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Nello Rosselli
Saggi sul Risorgimento

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  • III. La Destra storica
    • Aspromonte e Mentana.
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Aspromonte e Mentana.

Non dunque la guerra del '66 al passivo. Aspromonte?394. E Mentana? Se la prima fu l'esame di stato della nuova Italia, Aspromonte fu quello di maturità – quello di maturità soprattutto per gli uomini di governo (e analogamente Mentana). Fin da principio, per fortuna, tali uomini ebbero, né mai piú smarrirono, quella sensazione cui già si è accennato, che l'Europa avrebbe rispettato l'Italia solo se questa fosse riuscita a far dimenticare i suoi torbidi natali e si fosse imposta una politica normale, prosaica395, stroncando inesorabilmente qualunque tentativo di garibaldinismo in azione.

Si accusa generalmente di doppiezza e peggio chi non seppe prevenire Aspromonte o Mentana; si osserva che se il governo non intendeva appoggiare questi tentativi, avrebbe dovuto soffocarli al loro primo disegnarsi. E non s'intende che, se in qualche dettaglio la politica italiana del 1862 e del 1867 non è da approvarsi, come quella che – per dirla con espressione volgare ma efficace – troppo mostrò la corda, nell'insieme, nell'ordito, fu savia e opportunissima. Bisognava infatti far capire all'Europa che c'era in Italia un governo abbastanza forte per contenere tutti gli estremismi, ma insieme dare la sensazione della popolarità grande goduta dagli estremismi (e quasi d'un loro continuo e minaccioso e male evitabile sovrapporsi al governo); e quindi della necessità e della urgenza che si lasciassero risolvere con mezzi legali i problemi apparentemente impostati e infiammati dalla piazza396.

Apparentemente. Poiché nessuno nutriva in Italia piú vivo il desiderio e piú acuto sentiva il bisogno di completare l'unità italiana che gli uomini responsabili della Destra. E forse il loro problema massimo fu appunto quello di suscitare con ogni mezzo nel paese quel desiderio e quel bisogno, e insieme di far apparire che fosse il paese a suscitarli, anzi a imporli al governo397. (Quanto e quanto inutilmente faticò Rattazzi nel '62 per far scoppiare a Roma una rivolta «spontanea»!398). Giuoco complicato e pericoloso che riuscí quasi sempre a meraviglia399.

E per ciò vanno rivalutati in pieno gli uomini meno popolari della Destra, i quali debbono la loro fama non invidiata all'essere rimasti scoperti, e a volte anche malamente scoperti400, nell'esecuzione di questo giuoco, onde ne vennero loro facili contumelie e facili recriminazioni, non dei soli contemporanei. (Novembre 1862: alla Camera, discutendosi e palleggiandosi le responsabilità di Aspromonte, un deputato della Sinistra chiede addirittura che il gabinetto Rattazzi venga messo in stato d'accusa!)401.

Ma, si dirà, fu il loro giuoco cosciente? O non piuttosto, fidenti nella fortuna, si lasciarono quegli uomini della Destra governare da una serie di elementi contrastanti e inconciliabili, quali ad esempio gli umori di una piccola minoranza rumorosa e faziosa e la granitica volontà determinata402 delle grandi potenze, abbandonandosi ora in braccio a quelli passivamente e ora, per obbedire a questa, violentandoli e additandoli alla generale esecrazione?

Se ad alcuno saltasse in mente di dire a un uomo il quale, su fragilissima imbarcazione, abbia saputo a gran forza di remi reggersi su un mare tempestoso, evitando sapientemente gli scogli onde è cosparso, che la sola fortuna lo ha assistito e che egli, tra i marosi, non sapeva quel che si facesse, noi lo terremmo, giustamente, per uno che non conosce il mare. In verità non conosce la politica chi può sostenere che gli uomini della Destra, pienamente consapevoli dei dati contraddittori della loro politica, non governarono, ma si lasciarono governare.

