4. Di una storia da
scrivere e di un libro recente
La storia del movimento operaio in
Italia negli anni che corrono dalla morte di Mazzini alla fondazione
del partito socialista (1892) è ancora da scrivere: e sarebbe
un lavoro di prima importanza e, direi, necessità. È
vero che sull'argomento noi disponiamo di una bibliografia
vastissima: vecchie storie dell'Internazionale, memorie documentarie
e aneddotiche, biografie e autobiografie, pubblicazioni di propaganda
degli anarchici, dei socialisti, dei repubblicani, qualche monografia
di carattere regionale, qualche studio obiettivo sulle organizzazioni
economiche, e via discorrendo; ma il tentativo di radunare le sparse
membra, di superare la cronaca, di basare solidamente una sintesi, e
non è stato compiuto o è stato compiuto senza adeguata
preparazione, e, forse, troppo presto. Licenziando nel 1927 il mio
Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia
(1860-72), scrissi un po' alla leggera che a quel primo studio avrei
fatto ben presto seguire un altro volume che avrebbe condotto il filo
della narrazione «almeno fino alle soglie del secolo XX».
Svariati motivi m'impedirono poi di tener fede a quella promessa, ma
certo il piú serio sarà stato quello che non ero ancora
maturo a un'opera di cosí vasto respiro, né
sufficientemente distaccato dalle cose di quel tempo per poter
affrontare un'esposizione obiettiva. Preferii piuttosto indagare la
preistoria del nostro movimento operaio e rifarmi alle fonti italiane
e premarxiste del pensiero socialistico. Per chiarire l'azione
politica e sociale svolta dall'ultima generazione nata nel clima
preunitario occorreva d'altronde penetrare assai piú a fondo
ch'io non avessi potuto fare fino allora il modo della sua formazione
spirituale, e con quali premesse e con quali finalità, e, da
ultimo, con quali residui essa avesse partecipato alla fase
conclusiva del processo unitario italiano. Di dove venivano, cosa
avevano operato, quali esperienze positive e negative avevano
attraversato nei loro giovani anni gli uomini della prima
Internazionale, i continuatori del «socialismo»
mazziniano, i primi cooperativisti, i primi apostoli del verbo
marxista? Fino a qual punto la loro nuova attività obbediva a
profonde esigenze della vita italiana, fino a qual punto invece a
sollecitazioni dall'esterno?
Era giusto il loro assunto che lo Stato italiano, quale si era
venuto concretando sotto il governo della Destra, non rispondeva alle
mete proposte da coloro che piú avevano contribuito alla sua
formazione e che perciò proprio ad essi aspettava l'imporne
una radicale trasformazione? Cosa c'era di vero nella formola da essi
usata della «delusione» provata dalle «masse»
pei risultati dell'unità? Altrettanti interrogativi ai quali
bisognava rispondere meditatamente e non già ad orecchio,
ricalcando schemi consunti.
Ho l'immodestia di ritenere che questi
dieci anni d'infedeltà al tema primamente propostomi non siano
da considerarsi, in questo senso, interamente perduti; d'altra parte
l'approfondimento notevole che gli studi di storia del Risorgimento
hanno registrato da ultimo ha senza dubbio giovato a maturare i
problemi storici posti dalle vicende italiane dell'ultimo trentennio
del secolo XIX. La prima storia del movimento operaio in Italia può
inoltre solidamente basarsi, ormai, sulle ricerche d'archivio;
possibili, a tutt'oggi, solo fino al 1867, ma in certi casi, forse,
prolungabili fino ad anni piú prossimi a questi nostri. E non
verrà voglia, ad esempio, di rettificare la narrazione, che
fin qui si è fatta del primo diffondersi dell'Internazionale
nell'Italia del sud, in base ai dossiers della questura
napoletana che di recente son stati segnalati e ordinati? Non penserà
qualcuno a estendere siffatte ricerche negli archivi di Firenze, di
Milano, di Torino? Dei primi processi contro l'Internazionale non si
conoscono, fin qui, che gli atti di accusa e le sentenze, oltre alle
poco attendibili versioni degli interessati: non vorremo adesso
compulsare addirittura le filze processuali?
C'è molto da lavorare, dunque, in questo campo; e in certo
senso occorre affrettarsi se vogliamo valerci delle testimonianze dei
pochi superstiti fra i veterani della vecchia organizzazione operaia,
e in altro senso occorre procedere con molta cautela e andare a
rilento prima di trar conclusioni. Da lavorare per chi, come me si
proponga di dare un seguito, ormai, a un'opera bene o male già
avviata, e per chi intenda incominciare daccapo e con diversi
criteri; abbandonando tutti la rotta indicata da precedenti «storici»
per segnarci una via nuova attraverso ricerche di prima mano.
Cominciano ad essere possibili, ad esempio, certe biografie critiche
di un Cafiero, di un Costa, e – perché no? – di un
Malatesta o di un Cipriani; e si potrebbe studiare la prima
Internazionale sui suoi innumerevoli giornaletti di propaganda, se
non addirittura tentare la storia della stampa sovversiva in Italia
dal '70 in poi; anche si potrebbero studiare i rapporti di filiazione
e d'incrocio fra i vari partiti e gruppi: come si passi, che so io,
dalla «Plebe» alla «Critica sociale», da
Bignami e Gnocchi Viani a Turati e alla Kuliscioff; e quale sia
stato, in concreto, l'apporto del mazzinianismo con la sua tradizione
e la sua pratica cooperativistica al sindacalismo socialista. O anche
la storia del movimento operaio, nelle sue varie fasi, in una singola
città, o regione: Milano socialista, ad esempio, dai tempi del
«Gazzettino rosa» fino al tramonto del partito operaio.
Bellissimo tema, in particolare, sarebbe la storia di un piccolo
centro provinciale che abbia sentito, per tempo, l'influenza o il
contraccolpo della propaganda socialistica: un tema che potrebbe
venire affrontato dagli studiosi di provincia (i quali lamentano, nel
loro isolamento, di non poter lavorare) col semplice ausilio, il piú
delle volte, della biblioteca e dell'archivio comunale. Bisognerebbe
cominciare col rendersi conto di quale fosse, agli albori della vita
unitaria, la costituzione sociale del paese prescelto: proporzioni
fra i vari ceti, rapporti reciproci, risorse locali, condizioni
economiche e morali della classe lavoratrice, ecc.; e poi, o prima
ancora, ricercare l'atteggiamento assunto dai vari gruppi di fronte
ai problemi della organizzazione politica (contributo positivo o
negativo o nullo alla creazione dello Stato unitario; stato d'animo
della popolazione di fronte alla realizzata unità; divisione
in partiti politici; influenza della Chiesa, e via discorrendo);
tener d'occhio, a mezzo della stampa locale e di memorialisti paesani
– ce ne furono tanti, in Italia, anche in tempi recenti, e son
cosí poco sfruttati – o di carteggi particolari, il
primo disegnarsi di una organizzazione autonoma fra i lavoratori, e
le reazioni da essa suscitate, e l'urto eventuale, in seno ad essa,
di tendenze diverse; seguire le successive prese di posizione della
classe lavoratrice di fronte a importanti avvenimenti della vita
nazionale, e i progressi delle organizzazioni e il loro entrare in
rapporto con altre consimili della provincia e della regione;
indagare l'effettivo grado di autonomia dei lavoratori organizzati
(rapporti con gli intellettuali propagandisti), e, pian piano, le
forme e i limiti della loro partecipazione alle lotte politiche e
amministrative, e via cosí. La storia di dieci o dodici paesi
di provincia, a economia agraria o industriale o marittima, del nord,
del centro o del sud, di pianura o di montagna, questa storia,
narrata di su fonti autentiche, con scrupolo di verità, senza
intenzioni di «rivendicazione», non ci fornirebbe forse
un materiale prezioso per la piú grande storia d'Italia negli
ultimi tre o quattro decenni del secolo passato?
