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Nello Rosselli
Saggi sul Risorgimento

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  • IV. Origini del movimento operaio in Italia
    • 4. Di una storia da scrivere e di un libro recente
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4.
Di una storia da scrivere e di un libro recente

 

La storia del movimento operaio in Italia negli anni che corrono dalla morte di Mazzini alla fondazione del partito socialista (1892) è ancora da scrivere: e sarebbe un lavoro di prima importanza e, direi, necessità. È vero che sull'argomento noi disponiamo di una bibliografia vastissima: vecchie storie dell'Internazionale, memorie documentarie e aneddotiche, biografie e autobiografie, pubblicazioni di propaganda degli anarchici, dei socialisti, dei repubblicani, qualche monografia di carattere regionale, qualche studio obiettivo sulle organizzazioni economiche, e via discorrendo; ma il tentativo di radunare le sparse membra, di superare la cronaca, di basare solidamente una sintesi, e non è stato compiuto o è stato compiuto senza adeguata preparazione, e, forse, troppo presto. Licenziando nel 1927 il mio Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-72), scrissi un po' alla leggera che a quel primo studio avrei fatto ben presto seguire un altro volume che avrebbe condotto il filo della narrazione «almeno fino alle soglie del secolo XX». Svariati motivi m'impedirono poi di tener fede a quella promessa, ma certo il piú serio sarà stato quello che non ero ancora maturo a un'opera di cosí vasto respiro, né sufficientemente distaccato dalle cose di quel tempo per poter affrontare un'esposizione obiettiva. Preferii piuttosto indagare la preistoria del nostro movimento operaio e rifarmi alle fonti italiane e premarxiste del pensiero socialistico. Per chiarire l'azione politica e sociale svolta dall'ultima generazione nata nel clima preunitario occorreva d'altronde penetrare assai piú a fondo ch'io non avessi potuto fare fino allora il modo della sua formazione spirituale, e con quali premesse e con quali finalità, e, da ultimo, con quali residui essa avesse partecipato alla fase conclusiva del processo unitario italiano. Di dove venivano, cosa avevano operato, quali esperienze positive e negative avevano attraversato nei loro giovani anni gli uomini della prima Internazionale, i continuatori del «socialismo» mazziniano, i primi cooperativisti, i primi apostoli del verbo marxista? Fino a qual punto la loro nuova attività obbediva a profonde esigenze della vita italiana, fino a qual punto invece a sollecitazioni dall'esterno?

Era giusto il loro assunto che lo Stato italiano, quale si era venuto concretando sotto il governo della Destra, non rispondeva alle mete proposte da coloro che piú avevano contribuito alla sua formazione e che perciò proprio ad essi aspettava l'imporne una radicale trasformazione? Cosa c'era di vero nella formola da essi usata della «delusione» provata dalle «masse» pei risultati dell'unità? Altrettanti interrogativi ai quali bisognava rispondere meditatamente e non già ad orecchio, ricalcando schemi consunti.

Ho l'immodestia di ritenere che questi dieci anni d'infedeltà al tema primamente propostomi non siano da considerarsi, in questo senso, interamente perduti; d'altra parte l'approfondimento notevole che gli studi di storia del Risorgimento hanno registrato da ultimo ha senza dubbio giovato a maturare i problemi storici posti dalle vicende italiane dell'ultimo trentennio del secolo XIX. La prima storia del movimento operaio in Italia può inoltre solidamente basarsi, ormai, sulle ricerche d'archivio; possibili, a tutt'oggi, solo fino al 1867, ma in certi casi, forse, prolungabili fino ad anni piú prossimi a questi nostri. E non verrà voglia, ad esempio, di rettificare la narrazione, che fin qui si è fatta del primo diffondersi dell'Internazionale nell'Italia del sud, in base ai dossiers della questura napoletana che di recente son stati segnalati e ordinati? Non penserà qualcuno a estendere siffatte ricerche negli archivi di Firenze, di Milano, di Torino? Dei primi processi contro l'Internazionale non si conoscono, fin qui, che gli atti di accusa e le sentenze, oltre alle poco attendibili versioni degli interessati: non vorremo adesso compulsare addirittura le filze processuali?

C'è molto da lavorare, dunque, in questo campo; e in certo senso occorre affrettarsi se vogliamo valerci delle testimonianze dei pochi superstiti fra i veterani della vecchia organizzazione operaia, e in altro senso occorre procedere con molta cautela e andare a rilento prima di trar conclusioni. Da lavorare per chi, come me si proponga di dare un seguito, ormai, a un'opera bene o male già avviata, e per chi intenda incominciare daccapo e con diversi criteri; abbandonando tutti la rotta indicata da precedenti «storici» per segnarci una via nuova attraverso ricerche di prima mano. Cominciano ad essere possibili, ad esempio, certe biografie critiche di un Cafiero, di un Costa, e – perché no? – di un Malatesta o di un Cipriani; e si potrebbe studiare la prima Internazionale sui suoi innumerevoli giornaletti di propaganda, se non addirittura tentare la storia della stampa sovversiva in Italia dal '70 in poi; anche si potrebbero studiare i rapporti di filiazione e d'incrocio fra i vari partiti e gruppi: come si passi, che so io, dalla «Plebe» alla «Critica sociale», da Bignami e Gnocchi Viani a Turati e alla Kuliscioff; e quale sia stato, in concreto, l'apporto del mazzinianismo con la sua tradizione e la sua pratica cooperativistica al sindacalismo socialista. O anche la storia del movimento operaio, nelle sue varie fasi, in una singola città, o regione: Milano socialista, ad esempio, dai tempi del «Gazzettino rosa» fino al tramonto del partito operaio. Bellissimo tema, in particolare, sarebbe la storia di un piccolo centro provinciale che abbia sentito, per tempo, l'influenza o il contraccolpo della propaganda socialistica: un tema che potrebbe venire affrontato dagli studiosi di provincia (i quali lamentano, nel loro isolamento, di non poter lavorare) col semplice ausilio, il piú delle volte, della biblioteca e dell'archivio comunale. Bisognerebbe cominciare col rendersi conto di quale fosse, agli albori della vita unitaria, la costituzione sociale del paese prescelto: proporzioni fra i vari ceti, rapporti reciproci, risorse locali, condizioni economiche e morali della classe lavoratrice, ecc.; e poi, o prima ancora, ricercare l'atteggiamento assunto dai vari gruppi di fronte ai problemi della organizzazione politica (contributo positivo o negativo o nullo alla creazione dello Stato unitario; stato d'animo della popolazione di fronte alla realizzata unità; divisione in partiti politici; influenza della Chiesa, e via discorrendo); tener d'occhio, a mezzo della stampa locale e di memorialisti paesani – ce ne furono tanti, in Italia, anche in tempi recenti, e son cosí poco sfruttati – o di carteggi particolari, il primo disegnarsi di una organizzazione autonoma fra i lavoratori, e le reazioni da essa suscitate, e l'urto eventuale, in seno ad essa, di tendenze diverse; seguire le successive prese di posizione della classe lavoratrice di fronte a importanti avvenimenti della vita nazionale, e i progressi delle organizzazioni e il loro entrare in rapporto con altre consimili della provincia e della regione; indagare l'effettivo grado di autonomia dei lavoratori organizzati (rapporti con gli intellettuali propagandisti), e, pian piano, le forme e i limiti della loro partecipazione alle lotte politiche e amministrative, e via cosí. La storia di dieci o dodici paesi di provincia, a economia agraria o industriale o marittima, del nord, del centro o del sud, di pianura o di montagna, questa storia, narrata di su fonti autentiche, con scrupolo di verità, senza intenzioni di «rivendicazione», non ci fornirebbe forse un materiale prezioso per la piú grande storia d'Italia negli ultimi tre o quattro decenni del secolo passato?

Pensavo tutto questo, leggendo il primo volume della Vita di Mussolini, di fresco pubblicata, pei tipi Mondadori, da Ivon de Begnac. Son 355 pagine fitte, le quali arrivano al 1902 e nelle quali si parla soprattutto del padre di Mussolini, Alessandro (molto anche della Romagna in genere). Alessandro Mussolini, nato nel 1854, fece, si sa, di professione il fabbro, e fu nella sua Predappio (e, per maggior esattezza, nella frazione di Dovia) uno dei primi e piú attivi operai socialisti: autodidatta, amico devoto e ammiratore del Costa, e del Cipriani – non forse chiamò il suo primogenito, oltreché Benito, in memoria del Juarez, anche Andrea e Amilcare in omaggio ai due idoli della sua giovinezza? –, partecipe, nel '74, a quella «marcia su Bologna», che alcuni anni or sono ha fornito la trama a un buon romanzo italiano; fieramente anticlericale, garibaldino a oltranza come tutti i primi internazionalisti; patriota e nel tempo stesso antimilitarista; propagandista indefesso delle sue dottrine, e perciò carcerato due volte (nel 1878 e nel 1902) e per quattr'anni ammonito (dal 1878 al 1882); attentissimo ai problemi della organizzazione economica: fondatore e capo, nonché di una società dei bevitori, arguto travestimento di un gruppo sovversivo, di una cooperativa di braccianti, e per ciò assuntore di lavori pubblici, e finalmente e per parecchi anni fra gli amministratori del suo comune. Il De Begnac, che è uno scrittore, sa presentarcelo vivo e naturale, il suo personaggio, e con lui la sua Predappio con le sue lotte intestine, con la sua miseria, con le sue insoddisfatte aspirazioni di accrescimento e di potenziamento, nella cornice di quella Romagna eternamente appassionata e violenta, civilissima e sovversiva. Nulla di piú suggestivo e di piú illuminante, per uno studioso dell'età recentissima; nulla di piú comprensibile, s'aggiunga, delle ingenue contraddizioni nella vita e nel pensiero di questo operaio socialista di ceppo repubblicano, il quale, mentre sogna la rivoluzione sociale (e, quando è possibile, la tenta), non per questo si sente meno nel solco della tradizione del Risorgimento; di questo anticlericale nato, il quale pur manda i suoi figli in collegio dai salesiani; di questo estremista intransigente il quale accetta cariche pubbliche; di questo tardo legalitario che, quando le elezioni volgano sfavorevoli al suo partito, non troppo s'adonta che i suoi seguaci fracassino le urne.

Il torto dell'autore (oltre a quello di annegare in troppo colorismo strapaesano, troppe diversioni introspettive un soggetto di tanta umana schiettezza), il torto dell'autore, anzi, è proprio quello di non avere inteso come siano appunto cotali contraddizioni e, con esse, taluni atteggiamenti non ortodossi del suo personaggio, quelli che valgono ad accentuarne ai nostri occhi il singolare interesse, facendone un tipo piú nettamente rappresentativo di un'età e di un costume. Giacché il problema non è davvero quello di rappresentare Mussolini padre come precursore di tempi allora impreveduti e di correnti ideologiche allora inconcepibili; ma piuttosto quello di conferire tanta verità alla sua figura, tanta necessità, direi, alle sue azioni, da farne un interprete fedele e immediato e quasi un simbolo di certe esigenze, di certe aspirazioni, di certi motivi ideali del suo ceto, nell'Italia d'allora. Se nella vicenda di lui noi dobbiamo vedere non solo la premessa e il punto di partenza per il singolare cammino percorso dal figlio, ma anche un poco – come è certamente nei desideri del De Begnac – la storia delle masse operaie e contadine che finalmente entrano, sia pur da ribelli, nella vita della nazione e via via acquistano coscienza dei suoi multiformi problemi, e piú in generale, della immensa distanza che sempre separa ideale e realtà, programma e prassi, ben s'intende come sia erroneo, oltreché inutile, lo stendere un velo su talune sue limitazioni e, talvolta, deviazioni. Tutte le esperienze son necessarie e in ultima analisi preziose alla vita di un popolo, tutte le riconquiste presuppongono un antecedente abbandono, tutte le affermazioni una negazione o almeno un dubbio: tutto sta nel saper ricostruire e tenere realisticamente presente il processo dialettico che lega questi vari momenti con un vincolo reciproco di indispensabilità. È cosí che, ad esempio, io non avrei affatto temuto di riferire integralmente certi passi caratteristici della prosa rivoluzionaria del primo Mussolini: sia le invettive contro i milioni del «povero prigioniero Gioachino Pecci»451, che l'invito ai preti a gettare la «tonaca alla fiamma purificatrice del progresso per indossare il farsetto onorato dell'operaio»452, o il contesto della infiammata corrispondenza «Cos'è il socialismo?» («il socialismo... è la scienza che illumina il mondo..., è una sublime armonia di concetti, di pensiero e di azione che precede al gran carro dell'umano progresso... Diceva un giorno il grande Brunelleschi: datemi un punto di appoggio per la manovella, che io vi solleverò il mondo. Ebbene, diciamo noi, uniamoci tutti pel comun bene e prementi tutti come un sol uomo nella gran manovella – la rivoluzione sociale – daremo l'ultimo colpo a questo mostruoso e crollante edificio...»)453. Il De Begnac addita in Mussolini uno dei pochi socialisti di allora sensibili a un patriottismo monarchico e, per cosí dire, nazionalistico: ma la dichiarazione da lui fatta in consiglio comunale all'indomani del regicidio di Monza («... nel prendere parte al lutto nazionale protestiamo contro l'insulso ed efferrato assassinio commesso contro la vita di un galantuomo, dichiariamo, per essere coerenti ai nostri principî, e per ragioni di partito, di astenerci dalla votazione»)454 non corrisponde forse all'atteggiamento ovunque assunto in quella occasione dai socialisti italiani? Questa figura di popolano serba tutta la sua attrattiva a condizione che se ne rispetti scrupolosamente la primitiva semplicità: orbene, scrivendo che una letterina di Mussolini alla «Lotta» di Forlí per dissuadere il partito dal riunire un congresso a Lugano costituisce «un documento importantissimo per la storia del socialismo in Italia»455, oppure che «se la storia non parla ancora di quest'uomo ciò si deve al fatto che nessuno storico ha ancora scrutato nella vita di Romagna dal 1880 al 1900»456, non si rischia forse di svisare i lineamenti e l'azione di questo ardente e modesto e sincero militante dell'idea socialistica?

Il De Begnac ricorre forse un po' troppo a queste amplificazioni, a queste omissioni: direi, in genere, che ha troppo il gusto della «interpretazione». Perché sorvolare, ad esempio, sulla circostanza, pur nota, che la forlivese «Rivendicazione», cui Mussolini di quando in quando mandò qualche sua cronachetta predappiese (rapporti succinti, quali poteva scriverli, negl'intervalli del suo lavoro, un autentico operaio, non mai articoli veri e propri), era un giornale anarchico rivoluzionario, tra i cui assidui collaboratori figurava un Malatesta?457. Perché, ancora, non affrontare con storica obiettività il problema dell'atteggiamento assunto dai socialisti nostrani di fronte al primo tentativo coloniale dell'Italia d'allora? Pareva a costoro che i partiti di masse avrebbero in qualche modo tradito le loro idealità se, in un paese afflitto da grande miseria, com'era allora il nostro, e quindi dalla impossibilità di risolvere sollecitamente i suoi piú gravi e piú urgenti problemi interni, avessero aderito a una costosa politica espansionista. Il che non implica affatto che i socialisti non amassero il loro paese: lo amavano bensí, ma in quanto si mantenesse fedele a quella bandiera di libertà cui pur doveva il suo costituirsi a nazione; bandiera di libertà alla cui ombra i socialisti italiani avevano, dal piú al meno, militato tutti, nei loro giovani anni, e sarebbero stati pronti ad impugnare ancora le armi, se dall'esterno si fosse comunque minacciato l'integrità nazionale. Garibaldi non era (o almeno non si reputava) dei loro? E quando Oberdan salí il patibolo, non furono i socialisti appunto che meglio ne compresero il disperato gesto e ne onorarono poi, di anno in anno, la memoria?458 Cosí per Crispi: dal fatto che un certo giorno, vista respinta una prima domanda d'impiego presentata al comune di Predappio dal figlio giovinetto, Mussolini gli gridasse, in piazza: «Non ti avvilire, tu sarai il Crispi di domani», non mi sembra si possa senz'altro dedurre che il fabbro rivoluzionario nutrisse qualche inconfessata simpatia pel «gran vecchio». La lettura del «Risveglio», l'altro giornaletto cui Mussolini collaborava in quegli anni, legittima comunque qualche dubbio in proposito.

Questi pochi miei appunti ad un libro, il quale, indiscutibilmente, ha in sé qualcosa di assai stimolante e rappresenta un meritorio sforzo di documentazione in un campo fin qui disertato dagli studiosi, vogliono significare invito all'autore a proseguire nelle ricerche adesso iniziate, raccogliendo ulteriori documenti e ulteriori testimonianze sul protagonista di questo suo primo volume (del quale, del resto, egli ci parlerà di certo anche nel secondo volume: Alessandro Mussolini, infatti, morí nel novembre del 1910, a pochi mesi di distanza dal «suo» Andrea Costa)459. A tale proposito mi permetto di segnalare fin d'ora al De Begnac quei pochi accenni sul Mussolini, a lui sfuggiti, che ho potuto rintracciare fra le mie note:

«Sole dell'avvenire», Ravenna, 30 settembre 1883: corrispondenza da Predappio. Circa la visita compiuta il 12 settembre a Predappio e a Dovia dal Costa; suo discorso di propaganda socialista a Dovia, suo incoraggiamento a partecipare alle elezioni amministrative; grande spiegamento di forze compiuto nell'occasione dall'autorità: «tanta forza quassú era uno spettacolo straordinario; dapprima le donne nostre temevano chi sa che diavoleria, poi risero». La corrispondenza non è firmata: che sia di Mussolini?

«Sole dell'avvenire», 1° dicembre 1883: cronaca del Congresso dei socialisti rivoluzionari di Romagna, riunitosi a Forlí il 18 novembre: tra i delegati figura, per Dovia, Mussolini.

«Rivendicazione», Forlí, 20 novembre 1886: corrispondenza da Predappio firmata da diversi «socialisti di Predappio», non da Mussolini, circa i disordini verificatisi in paese il 23 ottobre (altra, su analogo argomento, a firma Ravajoli, il 29 settembre 1888).

«Rivendicazione», 6 agosto 1887: corrispondenza da Predappio circa la situazione comunale: anche questa non firmata da Mussolini.

«Rivendicazione», 17 settembre 1887: corrispondenza da Predappio circa i funerali del «compagno» Antonio Bartoletti, svoltisi in forma puramente civile («In Predappio o si è socialisti o cattolici; i monarchici o democratici sono pochissimi, ed avvi un sol repubblicano»). È firmata «I compagni».

«Rivendicazione», 7 dicembre 1888: «La Federazione socialista rivoluzionaria di Predappio e sezione di Dovia, liete del felice avvenimento che ha commosso tutti i compagni, vale a dire della liberazione dell'indomito Carlo Cafiero, salutano in lui affettuosamente l'eroe ribelle dei moti di Benevento, e il futuro campione delle lotte economiche. Per la Federazione: Chiadini, Lombardi, Mussolini, Marani, Girelli».

«Rivendicazione», 23 febbraio 1889: lettera aperta a firma «Molti lavoratori di Predappio e comuni vicini per invocare la costruzione di un certo tratto di strada che dovrebbe congiungere la vallata del Rabbi con quella del Savio».

«Rivendicazione», 30 marzo 1889: corrispondenza a firma Mussolini, da Predappio, 18 marzo: «Ieri sera, vigilia della gloriosa rivoluzione parigina del 71, la nostra Federazione socialista nel locale sociale fra molti invitati commemorò il 18° anniversario del comune parigino. Vari compagni pronunciarono discorsi di circostanza e tutti applauditissimi. Si finí inneggiando alla prossima rivoluzione sociale e inviando un saluto all'eroico colonnello del comune, il valoroso rivoluzionario Amilcare Cipriani, glorioso avanzo di tanta grandezza».

«Sole dell'avvenire», 6 luglio 1889: cronaca della riunione del partito socialista rivoluzionario della Romagna tenutasi a Forlí, il 30 giugno: per la federazione di Predappio e Dovia sono presenti Mussolini, Brusaporci e Balducci. Si discute della partecipazione ai due congressi socialisti che si riuniranno a Parigi nel luglio; Mussolini prende parte alla discussione.

«Rivendicazione», 1° maggio 1891: lettera aperta de «Gli operai disoccupati» da Predappio 28 aprile, alla deputazione provinciale di Forlí: domandano lavori pubblici; «è in nome della fame che domandiamo di essere occupati».

«Rivendicazione», 27 giugno 1891: corrispondenza da Predappio, 3 giugno, a firma Mussolini, circa la visita compiuta a Predappio dai componenti la detta deputazione per studiare lavori stradali; gradito ricordo lasciato in tutti, speranze degli operai, ecc.

«Risveglio», Forlí, 31 marzo 1894: corrispondenza da Predappio, 28 marzo, circa l'arresto verificatosi alla domenica dei compagni Capelli, Raggi, Brusaporci, rei di aver cantato l'inno dei Lavoratori; Castagnoli è riuscito a fuggire.

«Risveglio», 10 maggio 1896: corrispondenza da Predappio, non firmata, circa questioni stradali.

«Risveglio», 7 giugno 1896: cronaca del IV Congresso regionale socialista romagnolo tenutosi a Forlí il 31 maggio. Manca qualunque rappresentante di Predappio. In relazione a ciò si noti che in calce alla corrispondenza da Predappio pubblicata il 26 gennaio si legge: «I socialisti di Predappio hanno aderito al partito? [N. d. R.]».

«Risveglio», 29 luglio 1899: cronaca del XXIII Congresso socialista romagnolo tenutosi a Forlí il 23. Manca, ancora una volta, qualunque rappresentante di Predappio.

«Risveglio», 5 maggio 1900: la corrispondenza da Predappio, 29 aprile, non firmata (ma che il De Begnac attribuisce a Mussolini), si occupa anche della bicchierata fatta a Dovia il 1° maggio: «Si inneggiò all'Estrema Sinistra per l'energica lotta che ha sostenuto e sosterrà... e si fecero auguri perché la vittoria finale assicuri l'indipendenza e la libertà al forte popolo boero».

Termino augurando che l'esempio del De Begnac venga seguito da altri: cioè che s'inizi una fervida opera di raccolta e d'illustrazione di documenti spettanti alla storia del movimento operaio italiano negli ultimi trent'anni del secolo XIX.