Si osservi che sarebbe bastato un passo falso a compromettere il tutto e a svelare troppo sfacciatamente la commedia che s'andava rappresentando in faccia al mondo, d'un governo che di nascosto spinge e poi grida d'esser trascinato403; sarebbe bastato un nulla a rovesciare l'equilibrio fittizio ma sufficiente che per dieci anni o quasi si riuscí a mantenere tra le forze apparentemente armoniche e quelle apparentemente disarmoniche. Per dieci anni; ora, se è possibile che in un dato momento un uomo di Stato, incerto sul da farsi, venga assistito da un singolare colpo di fortuna, sarebbe stolto attribuire al caso una politica decennale, ferma e immutabile nelle sue volute apparenti incertezze. (Quanto a me io non credo neppure al colpo di fortuna. Si dice: il tale è fortunato perché, in dubbio tra vari partiti, ha scelto, senza troppa riflessione e senza conoscerli ben tutti, proprio quello che si è poi rivelato il migliore. Ma l'uomo non rinasce e non si riforma innanzi a ciascun problema che turba la sua coscienza. Tutta la sua esperienza anteriore, e l'istinto, che non è in buona parte che un derivato incosciente di tale esperienza, lo assistono inavvertitamente quando egli agisce).

Ma torniamo ad Aspromonte e a Mentana e diciamo pure, per quanto strana possa suonare tale affermazione, e quasi irriverente, che costituirono anch'esse un successo della Destra404, quanto doloroso e sofferto, non è chi non sappia. Si doveva fermare Garibaldi sulla via di Roma, e a volte i garibaldini e perfino il loro duce finsero di non intenderne le ragioni, ma bisognava pure che Garibaldi – ossia l'incarnazione della esasperata e indocile volontà popolare, quale in parte fu, e in parte assai maggiore si volle far credere che fosse – sulla via di Roma si avviasse. E ci si avviò due volte, e la prima fu arrestato dagli schioppi italiani, l'altra dai piú efficaci e moderni francesi. Tutte e due le volte, pur nell'ansia e nel lutto, l'Italia sentí che si era avvicinata in effetto all'agognata meta e che ormai, con quel sangue versato, se l'era meritata anche di piú, Roma.

Russia e Prussia riconobbero il regno solo dopo Sarnico, che fu il prologo di Aspromonte405. Palmerston scriveva a Russell, presidente del Consiglio dei ministri d'Inghilterra – il quale opinava, 6 ottobre 1862, che nessun ministro italiano avrebbe potuto condursi meglio di Rattazzi (lettera a Hudson, 6 ottobre) – che gli pareva che questo «Garibaldi affair» offrisse una ottima opportunità per chiedere con qualche energia, a Napoleone se non gli pareva giunto il momento di sgombrare Roma. E il governo italiano, a carico del quale i Nicotera e compagni sbraitavano perché, dopo aver dato prove non dubbie di incoraggiamento a Garibaldi, lo aveva trattato poi d'improvviso come un nemico, poteva, il 10 ottobre, valersi di Aspromonte per scrivere alle legazioni all'estero che se gli era riuscito di dominare il movimento insurrezionale, bisognava pur riconoscere che la parola d'ordine dei volontari era stata questa volta «l'espressione di un bisogno piú imperioso che mai». Quello stesso governo che prodigava segretamente armi e denari per suscitare ovunque la passione di Roma, poteva, ancora, valersi di Aspromonte per domandare in tono di seria preoccupazione se le potenze avrebbero mai compreso «quanto sia irresistibile il movimento che trascina la nazione verso Roma»406.

Risvegliare le masse, farne udire all'estero la poderosa voce – e insieme tener con mano ferma il timone e non farselo strappare di mano: ecco il punto difficile che la Destra seppe brillantemente superare. L'Italia voleva esser grande e pari in civiltà ai piú potenti paesi d'Europa: non spedizioni irregolari, dunque, e confusione di poteri e salti nel buio e dittature opposte alla solenne indiscussa e suprema autorità e volontà regia – tutte cose che s'eran viste nel '60, ma allora l'Italia non c'era, né c'era un esercito italiano né un re italiano; e del resto s'erano anche allora troncate e liquidate in fretta e furia, forse con ingratitudine, certo con somma virtú politica e scienza dei frutti amari che competono a un paese il quale vuole imporsi nel mondo civile e nel tempo stesso ignora o fa mostra d'ignorare che la compostezza, la dignità, l'ordine, il rispetto delle proprie leggi sono il presupposto della civiltà e la condizione dell'altrui rispetto.

