a disfar l'Italia al primo suo barcollamento o segno di immaturità. Come se non fosse stato piú che necessario, urgente sottrarre gli Italiani a quell'atmosfera di irrealtà, di fantasia, di improvvisazione che produce in un certo istante i miracoli (o quelli che tali appaiono), ma è, nel tempo, creatrice prima di irrequietezza e di delusioni, e dunque di improduttività. Come se lo spettacolo di un paese che, non appena costituitosi a nazione, tra le piú straordinarie vicende, si impone e segue un regime di vita severo e produttivo, che della nazione gli dia, oltre che il nome, la fisionomia e l'interiore aspetto, non fosse il piú straordinario ed «eroico» che possa vedersi.

Quanto poi alla guerra del '66 e ad Aspromonte e Mentana, le facili critiche che a quegli episodi si muovono rivelano un doppio errore di valutazione assoluto e relativo (relativo appunto alle necessità del tempo).

 






p. -

383 Contro l'accentramento se la prende Jacini – che lo dichiara ineluttabile fino al '66; ma dopo perniciosissimo. «L'accentramento amministrativo trae dunque con sé per necessaria conseguenza l'accentramento delle discussioni in Parlamento di ogni piú piccolo incidente» (Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 24).

In sostanza Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, vorrebbe tornare (1870) al progetto delle regioni che forse fu bene rigettare nel '61, ma che ora s'impone. Dieci anni di rigido accentramento eran forse necessari date le condizioni del paese; e ora gioveranno come correttivo del regionalismo. Jacini vince l'obiezione che si fa, della diversa prosperità delle varie regioni, dicendo che niente impedirebbe da parte dello Stato un equo calcolo di dare e avere fra l'erario nazionale e le singole regioni.

Curioso che Jacini, il quale propugna il suffragio universale a doppio grado per le elezioni politiche, voglia invece il suffragio ristretto per i corpi regionali «per schivare che il medesimo collegio racchiuda un contrasto naturale e permanente di interessi locali»?! (p. 98).

Il progetto di riforma di Jacini è caratterizzato da un governo piú forte, attraverso il modo di elezione dei deputati e la limitazione delle loro competenze, e da un grande discentramento amministrativo, reso possibile appunto dalla esistenza di un governo forte.

Rattazzi, in una lettera a Vittorio Emanuele, 1860, ricordando le tradizioni del mezzogiorno raccomanda «pas de hâte enragée de trop administrer et d'une façon préconçue, pas de zèle dans l'unification. Voilà le danger contre lequel nous allons peut-être nous heurter...» (Rattazzi et son temps, pp. 537 sg.).

Ricasoli (sul principio del '62) operò alcune riforme amministrative, nel senso del decentramento.



384 Jacini, Pensieri sulla politica italiana, p. 39, lamenta che – dopo il '66 – non si sia voluto parlare di riforma amministrativa (che tra l'altro avrebbe sanato il Parlamento) perché incombeva il problema finanziario. E non si capí che quella avrebbe facilitato la risoluzione di questo.



385 Vedi parafrasata (e smontata) questa accusa in Jacini, Pensieri sulla politica italiana, p. 70. Molti lamentano che il Piemonte facesse piú grande politica estera del regno d'Italia e si domandano: «L'esperienza non ci insegna forse che una politica intraprendente e inframettente è quella che ci conviene? Eravamo intraprendenti e inframettenti da piccini, perché ora, divenuti grandi dovremmo cessare d'esserlo?» La risposta è contenuta nel capitolo sulla Megalomania politica in Italia nel citato volume di Jacini (un piccolo Stato può arrischiare e poi, eventualmente, ritirarsi, cedendo all'intimazione di una o piú grandi potenze. Una grande potenza non potrebbe senza gravissimo danno sottoporsi a quest'onta ecc.). Lo stesso, pp. 26 sg., dice che la posizione internazionale d'Italia dopo il '66 era meravigliosa e che il principale assunto del suo governo in politica estera avrebbe dovuto essere il mantenimento dello status quo europeo.

1869, accuse della Sinistra al governo perché ha pagato (in oro) alla Francia il debito pontificio per le province occupate, giustificando quel che scrive la stampa cattolica, ossia con quel pagamento l'Italia riconosce di essersi appropriata dei beni altrui. Fu debolezza? O necessità? (Rattazzi et son temps, II, pp. 303 sg.).



386 La critica che fa Jacini, Pensieri sulla politica italiana, pp. 28 sg., è che se fu giusto che dal 1860 al 1866 i problemi di politica interna restassero subordinati a quelli della estera, male fu che dopo il '66 non si invertissero i rapporti. E che in sostanza, dopo il '66, auspici la megalomania e lo pseudo parlamentarismo, si sbagliò l'indirizzo politico.





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