Dopo la pubblicazione del volume qui segnalato non è da dubitarsi che studi siffatti non abbiano ad incontrare il plauso ed anzi l'incoraggiamento generale.





L'autore di questo articolo sta per pubblicare in volume la prima parte di un suo studio, compiuto nel periodo del suo alunnato alla Scuola di Storia Moderna in Roma, condotto su documenti degli archivi di Londra, Torino, Firenze e Napoli, intorno alla politica svolta dall'Inghilterra in Italia fra il 1815 e il 1847 [Inghilterra e regno di Sardegna dal 1815 al 1847, a cura di P. Treves, Torino 1954]. In questi rapidissimi appunti egli ha inteso di prospettare storicamente il problema dei rapporti Italia-Inghilterra quale si pone fino dal secolo XVII e di chiarire, della politica inglese, le premesse fondamentali e taluni sviluppi piú caratteristici fino alla crisi risolutiva dell'unità italiana. Sia qui detto che la Scuola di Storia Moderna ha cercato, fin dal suo nascere (anno 1926) di promuovere lo studio della storia d'Italia nel piú ampio quadro della storia europea [L'articolo comparve nella «Rivista storica italiana», 1936].

Carlo Alberto principe di Carignano, Firenze 1930. Del seguito, vivamente atteso, di questa pregevole opera è stato pubblicato il volume su Carlo Alberto negli anni di regno 1831-43, proprio mentre si stava ultimando la stampa di quest'Annuario.

Prima di lui nessuno si era preoccupato di consultare, in merito alla questione di Carlo Alberto, i carteggi conservati nel Record Office. Il Vayra (La leggenda di una corona: Carlo Alberto e le perfidie austriache, Torino 1896) si era limitato, a suo tempo, a tradurre – né sempre con esattezza – i dispacci spediti da Verona dal Wellington, i quali erano già stati pubblicati da lungo tempo in Inghilterra.

Un esempio tipico di questa mutevolezza dei diplomatici si ricava, nei confronti di Carlo Alberto, dal dispaccio del ministro inglese a Torino, William Hill, a lord Londonderry, 9 febbraio 1822 (Public Record Office, Sardinia, 65; dispaccio segreto e confidenziale, n. 4), e riguarda la legazione di Francia. Da esso risulta che nel settembre del 1820 la legazione di Francia era contraria al ritorno di Carlo Alberto in Piemonte; in ottobre, invece, lo favoriva; sui primi del '22 vi si manifestava di bel nuovo contraria. Ci auguriamo, fra parentesi, che questo accidentale rilievo non abbia a procurare un nuovo piacere al francese César Vidal, noto studioso del Risorgimento, il quale, scottato per una innocente recensioncina al suo Charles-Albert et le Risorgimento italien (Paris 1930), ci ha fatto l'onore, in un suo successivo volume, di attribuirci (per combatterle, naturalmente) opinioni mai espresse da noi circa Carlo Alberto e la politica della Francia e dell'Austria (Louis-Philippe, Metternich et la crise italienne de 1831-32, Paris 1931, pp. 20 nota c 285). Ci rincresce dover confessare che di questo argomento non ci siamo mai occupati fin qui se non, appunto, per temperare il soverchio zelo francese del signor Vidal.

Nell'indice dei nomi di persone che chiude il volume del Rodolico, il Percy non figura: per un banale errore egli è stato registrato sotto il suo nome di battesimo, Algernon.

P(ublic) R(ecord) O(ffice), Sardinia, 61, n. 9 (a lord Castlereagh). D'ora innanzi, dei dispacci della legazione inglese a Torino daremo soltanto il numero e la data; salvo indicazioni in contrario s'intende che sono tutti diretti a lord Castlereagh (lord Londonderry dall'aprile 1821) e che appartengono tutti alla serie Sardinia, che nel catalogo del Foreign Office reca il numero d'ordine 67. Del Percy si vedano anche i dispacci 13 settembre, 3 e 24 ottobre, 25 novembre, 24 dicembre 1820.

P. R. O., Austria, 151.

P. R. O., Austria, 151. È vero che nei mesi seguenti le informazioni dello Stewart parvero improntate a un maggiore ottimismo: conseguenza dei rapporti giunti a Vienna, da Torino, dal generale Ficquelmont. Cfr. ad esempio il dispaccio Stewart 22 agosto 1820.

P. R. O., Tuscany, 35, dispaccio 2 ottobre 1820.

Cfr. il dispaccio Stewart, Vienna, 8 agosto 1820 (loc. cit.): «Ho trovato il principe (Metternich), oggi, piú visibilmente agitato che mai per l'innanzi circa l'attuale situazione... Egli mi ha comunicato in particolare i suoi allarmi per il Piemonte e mi ha detto che crede il re di Sardegna debole e ondeggiante». Nel seguito il cancelliere austriaco mutò parere circa re Vittorio: ché la sua abdicazione gli parve atto di grande energia (cfr. Mémoires, documents et écrits divers, Paris 1880-84, III, p. 463). Tutto ciò dimostra che ha torto il Webster, autore di magistrali studi sul Castlereagh quando (The Foreign Policy of Castlereagh (1815-22), London 1925, p. 328) scrive che la rivoluzione in Piemonte giunse «inaspettata, per quanto nel 1820 il nord d'Italia fosse stato considerato assai piú pericoloso del sud. Ma per nord si era intesa la Lombardia». Si deve per altro riconoscere che i timori concepiti nel corso del 1820 si acquetarono un poco nei primi mesi dell'anno seguente grazie al cieco ottimismo dimostrato dal San Marzano a Lubiana.

Dispaccio Stuart (ambasciatore inglese a Parigi) a Castlereagh, 22 marzo 1821 (P.R.O., France, 250, n. 84).

Cfr. Webster, Op. cit. , pp. 303 sg., 321 sg. Il Gordon, sostituto dello Stewart alla Conferenza di Lubiana, assicura che il dispaccio circolare del Castlereagh piacque moltissimo al delegato e ministro degli esteri sardo, San Marzano (ivi, 325). In realtà questi scriveva al suo re, il 15 febbraio, che la protesta del gabinetto di Londra «non cambia nulla nel sistema adottato dall'Inghilterra, e non può influire sugli affari generali; essa fornisce solo un testo alle declamazioni dei liberali» (Avetta, Al Congresso di Lubiana coi ministri di re Vittorio, in «Il Risorgimento italiano», 1923, pp. 215-18). Il Percy, a Torino, si sforzava intanto di neutralizzare le conseguenze evidenti della circolare Castlereagh, ripetendo che di essa non dovevano gloriarsi né i radicali inglesi né i liberali francesi né i carbonari italiani (Negri, La rivoluzione piemontese del '21 nel carteggio della diplomazia pontificia, in La Rivoluzione piemontese del '21. Studi e documenti pubblicati dalla Società Storica Subalpina, 1924, II, 469).

Ciò si ricava dai dispacci del conte d'Agliè, e del conte Pollone, da Londra, al San Marzano (l'Agliè, è noto, partí per Parigi e Torino ai primi d'agosto del 1820, e non tornò in sede che molti mesi piú tardi, dopo avere esperito importanti missioni a Lubiana e a Napoli). Il 23 luglio 1820 l'Agliè, rendendo conto di un suo colloquio col Castlereagh, scriveva: «Quanto a noi, egli mi disse che sentiva essere la nostra situazione molto difficile, ed esigere molta prudenza e vigilanza; ma evitò di entrare in particolari» (Bianchi, Storia della diplomazia europea in Italia, II, pp. 307-8. Il Bianchi attribuisce erroneamente a questo dispaccio la data di Parigi). Non si può escludere è vero, che dispacci riservati dell'Agliè o del Pollone manchino dalle filze esibite agli studiosi nell'Archivio di Torino, né che il segreto pensiero del Castlereagh venisse dall'Agliè convogliato oralmente al San Marzano; quel che si può escludere quasi con certezza si è invece che, partito l'Agliè, il Castlereagh si aprisse confidenzialmente col giovane incaricato Pollone.

Cfr. i dispacci Stewart del 21 e 27 dicembre 1820 (loc. cit.) e Castlereagh a Stewart, 19 gennaio 1821 (P. R. O., Austria, p. 158, n. 6).

Tale nomina ebbe luogo in settembre e non nel giugno, come scrive il Rodolico a p. 99. Piú tardi lo Hill riferí che a Torino «molti erano rimasti sorpresi che il re avesse affidato a una persona cosí giovane un posto considerato della piú alta importanza in questo paese» (dispaccio 25 giugno 1821).

Dispaccio Percy 3 ottobre 1820.

Dispaccio Hill 17 maggio 1821: «In realtà l'antipatia del vecchio re (per gli austriaci) era cosí viva che per due anni dopo che essi ebbero evacuato il paese egli non cessò mai di parlare su questo soggetto sia con me che con qualunque viaggiatore inglese io gli presentassi a corte; ora si afferma perfino che, a forza di tenere lo stesso linguaggio dinanzi ai suoi ufficiali, egli abbia in qualche misura determinato quell'animosità che ha tanto contribuito ai recenti avvenimenti».

Dispaccio Percy 8 dicembre 1820.

Istruzioni San Marzano ad Agliè (che è in viaggio per Napoli), Lubiana, 28 febbraio 1821: «Conoscete perfettamente... le vedute e l'opinione del gabinetto di St James, sapete che esso, malgrado la sua neutralità assoluta, è antirivoluzionario» (Avetta, op. cit., p. 246). Il contegno assunto dall'Inghilterra a Lubiana è troppo noto perché occorra riferirne qui.

Narrando che il principe «manda ogni giorno all'ospedale per assumere informazioni sul conto dei feriti e per offrire loro ogni assistenza», il Percy viene a dare piena conferma al racconto del Rodolico (p. 122) contro le risibili fandonie del Brofferio. Cfr. il dispaccio Percy 19 gennaio 1821.

Questa notizia, vera o non vera, non è stata fin qui registrata, ch'io mi sappia, da altre fonti. Dispaccio Percy cit., 19 gennaio 1821.

Dispaccio segreto Percy 6 marzo 1821. Il Percy è già informato di quanto, nelle lettere sequestrate, riguarda Carlo Alberto, qualificato dal principe della Cisterna decisamente inferiore «a siffatta incombenza».

Dispaccio Percy 10, 11 e 13 marzo 1821.

Dispaccio cit. 11 marzo 1821; egli sta per mandare all'uopo un corriere a Napoli quando gli giunge notizia che il re e la regina hanno abdicato e sono partiti per Nizza. Dispaccio cit. 13 marzo 1821.

Dispaccio cit. 13 marzo 1821.

Dispaccio cit. 13 marzo 1821. A Torino e in tutto il Piemonte è diffusa l'idea che l'Inghilterra interverrà militarmente per impedire un'eventuale occupazione straniera. Lo attesta lo stesso Percy (dispaccio 15 marzo 1821): si crede che «qualora la Russia mandasse truppe in appoggio dell'Austria in Italia, la Francia di concerto con l'Inghilterra agirebbe immediatamente contro i dittatori del nord in pro dell'indipendenza italiana». Se ne parla in Lombardia, come dimostra un rapporto 31 marzo della polizia di Como alla direzione di polizia a Milano: i liberali piemontesi vanno spargendo che «gli Inglesi abbiano sbarcato un corpo di truppe per soccorrere i Napoletani» (Colombo, La rivoluzione del 1821 secondo fonti austriache, in La rivoluzione piemontese del 1821. Studi e documenti cit., II 717). Ancora il 13 aprile il Laneri scriveva al sindaco di Savona: «Quindici bastimenti inglesi sono giunti a Genova per sostenerci in questa circostanza» (Luzio, Carlo Alberto e Mazzini, Torino 1923. pp. 31-32).

In due luoghi: a pp. 185-86 e a p. 197, nota.

Segnaliamo qualche punto piú interessante. Nel dispaccio 11 marzo il Percy afferma che Carlo Alberto si è rifiutato di recarsi, conformemente all'ordine di S. M., fra le truppe ribelli ad Alessandria, «adducendo di sapere che lo si sarebbe forzato a mettersi alla testa degli insorti e a figurare cosí d'agire d'accordo con loro». Questa versione contrasta con quella piú generalmente accettata (basata sui Memoriali di Carlo Alberto e sulla testimonianza del Balbo: cfr. Rodolico, p. 157) secondo la quale tale linguaggio sarebbe stato tenuto dal Gifflenga, che Carlo Alberto aveva designato ad accompagnarlo nel viaggio; è confermata però dal ministro d'Austria, Binder (dispaccio 12 marzo 1821 pubblicato dal Rinieri, La rivoluzione in Piemonte. Le società segrete, ecc., nella cit. silloge La rivoluzione piemontese. Studi e documenti, I, pp. 622-23) e dal biografo del conte Revel (Introduction à la guerre des Alpes, ecc., p. XLIV). Nello stesso dispaccio dell'11 marzo il Percy dava circostanziata notizia della convocazione fatta dal re quel giorno stesso degli ufficiali comandanti i corpi armati di stanza a Torino per interpellarli circa l'assegnamento che poteva farsi sulle rispettive truppe. Orbene, questo episodio è stato fin qui generalmente attribuito al giorno seguente, 12 marzo. La testimonianza del Percy, il cui dispaccio – ripetiamo – è datato 11 marzo, sembrerebbe inoppugnabile, a meno che non si pensi (cosa niente affatto inverosimile) che, giacché non tutti i giorni si presentava l'occasione di far partire dispacci, egli figurasse soltanto di scriverli (in quelle gravi circostanze) quotidianamente; e che in realtà li scrivesse tutti insieme, salvo ad apporre a ciascuno di essi date diverse. Quanto alle dichiarazioni fatte dagli ufficiali convenuti, il resoconto Percy collima con la versione tradizionale, secondo la quale il colonnello del reggimento Aosta e il principe di Carignano avrebbero risposto che sulle loro truppe, pronte a difendere il re, non era da fare assegnamento quanto a un'azione contro i rivoltosi (Carlo Alberto, è noto, scrisse nel suo primo Memoriale in modo alquanto diverso; ma di ciò piú oltre). Senonché il Percy aggiunge che, uditi quegli scoraggianti rapporti, «il re scoppiò in lacrime». E ancora: nel dispaccio 12 marzo il Percy, vagliando le voci che corrono nella capitale circa il contegno tenuto da Carlo Alberto alla Cittadella (chi diceva dentro di essa e chi dinanzi ad essa), esclude che egli possa essersi unito ai rivoltosi nel grido di «W la Costituzione», e ciò «quali che siano gl'intimi sentimenti del principe».

Non sembra che la notte fatale dell'abdicazione del re, il Percy avesse colloqui con questo o col neo-reggente: egli si limitò probabilmente, come gli altri suoi colleghi del corpo diplomatico, a recarsi quella notte alla Segreteria degli esteri, dove le drammatiche novità vennero loro comunicate (all'Archivio di Stato di Torino, Lettere Ministri. Gran Bretagna, Registro lettere della Segreteria degli esteri, si conserva infatti copia di un biglietto, datato 12 marzo, ore 11,30 p., con cui il San Marzano invitava il Percy a recarsi d'urgenza alla Segreteria). Il Percy comunicò l'avvenuta abdicazione del re con dispaccio al Castlereagh scritto alle due di mattina del 13 marzo. Un colloquio col re e col reggente ebbe invece, all'alba del 13, l'ambasciatore di Francia, La Tour du Pin: su di esso e sulle dichiarazioni fatte da quel diplomatico molto si è scritto e fantasticato. Ma il Segre nel suo Vittorio Emanuele I, Torino 1930, pp. 241-42, ci accerta di non averne trovato traccia nel carteggio La Tour du Pin, da lui consultato a Parigi. Stimiamo opportuno perciò registrare in proposito la testimonianza dello Stuart, ambasciatore inglese in Francia. Il cui dispaccio 17 marzo 1821 (P. R. O., France, 250, n. 79) in sostanza conferma appieno la nota versione del De Reiset (cfr. in Rodolico, p. 180), tacendo di un supposto colloquio del La Tour con re Vittorio e riferendo solo, di quello con Carlo Alberto, le dichiarazioni di quest'ultimo in senso favorevole alla promulgazione della Costituzione francese. Il Gordon, invece, che attingeva a fonti austriache, accertava, nel suo dispaccio 22 marzo 1821 (P. R. O., Austria, 163, n. 27) che il La Tour avrebbe «consigliato il principe di Carignano di adottare la Costituzione francese, impegnandosi, con questa condizione, ad assicurargli l'appoggio del governo francese». Già che siamo a parlare del Gordon, della cui assennatezza, ossia antiliberalismo, tesseva gli elogi il San Marzano, contrapponendolo al bollente Stewart (dispaccio cit. 15 febbraio 1821), citiamo qui il primo giudizio che di Carlo Alberto reggente egli trasmetteva al Castlereagh (dispaccio 17 marzo, loc. cit.): «Il principe di Carignano è sospettato di avere favorito la rivoluzione, e anzi di averla in qualche misura istigata, di concerto con autorevoli agenti, riuniti in club a Parigi... Circola la voce che il principe di Carignano stia per assumere il titolo di re d'Italia».

Abbiamo riprodotto in extenso la risposta del Percy perché il Rodolico l'ha omessa.

Da molti mesi il Binder coltivava assiduamente il suo collega inglese, gratificandolo di «espressioni che – scriveva il Percy il 24 ottobre 1820 – potrei quasi dire di venerazione per l'Inghilterra». Ma il Percy non lo ricambiava di ugual moneta: riteneva che col suo contegno il Binder facesse di tutto per rendere sempre piú impopolare l'Austria in Piemonte, era urtato, si è detto, delle sue elucubrazioni sulla missione austriaca (dispaccio 19 febbraio 1821), lo stimava insomma una vera calamità per la pace d'Europa (cfr. anche l'altro dispaccio 13 marzo), Né era egli solo a pensarla cosí. Il La Tour du Pin qualificava infatti il suo collega austriaco «un vero pazzo» (dispaccio 18 gennaio 1821, in Segre, op. cit., p. 225).

Op. cit., p. 191, nota.

Il che è confermato dallo stesso Carlo Alberto nel suo primo Memoriale e dalla sua lettera 29 marzo 1821 a re Vittorio (Scritti di Carlo Alberto, a cura di V. Fiorini, Roma 1900, pp. 37, 163). Il dispaccio Binder, cui allude il Rodolico, è stato pubblicato dal Rinieri, op. cit., pp. 624-26: esso contiene ampli particolari sulla missione Percy e su una successiva missione De Maistre mandatagli quel giorno stesso dal principe: il Binder non crede alla buona fede del reggente (circa la sua intenzione di far credere a una imminente guerra all'Austria al solo scopo di guadagnare tempo) e assicura che neanche il ministro di Russia vi crede.

Con questo non intendiamo dire che il Binder fosse un eroe (ci accerta del contrario l'incaricato d'affari pontificio, Valenti, in un dispaccio dell'11 dicembre 1820, pubblicato dal Rinieri, op. cit., p. 588); ma solo ristabilire la verità su questo punto particolare.

Dispaccio 19 marzo 1821, n. 21. Era stato il proclama di Carlo Alberto del 15 marzo quello che aveva diffuso la sensazione che egli intendesse davvero dichiarare la guerra all'Austria. Cfr. in proposito il dispaccio Stuart 23 marzo 1821 (P. R. O., France, 250, n. 86).

Dispaccio Gordon 19 marzo 1821 (P. R. O., Austria, 163, n. 26). Il proclama venne da Carlo Alberto comunicato, come è noto, ai ministri; d'accordo coi quali (18 marzo) ne sospese la pubblicazione. Di qui la leggenda (raccolta, ma non creduta dallo Hill), che egli se lo fosse «tenuto in tasca per due giorni» e che non lo avrebbe «pubblicato né si sarebbe recato a Novara se non avesse successivamente ricevuto da un corriere, in via privata, la notizia della completa disfatta dei Napoletani» (dispaccio Hill 25 giugno 1821). Su questo proclama e sulla ritardata pubblicazione cfr. Dallari, L'alba di un regno. Carlo Felice a Modena, in «Rassegna storica del Risorgimento», 1924, pp. 944-47.

Cfr. Rodolico, p. 194, nota. Sulla depressione del reggente cfr. il dispaccio Metternich a Stadion, 26 marzo 1821: «La révolte en Piémont va mal comme révolution... Son principal champion, le prince de Carignan, ne fait que pleurer». (Mémoires cit., III, p. 493).

Cfr. in Rodolico, pp. 197-98, il brano del cit. dispaccio Percy che ad essa si riferisce. In un altro luogo dello stesso dispaccio l'incaricato inglese notava che l'attacco al Binder aveva alienato molti consensi alla causa costituzionale.

Dispaccio Percy 20 marzo 1821. Il Rinieri, op. cit., p. 627, dice che manca la risposta del reggente alla richiesta di passaporti fatta dal Binder. Eccocela adesso riassunta dal Percy.

L'ultimo periodo di questo passo del dispaccio Percy è stato pubblicato dal Rodolico a p. 193, nota.

Dispaccio Percy 23 marzo 1821.

Lo s'ignorava evidentemente anche a Parigi donde, il 28 marzo, scriveva lo Stuart che il reggente aveva rinunziato al suo rango il giorno medesimo nel quale la legazione francese aveva ufficialmente smentito che il suo governo intendesse appoggiare il movimento antiaustriaco in Italia (P. R. O., France, 250, n. 91). Ma dai dispacci Percy e Stuart si è lasciato influenzare il Webster quando ha scritto (op. cit., p. 331) «che Carlo Alberto (dopo qualche esitazione) abbandonò una causa che era evidentemente diventata disperata dopo che Napoli era stata disfatta e la Francia aveva rifiutato di aiutare in qualunque modo».

Cfr. i due suoi dispacci del 24 marzo (nn. 26 e 27) e l'altro del 26 di quel mese.