Pensavo tutto questo, leggendo il
primo volume della Vita di Mussolini, di fresco pubblicata,
pei tipi Mondadori, da Ivon de Begnac. Son 355 pagine fitte, le quali
arrivano al 1902 e nelle quali si parla soprattutto del padre di
Mussolini, Alessandro (molto anche della Romagna in genere).
Alessandro Mussolini, nato nel 1854, fece, si sa, di professione il
fabbro, e fu nella sua Predappio (e, per maggior esattezza, nella
frazione di Dovia) uno dei primi e piú attivi operai
socialisti: autodidatta, amico devoto e ammiratore del Costa, e del
Cipriani – non forse chiamò il suo primogenito, oltreché
Benito, in memoria del Juarez, anche Andrea e Amilcare in omaggio ai
due idoli della sua giovinezza? –, partecipe, nel '74, a quella
«marcia su Bologna», che alcuni anni or sono ha fornito
la trama a un buon romanzo italiano; fieramente anticlericale,
garibaldino a oltranza come tutti i primi internazionalisti; patriota
e nel tempo stesso antimilitarista; propagandista indefesso delle sue
dottrine, e perciò carcerato due volte (nel 1878 e nel 1902) e
per quattr'anni ammonito (dal 1878 al 1882); attentissimo ai problemi
della organizzazione economica: fondatore e capo, nonché di
una società dei bevitori, arguto travestimento di un gruppo
sovversivo, di una cooperativa di braccianti, e per ciò
assuntore di lavori pubblici, e finalmente e per parecchi anni fra
gli amministratori del suo comune. Il De Begnac, che è uno
scrittore, sa presentarcelo vivo e naturale, il suo personaggio, e
con lui la sua Predappio con le sue lotte intestine, con la sua
miseria, con le sue insoddisfatte aspirazioni di accrescimento e di
potenziamento, nella cornice di quella Romagna eternamente
appassionata e violenta, civilissima e sovversiva. Nulla di piú
suggestivo e di piú illuminante, per uno studioso dell'età
recentissima; nulla di piú comprensibile, s'aggiunga, delle
ingenue contraddizioni nella vita e nel pensiero di questo operaio
socialista di ceppo repubblicano, il quale, mentre sogna la
rivoluzione sociale (e, quando è possibile, la tenta), non per
questo si sente meno nel solco della tradizione del Risorgimento; di
questo anticlericale nato, il quale pur manda i suoi figli in
collegio dai salesiani; di questo estremista intransigente il quale
accetta cariche pubbliche; di questo tardo legalitario che, quando le
elezioni volgano sfavorevoli al suo partito, non troppo s'adonta che
i suoi seguaci fracassino le urne.
Il torto dell'autore (oltre a quello di annegare in troppo
colorismo strapaesano, troppe diversioni introspettive un soggetto di
tanta umana schiettezza), il torto dell'autore, anzi, è
proprio quello di non avere inteso come siano appunto cotali
contraddizioni e, con esse, taluni atteggiamenti non ortodossi del
suo personaggio, quelli che valgono ad accentuarne ai nostri occhi il
singolare interesse, facendone un tipo piú nettamente
rappresentativo di un'età e di un costume. Giacché il
problema non è davvero quello di rappresentare Mussolini padre
come precursore di tempi allora impreveduti e di correnti ideologiche
allora inconcepibili; ma piuttosto quello di conferire tanta verità
alla sua figura, tanta necessità, direi, alle sue azioni, da
farne un interprete fedele e immediato e quasi un simbolo di certe
esigenze, di certe aspirazioni, di certi motivi ideali del suo ceto,
nell'Italia d'allora. Se nella vicenda di lui noi dobbiamo vedere non
solo la premessa e il punto di partenza per il singolare cammino
percorso dal figlio, ma anche un poco – come è
certamente nei desideri del De Begnac – la storia delle masse
operaie e contadine che finalmente entrano, sia pur da ribelli, nella
vita della nazione e via via acquistano coscienza dei suoi multiformi
problemi, e piú in generale, della immensa distanza che sempre
separa ideale e realtà, programma e prassi, ben s'intende come
sia erroneo, oltreché inutile, lo stendere un velo su talune
sue limitazioni e, talvolta, deviazioni. Tutte le esperienze son
necessarie e in ultima analisi preziose alla vita di un popolo, tutte
le riconquiste presuppongono un antecedente abbandono, tutte le
affermazioni una negazione o almeno un dubbio: tutto sta nel saper
ricostruire e tenere realisticamente presente il processo dialettico
che lega questi vari momenti con un vincolo reciproco di
indispensabilità. È cosí che, ad esempio, io non
avrei affatto temuto di riferire integralmente certi passi
caratteristici della prosa rivoluzionaria del primo Mussolini: sia le
invettive contro i milioni del «povero prigioniero Gioachino
Pecci»451, che l'invito ai preti a gettare la «tonaca
alla fiamma purificatrice del progresso per indossare il farsetto
onorato dell'operaio»452, o il contesto della
infiammata corrispondenza «Cos'è il socialismo?»
(«il socialismo... è la scienza che illumina il
mondo..., è una sublime armonia di concetti, di pensiero e di
azione che precede al gran carro dell'umano progresso... Diceva un
giorno il grande Brunelleschi: datemi un punto di appoggio per la
manovella, che io vi solleverò il mondo. Ebbene, diciamo noi,
uniamoci tutti pel comun bene e prementi tutti come un sol uomo nella
gran manovella – la rivoluzione sociale – daremo l'ultimo
colpo a questo mostruoso e crollante edificio...»)453.
Il De Begnac addita in Mussolini uno dei pochi socialisti di allora
sensibili a un patriottismo monarchico e, per cosí dire,
nazionalistico: ma la dichiarazione da lui fatta in consiglio
comunale all'indomani del regicidio di Monza («... nel prendere
parte al lutto nazionale protestiamo contro l'insulso ed efferrato
assassinio commesso contro la vita di un galantuomo, dichiariamo, per
essere coerenti ai nostri principî, e per ragioni di partito,
di astenerci dalla votazione»)454 non corrisponde forse
all'atteggiamento ovunque assunto in quella occasione dai socialisti
italiani? Questa figura di popolano serba tutta la sua attrattiva a
condizione che se ne rispetti scrupolosamente la primitiva
semplicità: orbene, scrivendo che una letterina di Mussolini
alla «Lotta» di Forlí per dissuadere il partito
dal riunire un congresso a Lugano costituisce «un documento
importantissimo per la storia del socialismo in Italia»455,
oppure che «se la storia non parla ancora di quest'uomo ciò
si deve al fatto che nessuno storico ha ancora scrutato nella vita di
Romagna dal 1880 al 1900»456, non si rischia forse di
svisare i lineamenti e l'azione di questo ardente e modesto e sincero
militante dell'idea socialistica?