Sí, noi vogliamo andare a Roma – disse Ricasoli in Parlamento, il 10 luglio 1861 – ... Ma come dobbiamo andarci?... Non con moti insurrezionali, intempestivi, temerari, folli, che possano mettere a rischio gli acquisti fatti e compromettere l'opera nazionale...

 






p. -

394 Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 67, dice in sostanza che Rattazzi fu rovesciato nel '62 «per aver osato mantener forza alla legge ad Aspromonte». Mi pare un'interpretazione un po' futurista.



395 Sviluppare questo punto. Jacini, Pensieri sulla politica italiana (1889), sviluppa benissimo, in contrapposto a certe pretese di megalomania, una linea di politica estera misurata attiva e proficua. In sostanza noi dovremmo convertire il valore virtuale che ci viene dal possesso della piú splendida posizione nel Mediterraneo, in valore effettivo. «Non corriamo dietro alle fantasticherie. Egli è restituendo il manto delle foreste alle nostre Alpi ed ai nostri Appennini denudati, prosciugando le sterminate paludi... sviluppando le nostre risorse interne, migliorando i nostri porti, la nostra navigazione, la nostra attività, agraria, industriale e commerciale...; rinforzandoci e consolidandoci in casa nostra, che avremo fatta la miglior politica estera del Mediterraneo».



396 Il discorso Rattazzi, 18 dicembre 1867, è volto a dimostrare che il governo fece quanto poté per impedire l'arruolamento dei volontari, ma che questi andavano spontaneamente, alla spicciolata alla frontiera, senza armi, ecc. Insomma, il discorso vuol dimostrare che il governo è incapace di dominare un movimento cosí vasto e spontaneo e da tutti appoggiato.

Settembre 1867, Rattazzi fa dire da Nigra a Napoleone che la popolazione di Roma ha una attività rivoluzionaria e che l'Italia si troverà forse nella necessità d'intervenire per salvare l'ordine, il Vaticano, ecc. Risposta di Napoleone 4 ottobre (attraverso Nigra): non crede allo spirito rivoluzionario in Roma e si riserva ogni decisione.

Rattazzi è stato mal servito anche dai suoi apologisti. Rattazzi et son temps, II, p. 184, dice che a un certo punto Rattazzi lasciò fare Garibaldi nel '67, forse perché aspettava «de la leçon que Garibaldi allait recevoir de la main des Français la vengeance de tous les maux que l'héroïque aventurier lui avait causés».



397 Rattazzi, 18 dicembre 1867, parla dei volontari che alla frontiera pontificia riescivano a sottrarsi alla vigilanza delle truppe italiane anche perché favoriti dalle popolazioni. (?!...)



398 Vedi Rattazzi et son temps, II, p. 172. Ma i romani in fondo si contentavano del governo bonaccione dei preti e non si muovevano, col pretesto di non creare imbarazzi al governo italiano. Avevano una matta paura dei garibaldini!



399 Che fosse terribilmente complicato risulta dalle stesse imbarazzate dichiarazioni di Rattazzi alla Camera, il 18 dicembre 1867, là dove dice che siccome in Italia non ci sono leggi di repressione preventiva, cosí nessuno poteva, innanzi Mentana, impedire ai garibaldini di propagandare l'imminenza della convenzione di settembre.



400 Contraddizioni del discorso Rattazzi, 18 dicembre 1867. L'arresto di Garibaldi a Sinalunga fu forse anticostituzionale, ma una necessità politica. Poco oltre: lo stesso arresto prova che il governo è uguale di fronte a tutti e non rincula mai dinanzi alla legge.



401 Fu il deputato Sirtori. Ma in Rattazzi et son temps, pp. 630-31, si dice che dopo qualche mese si constatò che era pazzo.

Su Rattazzi però bisogna andare a fondo: lettera sua a Vittorio Emanuele, 1861: «Ce n'est pas non plus le moment, il me semble, de songer à Venise ni à Rome, même par allusion, comme le but final de la révolution que nous venons d'accomplir. A chaque jour sa tâche. Le tour de Venise et de Rome viendra dans un quart de siècle peut-être» (Rattazzi et son temps, pp. 187 sg.).