Dispaccio cit. 26 marzo 1821. Questo passo compiuto dal Percy è ignorato dal Webster, il quale scrive soltanto (p. 330) che l'idea di una mediazione franco-inglese avanzata dal governo di Parigi venne senz'altro scartata dal Foreign Office. Il Percy non dà che notizie generiche, piú tardi, dei noti passi compiuti dal ministro di Russia, Mocenigo, per portare a un accordo fra gl'insorti e il governo legittimo; né troviamo conferma nei suoi dispacci dell'affermazione dell'incaricato pontificio secondo cui il negoziato Mocenigo avrebbe dato «ombra ai due rappresentanti di Francia e d'Inghilterra, che avrebbero voluto essere invitati a prendervi parte» (dispaccio 29 marzo 1821 pubblicato dal Negri, op. cit., II, p. 497).

Dispaccio Castlereagh a Gordon 5 aprile 1821, segreto e confidenziale (P. R. O., Austria, 161, n. 2); il Webster, op. cit., p. 330, ne ha pubblicato solo un brevissimo estratto. Sul proposto intervento russo in Piemonte si vedano le giuste considerazioni svolte in contrario dal Gordon (dispaccio 15 marzo 1821) e dallo Stuart (dispaccio 26 marzo e 5 aprile 1821) e quel che scrive lo Hill nel dispaccio 17 maggio 1821. Il 22 aprile il Metternich scriveva allo Stadion: «Ne jugez pas l'Angleterre sur rien de ce que vous dit lord Stewart: tout ce qu'il dit est faux. Il vous aura fièrement niée la marche d'un corps russe en Piémont; eh bien, son Cabinet le demande à cor et à cri, car il voit juste...»

Dispaccio Percy, 11 aprile 1821. Sulle intenzioni, a vero dire rientrate, di taluni fra i capi degli insorti genovesi d'intentare un processo al Des Geneys, allora recluso a Palazzo Ducale, cfr. Bornate, L'insurrezione di Genova nel marzo 1821, Torino 1923, pp. 63, 109.

Cfr. il dispaccio Castlereagh a Hill, 7 maggio 1821, in gran parte pubblicato dal Webster, op. cit., p. 331.

Dispaccio Hill 17 maggio 1821: «voce non innaturale, commentava egli, giacché la speranza e l'aspettazione sono spesso il resultato di un desiderio generale».

Questa parte del racconto Hill è cronologicamente inesatta: fra l'altro, re Vittorio non si recò a Moncalieri che il 7 di marzo, mentre Carlo Alberto venne a conoscenza delle famose lettere sequestrate il giorno 5.

Il Luzio, op. cit., p. 47, trovando la notizia di questa intenzione del principe nella citata biografia del Revel, strabilia e inclina a ritenerla inventata. La testimonianza dello Hill dimostra invece che il Revel palesò la cosa fino dal maggio 1821, se era lui la fonte dello Hill; se poi non era lui, è chiaro che la notizia acquista ancora maggiore importanza.

Sullo stesso argomento tornava lo Hill nel dispaccio 18 agosto 1821: «Il granduca di Toscana è scontento della condotta privata del principe di Carignano e sarebbe felice di qualunque accomodamento che ne facilitasse l'allontanamento da Firenze». La corrispondenza del ministro inglese a Firenze, lord Burghersh, non getta alcuna luce sulla questione, ancora controversa, del contegno tenuto da Carlo Alberto a Firenze; per quanto da documenti toscani (ci assicura il Masi, Carlo Alberto nell'esilio di Firenze, in Studi Carlo-Albertini, Torino 1933, p. 59) il Burghersh resulti un simpatizzante per il Carignano. Sul medesimo soggetto ritornava lo Hill a un anno di distanza. Il principe – scriveva il 3 agosto 1822 – «conduce adesso a Firenze una vita della piú grande regolarità e anche di bigotta devozione; ma Sua Maestà e la corte non sono disposte a ritenere sinceri questi ed altri segni di contrizione». Anche lo Hill diffidava dei racconti troppo edificanti fatti al proposito dalla contessa di Truchsess.

Il Rodolico, pp. 152-55, sembra considerare la storia del perdono di Moncalieri come una maligna fantasia messa in giro dal Revel. Ammettiamo volentieri che questa conferma dello Hill non sia da ritenersi probante in quanto di netta derivazione revelliana; ma ne vedremo piú oltre ineccepibili riprove. A una confessione di Carlo Alberto al re si allude del resto nello stesso Simple récit, ecc., notoriamente composto da amici del principe su dati in gran parte forniti da lui (Scritti di Carlo Alberto cit., pp. 87-88).

La data del colloquio di Moncalieri è, si sa, quella del 10 marzo; lo Hill in un annesso al dispaccio 9 maggio 1821 (Ordine cronologico degli avvenimenti che ebbero luogo durante la rivoluzione in Piemonte) afferma invece che esso si sarebbe svolto l'8 di marzo. Errore evidente: forse lo Hill confondeva fra il colloquio del 10 e la cavalcata fatta il 7 da Carlo Alberto per accompagnare il re a Moncalieri.

Della stessa opinione era allora la legazione di Francia; cfr. il tono dei giudizi espressi dal La Tour du Pin su Carlo Alberto in Matter, Cavour et l'unité italienne, Paris 1922, I, p. 39.

Giuste al proposito le considerazioni del Rodolico, p. 327; sebbene la richiesta fatta da Carlo Alberto al Percy agli inizi della reggenza perché venisse inviata una squadra inglese a Genova non possa davvero addursi a prova dell'interesse inglese a impedire un predominio austriaco in Italia: altrimenti la circostanza del mancato invio della squadra potrebbe addursi senz'altro a prova del contrario. Il Webster, op. cit., p. 332, scrive che «in questa faccenda (la questione Carignano) il Castlereagh non prese parte alcuna»: il che è esatto, purché si ricordi, tuttavia, che le istruzioni ai plenipotenziari inglesi al Congresso di Verona, consacrato fra l'altro all'esame di quella questione, vennero vergate da lui.

Alle pp. 168-70. Nella prima parte del dispaccio lo Hill afferma che il «tradimento» imputato al principe deve riferirsi all'attività da lui svolta in qualità di gran mastro dell'artiglieria: «Il principe non era ancora da un anno in possesso del suo ufficio; operò certamente vari mutamenti fra gli ufficiali, trasferendone molti affezionati alla vecchia corte, e circondandosi dei suoi amici particolari, e in confidenza con lui, o piuttosto di cattivi consiglieri». A questo punto s'inizia la trascrizione del Rodolico: il quale precisa che il dispaccio venne vergato dallo Hill dopo i colloqui avuti a Modena; senonché il ministro inglese, il 25 di giugno, non si era ancora mosso da Torino. Per esser pedanti noteremo che l'affermazione dello Hill – il ministro di Prussia «ritiene che S. A. S. si troverà in grado di giustificarsi in gran misura» – è stata tradotta dal Rodolico con omissione delle tre ultime parole, le quali hanno pure un qualche valore.

Carlo Alberto aveva, si sa, grande stima pel Des Geneys e riponeva in lui illimitata fiducia, come dimostra la lettera che gli scrisse, ancora reggente, il 20 marzo 1821. Cfr. Boselli, Carlo Alberto e l'ammiraglio Des Geneys nel 1821, estratto dagli «Atti della R. Accad. delle Scienze di Torino», vol. XXVII; Prasca, L'Ammiraglio Des Geneys, Pinerolo 1926.

A conferma di questo particolare (per quanto sia forse esagerato l'asserire che re Vittorio si perse fra i monti) cfr. Segre, Note e documenti sui casi e sui profughi del 1821, nella citata silloge La Rivoluzione piemontese, I, p. 242; e Dallari, op. cit., p. 958.

Cfr. dispaccio Hill 6 novembre 1821; e sui rapporti fra l'Aglié e Carlo Felice (Lemmi, Carlo Felice, Torino 1931, pp. 166-67).

Ne accusava ricevuta quello stesso 15 luglio. Motivo del ritardo, si sa, la speranza, a lungo nutrita dal Foreign Office, che re Vittorio si lasciasse indurre a riascendere il trono. I ministri delle altre grandi potenze si erano già tutti recati a Modena fin dal mese di aprile (Dallari, op. cit., P. 949).

Carlo Felice era tutt'altro che una personalità di eccezione; ma era assistito da un vigoroso buon senso, da non comune energia di carattere, e aveva altissima coscienza dei doveri di un sovrano, come ci ha ben mostrato il Lemmi nel suo bel libro, citato, a lui dedicato. Nel dispaccio 6 novembre 1821 lo Hill giungeva, quasi suo malgrado, ad ammettere che Carlo Felice «possa essere piú fermo e aver maggiori attitudini per regnare» di suo fratello.

pp. 269-70. Il dispaccio Hill reca la data del 12 agosto.

Si veda in proposito il dispaccio Castellalfero (ministro sardo a Firenze), 20 giugno 1821, in Luzio, op. cit., pp. 49-50; e quello del Maisonfort (ministro francese a Firenze), 19 giugno 1821, in Gualterio, Gli ultimi rivolgimenti italiani, Memorie storiche, Firenze 1852-61, III, p. 322.

Luzio, op. cit., p. 42, nota; Lemmi, op. cit., p. 192.

Dispaccio Hill 5 aprile 1822, segretissimo.

La personale devozione dello Hill per re Vittorio (risaliva ai tempi del soggiorno della corte sabauda in Sardegna) era ben nota; cfr. su di essa il riconoscimento del Saluzzo nel suo Memoriale pubblicato dallo Zucchi, nella silloge cit., I, p. 454.

Il generale Gifflenga, si sa, non si recò a Moncalieri insieme col principe; è esatto comunque che la mattina del 10 marzo anch'egli si trovava colà. Sul di lui conto scrisse lo Hill, nel dispaccio 7 dicembre 1821, essersi molto meravigliati che re Vittorio lo avesse scelto, il 13 marzo, per accompagnar lui e la regina nel viaggio di Nizza; ma che la regina al ministro austriaco, il quale si era fatto eco di queste impressioni, aveva replicato: «Quando si attraversa una foresta di notte, non c'è miglior protettore o guida del capo dei banditi». L'aneddoto, in termini leggermente diversi, è riportato dal Lemmi (op. cit., p. 193, nota), il quale lo ha da tutt'altra fonte.

È noto che quel proclama era già stato perfino stampato. Dagli archivi ne trasse una copia, molti mesi piú tardi, il Della Valle per mostrarla al ministro inglese, il quale la spedí a Londra. Cfr. il suo dispaccio 5 aprile 1822.

Il Rapport et détails de la Révolution, ecc., in Scritti di Carlo Alberto cit., pp. 3-30. Lo Hill ne aveva già dato notizia nel dispaccio 18 agosto 1821; ma solo parecchi mesi piú tardi fu in grado di procurarsene una copia.

Op. cit., p. 25.

Questa dichiarazione di Carlo Alberto era certo in contraddizione con i suoi veri sentimenti; del che si ha una riprova indiscutibile nella lettera che il 21 novembre 1821 egli stesso scriveva al Sonnaz: «J'ai dit, et telle fut toujours ma manière de penser, qu'un gouvernement tempéré, comme celui de la France, ou dans le même genre, était le meilleur...» (Scritti di Carlo Alberto cit,, p. 182). Ma che il principe si fosse proprio espresso, qualche tempo prima dello scoppio della rivoluzione, nel senso esposto da re Vittorio dimostra anche questa lettera di Maria Teresa al duca di Modena, 28 febbraio 1821: «Il re è... nemico del regime costituzionale, e questo è ugualmente odioso al duca e al principe (Carlo Alberto); dunque spero in Dio che per qua non vi sia nulla da temere» (Dallari, op. cit., p. 940). Sulle discussioni relative alla costituzione in quel drammatico Consiglio della Corona, cfr. Passamonti, Prospero Balbo e la rivoluzione del 1821, nella cit. silloge, I, pp. 330-31; e Zucchi, op. cit. pp. 477-78.

Il Rodolico, nella parte del suo libro dedicata alla narrazione critica degli eventi rivoluzionari, non accenna neppure a queste discussioni in extremis svoltesi fra i sovrani, il principe e i ministri a proposito della costituzione. E non s'intende il perché.

Si noti che il Balbo, nelle sue Memorie (Passamonti, ed. cit,, p. 323) non menziona la presenza di Carlo Alberto quando ci riferisce le dichiarazioni dei vari comandanti. Il Saluzzo, riferita la risposta del Ceravegna, si limita a scrivere: «le chef de l'artillerie prit la parole et dit qu'il en était de même de ses cannoniers» (Zucchi, op. cit., p. 475).

Cfr. il Saluzzo nel suo Memoriale: «On a reproché au ministère de n'avoir pas fait arrêter le col. Ceravegna au sortir du cabinet du roi et peut-on croire que la pensée n'en soit venue à personne! Mais une considération de la plus grave importance, que c'est devoir de taire même pour la justifier, arrêta cette pensée au moment même où elle fut conçue» (Zucchi, loc. cit.).

Analoga era l'opinione del generale La Tour, dallo Hill riportata nel già citato dispaccio 18 agosto 1821: «Parlando della voce secondo la quale il principe avrebbe determinato di chiedere una corte marziale, il generale La Tour mi ha detto che nessun ufficiale piemontese potrebbe o vorrebbe condannarlo per atti della sua reggenza; un siffatto processo dovrebbe basarsi sull'attività precedente di S. A. S., attività che, eccettuato l'intervallo di pochi giorni o piuttosto di poche ore, era stata già perdonata da S. M. Vittorio Emanuele sebbene S. M. fosse allora all'oscuro di molte cose accadute pel tramite di S. A. S.». Il La Tour era, ciò nondimeno, favorevole, si sa, a un sollecito ritorno di Carlo Alberto in Piemonte.

Sugli addebiti fatti da re Vittorio a Carlo Alberto, cfr. in particolare Masi, op. cit., p. 141; Dallari, op. cit., pp. 957-58; Luzio, op. cit., pp. 12, 29; Segre, Vittorio Emanuele cit., p. 248, oltre ai noti dispacci del Maisonfort pubblicati dal Gualterio, op. cit., III, passim. Resulta chiaro da innumerevoli documenti che re Vittorio era profondamente risentito con Carlo Alberto; ond'è che non ci spieghiamo come il Luzio dopo avere tentato di attenuare l'importanza degli addebiti mossi da re Vittorio, possa scrivere (op. cit., p. 51) che «sarebbe indubbiamente assai grave» se quel sovrano avesse davvero nutrito «un giudizio sfavorevole al principe». Il dispaccio Hill, comunque, toglie ogni dubbio in proposito.

Anche il Metternich riconobbe che l'abdicazione aveva fiaccato la rivoluzione (a Rechberg, 25 marzo 1821; Mémoires cit., III, p. 490). Glielo aveva fatto notare il Binder già il 17 marzo (dispaccio pubblicato dal Rinieri, op. cit., p. 623).

Il che, d'altronde, coincideva con i suoi interessi: la costituzione di Spagna, se adottata tal quale, lo avrebbe privato infatti, dei diritti di successione in favore delle figlie di re Vittorio.

Cfr. i suoi dispacci 13 gennaio e 9 febbraio 1822.

Dispaccio Hill cit., 13 gennaio 1822; cfr. anche l'altra del 24 dello stesso mese: egli si è adoperato per sollecitare il ritorno di re Vittorio in patria, ritenendo che «dato il risentimento della regina, e la sua intesa col principe Carignano, vi fosse piú da temere dalla sua assenza» che non dal suo ritorno. Si veda anche Rodolico, pp. 292 sg. Circa lo stato d'animo della regina Maria Teresa di fronte alle prospettive di riassumere il trono siamo poco informati. Il Saluzzo (Zucchi, op. cit., p. 521) attesta che essa insistette col marito perché rifiutasse qualunque offerta in proposito; il Maisonfort, invece, in un dispaccio del 31 agosto 1821, riferiva che la conversazione della regina gli aveva dato l'impressione che essa rimpiangesse di non piú esser sul trono (Gualterio, op. cit., III, p. 324). Da un dispaccio Daiser (nuovo ministro d'Austria a Torino) al Metternich, 24 maggio 1822, sembrerebbe lecito dedurre che egli ritenesse aver Maria Teresa spinto re Vittorio a sollecitare, malgrado tutto, il ritorno in Piemonte (Rinieri, op. cit., p. 649).

Lo Hill aveva conosciuto l'arciduca a Cagliari, negli anni della lotta antinapoleonica. «M'è rincresciuto di notare – cosí riferiva questo suo colloquio – che, pur discorrendo egli con la sua solita abilità, il suo linguaggio è molto mutato relativamente ai sistemi liberali... S. A. R. era allora un candidato al posto di capo della Lega italiana, in quel tempo in progetto..., adesso è uno dei piú abili agenti di suo cugino l'imperatore. Trattandosi di un sovrano italiano... sono rimasto piuttosto sorpreso di udire con che tono sarcastico e spregiativo l'arciduca parlava degli italiani... Facendo un paragone fra il suo real suocero Vittorio Emanuele e la presente Maestà Sarda, l'arciduca mi ha detto con palese, viva approvazione, che S. M. Carlo Felice non è soltanto fermo, ma severo!»

Dispaccio Hill, 18 agosto 1821, in parte pubblicato dal Rodolico, pp. 310-11.

Dispaccio Hill, 3 marzo 1822: «Il re ritiene che, essendo egli e il principe vissuti un tempo come padre e figlio, riuscirebbe parimenti penoso ad entrambi risiedere (adesso) uno vicino all'altro; se in questo caso (infatti) il re non ricevesse mai il principe, il marchio d'infamia (su di lui) resterebbe forse anche piú indelebile che non nel caso di una prolungata assenza del principe». Al che, però, lo Hill obiettava che «se S. M. dovesse vivere molti anni, il principe, che ha ricevuto la prima educazione in Francia sotto Bonaparte, finirebbe, con un altro lungo esilio, col cessare quasi di essere un piemontese».

Alla prudenza lo Hill venne consigliato dall'infortunio capitatogli a proposito del ritorno di re Vittorio in Piemonte, pel quale egli si era battuto fino al punto di incorrere nel risentimento di Carlo Felice, che lo aveva fatto richiamare all'ordine dal Castlereagh. Si noti come il punto di vista dello Hill sulla questione Carignano coincidesse con l'opinione formulata dal Metternich in un dispaccio del 6 dicembre 1821 (Mémoires cit., III, pp. 525-27).

Dispaccio Hill 13 novembre 1821; cfr. anche l'altro del 9 febbraio 1822.

Dispaccio Hill 25 novembre 1821.

Dispaccio Hill 24 ottobre, 6 e 13 novembre 1821.

Cfr. Webster, op. cit., pp. 367 sg.; Metternich, Mémoires cit., III, p. 524.

Identiche istruzioni aveva mandato il Metternich al Daiser; onde questi, 13 dicembre 1821, assicurava che si sarebbe «imposto il silenzio piú assoluto su questo affare» (Rinieri, op. cit., p. 638). Il Truchsess (ministro di Prussia) seguiva invece, si sa, una politica opposta. Dispaccio Hill 24 ottobre 1821: «Il mio collega prussiano è sempre assente, a Napoli, donde ho ricevuto ier sera una (sua) lettera confidenziale nella quale mi prega di adoperarmi in favore del principe di Carignano; ma io temo che nulla sarà fatto per S. A. S. fino alla riunione del Congresso a Firenze, l'anno prossimo, seppure anche allora mi si dice infatti da parte russa che S. M. Sarda usa verso i sovrani alleati un tono quasi altrettanto altezzoso che verso i suoi sudditi...»

Il Della Valle insinuava allo Hill che «se due o tre degli alleati fossero stati disposti ad ascoltare l'appello del re, il principe avrebbe abbandonato le sue pretese al trono e la questione di legittimità e primogenitura sarebbe stata salvata dalla successiva adozione del suo figliuoletto». Dispaccio Hill 5 aprile 1822.

Dispaccio Hill 9 e 23 febbraio 1822. Successivamente lo Hill si ricredette anche su questo punto, non senza merito, sembra, dell'infaticabile sostenitore del principe, Luigi d'Auzers. Dispaccio Hill 3 agosto 1822: dice il d'Auzers (fine psicologo, invero) che «nonostante la violenza dei piú contro di lui (Carlo Alberto), egli è sicuro che se il principe arriverà, non ci saranno cinque famiglie a Torino che non si mostreranno ansiose di partecipare al primo ricevimento a palazzo Carignano». Ragguagli sul d'Auzers dava lo Hill nel dispaccio segretissimo e confidenziale del 3 marzo 1822.

Dispaccio Hill 9 febbraio 1822: il Revel «dice che se il re è incline al perdono, quanto prima il principe tornerà, in vista di regnare, tanto meglio; ma a lui consta che il re è del tutto contrario a S. A. S. Ciò nonostante, aggiunse il governatore, se il re dovesse morire domani, sarebbe mio dovere proclamare il principe e naturalmente lo farei. Il conte Revel mi ha informato che, poco dopo il suo ritorno, il re gli ordinò di raccogliere tutte le prove che erano emerse a carico del principe nei processi dei ribelli. Quando esse vennero sottoposte a S. M., il re disse che ve n'erano troppe, e, insieme, non abbastanza; ciò che il conte Revel interpretò: troppe per l'onore del principe, ma non abbastanza per processarlo. Dice tuttavia il conte che, se ancora adesso il re desse ordini in proposito, si raccoglierebbero prove imponenti, ma che col passar del tempo riuscirà piú difficile trovar prove dirette. Sua Eccellenza mi ha anche detto in confidenza avergli nientemeno che il generale Ecuyer (uno dei favoriti del re) domandato perché non avesse sottoposto a processo il principe insieme agli altri ribelli; al che egli aveva immediatamente risposto che in una questione concernente non soltanto un principe di casa Savoia, ma l'erede presuntivo della Corona, ciò sarebbe stato impossibile senza ordini espliciti del re. Il conte, mi è parso, sospetta fosse desiderio del re che egli avesse preso su di lui questa responsabilità quando era luogotenente generale o viceré: egli non l'ha fatto, eppure dice che un esempio di questo genere riuscirebbe utile di fronte ai tanti principi ereditari che, di recente, sono stati i primi traditori nei loro rispettivi paesi».

Dispaccio Hill 9 febbraio 1822: «Il Saluzzo mi ha detto confidenzialmente che fin quando il principe Carignano resterà erede presuntivo, nessun ufficiale oserà condannarlo, e che il re dovrebbe in prima e non in seconda istanza consultare in proposito i suoi alleati».