Il De Begnac ricorre forse un po'
troppo a queste amplificazioni, a queste omissioni: direi, in genere,
che ha troppo il gusto della «interpretazione». Perché
sorvolare, ad esempio, sulla circostanza, pur nota, che la forlivese
«Rivendicazione», cui Mussolini di quando in quando mandò
qualche sua cronachetta predappiese (rapporti succinti, quali poteva
scriverli, negl'intervalli del suo lavoro, un autentico operaio, non
mai articoli veri e propri), era un giornale anarchico
rivoluzionario, tra i cui assidui collaboratori figurava un
Malatesta?457. Perché, ancora, non affrontare con
storica obiettività il problema dell'atteggiamento assunto dai
socialisti nostrani di fronte al primo tentativo coloniale
dell'Italia d'allora? Pareva a costoro che i partiti di masse
avrebbero in qualche modo tradito le loro idealità se, in un
paese afflitto da grande miseria, com'era allora il nostro, e quindi
dalla impossibilità di risolvere sollecitamente i suoi piú
gravi e piú urgenti problemi interni, avessero aderito a una
costosa politica espansionista. Il che non implica affatto che i
socialisti non amassero il loro paese: lo amavano bensí, ma in
quanto si mantenesse fedele a quella bandiera di libertà cui
pur doveva il suo costituirsi a nazione; bandiera di libertà
alla cui ombra i socialisti italiani avevano, dal piú al meno,
militato tutti, nei loro giovani anni, e sarebbero stati pronti ad
impugnare ancora le armi, se dall'esterno si fosse comunque
minacciato l'integrità nazionale. Garibaldi non era (o almeno
non si reputava) dei loro? E quando Oberdan salí il patibolo,
non furono i socialisti appunto che meglio ne compresero il disperato
gesto e ne onorarono poi, di anno in anno, la memoria?458
Cosí per Crispi: dal fatto che un certo giorno, vista respinta
una prima domanda d'impiego presentata al comune di Predappio dal
figlio giovinetto, Mussolini gli gridasse, in piazza: «Non ti
avvilire, tu sarai il Crispi di domani», non mi sembra si possa
senz'altro dedurre che il fabbro rivoluzionario nutrisse qualche
inconfessata simpatia pel «gran vecchio». La lettura del
«Risveglio», l'altro giornaletto cui Mussolini
collaborava in quegli anni, legittima comunque qualche dubbio in
proposito.
Questi pochi miei appunti ad un libro, il quale,
indiscutibilmente, ha in sé qualcosa di assai stimolante e
rappresenta un meritorio sforzo di documentazione in un campo fin qui
disertato dagli studiosi, vogliono significare invito all'autore a
proseguire nelle ricerche adesso iniziate, raccogliendo ulteriori
documenti e ulteriori testimonianze sul protagonista di questo suo
primo volume (del quale, del resto, egli ci parlerà di certo
anche nel secondo volume: Alessandro Mussolini, infatti, morí
nel novembre del 1910, a pochi mesi di distanza dal «suo»
Andrea Costa)459. A tale proposito mi permetto di segnalare
fin d'ora al De Begnac quei pochi accenni sul Mussolini, a lui
sfuggiti, che ho potuto rintracciare fra le mie note:
«Sole dell'avvenire», Ravenna, 30 settembre 1883:
corrispondenza da Predappio. Circa la visita compiuta il 12 settembre
a Predappio e a Dovia dal Costa; suo discorso di propaganda
socialista a Dovia, suo incoraggiamento a partecipare alle elezioni
amministrative; grande spiegamento di forze compiuto nell'occasione
dall'autorità: «tanta forza quassú era uno
spettacolo straordinario; dapprima le donne nostre temevano chi sa
che diavoleria, poi risero». La corrispondenza non è
firmata: che sia di Mussolini?
«Sole dell'avvenire», 1° dicembre 1883: cronaca
del Congresso dei socialisti rivoluzionari di Romagna, riunitosi a
Forlí il 18 novembre: tra i delegati figura, per Dovia,
Mussolini.
«Rivendicazione», Forlí, 20 novembre 1886:
corrispondenza da Predappio firmata da diversi «socialisti di
Predappio», non da Mussolini, circa i disordini verificatisi in
paese il 23 ottobre (altra, su analogo argomento, a firma Ravajoli,
il 29 settembre 1888).
«Rivendicazione», 6 agosto 1887: corrispondenza da
Predappio circa la situazione comunale: anche questa non firmata da
Mussolini.
«Rivendicazione», 17 settembre 1887: corrispondenza da
Predappio circa i funerali del «compagno» Antonio
Bartoletti, svoltisi in forma puramente civile («In Predappio o
si è socialisti o cattolici; i monarchici o democratici sono
pochissimi, ed avvi un sol repubblicano»). È firmata «I
compagni».
«Rivendicazione», 7
dicembre 1888: «La Federazione socialista rivoluzionaria di
Predappio e sezione di Dovia, liete del felice avvenimento che ha
commosso tutti i compagni, vale a dire della liberazione
dell'indomito Carlo Cafiero, salutano in lui affettuosamente l'eroe
ribelle dei moti di Benevento, e il futuro campione delle lotte
economiche. Per la Federazione: Chiadini, Lombardi, Mussolini,
Marani, Girelli».
«Rivendicazione», 23 febbraio 1889: lettera aperta a
firma «Molti lavoratori di Predappio e comuni vicini per
invocare la costruzione di un certo tratto di strada che dovrebbe
congiungere la vallata del Rabbi con quella del Savio».
«Rivendicazione», 30 marzo 1889: corrispondenza a
firma Mussolini, da Predappio, 18 marzo: «Ieri sera, vigilia
della gloriosa rivoluzione parigina del 71, la nostra Federazione
socialista nel locale sociale fra molti invitati commemorò il
18° anniversario del comune parigino. Vari compagni pronunciarono
discorsi di circostanza e tutti applauditissimi. Si finí
inneggiando alla prossima rivoluzione sociale e inviando un saluto
all'eroico colonnello del comune, il valoroso rivoluzionario Amilcare
Cipriani, glorioso avanzo di tanta grandezza».
«Sole dell'avvenire», 6 luglio 1889: cronaca della
riunione del partito socialista rivoluzionario della Romagna tenutasi
a Forlí, il 30 giugno: per la federazione di Predappio e Dovia
sono presenti Mussolini, Brusaporci e Balducci. Si discute della
partecipazione ai due congressi socialisti che si riuniranno a Parigi
nel luglio; Mussolini prende parte alla discussione.
«Rivendicazione», 1° maggio 1891: lettera aperta
de «Gli operai disoccupati» da Predappio 28 aprile, alla
deputazione provinciale di Forlí: domandano lavori pubblici;
«è in nome della fame che domandiamo di essere
occupati».
«Rivendicazione», 27 giugno 1891: corrispondenza da
Predappio, 3 giugno, a firma Mussolini, circa la visita compiuta a
Predappio dai componenti la detta deputazione per studiare lavori
stradali; gradito ricordo lasciato in tutti, speranze degli operai,
ecc.
«Risveglio», Forlí,
31 marzo 1894: corrispondenza da Predappio, 28 marzo, circa l'arresto
verificatosi alla domenica dei compagni Capelli, Raggi, Brusaporci,
rei di aver cantato l'inno dei Lavoratori; Castagnoli è
riuscito a fuggire.
«Risveglio», 10 maggio 1896: corrispondenza da
Predappio, non firmata, circa questioni stradali.
«Risveglio», 7 giugno
1896: cronaca del IV Congresso regionale socialista romagnolo
tenutosi a Forlí il 31 maggio. Manca qualunque rappresentante
di Predappio. In relazione a ciò si noti che in calce alla
corrispondenza da Predappio pubblicata il 26 gennaio si legge: «I
socialisti di Predappio hanno aderito al partito? [N. d. R.]».
«Risveglio», 29 luglio 1899: cronaca del XXIII
Congresso socialista romagnolo tenutosi a Forlí il 23. Manca,
ancora una volta, qualunque rappresentante di Predappio.
«Risveglio», 5 maggio 1900: la corrispondenza da
Predappio, 29 aprile, non firmata (ma che il De Begnac attribuisce a
Mussolini), si occupa anche della bicchierata fatta a Dovia il 1°
maggio: «Si inneggiò all'Estrema Sinistra per l'energica
lotta che ha sostenuto e sosterrà... e si fecero auguri perché
la vittoria finale assicuri l'indipendenza e la libertà al
forte popolo boero».
Termino augurando che l'esempio del De Begnac venga seguito da
altri: cioè che s'inizi una fervida opera di raccolta e
d'illustrazione di documenti spettanti alla storia del movimento
operaio italiano negli ultimi trent'anni del secolo XIX.