402 Scrive il marchese di Villamarina (ex ambasciatore sardo a Parigi) al Morelli, autore di uno Studio politico su Rattazzi: «Nel 1867 Napoleone III aspettava con una certa impazienza l'annunzio del fatto compiuto rispetto a Roma... fu un momento solo, ma quel momento non ci è mancato, se avessimo voluto e saputo approfittarne. Ignoro se Rattazzi fosse consapevole di ciò quando voleva passare il confine, e trovò opposizione fra gli stessi suoi colleghi del ministero; ma ripeto, che se egli fosse stato meno compiacente nell'accettare nel suo gabinetto uomini le cui idee e le cui aspirazioni non erano in perfetta armonia con le sue sarebbe riuscito con sua lode e con plauso utile della patria» (Petruccelli della Gattina, Storia d'Italia, P. 183).



403 La stessa commedia, in certa misura, si giuocò ancora nel '70, quando – dopo Sédan – il governo italiano non si decide ad andare a Roma se non in seguito alle petizioni di varie città papali, che chiedono l'occupazione italiana per troncare l'anarchia che già infierisce. Il gabinetto voleva aver l'aria di farsi forzar la mano!



404 Il vero insuccesso di Mentana fu per Napoleone. Al quale Pepoli scriveva (credo sul principio del '67) incitandolo a facilitare l'andata dell'Italia a Roma: «L'alleanza italiana poi è pure di qualche peso. Fra non guari, la spada del nostro esercito peserà anch'essa sulla bilancia dei destini di Europa. Io non so immaginare che V. M. respinga il concorso dei suoi piú fidi amici per appoggiarsi su Roma...»

Il principe Napoleone a Sainte-Beuve, 15 dicembre 1867, deplorando la politica di Napoleone III: «... restando a Roma noi perdiamo un alleato devoto ed utile, il frutto della guerra 1859 – e tutto ciò pel potere temporale del papa!» (ibid., p. 32).



405 Dietro sollecitazioni e assicurazioni di Napoleone – dice Rattazzi alla Camera. La Russia soprattutto in grazia delle misure rigorose prese da Rattazzi contro i Polacchi della scuola militare di Cuneo, che abusavano dell'ospitalità italiana; la Prussia per mostrar la sua indipendenza dall'Austria e in seguito a una nota insolente di Rechberg.



406 Circolare cit. alle legazioni. Questa circolare di Durando urtò Napoleone, che fece scrivere L'Europe et la Papauté, ripresentando la vecchia sua idea della federazione in Italia.

Pepoli, ministro, dopo Aspromonte andò a Parigi e vide Napoleone: «... non gli dissimulai la verità: disapprovai le parole e gli atti di Garibaldi, formulai la speranza che avremmo dominato la situazione, ma non dissimulai che ciò avremmo fatto con grande scapito delle nostre proprie forze... che vinto Garibaldi, ci saremmo trovati a fronte delle idee di Garibaldi piú gagliarde di prima e che il governo per tal vittoria ottenuta avrebbe assunto l'obbligo di sciogliere la questione romana in breve spazio di tempo; anzi, se avesse mancato a quest'obbligo egli sarebbe miseramente perito...» (Petruccelli della Gattina, Storia d'Italia, pp. 8 sg.).

Ibid. (Pepoli all'imperatore). «Ma che debbo dire al re?» Imperatore: «Che sia forte; che tenga salda in sua mano l'autorità». Io: «Sí! Ma Egli mi dirà: che V. M. fece il 2 dicembre per salvare la Francia dal socialismo, ma che dopo, per consolidarsi, fece del buon socialismo». Imperatore: «È vero». Io: «Ebbene, il re, dopo aver domato Garibaldi, è forza faccia del buon garibaldismo... che vada a Roma contro chiunque...»

Benedetti, Ma mission en Prusse, pp. 245 sg., suppone che Bismarck incoraggiasse il partito d'azione italiano nella marcia su Roma per metter male tra Francia e Italia.





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