Anche in un'altra occasione lo Hill si era preoccupato dello stato d'animo della moltitudine, in contrapposto a quello diffuso nei ceti piú alti: a proposito del ritorno di re Vittorio in Piemonte, che egli auspicava ritenendolo ardentemente desiderato dalla massa del popolo, checché ne pensassero i nobili. Cfr. il suo dispaccio 6 novembre 1821. Alle opinioni delle masse in Piemonte aveva alluso anche lo Strassoldo in un dispaccio al Metternich del 29 aprile 1821 (Colombo, op. cit., pp. 738-40).

Cosí nel noto dispaccio circolare diramato alle Missioni all'estero, su cui cfr. dispaccio Hill 3 marzo 1822.

Dispaccio Hill 23 febbraio 1822.

Cfr. su di esso quel che ne scrisse il Cipriani, nelle Avventure della mia vita, I, pp. 27 sgg.: Leonetto v'era entrato, di dodici anni, nel '24, e vi rimase, col fratello Pietro, quattr'anni. Da lui impariamo che il vicerettore era un buon maestro di latino; che l'italiano v'era insegnato, male, da un prete Rocchi, e da un tal Cardella; e il francese da un Giannoni, non meno antipatico e ridicolo del Cardella; e che due dei prefetti si chiamavano Bachi e Lecori. Vero è che alla testimonianza del Cipriani, un vero energumeno, da ragazzo, non è da credersi alla lettera.

David Levi, che lo conobbe nel '37, attesta che della musica il Montanelli fu «non solo amante, ma cultore insigne» (Vita di pensiero, p. 118).

Veramente il Giusti, che all'università di Pisa entrò, come il Montanelli, nel novembre del 1826, e che perciò sembra difficile non lo avvicinasse fino d'allora, ebbe a scrivergli piú tardi (nel '47): «quando ti trovai a Pisa nel 1832»... Errore di memoria? O volle il Giusti accennare al '32 come all'anno nel quale, tornato egli all'università dopo una triennale parentesi oziosa, ebbe inizio l'amicizia fraterna col Montanelli? Cosí mi sembra probabile.

Si laureò nel '31.

Entrò all'università nel '29.

Altro compagno di Montanelli, Giuseppe Bianchi, col quale ebbe poi studio legale.

Per le bravate del Cipriani a Santa Caterina, culminanti col ferimento del prefetto Bachi, si vedano le citate sue Avventure: dalle quali risulta che anche il Montanelli, che un bel giorno, stomacato, ebbe a chiamarlo «corsaro», s'ebbe da lui una scarica di violentissimi pugni nel viso. Del rettore don Valerio il Cipriani non traccia un brutto quadro: il povero sacerdote, colpito a seggiolate e a calci dal riottoso scolaro perché, dopo quel ferimento, gli aveva dato, non a torto, invero, della «bestia feroce», dell'«assassino», venne soccorso – dice sempre il Cipriani – da una dozzina di preti; dopodiché, «disteso sopra una poltrona, alzando le braccia esclamò: "Curavimus Bahylonem non est sanata, derelinquamus eam". E senza perdere un momento fu ordinata una carrozza, e Leonetto rimandato dal padre».

Sul Forti si veda quel che, con intelletto d'amico, scrisse il Montanelli stesso nelle Memorie, I, p. 23, presagendo l'immortalità addirittura ai suoi due libri delle istituzioni civili, pubblicati postumi, essendo morto costui giovanissimo nel 1838- Cfr. anche le pagine che gli dedicò il Martini nell'Epistole del Giusti, IV, pp. 136 sg.

Forse fu amico del Montanelli anche Girolamo Poggi, altro eminente giurista, strappato alla scienza nel 1837, di soli trentaquattro anni, su cui cfr. Memorie, I, p. 23.

Per una sommaria revisione critica del Centofanti si cfr. Memorie, I, p. 63.

Si veda in proposito la curiosa lettera del Montanelli al Centofanti, 26 novembre 1830 (inedita) nella quale cercava di ricordare tutto quello che, in relazione «al sistema ideale e storico» il Centofanti gli aveva detto «una mattina di domenica mentre passeggiavano per la via di Santa Croce»; dopo di che aggiungeva: «Se potrò richiamarmi alla memoria qualche altra cosa gliela scriverò».

Memorie, I, p. 64.

Cfr. un'altra lettera inedita – forse ancora del '29 – del Montanelli al Centofanti nella quale, ricorrendo a lui «come suo unico protettore per domandargli schiarimenti sopra varie difficoltà che gli correvano nel corso dei suoi studi» gli esponeva dubbi eruditi sorti in lui dalla lettura di una opera del Boggelli e della Storia antica e moderna dello Schlegel.

Diritto civile e canonico.

Altri professori di discipline giuridiche erano allora il Dal Borgo, di istituzioni civili, forse piú attivo e piú noto, a torto o a ragione, come poeta che non come giurista; e il Cantini, di diritto canonico.

Cfr. Montanelli a Vieusseux, 3 dicembre 1834.

Cfr. Montanelli a Vieusseux, 24 marzo 1836.

Cfr. Montanelli a Vieusseux, 13 febbraio 1831.

Memorie, I, p. 22.

Tutti i biografi concordano nell'asserirlo laureato nel 1831. Che fosse già laureato nell'estate di quell'anno dimostra il titolo dottorale apposto alla stampa dei suoi Due discorsi, piú avanti citati. A conferma si vede del resto la lettera del Centofanti a lui (inedita), 4 giugno 1831.

Inedita, 21 maggio 1832.

Lettera 30 maggio 1832 (?).

Lettera 6 gennaio 1833.

Lettera 11 gennaio 1833.

Lettera 15 gennaio 1833.

Notare che al Vico il Tonti, amico del Montanelli, dedicò nel '36 un saggio, stampato a Lugano (Carteggio Tommaseo-Capponi, I, p. 357).

Cfr. lettera del Centofanti 30 maggio 1832; e del Montanelli 2 dicembre 1832.

Cfr. ad esempio le tre lettere (inedite) del Montanelli, 20, 21, 29 novembre 1832, circa la stizza del Carmignani per un severo articolo su di lui del Centofanti.

Molte lettere del 1832 e '33 vertono appunto su un complicato affare dei due fratelli Centofanti (la vendita di una proprietà da loro ereditata a Pisa), nel quale troviamo mescolato il canonico Della Fanteria, piú tardi diventato la bestia nera dei liberali pisani. Cfr. Montanelli a Centofanti, 20 novembre, 29 novembre 1832 e altre lettere del 1833.

Cfr. ad esempio la lettera Centofanti, del 30 maggio 1832: «E se l'Antonietta oggi non rispondesse, tu vorrai scusarla. Ella t'ha già risposto con l'anima»...

Su queste passeggiate lettera Montanelli a Tommaseo, ottobre 1832. Del resto anche il Centofanti teneva il Montanelli al corrente di certe sue vicende intime, come si rileva dalla lettera (inedita) dal 16 gennaio 1833.

In una lettera non datata del Montanelli al Tommaseo si legge: «La tua conoscenza farà sí che l'anno 1832 segni un'epoca notabilissima nel corso della mia vita...» Del Tommaseo, comunque, il Montanelli faceva già elogi sperticati in una lettera del 12 gennaio 1832 al Vieusseux (inedita), relativamente a un suo articolo sul veltro allegorico pubblicato nell'«Antologia» articolo che gli era bastato per abbandonare in proposito, diceva, «la mia opinione conforme a quella del Troia».

Cfr. Lettera di Montanelli, senza data, ma del 1832.

Lettera 22 ottobre 1832.

Al Vieusseux scrive, il 21 novembre: «Molto piú ancora mi è piaciuto l'articolo di Tommaseo che ho letto tre volte e sempre con piacere, e con frutto. Non so come la censura abbia potuto permettere la stampa di molte cose contenute in quell'articolo! Ma la confutazione di coloro che vogliono la unità materiale dell'Italia ha servito di passaporto alle (parole indecifrabili) contro la legittimità, e alle bellissime idee sull'unione intellettuale, morale e religiosa degli italiani, senza la quale tutti i nostri sforzi non potranno giammai riuscire a buon fine...» (Marradi, op. cit., p. 168).

Lettera 21 novembre 1832.

Si noti che il Montanelli abitava allora – come ebbe a scrivere al Vieusseux, 22 febbraio 1832 – appunto in piazza di Santa Caterina, in casa della vedova Tami: lo zio rettore, si vede, voleva averlo sott'occhi!

E al Vieusseux, 28 novembre (inedita): «Tommaseo vi parlerà dell'università. Assistemmo insieme ad una lezione sul Diritto di natura; e potrete farvi raccontare le cose notabili della medesima»; e il 12 dicembre (inedita), allo stesso: «Qua si parla ancora della visita da lui (Tommaseo) fatta alla università – e molti di questi professori mi hanno fatto domandare qual giudizio avesse recato delle loro lezioni».

Del dicembre 1832 è certamente una delle lettere non datate del Montanelli al Tommaseo e precisamente quella già citata in una nota precedente: «... stringendo fra noi un dolce vincolo di unione gioveremo alla causa dell'umanità piú con l'esempio che con le parole. È tempo di dimostrare agli uomini egoisti che sono ancora dei cuori nei quali arde la sacra fiamma dell'amore – e che può esistere una unione vera, sincera, e operosa – nella dissoluzione universale dei vincoli sociali».

Del Tonti, pistoiese, il Tommaseo pensava assai bene: «Ha ingegno e animo meno menci di quel che dia la Toscana, per solito», scrisse nel gennaio '35 al Capponi (Carteggio I, p. 210); nel '36 lodò un suo saggio sul Vico (p. 357); nel '37 gli dedicò perfino dei versi (p. 210).

Cirillo: si occupò di studi storici.

Questa lettera è certo del gennaio '33, come si rileva dal confronto con altra che reca impressa quella data. In quest'ultima, infatti, il Montanelli chiedeva al Tommaseo: «È stato a ritrovarti il giovane di cui ti parlava nella passata lettera?». E nell'altra: «... Si presenterà da te a mio nome un mio amico Giovanni Bertolani che potrai considerare come fratello».

Memorie, I, p. 65.

Cosí si legge in un rapporto 16 agosto 1847 del soprintendente Boninsegni. Marradi, Montanelli, ecc., p. 179.

Inedita, datata sull'autografo 30 maggio 1832, ma indubbiamente di parecchi giorni innanzi (come dimostra la risposta del Centofanti in data 20 maggio e la replica del Montanelli stesso, del 21). Il Centofanti non si scandalizzò per nulla: «Abbraccia affettuosamente per me tutti i giovani che hanno teco una vicendevole trasmissione di alte e nobili simpatie – gli scrisse infatti. – Occupiamoci della grand'opera alla quale dovremo coraggiosamente applicarci!»

Cfr. la breve biografia che essa scrisse del marito in Marradi, op cit., p. 172. E anche Pemens, op. cit., p. 359.

Si noti altresí che allorquando, nel '47, la polizia toscana raccolse sul Montanelli tutto quanto resultava a suo carico per gli anni precedenti, dell'episodio sansimonistico si dimostrò del tutto ignara.

Levi, Vita di pensiero, pp. 117 sgg.

Il Levi, veramente, scrive che ciò avvenne nel 1840; ma dal carteggio montanelliano noi sappiamo che già nel '37 si era stretta fra loro quella fervida amicizia che durò poi cosí a lungo, ed alla quale il Levi ispirò, moltissimi anni piú tardi, il commosso, postumo elogio del Montanelli (in Vita di pensieri, cap. I).

Op. cit.

Che per prudenza chiamano, anziché giornale, «opera che si dispensa ogni settimana». Montanelli a Tommaseo, senza data, ma dicembre 1832.

Vi è una società che paga 5 paoli al mese onde mantenere l'impresa, e chiunque vuole entrare in questa società avrà 5 dispense – scrive il Montanelli al Tommaseo. – Il prezzo poi d'associazione per tutti è di lire 4 all'anno», Cfr. sull'«Educatore», Linaker, Mayer, I, pp. 184 sgg.

In questo progetto di un giornale letterario, artistico e scientifico che avrebbe dovuto pubblicarsi a Livorno sotto gli auspici di quel Gabinetto scientifico e letterario, e per esso dal professor Doveri, ma con la collaborazione di un gruppo di giovani capitanati dal Montanelli e sotto la direzione del Centofanti, cfr. due lettere del primo al secondo (inedite), maggio 1832, e la risposta favorevole del Centofanti in data 20 maggio. «Il giornale deve esser fatto – scriveva infatuato il Montanelli... – perché questa gioventú ha bisogno di impiegarsi utilmente in una grande intrapresa». Il Centofanti non meno pronto del suo «discepolo» a scambiare le fantasie con la realtà, dopo qualche giorno vedeva già tutto fatto; «Parliamo ogni giorno di te – gli rispondeva da Firenze il 30 maggio, – dei nostri cari ed ardenti cooperatori, e della futura vita letteraria che condurremo!» Perché poi il progetto fallisse, non sappiamo; ma forse non ultimo motivo ne fu la... doccia fredda sul sansimonismo del gruppetto pisano.

Lettera non datata, ma certamente degli ultimi di dicembre, giacché trasmette gli auguri pel capo d'anno.

Cfr. su di esso le impressioni del Centofanti in lettera Montanelli, 18 gennaio 1833 (inedita).

Veramente nella Nazionale si trova una lettera del Montanelli al Vieusseux in data 13 febbraio '31 (già pubblicata, mutila dell'ultimo paragrafo, del Marradi, op. cit., p. 165); ma il suo tono e il contenuto dimostrano che deve essere del 13 febbraio '32. Del resto è chiaro che la lettera del 25 novembre '31 (inedita) è la prima che il Montanelli diresse al Vieusseux («Giacché negli ultimi giorni del settembre decorso trovandomi in Firenze ebbi il piacere di fare la sua conoscenza, mi prendo la libertà di dirigerle questa mia...»)

A firma M. G. Il fascicolo – si vede che anche allora usava cosí – non comparve però che a principio di febbraio del '32.

Lettera pubblicata in Marradi, op. cit., p. 177 F.

Scriveva del resto il Montanelli in altra lettera del 12 gennaio '32 (inedita): «Si meraviglierà forse osservando tante correzioni nelle stampe del mio piccolo articolo... Ma queste correzioni hanno avuto la sua ragione, Orlandi, giacché ho saputo essere egli un giovane pieno di buona intenzione, e d'amore per lo studio. Queste sue disposizioni meritavano un riguardo. Mi è stato detto di piú che è perseguitato moltissimo dai preti del suo paese, i quali cercano ogni modo per attaccarlo sia nella sua condotta, sia nella sua produzione scientifica. Anco questa ragione mi ha fatto usare verso di lui maggior riguardo, senza defraudare però in alcuna parte l'amore del vero, e della Scienza». Al che il Vieusseux, 11 febbraio (inedita): «Ella fece bene di mitigare alcune espressioni che erano un poco pungenti, ma sarebbe stato meglio, forse, il non mitigare tanto. Ci combineremo meglio un'altra volta».

Il Montanelli la spedí al Vieusseua con lettera (inedita) 3 marzo '32.

Il 13 febbraio 1832, tornando sull'argomento, scriveva: «... Il principio che Ella professa di non impegnarsi prima d'aver letto, è troppo giusto e ragionevole perché ciascuno [non] debba sottomettercisi senza difficoltà! Senza di esso il giornale mancherebbe d'unità e di scopo».

Lettera inedita.

Lettera 21 dicembre 1831 pubblicata in Marradi, op. cit., pp. 166-67.

In data 5 gennaio 1832 (in margine alla lettera del Montanelli).

Lettera inedita.

Sull'articolo del Marzucchi, una volta pubblicato, cfr. le impressioni del Montanelli nella lettera a Vieusseux 21 novembre 1832 (Marradi, op. cit., pp. 167-68).

È questa la lettera del 13 febbraio 1832 pubblicata dalla Marradi con la data erronea del 1831. Basta il semplice avvicinamento con quella del 7 febbraio per capire che le due lettere furono scritte una di seguito all'altra.

Si veda la lettera (inedita) del Montanelli in data 22 febbraio 1832.

Lettera inedita.

Lettera 21 novembre, pubblicata in Marradi, pp. 167-68.

Lettera pubblicata in Marradi, pp. 167-68.

Equivocando il buon Vieusseux aveva creduto, addirittura, che il Montanelli volesse scriver lui una guida alla rinnovazione della filosofia: di qui la rettifica del Montanelli in lettera (inedita) 28 novembre.

Lettera 27 novembre pubblicata in Marradi, pp. 168-69. Successivamente il Montanelli avvertí che si sarebbe contemporaneamente occupato anche di un volume su la Musique mise à la portée de tout le monde, stampato in Francia nel '30 (lettera inedita dell'11 dicembre 1832).

Cfr. la lettera (inedita) di Vieusseux a Montanelli, 18 dicembre, contenente oltre alle sue critiche sull'articolo, una tirata contro il Centofanti, troppo borioso e imperativo. Montanelli, al solito, si mostrò remissivo: «Seguirò in tutto e per tutto i vostri consigli, perché vi stimo molto... Anzi vi sarò gratissimo degli avvertimenti che mi darete, come sono grato a tutti quelli che mi correggono, che mi istruiscono, che mi dirigono» (lettera inedita 22 dicembre). Il 29 dicembre (inedita) gli rimandò l'articolo accorciato e modificato: «Quanto diritto avete, o mio caro Vieusseux, alla riconoscenza della nostra patria!»

Lettera inedita.

Lettera inedita.

Lettera inedita.

Lettera inedita 18 marzo 1833.

Lettera inedita.

Memorie, I, p. 25.

Marradi, op. cit., p. 172.

Entrambi vennero pubblicati a Pisa nel 1831: Due discorsi del dottor G. Montanelli, ecc.

Cfr. Il 29 maggio in Toscana. Parole di Giuseppe Montanelli, Livorno 1859. Era stato l'annunzio della partenza pel Piemonte dei volontari toscani comandati dal Malenchini che lo aveva indotto ad arruolarsi: «Fossi stato moribondo quest'annunzio mi avrebbe trattenuto sull'orlo del sepolcro», p. 2.

Abbiamo qui sotto gli occhi l'autografo di una sua «corrispondenza» relativa alla situazione toscana, datata «Florence, 18 mars 1859». Per la cordialità e la continuità dei suoi rapporti con la redazione del «Siècle» cfr. nella «Nazione», Firenze, 1° settembre 1859, la lettera con la quale il Montanelli aderiva entusiasticamente all'iniziativa bandita da quel giornale per un dono nazionale al «Siècle».

A Giovanni Dragonetti scriveva l'8 gennaio: «Mi pare che questa volta qualche cosa certamente vedremo. L'eccitazione d'Italia è ormai irresistibile. Il Piemonte dovrà agire e il resto verrà dietro... Speriamo rivederci presto... sui campi lombardi». G. Dragonetti, Spigolature nel carteggio letterario e politico di L. Dragonetti, Firenze 1886, pp. 320-21.

Minuta di lettera che si conserva fra le carte Montanelli-Parra, nell'Autografoteca Bastogi della Biblioteca Labronica di Livorno, cass. 40, ins. 2242. D'ora innanzi citeremo questa importantissima raccolta con le iniziali B. L.

Alla politica del Cavour il Montanelli aveva cominciato ad accostarsi fino dal 1856: di qui polemiche vivacissime con taluni dei suoi compagni di emigrazione, e per esempio con Girolamo Ulloa.

Puccioni, Il risorgimento italiano nell'opera, negli scritti, nella corrispondenza di Piero Puccioni, Firenze 1932, pp. 12 sg. Lettera del Parra e del Visconti Venosta in risposta ad altre del Montanelli in B. L.; taluna del Parra (che era figliastro del M.) anche in nostro possesso (Raccolta Rosselli, che indicheremo con le iniziali R. R.).

Lettera dell'Homodei da Torino, il febbraio 1859 in B. L., cass. 231, ins. 197. Superfluo rammentare come a Torino si temesse che l'eventuale successo di un'agitazione per la costituzione, in Toscana, potesse consolidare la dinastia lorenese.

Verosimilmente fu sua l'idea, suggerita il 21 aprile dal Tommasi Crudeli al Puccioni, a Firenze, di promuovere in Toscana il rifiuto delle imposte per devolvere l'ammontare al Piemonte sotto forma di contributo di guerra. Puccioni, op. cit., p. 48.

Fino dal gennaio 1859 il suo corrispondente Homodei gli aveva confidato il piano cavourriano tendente a provocare la diserzione in massa dei coscritti lombardi, nella speranza d'indurre l'Austria «a cercar di riprenderli, dal che una dichiarazione di guerra». B. L., c. 31, i. 197.

Il 20 febbraio una deputazione di esuli italiani si recava, com'è noto, a rendere omaggio al principe, reduce, con l'augusta sua sposa, dal Piemonte. Il Montanelli, quantunque designato a «capitanare» la deputazione, non vi partecipò, forse perché ammalato: cfr. in B. L., c. 40, i. 2220, la minuta autografa di una sua lettera, senza data, al «Monitore Toscano»; lettera che va probabilmente assegnata al gennaio del 1861 e che non venne pubblicata (si vedrà piú oltre come altre due lettere del Montanelli venissero pubblicate da quel giornale in quell'epoca). È certo comunque che il Montanelli ebbe un abboccamento col principe prima della sua partenza per l'Italia.

Redi, Ricordi biografici su Giuseppe Montanelli, Firenze 1883, pp. 53-54.

Cfr. il carteggio col Visconti-Venosta in B. L., c. 60, i. 781.

Lettera del Montanelli al Corsi, 30 maggio 1859, in Biblioteca Nazionale di Firenze, Nuovi Acquisti, 588.

Montanelli, L'Impero, il Papato e la Democrazia in Italia, Firenze 1859, p. 21. Tra le carte montanelliane in R. R. troviamo anche l'abbozzo di un'ode Italia all'Alemagna, scritta evidentemente allo stesso fine e nello stesso tempo. Comincia cosí: «Lamagna, che temi se sfolgoro in armi, / se rompo la nube che vieta mostrarmi / con serto di stelle qual fecemi Iddio / signora del santo terreno natio?» In B. L., c. 40, i. 2221, è invece l'abbozzo autografo dell'indirizzo I protestanti italiani ai protestanti inglesi e tedeschi.