Dopo la pubblicazione del volume qui
segnalato non è da dubitarsi che studi siffatti non abbiano ad
incontrare il plauso ed anzi l'incoraggiamento generale.
L'autore di questo
articolo sta per pubblicare in volume la prima parte di un suo
studio, compiuto nel periodo del suo alunnato alla Scuola di Storia
Moderna in Roma, condotto su documenti degli archivi di Londra,
Torino, Firenze e Napoli, intorno alla politica svolta
dall'Inghilterra in Italia fra il 1815 e il 1847 [Inghilterra e
regno di Sardegna dal 1815 al 1847,
a cura di P. Treves, Torino
1954]. In questi rapidissimi appunti egli ha inteso di prospettare
storicamente il problema dei rapporti Italia-Inghilterra quale si
pone fino dal secolo XVII e di chiarire, della politica inglese, le
premesse fondamentali e taluni sviluppi piú caratteristici
fino alla crisi risolutiva dell'unità italiana. Sia qui detto
che la Scuola di Storia Moderna ha cercato, fin dal suo nascere (anno
1926) di promuovere lo studio della storia d'Italia nel piú
ampio quadro della storia europea [L'articolo comparve nella «Rivista
storica italiana», 1936].
Carlo Alberto principe
di Carignano, Firenze 1930. Del seguito, vivamente atteso, di
questa pregevole opera è stato pubblicato il volume su Carlo
Alberto negli anni di regno 1831-43, proprio mentre si stava
ultimando la stampa di quest'Annuario.
Prima di lui nessuno si
era preoccupato di consultare, in merito alla questione di Carlo
Alberto, i carteggi conservati nel Record Office. Il Vayra (La
leggenda di una corona: Carlo Alberto e le perfidie austriache,
Torino 1896) si era limitato, a suo tempo, a tradurre – né
sempre con esattezza – i dispacci spediti da Verona dal
Wellington, i quali erano già stati pubblicati da lungo tempo
in Inghilterra.
Un esempio tipico di
questa mutevolezza dei diplomatici si ricava, nei confronti di Carlo
Alberto, dal dispaccio del ministro inglese a Torino, William Hill, a
lord Londonderry, 9 febbraio 1822 (Public Record Office, Sardinia,
65; dispaccio segreto e confidenziale, n. 4), e riguarda la legazione
di Francia. Da esso risulta che nel settembre del 1820 la legazione
di Francia era contraria al ritorno di Carlo Alberto in Piemonte; in
ottobre, invece, lo favoriva; sui primi del '22 vi si manifestava di
bel nuovo contraria. Ci auguriamo, fra parentesi, che questo
accidentale rilievo non abbia a procurare un nuovo piacere al
francese César Vidal, noto studioso del Risorgimento, il
quale, scottato per una innocente recensioncina al suo Charles-Albert
et le Risorgimento italien (Paris 1930), ci ha fatto l'onore, in
un suo successivo volume, di attribuirci (per combatterle,
naturalmente) opinioni mai espresse da noi circa Carlo Alberto e la
politica della Francia e dell'Austria (Louis-Philippe, Metternich
et la crise italienne de 1831-32, Paris 1931, pp. 20 nota c 285).
Ci rincresce dover confessare che di questo argomento non ci siamo
mai occupati fin qui se non, appunto, per temperare il soverchio zelo
francese del signor Vidal.
Nell'indice dei nomi di
persone che chiude il volume del Rodolico, il Percy non figura: per
un banale errore egli è stato registrato sotto il suo nome di
battesimo, Algernon.
P(ublic) R(ecord)
O(ffice), Sardinia, 61, n. 9 (a lord Castlereagh). D'ora
innanzi, dei dispacci della legazione inglese a Torino daremo
soltanto il numero e la data; salvo indicazioni in contrario
s'intende che sono tutti diretti a lord Castlereagh (lord Londonderry
dall'aprile 1821) e che appartengono tutti alla serie Sardinia,
che nel catalogo del Foreign Office reca il numero d'ordine 67. Del
Percy si vedano anche i dispacci 13 settembre, 3 e 24 ottobre, 25
novembre, 24 dicembre 1820.
P. R. O., Austria,
151.
P. R. O., Austria, 151. È
vero che nei mesi seguenti le informazioni dello Stewart parvero
improntate a un maggiore ottimismo: conseguenza dei rapporti giunti a
Vienna, da Torino, dal generale Ficquelmont. Cfr. ad esempio il
dispaccio Stewart 22 agosto 1820.
P. R. O., Tuscany,
35, dispaccio 2 ottobre 1820.
Cfr. il dispaccio
Stewart, Vienna, 8 agosto 1820 (loc. cit.): «Ho trovato
il principe (Metternich), oggi, piú visibilmente agitato che
mai per l'innanzi circa l'attuale situazione... Egli mi ha comunicato
in particolare i suoi allarmi per il Piemonte e mi ha detto che crede
il re di Sardegna debole e ondeggiante». Nel seguito il
cancelliere austriaco mutò parere circa re Vittorio: ché
la sua abdicazione gli parve atto di grande energia (cfr. Mémoires,
documents et écrits divers, Paris 1880-84, III, p. 463).
Tutto ciò dimostra che ha torto il Webster, autore di
magistrali studi sul Castlereagh quando (The Foreign Policy of
Castlereagh (1815-22), London 1925, p. 328) scrive che la
rivoluzione in Piemonte giunse «inaspettata, per quanto nel
1820 il nord d'Italia fosse stato considerato assai piú
pericoloso del sud. Ma per nord si era intesa la Lombardia». Si
deve per altro riconoscere che i timori concepiti nel corso del 1820
si acquetarono un poco nei primi mesi dell'anno seguente grazie al
cieco ottimismo dimostrato dal San Marzano a Lubiana.
Dispaccio Stuart
(ambasciatore inglese a Parigi) a Castlereagh, 22 marzo 1821 (P.R.O.,
France, 250, n. 84).
Cfr.
Webster, Op. cit.
, pp. 303 sg., 321 sg. Il Gordon, sostituto dello Stewart alla
Conferenza di Lubiana, assicura che il dispaccio circolare del
Castlereagh piacque moltissimo al delegato e ministro degli esteri
sardo, San Marzano (ivi, 325). In realtà questi scriveva al
suo re, il 15 febbraio, che la protesta del gabinetto di Londra «non
cambia nulla nel sistema adottato dall'Inghilterra, e non può
influire sugli affari generali; essa fornisce solo un testo alle
declamazioni dei liberali» (Avetta, Al Congresso di Lubiana
coi ministri di re Vittorio, in «Il Risorgimento italiano»,
1923, pp. 215-18). Il Percy, a Torino, si sforzava intanto di
neutralizzare le conseguenze evidenti della circolare Castlereagh,
ripetendo che di essa non dovevano gloriarsi né i radicali
inglesi né i liberali francesi né i carbonari italiani
(Negri, La rivoluzione piemontese del '21 nel carteggio della
diplomazia pontificia, in La Rivoluzione piemontese del
'21. Studi e documenti pubblicati dalla Società Storica
Subalpina, 1924, II, 469).
Ciò si ricava dai
dispacci del conte d'Agliè, e del conte Pollone, da Londra, al
San Marzano (l'Agliè, è noto, partí per Parigi e
Torino ai primi d'agosto del 1820, e non tornò in sede che
molti mesi piú tardi, dopo avere esperito importanti missioni
a Lubiana e a Napoli). Il 23 luglio 1820 l'Agliè, rendendo
conto di un suo colloquio col Castlereagh, scriveva: «Quanto a
noi, egli mi disse che sentiva essere la nostra situazione molto
difficile, ed esigere molta prudenza e vigilanza; ma evitò di
entrare in particolari» (Bianchi, Storia della diplomazia
europea in Italia, II, pp. 307-8. Il Bianchi attribuisce
erroneamente a questo dispaccio la data di Parigi). Non si può
escludere è vero, che dispacci riservati dell'Agliè o
del Pollone manchino dalle filze esibite agli studiosi nell'Archivio
di Torino, né che il segreto pensiero del Castlereagh venisse
dall'Agliè convogliato oralmente al San Marzano; quel che si
può escludere quasi con certezza si è invece che,
partito l'Agliè, il Castlereagh si aprisse confidenzialmente
col giovane incaricato Pollone.