La minuta della lettera, in data 28 marzo, in B. L., c. 40, i. 2236.

Tra l'altro le prove del Poliuto, che egli aveva tradotto in versi italiani su preghiera della Ristori, sua amicissima, e che questa si apprestava a mettere in scena.

La salute del Montanelli era sempre stata estremamente cagionevole; fra l'altro egli era tormentato da una grave malattia oftalmica, peggiorata sui primi del '59.

Le tappe di questo suo viaggio resultano dal suo passaporto (B. L., c. 40, i. 2259). Sulla fermata a Chambéry troviamo ragguagli in un quinternetto manoscritto di Cenni biografici del Montanelli, scritti dalla moglie di lui, Laura Cipriani, vedova Di Lupo Parra (R. R.). Da Chambéry, d'altronde, il Montanelli datò, il 29 aprile, una patriottica lettera alla «Gazette de Savoie» (B. L., c. 40, i. 2242).

Sul suo arrivo cfr. De La Varenne, Les chasseurs des Alpes et des Appennins, Firenze 1860, p. 315.

Cfr. il biglietto del Cavour al Montanelli, da Parigi, 30 marzo, in D'Ancona, Ricordi storici del Risorgimento italiano, Firenze 1914, p. 310.

Su questo colloquio cfr. Redi, op. cit., p. 54; Cenni biografici, ms cit. Molti particolari anche in certi appunti di mano del Montanelli, ora in R. R., e negli Schiarimenti elettorali, Firenze 1861, p. 14, della stesso Montanelli. Fu il Pallavicino che presentò il Montanelli al Cavour, il 1° maggio: cfr. Pallavicino, Memorie, III, Torino 1895, p. 516. Cfr. per contro il Diario del Massari, Beltrani, Bologna 1931, p. 325, sotto la data del 4 maggio: al Massari stesso e al Farini che gli parlavano del Montanelli, il Cavour avrebbe detto: «Fa bene ad andare ad Acqui. A me pare sia matto». Il lettore tenga presente, però, che il Massari, già amicissimo del Montanelli, si era violentemente urtato con lui fino dal 1849, tanto che i due, scambiatisi lettere quasi di sfida, erano stati lí lí per battersi a duello. Cfr. «Il Nazionale», Firenze, 13 ottobre 1849; Collezioni di documenti per servire alla storia della Toscana dei tempi nostri e alla difesa di Guerrazzi, Firenze 1853, p. 62. Un'altra lettera del Montanelli al Massari, 30 settembre 1849, trovasi in B. L., c. 40, i. 2264. Vedremo anche piú oltre come il diario Massari formicoli di maligne e non sempre fondate insinuazioni a carico del Montanelli.

Cosí il Perrens, le cui lettere al Montanelli trovansi in B. L., c. 45, i. 898.

Della Toscana gli riapriva le porte, dopo la condanna riportata nel '53, l'amnistia decretata il 3 maggio 1859 dal governo provvisorio: quell'amnistia contro la quale un altro esule illustre, il Guerrazzi, scagliava, com'è risaputo, i suoi strali, né, a dir vero, ingiustificatamente.

Sull'Ulloa, che alla fine d'aprile era stato trasferito in Toscana, cfr. Doria, La vita e il carteggio di Girolamo Ulloa, Napoli 1930, p. 33; sul Boldoni e gli altri ufficiali di quel corpo De La Varenne, op. cit., passim.

Il brevetto di nomina a sottotenente nel corpo dei Cacciatori venne notificato al Montanelli, a Fucecchio, da Edolo, 30 luglio; sulla busta, di mano del Montanelli stesso, si trova scritto «Rifiuta la carica». B. L., c. 40, i. 2259. L'esempio di modestia e di coraggio dato dal Montanelli suscitò larga ammirazione. Cfr. ad esempio le attestazioni del Verdi, che gli era personalmente amico, ne I copialettere di Giuseppe Verdi, pubblicati da Cesari e Luzio, Milano 1913, pp. 443-44.

Negli appunti autografi, inediti, già piú sopra cit.

Cfr., ad esempio, Della Torre, L'evoluzione del sentimento nazionale in Toscana dal 27 aprile 1859 al 15 marzo 1860, Roma 1915, pp. 94-96.

Al Corsi, 30 maggio (lettera cit.): «Sembra che presto anche noi Cacciatori degli Appennini entreremo in campagna. Questa gioventú lo desidera con grande ardore. Non ti sto a dire quanto io goda trovarmi fra amici cosí potentemente infiammati d'amore di patria». E al Michelet, 1° giugno: «Per intendere il moto attuale d'Italia bisogna vivere in mezzo a questa gioventú... L'amore dell'Italia fa di tutti una sola famiglia, un'anima sola. Io era lontano a Parigi dall'immaginarmi i progressi che il sentimento nazionale ha fatto in quest'ultimo decennio» (Tacchini, Michelet et Montanelli, Carrara 1931, pp. 13-14).

Il memoriale del Salvagnoli all'imperatore, in Bianchi, Storia della diplomazia europea in Italia, vol. VIII, Torino 1872, pp. 15-16.

Cfr., ad esempio, Calamari, L. Galeotti e il moderatismo toscano, Modena 1935, p. 124.

Trovasi in R. R.

In un altro documento, anch'esso inedito (B. L., c. 40, i. 2220), il Montanelli scrive: «Conferii con l'imperatore in Alessandria nel 25 maggio, e mentre due toscani, i quali poi hanno figurato tra i caporioni dell'annessione, gli avevano fatto credere che il principio unitario repugnava al nostro paese, io distinguendo unità da unità cercai lasciarlo persuaso del contrario». Cfr. a riprova Salvagnoli a Ricasoli, 17 maggio 1859: l'imperatore «ha convenuto meco della necessità di conservare l'autonomia (della Toscana) e della opportunità d'ingrandirla». Doria, Carteggio inedito Salvagnoli-Ricasoli, in «Il Risorgimento italiano», luglio-dicembre 1925, p. 658. Il 14 maggio il segretario del ministro Ridolfi aveva scritto al Cambray-Digny, a Torino, che la grande maggioranza degli uomini politici conosciuti erano per un regno separato! Carteggio politico Cambray-Digny, Milano 1913, pp. 26-29.

Lettera inedita cit. del Montanelli al «Monitore Toscano».

Ciò resulta da piú carte conservate negl'inserti montanelliani in B. L.

Cfr. Montanelli a Pallavicino, 21 giugno 1859, e Pallavicino a Cavour, 26 giugno, in Pallavicino, Memorie, Torino 1882 sg., vol. III, pp. 527-29, 532.

Lettera cit. Nella lettera al Corsi, cit., il Montanelli si mostrava assai lieto dell'ardore guerresco dimostrato dall'imperatore. Nella lettera 21 giugno al Pallavicino, cit., il Montanelli, precisando, scriveva che dall'insieme della conferenza aveva recato questa persuasione: «... Che l'imperatore dei francesi non sarebbe punto contrario alla unificazione politica d'Italia, quando l'opinione italiana si dimostrasse decisamente favorevole a quella... Che noi siamo piú padroni della nostra politica di quello che non avrei creduto. Questa persuasione mi venne confermata da persone che hanno il carico di fare a conto dell'imperatore dei rapporti sulle opinioni italiane». Senonché è evidente che l'ottimismo qui dimostrato dal Montanelli deriva piuttosto dagli avvenimenti svoltisi successivamente al colloquio imperiale che non dalle impressioni che quello gli aveva lasciato.

Redi, op. cit.; lettera inedita, cit., del Montanelli al «Monitore Toscano».

Si conserva in R. R. Quanto allo svolgimento della missione Pietri-Rapetti, non è qui certo il caso di soffermarvisi, tanto essa è nota nei suoi particolari agli studiosi del periodo. Ma forse non è privo d'interesse il notare come lo stesso Montanelli provvedesse a munire di lettere di raccomandazione per suoi amici influenti i due messaggeri imperiali. Cfr. su ciò la cit. lettera al Corsi (il Pietri – gli scriveva – «è uomo d'ingegno, e di cuore, e ama infinitamente l'Italia, e ci potrà essere molto utile appresso l'imperatore... per le opinioni che dovranno prelevare nel periodo di riordinamento»). È probabile, del resto, che anche al Guerrazzi, il quale vide il Pietri a due riprese (Lettere, Carducci, Livorno 1880, II, pp. 445, 452), costui fosse stato presentato dal Montanelli.

Lettera cit. del Montanelli al Corsi.

Candidatura contro la quale, come è ben noto, il principe stesso si dichiarava allora in termini inequivocabili, tanto da sospingere il governo fiorentino a proclamare senz'altro l'annessione al Piemonte. Carteggio Cavour-Nigra dal 1858 al 1861, Bologna 1926, II, passim, e specialmente pp. 209-16.

Memorie di Vittoria Giorgini, in Manzoni intimo, Milano 1923, I, 134; Giannelli, Cenni autobiografici e ricordi politici, Milano 1926, pp. 217, 363. Del principe Napoleone, in realtà, il Montanelli non sapeva per allora che poco o nulla, e col suo entourage, a Livorno o a Firenze, non aveva il benché minimo contatto. Notizie molto generiche intorno a lui e al contegno dei toscani a suo riguardo non gli pervenivano che da qualche privato corrispondente, come il Masi (il noto emigrato romano, suo compagno d'esilio), che da Firenze invidiava la nobile vita del campo scelta dal Montanelli. (Cfr. la sua lettera al Montanelli, 7 giugno in B. L., c. 37, i. 1128; «il 1848 – costui gli scriveva in un accesso di amarezza – non è titolo a noi, ma peccato originale!»).

Lettera cit. a Pallavicino.

L'opuscolo, già cit., recava la data di Acqui, 22 maggio, e si pubblicava «a benefizio dei volontari toscani».

Lettera cit. al Michelet.

Il reggimento operava il trasferimento in data 2 giugno (De La Varenne, op. cit. p. 680), il Montanelli lo seguiva il giorno appresso, come resulta da un foglio di via allora rilasciatogli (B. L., c. 40, i. 2259)

Cit., R. R.

Giorgini a Ricasoli, 7 giugno, in Lettere e documenti del barone Ricasoli, a cura di Tabarrini e Cotti, Firenze 1887 sg., III, p. 90. Cfr. anche, ivi, la lettera 19 giugno del Lambruschini: «Qualunque cosa si dica e si faccia, sarà di noi quel che Napoleone III crederà ben fatto e vorrà».

Sulla cui attività politica nel '59 troviamo ben pochi ragguagli nel vol. di Puccioni, Vincenzo Malenchini nel Risorgimento Italiano, Firenze 1930.

Mariscotti, Il prof. G. Montanelli e gli esclusivi, Firenze 1861, p. 106; Pini, Lettere di un elettore di S. Miniato ad alcuni suoi amici, San Miniato 1861; Marradi, G. Montanelli e la Toscana dal 1815 al 1862, Roma 1909, pp. 136-37 (è, quest'ultima, l'unica biografia che fin qui sia stata scritta del Montanelli; giacché non si possono onorar di tale titolo precedenti opericciuole apologetiche. Ma quante lacune anche in questa e come malamente inquadrata la figura del Montanelli nella storia del suo tempo! Sulla azione politica da lui svolta nel '59 i dati forniti sono, in particolare, assolutamente inadeguati).

R. R.

Cfr. queste istruzioni col programma tracciato dal Montanelli nella cit. sua lettera 21 giugno al Pallavicino: «Il mio programma è: a) Regno d'Italia. 2) Vittorio Emanuele capo costituzionale del regno (non toccando questioni di capitale). 3) Codice Napoleone. Quand'anche il regno d'Italia non dovesse per ora comporsi che dell'alta Italia e della Toscana sarebbe un fatto immenso». Occorrerà comunque dare al nuovo Stato «tale una prevalenza unitaria da ridurre gli altri Stati a un satellizio che li costringa a fondersi o piú presto o piú tardi nel regno d'Italia».

Dal colloquio imperiale egli aveva ricavato la netta impressione che, se Napoleone teneva «molto a lasciare in Italia tracce delle istituzioni francesi... non aveva tenerezze dinastiche per i suoi». Lettera cit. al Pallavicino.

Cosí il Pini, op. cit. Sostenendo su questo come su molti altri punti l'inverosimile, il Pini (come anche il Mariscotti) finí col nuocere positivamente al suo eroe, se non altro provocando acide repliche da parte dei suoi informatissimi detrattori.

Nei suoi appunti inediti il Montanelli pone in relazione, infatti, la missione Aquarone col proclama di Milano dell'8 giugno; d'altra parte, l'Aquarone scrive già una prima relazione al Plezza, da Firenze, l'11 del mese.

Questa lettera (B. L., c. 2, i. 721) reca soltanto la data «domenica 12»; ma nel '59 una domenica 12 non cadde che nel mese di giugno. Un breve estratto ne fu pubblicato dal Pini, op. cit., ma con la data evidentemente erronea 12 luglio.

Parecchie lettere del Montanelli al Morandini, intimissimo suo (nella giornata di Curtatone, egli si era fatto prendere prigioniero per non abbandonarlo), si trovano nella Biblioteca del Risorgimento, Firenze.

Il «Monitore Toscano», organo ufficiale, recava d'altronde nel numero del 9 giugno un editoriale, che venne assai notato, nel quale si accennava alle legittime speranze della costituzione di una nazione italiana, deplorando per contro le «chiacchiere» di fusioni e di autonomie.

Pini, op. cit., p. 14.

Quest'altra lettera del Montanelli al Pallavicino si trova, inedita, nel Museo del Risorgimento di Torino, 165, n. 188.

Appunti inediti cit.

Figlio di primo letto della moglie del Montanelli, il Parra, pressoché coetaneo del Montanelli, gli fu sempre esemplarmente devoto.

Adriano Biscardi, livornese, fu probabilmente il piú intimo e costante amico del Montanelli, del quale divise sempre le idealità politiche.

Rubieri, Storia intima della Toscana, Prato 1861, pp. 389-90. Il «Monitore Toscano» dell'8 giugno invitava la cittadinanza e sottoscriverlo.

Della Torre, op. cit., pp. 137 sg.; Zobi, Cronaca degli avvenimenti d'Italia nel 1859, Firenze 1859, I, pp. 379-82.

Nessun accenno in essi al «re d'Italia», ma solo al magnanimo campione dell'indipendenza, ecc. Cfr. «Monitore Toscano», 11 giugno.

Salvagnoli a Cambray-Dignv, 25 giugno 1859 in Carteggio politico Cambray-Digny cit., pp. 120-22.

Baccini, Carteggio politico del conte e della contessa Cambray-Digny, Firenze 1910, pp. 58-60.

Non ho bisogno d'avvertirti che per ora la mia mano nel programma unitario toscano non si deve conoscere», scriveva il 21 giugno il Montanelli al Pallavicino (brano omesso nelle Memorie del Pallavicino).

Baccini, op. cit., pp. 45-46.

Ibid., pp. 48-50.

Ibid., pp. 50-52.

Al Nocchi, 3 giugno e in altre lettere, Carteggio politico cit., pp. 90 sg. e Baccini, op. cit., p. 52.

Il testo, veramente reca «Mazzini», ma è evidentemente un errore che noi crediamo di poter correggere con «Malenchini».

Carteggio politico cit., pp. 108-10. Cfr. anche Cambray-Digny a Corsini, 24 giugno: «Ho avuto la certezza che i vecchi nomi del '49 incominciano a farsi vivi», p. 124.

Baccini, op. cit., pp. 50-52. Su questo punto, del resto, le citazioni si potrebbero moltiplicare, ma senza pro. Il 18 giugno il Cambray-Digny scriveva da Torino: «Se la Toscana deve pronunziarsi per l'unione, qui si vorrebbe che lo facesse legalmente per mezzo di indirizzi spontanei dei municipi, piuttosto che tumultuariamente, ma soprattutto non si vorrebbe che la Toscana venisse a sollevare questioni gravi come quella del papa e di Napoli», pp. 56-58. Un consiglio, questo, del quale il Ricasoli, non aveva davvero bisogno.

Non ho veduto l'indirizzo, so che è stato molto modificato, giacché il primo progetto era avversissimo al governo attuale», scriveva la contessa Cambray-Digny al marito fin dal 16 giugno. Ibid., pp. 48-50.

L'influenza del Montanelli si potrebbe forse ravvisare nelle deliberazioni prese dal municipio di Lucca, ostentatamente improntate a un francofilismo accentuato. Cfr. il «Monitore Toscano», 29 giugno 1859.

Puccioni, L'Unità d'Italia cit., pp. 74-75; Valeggia, G. Dolfi, Firenze 1913, p 36; Zobi, op. cit., I, pp. 379-81; Rubieri, op. cit., pp. 390-91; Doria, Carteggio cit., p. 659.

Cfr. per tutti il Lambruschini nella lettera 28 giugno al Cambray-Digny. Carteggio politico cit., p. 137-39.

Puccioni, L'Unità d'Italia cit., pp. 78-79; Carletti, La Fusione, Firenze 1859, pp. 22-24; Rubieri, op. cit., p. 166.

Ond'è che lo stesso Montanelli, redigendo, alcuni mesi piú tardi, per conto, sembra, di quel suo comune, un indirizzo a re Vittorio (B. L., c. 40, i. 2222), ne sottolineava con orgoglio il primato patriottico e unitario.

A Livorno vennero raccolti oltre 20 000 voti, 6000 a Pisa, ecc. Sulla autenticità di queste cifre qualcuno sollevò i suoi dubbi; il Lambruschini, ad esempio, parlò senza ambagi di firme false (nella cit. lettera al Cambray-Digny).

Ricasoli a Ricci, 22 giugno: «Una sola parola non mi piace (nella formola senese), ed è annessione; convien preferire l'altra: unione. Le due parole annessione, fusione, non rappresentano il concetto d'un'Italia una e forte». Puccioni, L'Unità cit., p. 81. Sulle preferenze unitarie del Montanelli, cfr. anche Cambray-Digny a Corsini, 20 giugno, in Carteggio politico cit., p. 99; ivi anche (pp. 120-22) accenni al Salvagnoli.

Occorrerà far luce, comunque, sugl'indubitati contatti che l'Aquarone ebbe, a Firenze, col Salvagnoli: per ora cfr. Diario Massari cit., p. 390.

Fors'anche perché il Plezza, nel frattempo, era decaduto dal suo ufficio di commissario regio ad Alessandria.

Diario Massari cit., p. 409; Carteggio politico Digny cit., pp. 157-58.

Baccini, op. cit., pp. 62, 72. Ulteriori accenni all'Aquarone, trasferitosi a Torino, ibid., pp. 76, 97.

Onestamente il Cambray-Digny aggiungeva però che della confusione regnante in Toscana tutti erano un poco responsabili nessuno eccettuato. Da allora in poi non ci si doveva occupare che della guerra, «e finché parlano di guerra e vanno alla guerra applaudiamo anche il Montanelli e compagnia». Baccini, op. cit., pp. 94-95.

Lettere e documenti cit., III, p. 140. Di questa disapprovazione imperiale si era già fatto autorevole interprete il Pietri: al quale il Salvagnoli aveva «detto che il governo non c'entrava» (nell'agitazione unitaria). «Menzogna», prorompeva il Tabarrini, 21 giugno, nel suo inedito Libro di ricordi: Puccioni, L'Unità cit., p. 74.

Lettera autografa nella Biblioteca Nazionale di Firenze, Nuovi Acquisti, 588: senza data, ma, dal contesto, sicuramente attribuibile a questo periodo.

Le parole fra parentesi non figurano nel testo, ma è da supporsi che siano state omesse nella trascrizione.

Marradi, op. cit., pp. 242-44.

Chi parla adesso di fusione e d'unità italiana... è un traditore della patria», scriveva la contessa Digny il 26 giugno. Baccini, op. cit., p. 87.

Il 1° e 2° battaglione dei Cacciatori partirono per Piacenza l'11 giugno; un secondo scaglione non giunse invece a Piacenza che il 21. Il Montanelli partí certamente col primo scaglione unitamente al Malenchini, comandante del 1° battaglione. Il 18, infatti, il Cambray-Digny, alludendo a lui, lo diceva a Piacenza; e il 19 lo vide in questa città «un povero prete» che portò i suoi saluti al Verdi, a Busseto: Cori, Galeotti, Mari e Montanelli. Commemorazione, Firenze 1913, p. 35.

Dieci anni di esilio avevano ridotto allo stremo l'esiguo suo patrimonio; le vicende processuali di una eredità contestata avrebbero reso indispensabile e urgente il suo ritorno a Fucecchio.

Cfr., ad esempio, Perrens a Montanelli, 11 agosto 1839, in B. L., c. 45, i. 898.

Lettera cit. nel Museo del Risorgimento, Torino. Cfr., della stessa data, anche l'altra lettera, cit., nelle Memorie del Pallavicino.

Il discorso del Montanelli nella Lente, Firenze, 27 luglio 1859; cfr. anche (Provenzal), Alla cara memoria di Giuseppe Montanelli, Livorno 1862, p. 34, e le patetiche informazioni del Bourbon del Monte, in De La Varenne, op. cit., pp. 682-83.

Cosí, il 26 del mese, s'incontra col Kossuth, di passaggio per Piacenza. Kossuth, Souvenirs et écrits de mon exil, Paris 1880, p. 285. È verosimile che il Montanelli s'incontrasse altresí con l'Ulloa, giunto a Reggio, con i volontari toscani, il 24 e col Pallieri, commissario regio a Parma.

I Cacciatori degli Appennini giungevano infatti a Milano il 4 luglio, e a Sondrio l'8.

Troviamo questa minuta di lettera, non datata, in B. L., c. 40, i. 2239. È presumibile però che il Montanelli la scrivesse appunto da Piacenza.

Il quale venne ben presto chiamato, come si sa, a prendere il comando dei Cacciatori degli Appennini.

Cfr. le Memorie di Garibaldi, redazione definitiva, Bologna 1932, p. 387; e De La Varenne, op. cit., p, 666.

Cenni biografici cit.

Lettera inedita cit., al «Monitore Toscano».

Pini, Lettera cit., 15: si trattava di affari concernenti i Cacciatori.

L'Impero, il Papato cit., p. 3.