Cfr. i dispacci Stewart
del 21 e 27 dicembre 1820 (loc. cit.) e Castlereagh a Stewart,
19 gennaio 1821 (P. R. O., Austria, p. 158, n. 6).
Tale nomina ebbe luogo in
settembre e non nel giugno, come scrive il Rodolico a p. 99. Piú
tardi lo Hill riferí che a Torino «molti erano rimasti
sorpresi che il re avesse affidato a una persona cosí giovane
un posto considerato della piú alta importanza in questo
paese» (dispaccio 25 giugno 1821).
Dispaccio Percy 3 ottobre
1820.
Dispaccio Hill 17 maggio
1821: «In realtà l'antipatia del vecchio re (per gli
austriaci) era cosí viva che per due anni dopo che essi ebbero
evacuato il paese egli non cessò mai di parlare su questo
soggetto sia con me che con qualunque viaggiatore inglese io gli
presentassi a corte; ora si afferma perfino che, a forza di tenere lo
stesso linguaggio dinanzi ai suoi ufficiali, egli abbia in qualche
misura determinato quell'animosità che ha tanto contribuito ai
recenti avvenimenti».
Dispaccio Percy 8
dicembre 1820.
Istruzioni San Marzano ad
Agliè (che è in viaggio per Napoli), Lubiana, 28
febbraio 1821: «Conoscete perfettamente... le vedute e
l'opinione del gabinetto di St James, sapete che esso, malgrado la
sua neutralità assoluta, è antirivoluzionario»
(Avetta, op. cit., p. 246). Il contegno assunto
dall'Inghilterra a Lubiana è troppo noto perché occorra
riferirne qui.
Narrando che il principe
«manda ogni giorno all'ospedale per assumere informazioni sul
conto dei feriti e per offrire loro ogni assistenza», il Percy
viene a dare piena conferma al racconto del Rodolico (p. 122) contro
le risibili fandonie del Brofferio. Cfr. il dispaccio Percy 19
gennaio 1821.
Questa notizia, vera o
non vera, non è stata fin qui registrata, ch'io mi sappia, da
altre fonti. Dispaccio Percy cit., 19 gennaio 1821.
Dispaccio segreto Percy 6
marzo 1821. Il Percy è già informato di quanto, nelle
lettere sequestrate, riguarda Carlo Alberto, qualificato dal principe
della Cisterna decisamente inferiore «a siffatta incombenza».
Dispaccio Percy 10, 11 e
13 marzo 1821.
Dispaccio cit. 11 marzo
1821; egli sta per mandare all'uopo un corriere a Napoli quando gli
giunge notizia che il re e la regina hanno abdicato e sono partiti
per Nizza. Dispaccio cit. 13 marzo 1821.
Dispaccio cit. 13 marzo
1821.
Dispaccio cit. 13 marzo
1821. A Torino e in tutto il Piemonte è diffusa l'idea che
l'Inghilterra interverrà militarmente per impedire
un'eventuale occupazione straniera. Lo attesta lo stesso Percy
(dispaccio 15 marzo 1821): si crede che «qualora la Russia
mandasse truppe in appoggio dell'Austria in Italia, la Francia di
concerto con l'Inghilterra agirebbe immediatamente contro i dittatori
del nord in pro dell'indipendenza italiana». Se ne parla in
Lombardia, come dimostra un rapporto 31 marzo della polizia di Como
alla direzione di polizia a Milano: i liberali piemontesi vanno
spargendo che «gli Inglesi abbiano sbarcato un corpo di truppe
per soccorrere i Napoletani» (Colombo, La rivoluzione del
1821 secondo fonti austriache, in La rivoluzione piemontese
del 1821. Studi e documenti cit., II 717). Ancora il 13 aprile il
Laneri scriveva al sindaco di Savona: «Quindici bastimenti
inglesi sono giunti a Genova per sostenerci in questa circostanza»
(Luzio, Carlo Alberto e Mazzini, Torino 1923. pp. 31-32).
In due luoghi: a pp.
185-86 e a p. 197, nota.
Segnaliamo
qualche punto piú interessante. Nel dispaccio 11 marzo il
Percy afferma che Carlo Alberto si è rifiutato di recarsi,
conformemente all'ordine di S. M., fra le truppe ribelli ad
Alessandria, «adducendo di sapere che lo si sarebbe forzato a
mettersi alla testa degli insorti e a figurare cosí d'agire
d'accordo con loro». Questa versione contrasta con quella piú
generalmente accettata (basata sui Memoriali di Carlo Alberto
e sulla testimonianza del Balbo: cfr. Rodolico, p. 157) secondo la
quale tale linguaggio sarebbe stato tenuto dal Gifflenga, che Carlo
Alberto aveva designato ad accompagnarlo nel viaggio; è
confermata però dal ministro d'Austria, Binder (dispaccio 12
marzo 1821 pubblicato dal Rinieri, La rivoluzione in Piemonte. Le
società segrete, ecc., nella cit. silloge La
rivoluzione piemontese. Studi e documenti, I, pp. 622-23) e dal
biografo del conte Revel (Introduction à la guerre des
Alpes, ecc., p. XLIV). Nello stesso dispaccio dell'11 marzo il
Percy dava circostanziata notizia della convocazione fatta dal re
quel giorno stesso degli ufficiali comandanti i corpi armati di
stanza a Torino per interpellarli circa l'assegnamento che poteva
farsi sulle rispettive truppe. Orbene, questo episodio è stato
fin qui generalmente attribuito al giorno seguente, 12 marzo. La
testimonianza del Percy, il cui dispaccio – ripetiamo – è
datato 11 marzo, sembrerebbe inoppugnabile, a meno che non si pensi
(cosa niente affatto inverosimile) che, giacché non tutti i
giorni si presentava l'occasione di far partire dispacci, egli
figurasse soltanto di scriverli (in quelle gravi circostanze)
quotidianamente; e che in realtà li scrivesse tutti insieme,
salvo ad apporre a ciascuno di essi date diverse. Quanto alle
dichiarazioni fatte dagli ufficiali convenuti, il resoconto Percy
collima con la versione tradizionale, secondo la quale il colonnello
del reggimento Aosta e il principe di Carignano avrebbero risposto
che sulle loro truppe, pronte a difendere il re, non era da fare
assegnamento quanto a un'azione contro i rivoltosi (Carlo Alberto, è
noto, scrisse nel suo primo Memoriale in modo alquanto
diverso; ma di ciò piú oltre). Senonché il Percy
aggiunge che, uditi quegli scoraggianti rapporti, «il re
scoppiò in lacrime». E ancora: nel dispaccio 12 marzo il
Percy, vagliando le voci che corrono nella capitale circa il contegno
tenuto da Carlo Alberto alla Cittadella (chi diceva dentro di essa e
chi dinanzi ad essa), esclude che egli possa essersi unito ai
rivoltosi nel grido di «W la Costituzione», e ciò
«quali che siano gl'intimi sentimenti del principe».