Un brano delle istruzioni impartitegli dal Garibaldi, in Pini, op. cit., p. 15: «Nelle lamentazioni dirette al governo ed al quartier generale del re si deve osservare che non vi sia gesuitismo, tendente a gettare la discordia tra genti che devono rimanere concordi ad ogni costo... Che vi sia tregua, o che diavolo si voglia, non tralasciamo di fare l'esercito italico grosso, grossissimo».

Lettera cit., al «Monitore Toscano».

Pini, Elogio storico del professor Giuseppe Montanelli, San Miniato 1862 e Lettera di un elettore cit., passim.

Garibaldi a Mordini, 17 luglio: «Io diedi già la mia adesione al Montanelli circa le idee vostre, che sono le mie. Aspetto dal suddetto mi dica qualche cosa». Rosi, Il Risorgimento italiano e l'azione di un patriota cospiratore e soldato, Roma 1906, p. 176.

Anche il Massari partiva per Torino col medesimo convoglio. Diario cit., p. 419: «Entro nel vagone e veggo Montanelli (infausto augurio), che entra in un altro. Chi sa cosa va a rimestare questo imbroglione!» (sic!)

Lettera cit. al «Monitore Toscano».

Lettere e documenti Ricasoli cit., III, p. 156; Bianchi, Storia della diplomazia cit., VIII, pp. 536-38.

Col Bianchi, direttore del «Nazionale», il Montanelli si era tenuto in assidui rapporti nel primo periodo del suo esilio.

Cfr. il telegramma del Bianchi al Boncompagni, 15 luglio, ore 4 pom., in Lettere e documenti Ricasoli cit., III, p. 157.

Lettera del Bianchi al direttore del «Monitore Toscano», 26 gennaio 1861: col Montanelli «non si parlò se non di armamenti».

Chiala, Lettere di Cavour, Torino 1884, III, p. CCXXIII.

Kossuth, op. cit., pp. 317-18.

Presentatosi al palazzo reale vestito dell'assisa dei Cacciatori, si accorse (il Montanelli) esser preso in sospetto, ma dato ad un uffiziale il suo nome, fu all'Imperatore annunziato. Esso lo fece tosto passare». Redi, op. cit., p. 62.

Cavour a Lamarmora, 16 luglio, in Chiala, op. cit., III, pp. 110-11; Tivaroni, L'Italia degli italiani, 1883, II, pp. 114-15.

Lettere e documenti Ricasoli cit., II, p. 158.

Al Pepoli l'imperatore aveva detto: «Se l'annessione valicasse gli Appennini l'unità sarebbe fatta, e io non voglio l'unità, voglio l'indipendenza soltanto».

Redi, op. cit., pp. 62-63.

Pini, Elogio cit., pp. 21-22; Lettera cit., pp. 10-11 (qui per altro il Pini avverte che «le parole dell'augusto personaggio non possono tutte essere riferite»).

Mariscotti, op. cit., pp. 117-18. Diario Massari cit., p. 421: «Napoleone III ha veduto stasera anche Montanelli! Gli ha parlato del voto popolare: è proprio l'uomo degno di stare a paro con quel figuro (sic!) del Montanelli».

Tale quella contenuta in una lettera del La Farina al Franchi, 24 settembre '59 (Epistolario La Farina, Franchi, Milano 1869, II, pp. 209-10), secondo la quale subito dopo il colloquio il Montanelli avrebbe dichiarato al La Farina «che bisognava insistere per l'annessione della Toscana al Piemonte, che eravamo tutti d'accordo, che bisognava fare in modo che la deliberazione dell'assemblea toscana riuscisse all'unanimità» (ma se l'assemblea toscana era ancora in mente Dei!) Dunque l'imperatore avrebbe spinto il Montanelli sulla via delle annessioni?! Il lettore tenga presente che nel settembre del '59 il La Farina era divenuto fierissimo avversario del Montanelli.

Monitore Toscano», Firenze, 29 gennaio 1861.

Monitore Toscano», 26 gennaio 1861.

Lettera del Mariscotti nel «Monitore Toscano», 29 gennaio 1861.

È vero che gli amici francesi del Montanelli, che erano quasi tutti dei democratici fieramente antinapoleonici, non avevano mancato di metterlo in guardia contro il pericolo del riporre eccessiva fiducia nell'imperatore: cosí, ad esempio, il Perrens; ma non fu se non molti mesi piú tardi che il Montanelli dovette rimpiangere di non avere prestato loro piú ascolto!

Sulla soddisfazione dimostrata dal Bianchi per questa assicurazione del non intervento e sulla sua costernazione per il veto alle annessioni, cfr. le contrapposte asserzioni del Bianchi stesso e del Montanelli nelle citate lettere pubblicate sul «Monitore Toscano», 26 e 29 gennaio 1861.

Cit. lettera del Bianchi al «Monitore Toscano».

Cfr. il Montanelli nella cit. sua lettera inedita al «Monitore Toscano»: «al governo da lui (dal Bianchi) rappresentato io non poteva non palesarmi amico, e desideroso di cooperazione, quando c'incontravamo sulla medesima via».

Vedila in Lettere e documenti Ricasoli cit., III, pp. 167-68.

Lo stesso Massari, tanto severo col Montanelli, si prese di lí a poco la bella responsabilità di dichiarare allo Hudson, ministro inglese a Torino, il quale lo aveva interpellato a nome e per conto del suo ministro degli esteri, che a suo giudizio i toscani avrebbero accettato sul trono granducale la dinastia borbonica di Parma! (Diario cit., p. 458).

Questo brano di lettera venne dal Montanelli pubblicato – con la data «lunedí luglio 1859» – nella cit. sua lettera al «Monitore Toscano», 29 gennaio 1861. Senonché essa non può essere che di lunedí 18 luglio, giacché il lunedí precedente la missione da affidarsi al Montanelli era ancora fuor di questione, mentre il lunedí successivo il Montanelli si trovava già a Firenze.

Lettera cit. del Montanelli al Ricasoli, 18 luglio.

Il 17 luglio il Garibaldi era ancora all'oscuro dei resultati di quelle trattative, come dimostra la citata sua lettera al Mordini.

Il Montanelli dovette lasciare Torino il giorno 18 (data della sua lettera al Ricasoli), giungendo in serata a Bergamo (annotaz. sul suo foglio di via cit.).

Puccioni, Malenchini cit., p. 85. La lettera del Garibaldi reca invero l'indirizzo del Montanelli a Torino, ma il Montanelli stesso, nella cit. sua lettera inedita al «Monitore Toscano», scrive: «Tornato al q. g. di Garibaldi ebbi da lui una lettera...»

Cfr. le annotazioni delle varie tappe del viaggio, iniziatosi a Brescia il giorno 20, nel foglio di via cit.

Lettera inedita cit., al «Monitore Toscano».

Il Pepoli venne sostituito il giorno 23 dal Cipriani, nominato commissario straordinario per la Romagna; ma il Montanelli che col Cipriani era in grave urto già da piú anni, non ebbe contatti che col primo.

Lettere e documenti Ricasoli cit., III, pp. 170-72.

Pini, Lettera cit., p. 11.

Il 28 luglio Fucecchio lo accoglieva con commoventi dimostrazioni di affetto. Fra le carte montanelliane in B. L., c. 40, i. 2262, si conservano, fra l'altro, due epigrafi stampate in quell'occasione in suo onore. L'annunzio di queste onoranze che si preparavano al Montanelli aveva dato sui nervi al Ricasoli: «Vedrai pure come, in mezzo ai nostri pensieri, si pensi da quegli sciocchi di Fucecchio di fare sciocchezze al ritorno di Montanelli. La risposta del governo non può essere dubbia, ma dev'essere dignitosa»: cosí il barone al Salvagnoli, il 23 di luglio (Doria, Carteggio cit., p. 687). Sembra dunque che la comunità di Montanelli avesse richiesto l'adesione del governo alle onoranze al Montanelli: questo, invero, era troppo pretendere!

Guerrazzi, Proemio all'appendice degli scritti politici, Milano 1861, p. 24. Onde il Guerrazzi al Corsi, 30 luglio: «Sento che Montanelli comparso riconciliavasi con gli emuli: di ciò non lo biasimo, anzi lo lodo» (Biblioteca Nazionale di Firenze, Nuovi Acquisti, 588).

Carteggio politico cit., pp. 198-99.

Che un movimento napoleonista si fosse dichiarato a Firenze assai prima del ritorno del Montanelli, sarebbe invero superfluo attardarsi a dimostrare. Basti qui citare, a riprova, l'opuscolo anonimo L. Napoleone dopo l'11 luglio 1859 uscito per le stampe, a Firenze, pochissimi giorni dopo l'armistizio.

Lettera inedita cit., al «Monitore Toscano».

Op. cit., pp. 67-68; cfr. anche Pini, Lettera cit., p. 11.

Lettera cit. al «Monitore Toscano», 26 gennaio 1861.

Lettera al «Monitore Toscano» in data 30 gennaio 1861, pubblicata il 2 febbraio seguente.

Cfr. Bianchi, Matteucci e l'Italia del suo tempo, Torino 1874, p. 282 e passim; Diario Massari cit., pp. 445, 451, 466; Della Torre, op cit., pp. 230-31; Carteggio politico Digny cit., p. 191.

Come ben sapeva e, per parte sua, deplorava il Malenchini, che lo scongiurava a voler ulteriormente riflettere su quell'essenziale problema: cfr. la sua lettera 30 luglio al Montanelli, in Puccioni, Malenchini cit., pp. 92-93.

Capponi a Matteucci, 29 luglio, in Lettere di G. Capponi e di altri a lui raccolte e pubblicate da A. Carraresi, Firenze 1882-90, III, p. 279.

Lettera cit,, 6 agosto, al Massari; anche in una successiva lettera del 23 agosto al Peruzzi, il Cambray-Digny accennava alla possibile, ma non provata attività plonploniana del Montanelli. (Carteggio politico cit., p. 206).

Secondo il Peruzzi (al Ridolfi, 2 agosto, in Poggi, op. cit., III, p. 88) il Walewski, ministro degli esteri francese, gli avrebbe segnalato l'attività plonploniana svolta dal Montanelli a Firenze e dal Matteucci a Torino, aggiungendo che il ministro francese a Firenze non aveva mancato di «richiamare» il Montanelli e che questi aveva ammesso di «non poter affermare che tale (cioè favorevole alla nota candidatura) fosse realmente la volontà imperiale». Ma cosa si può onestamente desumere da questa apertura del Montanelli, se non che le voci a carico del Montanelli erano giunte fino all'orecchio del ministro di Francia? In linea di fatto l'unico dato positivo riguardante il Montanelli è costituito, ci sembra, dalle sue dichiarazioni a discarico dell'Imperatore.

Lettera cit, del La Farina al Franchi, 24 settembre 1859.

Diario cit., pp. 460-61.

Lo schema di discorso in R. R.

Cfr. del resto anche gli Schiarimenti elettorali del Montanelli stesso, cit.: dove, riferendosi appunto al periodo successivo a Villafranca, egli scriveva che gli era parso meglio, allora, «circoscrivere la rivoluzione ad acquisto di libertà unificatrice sotto guarentigia della Francia, che aspirare ad unica monarchia abbandonata alle sole sue forze. E mi pareva che le autonomie del centro e del mezzogiorno, governate da uomini di parte nazionale unite col Piemonte in sodalizio militare, politico, economico, rappresentate in un Parlamento comune, potessero tanto bene provvedere alle unificazioni necessarie all'indipendenza, per lo meno quanto l'unità emanuelliana».

Redi, op. cit., pp. 69-71. Lo stesso Redi ci assicura che questo suo progetto venne dal Montanelli trasmesso all'imperatore a mezzo di uno dei suoi amici, fatto partire espressamente per Parigi. «Da questa missione, il 20 ottobre, venne fuori la lettera dell'imperatore al re Vittorio Emanuele». Degno di fede questo racconto? Chi sa. Certo che in quella lettera l'imperatore, se affacciava l'idea di una amministrazione separata per il Veneto, prospettava pur sempre la restaurazione granducale in Toscana e il riconoscimento di Modena alla duchessa di Parma!

Pini, Lettere cit., p. 11.

Malenchini a Montanelli, 10 agosto, in D'Ancona, op. cit., p. 312.

Nelle sue Memorie il Garibaldi scrive che il Montanelli e il Malenchini, reduci dal loro giro nell'Italia centrale, sarebbero venuti a sollecitare la sua accettazione: «Quando io risposi a Montanelli, che marcerei senza indugio..., egli m'abbracciò commosso». In realtà il solo Malenchini si recò in quella occasione dal Generale, il quale, scrivendo, dovette confondere l'incontro col Malenchini in agosto con quello col Montanelli il 20 luglio. Secondo il Puccioni, Il Risorgimento cit., p. 95, sarebbero stati, invece, il Malenchini e il Cempini a suggerire al Ricasoli l'idea della lega militare e del comando a Garibaldi; ma la testimonianza del generale rende al Montanelli quel che gli spetta.

Il De Reiset (Souvenir, Parigi, 1902-903) giungeva a Firenze il 10 agosto; otto giorni piú tardi il Poniatowski.

Il Planat de la Faye, che al Montanelli non perdonava d'aver dissentito dal suo Manin, in una lettera da Parigi, 27 agosto, all'Ulloa (Doria, op. cit., p. 61), insinuò che il Montanelli «scontento di non essere nulla e di vedersi screditato in patria, intrigasse col Poniatowski in favore del granduca decaduto». Accusa ingiuriosa e gratuita che neanche i piú fieri nemici del Montanelli osarono pronunziare! Per quanto avesse avuto, in passato, rapporti con lui (non lo aveva forse nominato, nel novembre del '48, ministro toscano a Parigi?) sembra infatti che il Montanelli non vedesse neanche il Poniatowski durante la sua breve e ingloriosa permanenza a Firenze.

Perfino il Bianchi dovette ammettere, sia pure a denti stretti, che al lusinghiero incarico il Montanelli preferí il posto di deputato all'assemblea. (Lettera cit. al «Monitore Toscano»); cfr. anche Mariscotti e Redi, op. cit. Ancora il 29 luglio, del resto lo stesso Peruzzi segnalando, da Parigi, il contegno ostile al governo toscano di una parte della stampa francese, scriveva al Ricasoli: «A me pare che adesso un giornale che propugnasse la causa dell'Italia centrale sarebbe utilissimo...; consiglierei di profittare delle disposizioni del Montanelli che dicono desideri di venire qui a lavorare nella stampa per la causa italiana: e ciò mi scrive anche il Matteucci. Mi pare che cosí fareste un viaggio e due servizi». Lettere e documenti Ricasoli cit., III, p. 186. Cfr. anche Poggi, op. cit., III, p. 98. Ma il Ricasoli, come si sa, era sfavorevole a questo progetto giornalistico: Ibid., p. 94.

Cfr. la lettera del Fabrizi, prefetto di Livorno e un tempo amico e collaboratore del Montanelli, al Ricasoli, 25 luglio, in Lettere e documenti Ricasoli cit., III, pp. 182-83. Il Rosso, Lettere inedite di G. Mazzoni ad A. Vannucci, Torino 1905, p. 27, scrive addirittura che il Montanelli, nel '59, tentò «di rimettere fuori la sua proposta di una Costituente», ma non sappiamo dove abbia pescato questa notizia del tutto infondata.

Della Torre, op. cit., p. 283; Poggi, op. cit., III, pp. 78 sg. Del resultato complessivo delle elezioni si rallegrava il Massari: «Sono tutti liberali; ma mi spiace vederci il Montanelli: lui che è per Napoleone!». Diario cit., p. 464.

Cfr. Malenchini a Montanelli, 10 agosto, cit.; e Garibaldi a Montanelli, 15 agosto, in D'Ancona, op. cit., p. 314.

Pasolini, Memorie, Torino 1887, I, p. 310.

Poggi, op. cit., III, pp. 100, 104; Morpurgo-Zanichelli, Lettere politiche di Ricasoli, Peruzzi, Corsini e Ridolfi, Bologna 1898, pp. 95-96. Il Peruzzi, del resto, doveva buscarsi i rimproveri del suo governo per non essersi mostrato abbastanza risolutamente contrario al disegno, attribuito appunto al Montanelli, di una reggenza napoleonica nell'Italia centrale.

Poggi, op. cit., III, pp. 123-24; Morpurgo, op. cit., pp. 141-42.

Carteggio inedito Tommaseo-Capponi, Bologna 1911-32, IV (2), pp. 176-78.

Mazzini, Scritti editi ed inediti, Edizione nazionale, Imola, LXIII, p. 317.

È noto come il periodo del massimo favore per quel progetto fosse a Parigi quello che andò dalla metà di agosto alla fine di settembre del '59. Verso la metà di ottobre tanto il principe che l'imperatore mostrarono per chiari segni di aver definitivamente rinunziato ad ogni speranza in proposito.

Diario Massari cit., p. 479, Peruzzi a Galeotti, 24 agosto, in Morpurgo, op. cit., pp. 97-105, Vincenzo a Bettino Ricasoli, 28 e 30 agosto, in Sapori, Dalla rivoluzione del 27 aprile all'annessione, Firenze 1926, pp. 39, 42. Che tra il Sarda Garuga e il Montanelli corressero effettivamente dei rapporti è dimostrato da una lettera del primo al secondo, in data 10 settembre, inclusa in altra del Biscardi, che trovasi in B. L., c. 7, i. 1497.

Fra le carte del Montanelli abbiamo trovato tracce di cordiali ma generici suoi rapporti epistolari col Farini; di piú intimi e seguitati, invece, con 1'Albéri: questi ultimi meritano di venire esaurientemente chiariti.

Un incidente caratteristico: il 13 agosto un giornale fiorentino, l'«Indipendenza», stampava, desumendolo da un foglio piemontese, il seguente trafiletto: «L'imperatore Napoleone fece un gran bene verso all'Italia centrale con l'ammonizione severa data al Montanelli di cessare da ogni propaganda in favore del principe figlio di re Girolamo». Il Montanelli non si lasciò intimidire: «Ricorro al suo pregiato giornale – scrisse al direttore della «Nazione» – per dichiarare pretta menzogna quanto sul conto mio fu riferito dall'«Indipendenza» (cfr. «Nazione», 17 agosto). Dopo di che, l'«Indipendenza» si affrettò a lasciar presa, gettando la responsabilità della informazione sul confratello piemontese. A che si riferiva la smentita del Montanelli: alla pretesa ammonizione imperiale, o piuttosto alla pretesa propaganda da lui svolta? Non si capisce bene. Quel che è evidente si è che la tattica del Montanelli consisteva allora nell'impedire che un'eventuale candidatura napoleonica potesse venir definitivamente pregiudicata: bisognava tenere in piedi anche quella possibilità, pur senza promuoverla attivamente.

A questo impegno del Montanelli di fronte all'imperatore fecero allusione i deputati toscani recatisi in missione a Torino, durante il loro colloquio col Cavour, 3 settembre '59: poco caritatevolmente aggiungendo che il Montanelli stesso definiva il Cavour «una donna isterica». Il Giorgini, anzi, avrebbe specificato (cosí il Massari nel suo Diario cit., pp. 493-494) avere il Montanelli «a lui per tre ore spifferato che con Plon-Plon farebbe in Toscana un esperimento di principato democratico-sociale». All'onesto Giorgini crederemmo senz'altro: ma ad un Giorgini raccontato dal Massari siamo proprio tenuti a prestar fede piena?

Per le dichiarazioni da lui fatte in quella occasione (egli considerava la concorde designazione del principe di Carignano da parte delle diverse assemblee dell'Italia centrale un passo decisivo verso la formazione di quel nuovo Stato che avrebbe facilitato l'ulteriore unificazione della penisola tutta) cfr. Assemblee del Risorgimento. Toscana, III, Roma 1911, pp. 727 sg.

D'altronde il Montanelli era persuaso che Napoleone III sarebbe stato in ogni caso costretto a rifiutare la corona dell'Italia centrale per il cugino, né piú né meno come Luigi Filippo aveva dovuto rifiutare quella belga offerta a suo figlio. Ma gli sembrava che la semplice offerta della reggenza o del trono sarebbe bastata ad assicurare la neutralità benevola della Francia agli ulteriori sviluppi della rivoluzione italiana nel centro e nel mezzogiorno. «Mi si potranno citare parole animate da cotali intendimenti – scrisse nella cit. lettera inedita al «Monitore Toscano» – ma sfido a provare, o che io spendessi in senso favorevole alla candidatura del principe Napoleone la parola imperiale, o che muovessi la benché minima pratica per sostenere che quando pure s'avesse a rinunziare all'unità fosse da preferire nel regno centrale il principe Napoleone a un principe della casa di Savoia... Prima che la reggenza del principe di Carignano fosse proposta mi era stata fatta parola di reggenza che il principe Napoleone avrebbe accettato... d'accordo col re Vittorio Emanuele. Certo io non avrei combattuto cosiffatto partito».

Cfr. a questo proposito i particolari datici dal Brofferio di un colloquio ch'egli ebbe col Montanelli, a Firenze, sui primi di settembre (Una visita all'Italia centrale, estratto da I miei tempi, Italia 1860, pp. 75-84). Si tenga presente che il Brofferio, pur amico e in qualche misura compagno di lotta politica del Montanelli, dissentí apertamente dal suo atteggiamento nella questione delle annessioni: ciò che aumenta valore alla sua testimonianza.

Questa proposta venne approvata per alzata e seduta: due soli deputati, i cui nomi non figurano nei resoconti ufficiali, non si alzarono: sembra proprio che uno di essi fosse il Montanelli (cfr. Poggi, op. cit., I, pp. 211-12).

Di queste discussioni segrete non sappiamo che ben poco (cfr. in particolare Carletti, op. cit., 140-46). Ma forse fu in questa occasione che il Montanelli sottopose ai colleghi due sue proposte di voto (per un indirizzo all'imperatore Napoleone e per una riunione plenaria di tutte le assemblee dell'Italia centrale), le cui minute si trovano fra le carte montanelliane in B. L., c. 40, i. 2248.

Cfr. le considerazioni svolte dal Montanelli in una lettera ad un suo ignoto corrispondente (forse il Farini?), evidentemente del marzo o aprile 1860, in B. L., c. 40, i. 2234.