Non sembra che la notte fatale
dell'abdicazione del re, il Percy avesse colloqui con questo o col
neo-reggente: egli si limitò probabilmente, come gli altri
suoi colleghi del corpo diplomatico, a recarsi quella notte alla
Segreteria degli esteri, dove le drammatiche novità vennero
loro comunicate (all'Archivio di Stato di Torino, Lettere
Ministri. Gran Bretagna, Registro lettere della Segreteria degli
esteri, si conserva infatti copia di un biglietto, datato 12
marzo, ore 11,30 p., con cui il San Marzano invitava il Percy a
recarsi d'urgenza alla Segreteria). Il Percy comunicò
l'avvenuta abdicazione del re con dispaccio al Castlereagh scritto
alle due di mattina del 13 marzo. Un colloquio col re e col reggente
ebbe invece, all'alba del 13, l'ambasciatore di Francia, La Tour du
Pin: su di esso e sulle dichiarazioni fatte da quel diplomatico molto
si è scritto e fantasticato. Ma il Segre nel suo Vittorio
Emanuele I, Torino 1930, pp. 241-42, ci accerta di non averne
trovato traccia nel carteggio La Tour du Pin, da lui consultato a
Parigi. Stimiamo opportuno perciò registrare in proposito la
testimonianza dello Stuart, ambasciatore inglese in Francia. Il cui
dispaccio 17 marzo 1821 (P. R. O., France, 250, n. 79) in
sostanza conferma appieno la nota versione del De Reiset (cfr. in
Rodolico, p. 180), tacendo di un supposto colloquio del La Tour con
re Vittorio e riferendo solo, di quello con Carlo Alberto, le
dichiarazioni di quest'ultimo in senso favorevole alla promulgazione
della Costituzione francese. Il Gordon, invece, che attingeva a fonti
austriache, accertava, nel suo dispaccio 22 marzo 1821 (P. R. O.,
Austria, 163, n. 27) che il La Tour avrebbe «consigliato
il principe di Carignano di adottare la Costituzione francese,
impegnandosi, con questa condizione, ad assicurargli l'appoggio del
governo francese». Già che siamo a parlare del Gordon,
della cui assennatezza, ossia antiliberalismo, tesseva gli elogi il
San Marzano, contrapponendolo al bollente Stewart (dispaccio cit. 15
febbraio 1821), citiamo qui il primo giudizio che di Carlo Alberto
reggente egli trasmetteva al Castlereagh (dispaccio 17 marzo, loc.
cit.): «Il principe di Carignano è sospettato di
avere favorito la rivoluzione, e anzi di averla in qualche misura
istigata, di concerto con autorevoli agenti, riuniti in club a
Parigi... Circola la voce che il principe di Carignano stia per
assumere il titolo di re d'Italia».
Abbiamo riprodotto in
extenso la risposta del Percy perché il Rodolico l'ha omessa.
Da molti mesi il Binder
coltivava assiduamente il suo collega inglese, gratificandolo di
«espressioni che – scriveva il Percy il 24 ottobre 1820 –
potrei quasi dire di venerazione per l'Inghilterra». Ma il
Percy non lo ricambiava di ugual moneta: riteneva che col suo
contegno il Binder facesse di tutto per rendere sempre piú
impopolare l'Austria in Piemonte, era urtato, si è detto,
delle sue elucubrazioni sulla missione austriaca (dispaccio 19
febbraio 1821), lo stimava insomma una vera calamità per la
pace d'Europa (cfr. anche l'altro dispaccio 13 marzo), Né era
egli solo a pensarla cosí. Il La Tour du Pin qualificava
infatti il suo collega austriaco «un vero pazzo»
(dispaccio 18 gennaio 1821, in Segre, op. cit., p. 225).
Op. cit., p. 191,
nota.
Il che è
confermato dallo stesso Carlo Alberto nel suo primo Memoriale
e dalla sua lettera 29 marzo 1821 a re Vittorio (Scritti di Carlo
Alberto, a cura di V. Fiorini, Roma 1900, pp. 37, 163). Il
dispaccio Binder, cui allude il Rodolico, è stato pubblicato
dal Rinieri, op. cit., pp. 624-26: esso contiene ampli
particolari sulla missione Percy e su una successiva missione De
Maistre mandatagli quel giorno stesso dal principe: il Binder non
crede alla buona fede del reggente (circa la sua intenzione di far
credere a una imminente guerra all'Austria al solo scopo di
guadagnare tempo) e assicura che neanche il ministro di Russia vi
crede.
Con questo non intendiamo
dire che il Binder fosse un eroe (ci accerta del contrario
l'incaricato d'affari pontificio, Valenti, in un dispaccio dell'11
dicembre 1820, pubblicato dal Rinieri, op. cit., p. 588); ma
solo ristabilire la verità su questo punto particolare.
Dispaccio 19 marzo 1821,
n. 21. Era stato il proclama di Carlo Alberto del 15 marzo quello che
aveva diffuso la sensazione che egli intendesse davvero dichiarare la
guerra all'Austria. Cfr. in proposito il dispaccio Stuart 23 marzo
1821 (P. R. O., France, 250, n. 86).
Dispaccio Gordon 19 marzo
1821 (P. R. O., Austria, 163, n. 26). Il proclama venne da
Carlo Alberto comunicato, come è noto, ai ministri; d'accordo
coi quali (18 marzo) ne sospese la pubblicazione. Di qui la leggenda
(raccolta, ma non creduta dallo Hill), che egli se lo fosse «tenuto
in tasca per due giorni» e che non lo avrebbe «pubblicato
né si sarebbe recato a Novara se non avesse successivamente
ricevuto da un corriere, in via privata, la notizia della completa
disfatta dei Napoletani» (dispaccio Hill 25 giugno 1821). Su
questo proclama e sulla ritardata pubblicazione cfr. Dallari, L'alba
di un regno. Carlo Felice a Modena, in «Rassegna storica
del Risorgimento», 1924, pp. 944-47.
Cfr. Rodolico, p. 194,
nota. Sulla depressione del reggente cfr. il dispaccio Metternich a
Stadion, 26 marzo 1821: «La révolte en Piémont va
mal comme révolution... Son principal
champion, le prince de Carignan, ne fait que pleurer».
(Mémoires cit., III, p. 493).
Cfr. in Rodolico, pp.
197-98, il brano del cit. dispaccio Percy che ad essa si riferisce.
In un altro luogo dello stesso dispaccio l'incaricato inglese notava
che l'attacco al Binder aveva alienato molti consensi alla causa
costituzionale.
Dispaccio Percy 20 marzo
1821. Il Rinieri, op. cit., p. 627, dice che manca la risposta
del reggente alla richiesta di passaporti fatta dal Binder. Eccocela
adesso riassunta dal Percy.
L'ultimo periodo di
questo passo del dispaccio Percy è stato pubblicato dal
Rodolico a p. 193, nota.
Dispaccio Percy 23 marzo
1821.
Lo s'ignorava
evidentemente anche a Parigi donde, il 28 marzo, scriveva lo Stuart
che il reggente aveva rinunziato al suo rango il giorno medesimo nel
quale la legazione francese aveva ufficialmente smentito che il suo
governo intendesse appoggiare il movimento antiaustriaco in Italia
(P. R. O., France, 250, n. 91). Ma dai dispacci Percy e Stuart
si è lasciato influenzare il Webster quando ha scritto (op.
cit., p. 331) «che Carlo Alberto (dopo qualche esitazione)
abbandonò una causa che era evidentemente diventata disperata
dopo che Napoli era stata disfatta e la Francia aveva rifiutato di
aiutare in qualunque modo».
Cfr. i due suoi dispacci
del 24 marzo (nn. 26 e 27) e l'altro del 26 di quel mese.
Dispaccio cit. 26
marzo 1821. Questo passo compiuto dal Percy è ignorato dal
Webster, il quale scrive soltanto (p. 330) che l'idea di una
mediazione franco-inglese avanzata dal governo di Parigi venne
senz'altro scartata dal Foreign Office. Il Percy non dà che
notizie generiche, piú tardi, dei noti passi compiuti dal
ministro di Russia, Mocenigo, per portare a un accordo fra gl'insorti
e il governo legittimo; né troviamo conferma nei suoi dispacci
dell'affermazione dell'incaricato pontificio secondo cui il negoziato
Mocenigo avrebbe dato «ombra ai due rappresentanti di Francia e
d'Inghilterra, che avrebbero voluto essere invitati a
prendervi parte» (dispaccio 29 marzo 1821 pubblicato dal Negri,
op. cit., II, p. 497).
Dispaccio Castlereagh a
Gordon 5 aprile 1821, segreto e confidenziale (P. R. O., Austria,
161, n. 2); il Webster, op. cit., p. 330, ne ha pubblicato
solo un brevissimo estratto. Sul proposto intervento russo in
Piemonte si vedano le giuste considerazioni svolte in contrario dal
Gordon (dispaccio 15 marzo 1821) e dallo Stuart (dispaccio 26 marzo e
5 aprile 1821) e quel che scrive lo Hill nel dispaccio 17 maggio
1821. Il 22 aprile il Metternich scriveva allo
Stadion: «Ne jugez pas l'Angleterre sur rien de ce que vous dit
lord Stewart: tout ce qu'il dit est faux. Il vous aura fièrement
niée la marche d'un corps russe en Piémont; eh bien,
son Cabinet le demande à cor et à cri, car il voit
juste...»
Dispaccio Percy, 11
aprile 1821. Sulle intenzioni, a vero dire rientrate, di taluni fra i
capi degli insorti genovesi d'intentare un processo al Des Geneys,
allora recluso a Palazzo Ducale, cfr. Bornate, L'insurrezione di
Genova nel marzo 1821, Torino 1923, pp. 63, 109.
Cfr. il dispaccio
Castlereagh a Hill, 7 maggio 1821, in gran parte pubblicato dal
Webster, op. cit., p. 331.
Dispaccio Hill 17 maggio
1821: «voce non innaturale, commentava egli, giacché la
speranza e l'aspettazione sono spesso il resultato di un desiderio
generale».
Questa parte del racconto
Hill è cronologicamente inesatta: fra l'altro, re Vittorio non
si recò a Moncalieri che il 7 di marzo, mentre Carlo Alberto
venne a conoscenza delle famose lettere sequestrate il giorno 5.
Il Luzio, op. cit.,
p. 47, trovando la notizia di questa intenzione del principe nella
citata biografia del Revel, strabilia e inclina a ritenerla
inventata. La testimonianza dello Hill dimostra invece che il Revel
palesò la cosa fino dal maggio 1821, se era lui la fonte dello
Hill; se poi non era lui, è chiaro che la notizia acquista
ancora maggiore importanza.
Sullo stesso argomento
tornava lo Hill nel dispaccio 18 agosto 1821: «Il granduca di
Toscana è scontento della condotta privata del principe di
Carignano e sarebbe felice di qualunque accomodamento che ne
facilitasse l'allontanamento da Firenze». La corrispondenza del
ministro inglese a Firenze, lord Burghersh, non getta alcuna luce
sulla questione, ancora controversa, del contegno tenuto da Carlo
Alberto a Firenze; per quanto da documenti toscani (ci assicura il
Masi, Carlo Alberto nell'esilio di Firenze, in Studi
Carlo-Albertini, Torino 1933, p. 59) il Burghersh resulti un
simpatizzante per il Carignano. Sul medesimo soggetto ritornava lo
Hill a un anno di distanza. Il principe – scriveva il 3 agosto
1822 – «conduce adesso a Firenze una vita della piú
grande regolarità e anche di bigotta devozione; ma Sua Maestà
e la corte non sono disposte a ritenere sinceri questi ed altri segni
di contrizione». Anche lo Hill diffidava dei racconti troppo
edificanti fatti al proposito dalla contessa di Truchsess.
Il Rodolico, pp. 152-55,
sembra considerare la storia del perdono di Moncalieri come una
maligna fantasia messa in giro dal Revel. Ammettiamo volentieri che
questa conferma dello Hill non sia da ritenersi probante in quanto di
netta derivazione revelliana; ma ne vedremo piú oltre
ineccepibili riprove. A una confessione di Carlo Alberto al re si
allude del resto nello stesso Simple récit, ecc.,
notoriamente composto da amici del principe su dati in gran parte
forniti da lui (Scritti di Carlo Alberto cit., pp. 87-88).
La data del colloquio di
Moncalieri è, si sa, quella del 10 marzo; lo Hill in un
annesso al dispaccio 9 maggio 1821 (Ordine cronologico degli
avvenimenti che ebbero luogo durante la rivoluzione in Piemonte)
afferma invece che esso si sarebbe svolto l'8 di marzo. Errore
evidente: forse lo Hill confondeva fra il colloquio del 10 e la
cavalcata fatta il 7 da Carlo Alberto per accompagnare il re a
Moncalieri.
Della stessa opinione era
allora la legazione di Francia; cfr. il tono dei giudizi espressi dal
La Tour du Pin su Carlo Alberto in Matter, Cavour et l'unité
italienne, Paris 1922, I, p. 39.
Giuste al proposito le
considerazioni del Rodolico, p. 327; sebbene la richiesta fatta da
Carlo Alberto al Percy agli inizi della reggenza perché
venisse inviata una squadra inglese a Genova non possa davvero
addursi a prova dell'interesse inglese a impedire un predominio
austriaco in Italia: altrimenti la circostanza del mancato invio
della squadra potrebbe addursi senz'altro a prova del contrario. Il
Webster, op. cit., p. 332, scrive che «in questa
faccenda (la questione Carignano) il Castlereagh non prese parte
alcuna»: il che è esatto, purché si ricordi,
tuttavia, che le istruzioni ai plenipotenziari inglesi al Congresso
di Verona, consacrato fra l'altro all'esame di quella questione,
vennero vergate da lui.
Alle pp. 168-70. Nella
prima parte del dispaccio lo Hill afferma che il «tradimento»
imputato al principe deve riferirsi all'attività da lui svolta
in qualità di gran mastro dell'artiglieria: «Il principe
non era ancora da un anno in possesso del suo ufficio; operò
certamente vari mutamenti fra gli ufficiali, trasferendone molti
affezionati alla vecchia corte, e circondandosi dei suoi amici
particolari, e in confidenza con lui, o piuttosto di cattivi
consiglieri». A questo punto s'inizia la trascrizione del
Rodolico: il quale precisa che il dispaccio venne vergato dallo Hill
dopo i colloqui avuti a Modena; senonché il ministro inglese,
il 25 di giugno, non si era ancora mosso da Torino. Per esser pedanti
noteremo che l'affermazione dello Hill – il ministro di Prussia
«ritiene che S. A. S. si troverà in grado di
giustificarsi in gran misura» – è stata tradotta
dal Rodolico con omissione delle tre ultime parole, le quali hanno
pure un qualche valore.
Carlo Alberto aveva, si
sa, grande stima pel Des Geneys e riponeva in lui illimitata fiducia,
come dimostra la lettera che gli scrisse, ancora reggente, il 20
marzo 1821. Cfr. Boselli, Carlo Alberto e l'ammiraglio Des Geneys
nel 1821, estratto dagli «Atti della R. Accad. delle
Scienze di Torino», vol. XXVII; Prasca, L'Ammiraglio Des
Geneys, Pinerolo 1926.
A conferma di questo
particolare (per quanto sia forse esagerato l'asserire che re
Vittorio si perse fra i monti) cfr. Segre, Note e documenti sui
casi e sui profughi del 1821, nella citata silloge La
Rivoluzione piemontese, I, p. 242; e Dallari, op. cit.,
p. 958.
Cfr. dispaccio Hill 6
novembre 1821; e sui rapporti fra l'Aglié e Carlo Felice
(Lemmi, Carlo Felice, Torino 1931, pp. 166-67).