Sosterranno, sí, gli apologisti del Montanelli (Mariscotti, op. cit., p. 125; Pini, Lettera cit., p. 12) che il Ricasoli gli fu personalmente riconoscente per l'astensione dal voto; tanto che glielo mandò a dire, a nome del governo, a mezzo del Menichetti. Ma non si può dire davvero che, nel seguito, il barone adeguasse a riconoscenza il suo atteggiamento verso il Montanelli.

Op. cit., p. 314.

Cfr., ad esempio, le allusioni anche troppo scoperte della «Nazione», 22 agosto.

Verso la fine d'agosto, ad esempio, l'agenzia Stefani comunicò ai giornali (cfr. L'«Indipendenza» del 29) che gli elettori di Fucecchio erano scontentissimi dell'atteggiamento assunto dal loro deputato. Informazione notoriamente infondata: a Fucecchio la parola del Montanelli era vangelo addirittura!

Montanelli ad un giornalista francese, il Morin, novembre 1859 (B. L., c. 40, i. 2234): «Quiconque ne partage pas les illusions des annexionnistes est calomnié somme réactionnaire... Nous n'avons pas de liberté. Le parti annexionniste a confisqué à son profit toutes les armes de la presse... Dans la Toscane ainsi que dans toute l'Italie centrale nous vivons sous le règne le plus dictatorial... Dans nos assemblées on a tout organisé d'une façon à empêcher qu'une parole libre puisse se faire entendre».

Cosí enorme parve quella esclusione che non mancarono contro di essa veementi proteste. Cfr., ad esempio, Vessillo della libertà, Vercelli, 11 ottobre 1860; e Unità Italiana, Firenze, 14 ottobre 1860. Non fu se non nella primavera del '62, caduto il Ricasoli, che il Montanelli, ormai sull'orlo del sepolcro, poté ottenere dal Matteucci, ministro dell'Istruzione nel gabinetto Rattazzi, l'estrema soddisfazione di vedersi reintegrato nell'insegnamento universitario.

A sentire il Menichetti, che fu eletto in sua vece, nel gennaio del '61, nel suo collegio natío, dopo una lotta d'indicibile asprezza, lo stesso Cavour, poche settimane prima di morire, avrebbe testualmente dichiarato: «Alla Camera, meno Montanelli, ci sono tutti coloro che hanno contribuito a fare l'Italia. Mi disse anche che ne avrebbe combattuto a oltranza la candidatura» (Puccioni, Il Risorgimento cit., p. 249). Senonché converrebbe conoscere a quali confidenze del Menichetti facesse seguito questo sfogo del gran conte!

Memorabile fra tutti la serie di articoli sull'Ordinamento nazionale, pubblicati sulla «Nuova Europa», Firenze, nel 1861-62: al loro uscire nessuno li notò o parve notarli; salvo che, morto il Montanelli, pensarono gli amici a raccoglierli in opuscolo, sotto quel titolo (Firenze 1862): e allora se ne fece gran caso!

Soprattutto 7 debiti pubblici! Legge 4 agosto 1861, presentata come progetto dal Bastogi il 27 giugno. Scriveva il deputato Galeotti: «il regno d'Italia ereditò dagli antichi e dai nuovi governi un disavanzo ordinario di 102 milioni; un debito pubblico di 22 481 870 000; una quantità cospicua di leggi e di decreti organici, che dovevano essere posti in esecuzione; un personale esuberante nei pubblici uffici, oltre a quelli che la mitezza di una rivoluzione aveva collocato fra i pensionati: i pubblici introiti dappertutto diminuiti» (La prima Legislazione del Regno d'Italia da Zoli, Saggio, pp. 279-80).

Secondo Petruccelli della Gattina, 2561: Storia d'Italia, p. 476. Nel 1860, su quaranta province, solo sei eran provviste di ferrovie. Ibid.

Giustino Fortunato dice (1928) che si è molto esagerato sul contegno dei Piemontesi nel mezzogiorno; e anzi vorrebbe scrivere qualcosa per dimostrare che fecero quanto di meglio era possibile.

Vero prodigio! quando si pensi che una tanta impresa non veniva coadiuvata da alcuna riforma amministrativa ispirata al decentramento amministrativo, la quale sviasse una parte degli interessi locali dal far ressa e dal far tratta, senza ritegno, sulle risorse del bilancio nazionale» (Jacini, Pensieri sulla politica italiana, p. 29).

La preoccupazione finanziaria impedí che si provvedesse alla soluzione di molte altre questioni. Jacini propugnando la sua riforma politico-amministrativa sostiene che soltanto con la sua attuazione si può sperare di risolvere definitivamente la questione finanziaria.

Considerazione giustissima sul Congresso di Berlino svolge Jacini, Pensieri sulla politica italiana, pp. 76 sg., stigmatizzando l'indignazione che contro di esso si diffuse in Italia perché non ci aveva portato nessun ingrandimento territoriale (eppure l'Italia non aveva mica partecipato alla guerra d'Oriente!) «Mentre sopra un tale risultato si era fatto assegnamento sicuro, non per altro titolo che perché ciò sarebbe stato cosa desiderabile...» Eppure attraverso le discussioni in parlamento e al senato risultò chiara l'impossibilità di tale ingrandimento per noi. La frase – «lo smacco del trattato di Berlino» – diventò nondimeno tradizionale (e quanto male ci ha fatto!). E non si pensò che era «già un motivo di grande compiacenza per l'Italia l'avere seduto, per la prima volta, a titolo di grande potenza, in un congresso europeo».

Inghilterra, 30 marzo 1861; Francia, 15 giugno 1861; Russia, 12 luglio 1862.

Uno degli atti piú scaltri fu forse la Convenzione di settembre, che si riuscí a render cosí poco chiara da giustificare, per parte italiana, una interpretazione letterale in aperta contraddizione col suo spirito (int. La Marmora e Dronin de Lhuis).

Jacini, Pensieri sulla politica italiana, svolge il concetto della neutralizzazione internazionale della Santa Sede.

Contro l'accentramento se la prende Jacini – che lo dichiara ineluttabile fino al '66; ma dopo perniciosissimo. «L'accentramento amministrativo trae dunque con sé per necessaria conseguenza l'accentramento delle discussioni in Parlamento di ogni piú piccolo incidente» (Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 24).

In sostanza Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, vorrebbe tornare (1870) al progetto delle regioni che forse fu bene rigettare nel '61, ma che ora s'impone. Dieci anni di rigido accentramento eran forse necessari date le condizioni del paese; e ora gioveranno come correttivo del regionalismo. Jacini vince l'obiezione che si fa, della diversa prosperità delle varie regioni, dicendo che niente impedirebbe da parte dello Stato un equo calcolo di dare e avere fra l'erario nazionale e le singole regioni.

Curioso che Jacini, il quale propugna il suffragio universale a doppio grado per le elezioni politiche, voglia invece il suffragio ristretto per i corpi regionali «per schivare che il medesimo collegio racchiuda un contrasto naturale e permanente di interessi locali»?! (p. 98).

Il progetto di riforma di Jacini è caratterizzato da un governo piú forte, attraverso il modo di elezione dei deputati e la limitazione delle loro competenze, e da un grande discentramento amministrativo, reso possibile appunto dalla esistenza di un governo forte.

Rattazzi, in una lettera a Vittorio Emanuele, 1860, ricordando le tradizioni del mezzogiorno raccomanda «pas de hâte enragée de trop administrer et d'une façon préconçue, pas de zèle dans l'unification. Voilà le danger contre lequel nous allons peut-être nous heurter...» (Rattazzi et son temps, pp. 537 sg.).

Ricasoli (sul principio del '62) operò alcune riforme amministrative, nel senso del decentramento.

Jacini, Pensieri sulla politica italiana, p. 39, lamenta che – dopo il '66 – non si sia voluto parlare di riforma amministrativa (che tra l'altro avrebbe sanato il Parlamento) perché incombeva il problema finanziario. E non si capí che quella avrebbe facilitato la risoluzione di questo.

Vedi parafrasata (e smontata) questa accusa in Jacini, Pensieri sulla politica italiana, p. 70. Molti lamentano che il Piemonte facesse piú grande politica estera del regno d'Italia e si domandano: «L'esperienza non ci insegna forse che una politica intraprendente e inframettente è quella che ci conviene? Eravamo intraprendenti e inframettenti da piccini, perché ora, divenuti grandi dovremmo cessare d'esserlo?» La risposta è contenuta nel capitolo sulla Megalomania politica in Italia nel citato volume di Jacini (un piccolo Stato può arrischiare e poi, eventualmente, ritirarsi, cedendo all'intimazione di una o piú grandi potenze. Una grande potenza non potrebbe senza gravissimo danno sottoporsi a quest'onta ecc.). Lo stesso, pp. 26 sg., dice che la posizione internazionale d'Italia dopo il '66 era meravigliosa e che il principale assunto del suo governo in politica estera avrebbe dovuto essere il mantenimento dello status quo europeo.

1869, accuse della Sinistra al governo perché ha pagato (in oro) alla Francia il debito pontificio per le province occupate, giustificando quel che scrive la stampa cattolica, ossia con quel pagamento l'Italia riconosce di essersi appropriata dei beni altrui. Fu debolezza? O necessità? (Rattazzi et son temps, II, pp. 303 sg.).

La critica che fa Jacini, Pensieri sulla politica italiana, pp. 28 sg., è che se fu giusto che dal 1860 al 1866 i problemi di politica interna restassero subordinati a quelli della estera, male fu che dopo il '66 non si invertissero i rapporti. E che in sostanza, dopo il '66, auspici la megalomania e lo pseudo parlamentarismo, si sbagliò l'indirizzo politico.

Ancor piú significativa tale guerra quando si pensi alle condizioni del paese, nel dichiararla. Tali condizioni sono riassunte (assai pessimisticamente invero) da Rattazzi in un colloquio col principe di Carignano, giugno 1866: 1) cattiva situazione all'estero; 2) popolo scontento; 3) amministrazione incapace; 4) minacce all'unità; 5) clero antipatriottico; 6) aristocrazia a sé; 7) borghesia piovra dello Stato; 8) scarse individualità eminenti, anche nel governo; 9) rivalità del passato risuscitate nel 1864; 10) parlamento povero di personalità; 11) senato - ricovero di pensionati; 12) stampa venale e ignorante; 13) regime fiscale insensato (?); 14) ignoranza diffusa e quel po' di istruzione, pretesca; 15) giovinezza senza principî e senza fede, un po' mazziniana e un po' loiolesca; 16) nessuna preparazione alla guerra, nessuna fede nei capi; 17) marina sconnessa, mai trovatasi assieme agli ordini d'un ammiraglio; 18) nel mezzogiorno ignoranza totale dei fini della guerra. Questo quadro fatto da Rattazzi ha molta importanza (Rattazzi et son temps, II, pp. 52 sg.).

Lo dice benissimo Jacini, Pensieri sulla politica italiana, p. 71: «Il regno di Sardegna era una creazione del Congresso del 1815 della quale l'Europa non avrebbe mai permesso la distruzione. Era un cuscinetto indispensabile, posto nell'interesse europeo, insieme alla Svizzera, tra la Francia e l'Austria. Il Piemonte poteva permettersi una politica audacissima, colla certezza di guadagnare immensamente in caso di vittoria, e di restare come prima in caso di sconfitta, salvo a pagare qualche indennizzo di guerra al vincitore...»

Ancora Jacini, ibid.: «In caso di sconfitta, la certa prospettiva che si presenterebbe al regno d'Italia sarebbe quella di andare in frantumi. Parecchi dei grandi stati d'Europa, possono avere interesse a che il territorio italiano non divenga piú la preda di alcuno dei popoli vicini; ma è indifferente per loro che rimanga o non rimanga costituito in un solo Stato». Solo che Jacini addita questi pericoli all'Italia di dopo il '66, non prima, quasi dando a credere che l'Europa vedeva volentieri il suo annettersi la Venezia. Ciò che non mi pare dimostrato.

Jacini, Pensieri sulla politica italiana, p. 20, dice che noi rifiutammo il 5 maggio.

Lo stesso, loc. cit., sottolinea il contegno cavalleresco dell'Austria verso di noi dopo la guerra e i «modi leali e cordiali del suo riconoscimento».

Rattazzi et son temps, II, p. 310, accenna, 1867, a 93 milioni che l'Italia doveva pagare all'Austria per il valore del materiale bellico nelle fortezze cedute. Ma come? anche quello si pagò? o non soltanto ci si assunse il debito pubblico di Venezia? Nel primo caso, sarebbe stata una grande umiliazione.

Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 52, riconosce l'accasciamento generale che prese dopo la guerra del '66. Ma si rifiuta di spiegare con esso quel certo rallentamento nell'opera del governo, quella diminuita adeguatezza di quell'opera alle necessità negli anni immediatamente seguenti al '66. «Che un'intera nazione si abbia a dare per perduta, perché le mancò il prestigio della gloria militare, tanto piú dopo aver conseguito i medesimi vantaggi materiali che la gloria militare avrebbe potuto procacciarle, è la cosa piú inverosimile che si possa immaginare».

Nel valutare l'iniziativa per la guerra, tener conto delle trattative segrete fra Vittorio Emanuele e Mazzini appunto per promuoverla. Mazzini, quando gli pareva che si rallentasse il fuoco sacro per il Veneto, agitava la minaccia della repubblica.

Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 67, dice in sostanza che Rattazzi fu rovesciato nel '62 «per aver osato mantener forza alla legge ad Aspromonte». Mi pare un'interpretazione un po' futurista.

Sviluppare questo punto. Jacini, Pensieri sulla politica italiana (1889), sviluppa benissimo, in contrapposto a certe pretese di megalomania, una linea di politica estera misurata attiva e proficua. In sostanza noi dovremmo convertire il valore virtuale che ci viene dal possesso della piú splendida posizione nel Mediterraneo, in valore effettivo. «Non corriamo dietro alle fantasticherie. Egli è restituendo il manto delle foreste alle nostre Alpi ed ai nostri Appennini denudati, prosciugando le sterminate paludi... sviluppando le nostre risorse interne, migliorando i nostri porti, la nostra navigazione, la nostra attività, agraria, industriale e commerciale...; rinforzandoci e consolidandoci in casa nostra, che avremo fatta la miglior politica estera del Mediterraneo».

Il discorso Rattazzi, 18 dicembre 1867, è volto a dimostrare che il governo fece quanto poté per impedire l'arruolamento dei volontari, ma che questi andavano spontaneamente, alla spicciolata alla frontiera, senza armi, ecc. Insomma, il discorso vuol dimostrare che il governo è incapace di dominare un movimento cosí vasto e spontaneo e da tutti appoggiato.

Settembre 1867, Rattazzi fa dire da Nigra a Napoleone che la popolazione di Roma ha una attività rivoluzionaria e che l'Italia si troverà forse nella necessità d'intervenire per salvare l'ordine, il Vaticano, ecc. Risposta di Napoleone 4 ottobre (attraverso Nigra): non crede allo spirito rivoluzionario in Roma e si riserva ogni decisione.

Rattazzi è stato mal servito anche dai suoi apologisti. Rattazzi et son temps, II, p. 184, dice che a un certo punto Rattazzi lasciò fare Garibaldi nel '67, forse perché aspettava «de la leçon que Garibaldi allait recevoir de la main des Français la vengeance de tous les maux que l'héroïque aventurier lui avait causés».

Rattazzi, 18 dicembre 1867, parla dei volontari che alla frontiera pontificia riescivano a sottrarsi alla vigilanza delle truppe italiane anche perché favoriti dalle popolazioni. (?!...)

Vedi Rattazzi et son temps, II, p. 172. Ma i romani in fondo si contentavano del governo bonaccione dei preti e non si muovevano, col pretesto di non creare imbarazzi al governo italiano. Avevano una matta paura dei garibaldini!

Che fosse terribilmente complicato risulta dalle stesse imbarazzate dichiarazioni di Rattazzi alla Camera, il 18 dicembre 1867, là dove dice che siccome in Italia non ci sono leggi di repressione preventiva, cosí nessuno poteva, innanzi Mentana, impedire ai garibaldini di propagandare l'imminenza della convenzione di settembre.

Contraddizioni del discorso Rattazzi, 18 dicembre 1867. L'arresto di Garibaldi a Sinalunga fu forse anticostituzionale, ma una necessità politica. Poco oltre: lo stesso arresto prova che il governo è uguale di fronte a tutti e non rincula mai dinanzi alla legge.

Fu il deputato Sirtori. Ma in Rattazzi et son temps, pp. 630-31, si dice che dopo qualche mese si constatò che era pazzo.

Su Rattazzi però bisogna andare a fondo: lettera sua a Vittorio Emanuele, 1861: «Ce n'est pas non plus le moment, il me semble, de songer à Venise ni à Rome, même par allusion, comme le but final de la révolution que nous venons d'accomplir. A chaque jour sa tâche. Le tour de Venise et de Rome viendra dans un quart de siècle peut-être» (Rattazzi et son temps, pp. 187 sg.).

Scrive il marchese di Villamarina (ex ambasciatore sardo a Parigi) al Morelli, autore di uno Studio politico su Rattazzi: «Nel 1867 Napoleone III aspettava con una certa impazienza l'annunzio del fatto compiuto rispetto a Roma... fu un momento solo, ma quel momento non ci è mancato, se avessimo voluto e saputo approfittarne. Ignoro se Rattazzi fosse consapevole di ciò quando voleva passare il confine, e trovò opposizione fra gli stessi suoi colleghi del ministero; ma ripeto, che se egli fosse stato meno compiacente nell'accettare nel suo gabinetto uomini le cui idee e le cui aspirazioni non erano in perfetta armonia con le sue sarebbe riuscito con sua lode e con plauso utile della patria» (Petruccelli della Gattina, Storia d'Italia, P. 183).

La stessa commedia, in certa misura, si giuocò ancora nel '70, quando – dopo Sédan – il governo italiano non si decide ad andare a Roma se non in seguito alle petizioni di varie città papali, che chiedono l'occupazione italiana per troncare l'anarchia che già infierisce. Il gabinetto voleva aver l'aria di farsi forzar la mano!

Il vero insuccesso di Mentana fu per Napoleone. Al quale Pepoli scriveva (credo sul principio del '67) incitandolo a facilitare l'andata dell'Italia a Roma: «L'alleanza italiana poi è pure di qualche peso. Fra non guari, la spada del nostro esercito peserà anch'essa sulla bilancia dei destini di Europa. Io non so immaginare che V. M. respinga il concorso dei suoi piú fidi amici per appoggiarsi su Roma...»

Il principe Napoleone a Sainte-Beuve, 15 dicembre 1867, deplorando la politica di Napoleone III: «... restando a Roma noi perdiamo un alleato devoto ed utile, il frutto della guerra 1859 – e tutto ciò pel potere temporale del papa!» (ibid., p. 32).

Dietro sollecitazioni e assicurazioni di Napoleone – dice Rattazzi alla Camera. La Russia soprattutto in grazia delle misure rigorose prese da Rattazzi contro i Polacchi della scuola militare di Cuneo, che abusavano dell'ospitalità italiana; la Prussia per mostrar la sua indipendenza dall'Austria e in seguito a una nota insolente di Rechberg.

Circolare cit. alle legazioni. Questa circolare di Durando urtò Napoleone, che fece scrivere L'Europe et la Papauté, ripresentando la vecchia sua idea della federazione in Italia.

Pepoli, ministro, dopo Aspromonte andò a Parigi e vide Napoleone: «... non gli dissimulai la verità: disapprovai le parole e gli atti di Garibaldi, formulai la speranza che avremmo dominato la situazione, ma non dissimulai che ciò avremmo fatto con grande scapito delle nostre proprie forze... che vinto Garibaldi, ci saremmo trovati a fronte delle idee di Garibaldi piú gagliarde di prima e che il governo per tal vittoria ottenuta avrebbe assunto l'obbligo di sciogliere la questione romana in breve spazio di tempo; anzi, se avesse mancato a quest'obbligo egli sarebbe miseramente perito...» (Petruccelli della Gattina, Storia d'Italia, pp. 8 sg.).

Ibid. (Pepoli all'imperatore). «Ma che debbo dire al re?» Imperatore: «Che sia forte; che tenga salda in sua mano l'autorità». Io: «Sí! Ma Egli mi dirà: che V. M. fece il 2 dicembre per salvare la Francia dal socialismo, ma che dopo, per consolidarsi, fece del buon socialismo». Imperatore: «È vero». Io: «Ebbene, il re, dopo aver domato Garibaldi, è forza faccia del buon garibaldismo... che vada a Roma contro chiunque...»

Benedetti, Ma mission en Prusse, pp. 245 sg., suppone che Bismarck incoraggiasse il partito d'azione italiano nella marcia su Roma per metter male tra Francia e Italia.

Sono i «megalomani» contro i quali strepita Jacini, Pensieri sulla politica italiana.

Lo stesso dice che una frazione della classe dirigente italiana raggiunta col '66 l'unità disertò la politica, perché non si era interessata di politica che fin quando essa coincideva col fine dell'unità! Un'altra frazione conseguí tanti vantaggi che le mancò ogni stimolo a occuparsi ulteriormente di cose politiche.

Vedi discussione esauriente alla Camera in precedenza della nuova legge, nel 1872. Un dato: dal 1861 al 1870 non si poterono eseguite 75 000 mandati di arresto! La Camera discusse lungamente in comitato segreto. Il deputato Carrara (giurista): «Il n'y a pas en Europe un peuple civilisé où la sûreté publique soit dans un état aussi misérable et aussi grave qu'en Italie!» (Rattazzi et son temps, II, pp. 508 sg.).

Diceva Lanza a Rattazzi, dicembre 1871, dipingendogli le difficoltà della situazione: «... nous sommes à Rome, avec le pape qui nous bombarde de front, Naples qui nous mine par derrière, les Romagnes mazziniennes qui nous mordent aux flancs...» (Rattazzi et son temps, II, p. 484).

Sulla larghezza d'idee della Destra, Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 67: «Uno dei capi del partito avanzato di una repubblica democratica, mi diceva un giorno, 1863: "Diamine! sono costretto a dichiararmi un codino, in confronto di qualcuno dei vostri burgravi di estrema Destra della Camera di Torino!"».

Ricasoli, durante il suo ministero, permise perfino la raccolta in tutta Italia dell'obolo di San Pietro! E si sapeva dove andavano a finire quei denari...

Tipico ultimo rappresentante della mentalità clericale di fronte all'Italia in cammino, il diplomatico francese d'Ideville (v. il suo libro Piémontais à Rome).

Lanza a Rattazzi (colloquio), dicembre 1871: «... On nous crie: réforme, réforme! Libertés, économies, ordre, justice, égalité... et que sais-je encore? Tout cela est-il possible dans la situation présente? Franchement, je vous défie de mener à bien une réforme quelconque avec un parlement tracassier comme le nôtre, sans discipline, sans principes, sans programme. Donnez donc de la liberté à une nation que ne vous en demande point... ce qu'elle veut, c'est du pain à bon marché, c'est la suppression de l'impôt sur le sel, du papier-monnaie et des douanes. Faites donc des économies, quand vous avez un budget qui se salde avec 200 mill. de déficit... Donnez donc l'égalité et la justice à une nation qui verrait dans cette concession un aveu de faiblesse de la part du gouvernement... et essayerait des échauffourées, comme celles de Palerme... Je suis las; je deviens tous les jours plus sceptique» (Rattazzi et son temps, II, p. 487).

Jacini lamenta (Sulle condizioni della cosa pubblica) l'estrema instabilità dei ministeri; tanto che si sente da tutti ripetere «che, messi insieme nove uomini, scelti per ciascun ramo della pubblica amministrazione, fra coloro che al governo già fecero men buona prova e lasciati tre o quattro anni alla direzione dello Stato, se ne avrebbero risultati assai migliori che non da un ministero composto da nove geni, ma colla spada di Damocle sospesa ogni giorno sul capo ed esposti ad ogni pié sospinto... alle insidie delle chiesuole parlamentari». – Tant'è vero che fra i deputati si contano ormai una sessantina di ex ministri. I continui cambiamenti «hanno per effetto di indebolire vieppiú il potere esecutivo, di ridurlo incapace a fissare un determinato progresso (che in quanto al metterne poi in atto uno qualsiasi è inutile parlarne) mentre hanno alimentato nel pubblico la credenza che la sala dei 500 non sia altro fuorché una giostra di passioni personali...»

p. 31: «Non essendovi stabilità di governo, avviene che diventino sempre peggiori la pubblica amministrazione e lo stato delle finanze. La cattiva amministrazione e il dissesto delle finanze, rimaste in permanenza e perciò in continuo aumento, ingenerano il disagio. Il disagio produce il malcontento. Il malcontento promuove la nomina dei deputati piú idonei a rendere sempre piú instabile il governo. Quindi, da capo».

p. 80: «Il problema da risolvere in Italia consiste dunque nell'assicurarle un governo forte, senza il quale essa precipiterebbe nell'anarchia: ma conservandole nello stesso tempo la libertà, senza la quale la nostra nazione suol sempre degenerare».

Per sanare la piaga dei governi deboli e effimeri, in Italia, molti sognano la repubblica. Illusione! Altri, un colpo di Stato che abolisca lo Statuto e instauri la dittatura regia.

Jacini (pp. 79 sg.), trova che ciò tradirebbe gli scopi assegnati al Risorgimento e darebbe perciò ragione ai sostenitori dei passati regimi, che sostenevano esser gl'italiani immaturi a un regime libero.

«Il rimedio del ritorno al dispotismo non è un rimedio da medico, bensí da maniscalco di campagna, il quale non sa far altro che recidere il membro ammalato, perché ignora l'arte di guarirlo, conservandolo intatto. Gli Italiani amano un governo forte, egli è vero, ma sono abbruttiti (?) dal dispotismo. E infatti tutte le cose grandi nella storia del nostro paese furono create dalla libertà; e il dispotismo invece o spense od avvilí le migliori doti naturali della nazione...»

Jacini (ibid., p. 35), deplora nella sua critica del sistema di governo, non lo Statuto e le sue conseguenze, fortunatamente assicurate all'Italia, ma «il modo affatto esotico per l'Italia» con cui si sono applicati.

Jacini (Pensieri sulla politica italiana) critica il sistema parlamentare italiano (che è poi quello piemontese il quale a sua volta è quello copiato in furia nel '48 dal francese di Luigi Filippo) che chiama pseudo-parlamentare.

Ma le sedute delle «Società emancipate» posavano addirittura a controparlamento, o meglio a parlamento di un partito (Rattazzi et son temps, p. 617).

Un re come Vittorio Emanuele II, che troppo spesso faceva il suo comodo e seguiva una sua politica, attraverso suoi privati emissari (Rattazzi et son temps, II, pp. 325 sg.). Bismack piú d'una volta si rifiutò di parlate con questi inviati del re, negando che un re costituzionale potesse valersi della loro opera.

1871, febbraio, Lanza vorrebbe Rattazzi nel suo ministero; questi però vorrebbe tre o quattro portafogli per i suoi amici, tra cui gli esteri. Lanza: «Cela est impossible, aux affaires étrangères surtout. Le roi est son propre ministre dans ce département-là, et il s'inspire... des correspondances directes et secrètes qu'il entretient avec les ambassadeurs, avec Napoléon (?) et avec dix autres. Cela n'est pas constitutionnel, certes, mais cela n'en existe pas moins. – Oui, malheureusement...» (Rattazzi et son temps, II, P. 407).

Ibid., p. 408, si legge che anche il ministro della guerra in quel tempo era completamente asservito al re, che seguiva i consigli di La Marmora.

Notare, fra il '61 e il '66, l'opposizione netta tra i piemontesi, e, specialmente, i tosco-emiliani: caso tipico, gli avvenimenti seguiti alla convenzione di settembre.

Jacini (Pensieri sulla politica italiana p. 43) dice che questo fu lo sfogo del regionalismo compresso e non sfogato nel necessario decentramento amministrativo.

Il primo esempio di un ministero equilibrato regionalmente lo dette Cavour, marzo 1861, ricorrendo a ministri d'ogni regione d'Italia.

Per avere un'idea della diffidenza che ancora nel '70 divideva i nordisti e i sudisti, si veda il colloquio tra Vittorio Emanuele e Rattazzi, autunno 1870, in cui Rattazzi fa le piú fosche previsioni basate sulla sua sfiducia per gl'italiani del mezzogiorno (Rattazzi et son temps, II, pp. 424 sg.).

Non mi pare esatto quanto scrive Jacini (Pensieri sulla politica italiana, p. 15) che «l'indirizzo del governo italiano, fra la metà del '59 e la fine del 1866, era prestabilito nelle sue linee principali. L'indole di quel governo doveva consistere in una specie di dittatura, assunta, con assenso istintivo della moltitudine, dagli uomini che, nelle diverse classi colte, erano in grado di formarsi un'idea piú netta della situazione eccezionale del paese». Non vedo né la dittatura né l'assenso istintivo. Idee simili nelle sue Condizioni della cosa pubblica, 1870.

Studiare le elezioni del febbraio-marzo 1867, imperniate sul diritto di riunione, violato da Ricasoli.

Rattazzi et son temps, II, pp. 24 sg., si dice veramente che il ministro dell'interno, Natoli, «se mêla des élections... en faisant sentir son influence aux préfets, aux syndics et aux magistrats... La majorité antipiémontaise de Turin fut battue... En somme, un tiers de l'ancienne majorité ministérielle resta sur le carreau...» E ancora (p. 34), a proposito delle dimissioni di Natoli il quale «avait perdu la partie aux élections par l'excès de zèle qu'il y avait apporté».

A questa evoluzione costituzionale della Sinistra molto giovò Rattazzi; glielo riconobbe, dopo morto, lo stesso suo nemico Bonghi (Nuova Antologia), Riflessioni in Rattazzi et son temps, II, p. 579: «On lui doit de voir le parti radical le plus forcené ramené à l'obéissance des lois et au respect du droit. Lorsqu'il fut au pouvoir, ce parti lui rendit toujours difficile l'exercice de ce pouvoir; et il ne lui arriva jamais d'être ministre sans que quelque grave désordre ne survint...»

Lasciamo andare, per carità di patria, quel che diceva suo padre!

2 gennaio 1866, a Firenze, attentato contro Sella.

Lo stesso Rattazzi, nel 1871, diceva «disastrosa» la politica finanziaria di Sella (Rattazzi et son temps, II, p. 408).

A che non arrivò la propaganda di stampa repubblicana sotto il ministero di quel «reazionario clericale» di Menabrea (1868). Incitamento all'insurrezione, necessaria per fondar subito la repubblica in Campidoglio; impulso alle sommosse di Milano, Palermo, Roma (Petruccelli della Gattina, Storia d'Italia, p. 43).

Critiche di Jacini, Pensieri sulla politica italiana, pp. 44 sg., sulla stampa – che, assodata l'unità, tese a sviare la pubblica opinione dalle questioni serie e abituò il pubblico a considerar la politica un teatro di virtuosismi.

Fa eccezione il provvedimento di sospensione dello Statuto che si votò al principio del 1866, al principio della guerra. La Camera però respinse una legge sui sospetti che si propose nella stessa occasione e che, mirando ai fautori dei Borboni, era cosí vaga che poteva colpire chiunque.

Contro al progetto Ferrara (1867) sul prestito anticipante il gettito di vendita dei beni ecclesiastici, si schierano moltissimi alla Camera: ottanta oratori s'iscrivono a parlare, quasi tutti contrari. Ferrara dimissiona (Rattazzi et son temps, II, p. 168).

Sui deputati che diventano galoppini degli elettori, Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica. E ancora: «la capitale accentra nel Parlamento tutte le competenze del paese – e il paese ne resta cosí privo; tutte le incombenze pubbliche si appioppano al deputato che si ritiene idoneo a tutto. Gli uomini d'ingegno anziché darsi seriamente agli studi li disertano per aspirare alle facili popolarità del Parlamento. Troppa intelligenza e troppa cultura nel Parlamento, che vengono completamente sciupate e dovrebbero tesaurizzarsi nella libera attività».

p. 98: «L'esercizio della deputazione qual è attualmente è cosí gravoso che molti competenti non possono occuparsene e preferiscono lasciarlo ai dilettanti. Diversamente accadrebbe con le regioni e il parlamento centrale ridotto alle sole grandi attribuzioni».

Petruccelli della Gattina, Memorie di un ex deputato, racconta briosamente di un tale che si guadagna un collegio (1866) con una bella lotteria a sue spese. Ma il Petruccelli era un famoso scanzonato e il suo libercolo è uno spiritoso paradosso. A pp. 58-59: «Bisogna esser resistenti per non diventare idioti da quel mestiere di deputato! Dalle dieci del mattino alle sette circa del pomeriggio, vedere le stesse facce, udire le stesse voci; parlare degli stessi subbietti ogni dí; respirare la stessa aria mefitica materiale e morale; sorbire le stesse osservazioni sui ministri, sui partiti, sulle persone, sulle intenzioni; discutere sempre le stesse questioni; leggere gli stessi giornali, le stesse relazioni, subire le stesse vanagl. interess...; scorgere sotto la pelle patriottica di quasi tutti, gli stessi interessi privati, sorridere ad uomini di cui non si stimano... essere vittima delle stesse esorbitanze di elettori e di governo...» In complesso, il libretto tende a mostrare che il deputato è il galoppino degli elettori.

La vita politica, non pertanto, si concentrava tutta intera nel Parlamento, il quale, a volta sua, ne aveva poca, o nessuna coscienza...» (Petruccelli della Gattina, Storia d'Italia, p. 211).

Al punto, dice Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, che si era creato un distacco netto tra Italia «legale» e Italia «reale».

Critiche di Jacini, Pensieri sulla politica italiana, al sistema parlamentare italiano (latino in genere) che chiama pseudo-parlamentare perché copiato da quello inglese, ma senza il largo decentramento inglese. Il regime parlamentare per lui non è concepibile disgiunto dal decentramento perché falsa la vita pubblica, determina instabilità di governo e corruzione (tutti gli interessi anche i piú minuti facendo capo al centro, i deputati diventano agenti d'interessi) e prepotere del Parlamento. Insomma, o si vuole un regime accentrato, e allora bisogna svincolare almeno in parte il potere esecutivo dal controllo minuto del Parlamento; o si vuole il vero regime parlamentare, e allora bisogna decentrare. Lo pseudo-parlamentarismo stanca e delude le moltitudini e le porta a desiderare le dittature parlamentari (p. 50).

Critica del funzionamento della Camera: «"Un'interpellanza, una crisi ministeriale e un esercizio provvisorio; poi da capo, una crisi ministeriale, un esercizio provvisorio ed un'interpellanza!" Ecco come il "Times", alcuni mesi fa, definiva argutamente la situazione parlamentare d'Italia» (Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 21).

Sulla crisi del Parlamento dopo il '66 (e in generale crisi politica), alcuni pensano che col tempo tutto s'accomoda, basta non aver fretta, ché tutti i paesi liberi hanno traversato crisi analoghe. Altri pensano che basterebbero alcune modificazioni nel regolamento della Camera per accomodare tutto; altri vorrebbero la costituzione di solidi partiti politici, perno della vita politica parlamentare. Ma la prima soluzione è evidentemente smentita dai fatti (quanta furia, Jacini!); la seconda evidentemente insufficiente; la terza esigerebbe come prima base la formazione di un partito conservatore, ma questo non può nascere se prima non si sistemano un po' le faccende della cosa pubblica. Se no, cosa conservare? Lo Statuto? Ma nella sua orbita si muovono tutti i partiti (ibid.).

Jacini, ibid., propugna il suffragio universale a due gradi e l'attribuzione al Parlamento delle sole grandi questioni d'interesse nazionale.

Studiare l'interesse degli elettori per le elezioni (frequenza degli elettori). Nel 1871 ci fu ballottaggio, a Siena, fra due candidati: uno ebbe 50, l'altro 60 voti. A Firenze il candidato del governo ebbe 153 voti ed entrò in ballottaggio con uno che non ne ebbe che 6. A Roma, su 7800 elettori, solo 198 si presentarono (Rattazzi et son temps, II, p. 455, che però attribuí questi risultati alla propaganda astensionista contro Lanza dei partiti di sinistra e clericale).

«Giammai meno della metà, ma spesso i due terzi, e piú ancora, degli elettori inscritti (come è avvenuto nelle elezioni parziali le piú recenti) suol astenersi dalle urne elettorali, cosicché vi è un gran numero di deputati al Parlamento i quali sebbene rappresentanti di collegi popolati da 500 000 anime, pure non furono eletti che da 80 o da 100 voti...» (Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 16).

Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica in Italia, spiega che non ha accettato l'elezione a deputato di Terni perché ha voluto studiare un po' dalla platea l'effetto di quel che si è fatto e si fa sul palcoscenico, insomma «mescolarsi a lungo, spogliandosi d'ogni idea preconcetta, colla folla»; «verificare quali siano, riguardo alle cose del governo, i giudizi di essa», conoscere «i gusti della massa». Se un uomo di governo non si prende ogni tanto questa briga «anche il suo giudizio sulla cosa pubblica deve riuscire necessariamente unilaterale e fallace...» (pp. 12-13). E ancora: «Eccellenti le masse, come fu solennemente dimostrato dalla facilità con cui si poté introdurre la coscrizione militare in molte province dove prima era sconosciuta e dalla pochissima resistenza, relativamente parlando, alla tassa impopolare del macinato...» (p. 15).

Jacini, Pensieri sulla politica italiana, pp. 23 sg., un po' sviato dall'intento di dimostrare certe magagne del sistema politico italiano dopo il '66, dipinge a colori troppo rosei i dati realistici con i quali esso dové fare i conti. E per esempio, allude a «un paese docilissimo e che non chiedeva altro se non di essere assecondato nel suo desiderio di un migliore avvenire da conseguirsi senza troppo violentarlo...» (1867). «Partout des émeutes; là, à cause du choléra, ici pour des motifs religieux, ailleurs pour protester contre la conscription, contre la cherté du blé» (Rattazzi et son temps, II, p. 169).

Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica. Partiti non ce ne sono. Le frazioni in cui si divide la Camera non esprimono che il regionalismo che informa di sé i sedicenti partiti oppure si fondano su distinzioni che non hanno radice nel paese, ma nella ristrettissima classe politica. La Destra si formò, com'è noto, e raccolse, fino al 1866, anche parecchi rivoluzionari (d'altronde l'opera governativa della Destra fino al '66 fu squisitamente rivoluzionaria); ora è rimasta cosí, un amalgama di gente diversa, che si fraziona dietro a nomi o a indirizzi contingenti. La Sinistra è la minoranza del primo Parlamento italiano e il risultato del malcontento espresso dalle elezioni del '65 e del '67, finora senza progresso positivo. Ora si va un po' costituendo, ma manca di una Destra oppositrice chiara. Per cui non riesce a distinguer chiaramente il suo progresso dai molti espressi da Destra e si perde finora in agguati e scaramucce. Niente di impossibile che, se la Sinistra riuscisse a esprimere un progresso accettabile, divenisse un giorno il partito conservatore. I centri sono formazione esclusivamente parlamentare e contingente. V'è poi l'estrema Sinistra, composta dagli irreconciliabili di Sinistra e dai prodotti del malcontento.

Fra essi Garibaldi.

Bisognerà studiare a fondo la genesi dei partiti politici in Italia. Jacini (Pensieri sulla politica italiana), distingue due periodi; uno dal 1860 al 1866 (partiti concordi nel volere il completamento dell'unità e in esso assorbiti; differenze fra di loro solo di metodo); l'altro dopo il '66 in cui ogni politica è possibile e sbocciano i programmi. (Io credo che questo secondo periodo debba spostarsi a dopo il 1870).

Sulla necessità dei partiti, che sian vivi e robusti, per la prosperità delle istituzioni, vedi le parole di Crispi, in morte di Rattazzi, alla Camera, 5 giugno 1873.

Anzi, eran convinti d'esser nel fango fino agli occhi! Scriveva bene Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 58, che se gli italiani viaggiassero di piú, sarebbero stati meno numerosi, certo, i seguaci del primato giobertiano, «ma è anche certo che oggi sarebbero assai meno frequenti coloro che si abbandonano all'avvilimento, supponendo altrove cammini ottimamente tutto ciò che appare loro inappuntabile, soltanto perché veduto da lontano...»

A leggere le discussioni alla Camera e le confessioni degli stessi uomini di governo, pare sempre che le cose vadano male! Rattazzi, 1871 (o 1872?) dice alla Camera che in dieci anni si sono spesi tredici miliardi «et nous n'avons encore une armée solide, ni marine, ni sécurité publique, ni frontières en état de défense, ni surtout d'écoles... Personne en Europe ne nous considère comme une grande puissance. Nous n'avons presque pas de chemins de fer. Nous ne sommes pas au niveau des autres nations européennes, pas plus qu'au niveau des besoins économiques de la vie nationale. Notre magistrature est d'une infériorité intellectuelle et morale déplorable. L'Autriche nous a battus sur mer et sur terre. Nous n'aurions pas été en état d'aller au secours de la France...» (Rattazzi et son temps, II, pp. 506-7).

Agli operai italiani, in «Roma del popolo», 13 luglio 1871.

Lettera del 9 novembre: Briefe an Sorge, Dietz, Stuttgart 1909, p. 34.

Marx, L'Alleanza della democrazia sociale e l'Associazione Internazionale dei Lavoratori; sta in Opere di Marx, «Avanti!», Milano 1901, vol. II, pp. 117-19.

Da «L'Alleanza» (Bologna), 6 aprile 1872.

G. C. Abba, Cose garibaldine, Società Editrice Nazionale, Torino 1905.

Guillaume, L'Internationale. Documents et souvenirs, 4 voll., Paris 1905-907, vol. III, pp. 21-22.

Rivendicazione», Forlí, 4 maggio 1889.

Ivi, 25 maggio 1889.

Ivi, 28 febbraio 1891.

Vita di Mussolini cit., pp. 319-20.

Ibid., p. 164.

Ibid., p. 102.

Noi non siamo della scuola marxista perché anarchici sin dal 1871», scrive «La Rivendicazione» il 12 novembre 1887; per gli articoli del Malatesta, cfr. ad esempio, i nn. del 21 febbraio, 18 marzo, 11 aprile, 23 maggio 1891.

Cfr. «La Plebe», Lodi, 24 dicembre 1882: «Ammiratori dei forti e generosi caratteri, dinanzi al cadavere di G. Oberdan ci scopriamo reverenti il capo e pensiamo con dolore e nausea a quell'Italia redenta...» «La Rivendicazione», 23 dicembre 1886: «Noi socialisti, noi gli abolitori della Patria, sapemmo combattere, ancora sedicenni, per l'intangibilità di essa; noi traditori saremmo al nostro posto domani, se qualche tiranno volesse conquistare la terra ove viviamo». Cfr. anche ivi 5 e 19 febbraio 1887, 25 giugno 1887.

Il II volume (che conduce la biografia fino a tutto il 1909) mi giunge mentre correggo le bozze, ma non vi sono che frettolosi cenni sulle ultime vicende di Alessandro Mussolini.






p. -

451 «Rivendicazione», Forlí, 4 maggio 1889.



452 Ivi, 25 maggio 1889.



453 Ivi, 28 febbraio 1891.



454 Vita di Mussolini cit., pp. 319-20.



455 Ibid., p. 164.



456 Ibid., p. 102.



457 «Noi non siamo della scuola marxista perché anarchici sin dal 1871», scrive «La Rivendicazione» il 12 novembre 1887; per gli articoli del Malatesta, cfr. ad esempio, i nn. del 21 febbraio, 18 marzo, 11 aprile, 23 maggio 1891.



458 Cfr. «La Plebe», Lodi, 24 dicembre 1882: «Ammiratori dei forti e generosi caratteri, dinanzi al cadavere di G. Oberdan ci scopriamo reverenti il capo e pensiamo con dolore e nausea a quell'Italia redenta...» «La Rivendicazione», 23 dicembre 1886: «Noi socialisti, noi gli abolitori della Patria, sapemmo combattere, ancora sedicenni, per l'intangibilità di essa; noi traditori saremmo al nostro posto domani, se qualche tiranno volesse conquistare la terra ove viviamo». Cfr. anche ivi 5 e 19 febbraio 1887, 25 giugno 1887.



459 Il II volume (che conduce la biografia fino a tutto il 1909) mi giunge mentre correggo le bozze, ma non vi sono che frettolosi cenni sulle ultime vicende di Alessandro Mussolini.





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