Ne accusava ricevuta
quello stesso 15 luglio. Motivo del ritardo, si sa, la speranza, a
lungo nutrita dal Foreign Office, che re Vittorio si lasciasse
indurre a riascendere il trono. I ministri delle altre grandi potenze
si erano già tutti recati a Modena fin dal mese di aprile
(Dallari, op. cit., P. 949).
Carlo Felice era
tutt'altro che una personalità di eccezione; ma era assistito
da un vigoroso buon senso, da non comune energia di carattere, e
aveva altissima coscienza dei doveri di un sovrano, come ci ha ben
mostrato il Lemmi nel suo bel libro, citato, a lui dedicato. Nel
dispaccio 6 novembre 1821 lo Hill giungeva, quasi suo malgrado, ad
ammettere che Carlo Felice «possa essere piú fermo e
aver maggiori attitudini per regnare» di suo fratello.
pp. 269-70. Il dispaccio
Hill reca la data del 12 agosto.
Si veda in proposito il
dispaccio Castellalfero (ministro sardo a Firenze), 20 giugno 1821,
in Luzio, op. cit., pp. 49-50; e quello del Maisonfort
(ministro francese a Firenze), 19 giugno 1821, in Gualterio, Gli
ultimi rivolgimenti italiani, Memorie storiche, Firenze 1852-61,
III, p. 322.
Luzio, op. cit.,
p. 42, nota; Lemmi, op. cit., p. 192.
Dispaccio Hill 5 aprile
1822, segretissimo.
La personale devozione
dello Hill per re Vittorio (risaliva ai tempi del soggiorno della
corte sabauda in Sardegna) era ben nota; cfr. su di essa il
riconoscimento del Saluzzo nel suo Memoriale pubblicato dallo
Zucchi, nella silloge cit., I, p. 454.
Il generale Gifflenga, si
sa, non si recò a Moncalieri insieme col principe; è
esatto comunque che la mattina del 10 marzo anch'egli si trovava
colà. Sul di lui conto scrisse lo Hill, nel dispaccio 7
dicembre 1821, essersi molto meravigliati che re Vittorio lo avesse
scelto, il 13 marzo, per accompagnar lui e la regina nel viaggio di
Nizza; ma che la regina al ministro austriaco, il quale si era fatto
eco di queste impressioni, aveva replicato: «Quando si
attraversa una foresta di notte, non c'è miglior protettore o
guida del capo dei banditi». L'aneddoto, in termini leggermente
diversi, è riportato dal Lemmi (op. cit., p. 193,
nota), il quale lo ha da tutt'altra fonte.
È noto che quel
proclama era già stato perfino stampato. Dagli archivi ne
trasse una copia, molti mesi piú tardi, il Della Valle per
mostrarla al ministro inglese, il quale la spedí a Londra.
Cfr. il suo dispaccio 5 aprile 1822.
Il Rapport et détails
de la Révolution, ecc., in Scritti di Carlo Alberto
cit., pp. 3-30. Lo Hill ne aveva già dato notizia nel
dispaccio 18 agosto 1821; ma solo parecchi mesi piú tardi fu
in grado di procurarsene una copia.
Op. cit.,
p. 25.
Questa dichiarazione di
Carlo Alberto era certo in contraddizione con i suoi veri sentimenti;
del che si ha una riprova indiscutibile nella lettera che il 21
novembre 1821 egli stesso scriveva al Sonnaz: «J'ai dit, et
telle fut toujours ma manière de penser, qu'un gouvernement
tempéré, comme celui de la France, ou dans le même
genre, était le meilleur...» (Scritti di Carlo
Alberto cit,, p. 182). Ma che il principe si fosse proprio
espresso, qualche tempo prima dello scoppio della rivoluzione, nel
senso esposto da re Vittorio dimostra anche questa lettera di Maria
Teresa al duca di Modena, 28 febbraio 1821: «Il re è...
nemico del regime costituzionale, e questo è ugualmente odioso
al duca e al principe (Carlo Alberto); dunque spero in Dio che per
qua non vi sia nulla da temere» (Dallari, op. cit., p.
940). Sulle discussioni relative alla costituzione in quel drammatico
Consiglio della Corona, cfr. Passamonti, Prospero Balbo e la
rivoluzione del 1821, nella cit. silloge, I, pp. 330-31; e
Zucchi, op. cit. pp. 477-78.
Il Rodolico, nella parte
del suo libro dedicata alla narrazione critica degli eventi
rivoluzionari, non accenna neppure a queste discussioni in extremis
svoltesi fra i sovrani, il principe e i ministri a proposito della
costituzione. E non s'intende il perché.
Si noti che il Balbo,
nelle sue Memorie (Passamonti, ed. cit,, p. 323) non
menziona la presenza di Carlo Alberto quando ci riferisce le
dichiarazioni dei vari comandanti. Il Saluzzo,
riferita la risposta del Ceravegna, si limita a scrivere: «le
chef de l'artillerie prit la parole et dit qu'il en était de
même de ses cannoniers» (Zucchi, op.
cit., p. 475).
Cfr.
il Saluzzo nel suo Memoriale:
«On a reproché au ministère de n'avoir pas fait
arrêter le col. Ceravegna au sortir du cabinet du roi et
peut-on croire que la pensée n'en soit venue à
personne! Mais une considération de la plus grave importance,
que c'est devoir de taire même pour la justifier, arrêta
cette pensée au moment même où elle fut conçue»
(Zucchi, loc. cit.).
Analoga era l'opinione
del generale La Tour, dallo Hill riportata nel già citato
dispaccio 18 agosto 1821: «Parlando della voce secondo la quale
il principe avrebbe determinato di chiedere una corte marziale, il
generale La Tour mi ha detto che nessun ufficiale piemontese potrebbe
o vorrebbe condannarlo per atti della sua reggenza; un siffatto
processo dovrebbe basarsi sull'attività precedente di S. A.
S., attività che, eccettuato l'intervallo di pochi giorni o
piuttosto di poche ore, era stata già perdonata da S. M.
Vittorio Emanuele sebbene S. M. fosse allora all'oscuro di molte cose
accadute pel tramite di S. A. S.». Il La Tour era, ciò
nondimeno, favorevole, si sa, a un sollecito ritorno di Carlo Alberto
in Piemonte.
Sugli addebiti fatti da
re Vittorio a Carlo Alberto, cfr. in particolare Masi, op. cit.,
p. 141; Dallari, op. cit., pp. 957-58; Luzio, op. cit.,
pp. 12, 29; Segre, Vittorio Emanuele cit., p. 248, oltre ai
noti dispacci del Maisonfort pubblicati dal Gualterio, op. cit.,
III, passim. Resulta chiaro da innumerevoli documenti che re
Vittorio era profondamente risentito con Carlo Alberto; ond'è
che non ci spieghiamo come il Luzio dopo avere tentato di attenuare
l'importanza degli addebiti mossi da re Vittorio, possa scrivere (op.
cit., p. 51) che «sarebbe indubbiamente assai grave»
se quel sovrano avesse davvero nutrito «un giudizio sfavorevole
al principe». Il dispaccio Hill, comunque, toglie ogni dubbio
in proposito.
Anche il Metternich
riconobbe che l'abdicazione aveva fiaccato la rivoluzione (a
Rechberg, 25 marzo 1821; Mémoires cit., III, p. 490).
Glielo aveva fatto notare il Binder già il 17 marzo (dispaccio
pubblicato dal Rinieri, op. cit., p. 623).
Il che, d'altronde,
coincideva con i suoi interessi: la costituzione di Spagna, se
adottata tal quale, lo avrebbe privato infatti, dei diritti di
successione in favore delle figlie di re Vittorio.
Cfr. i suoi dispacci 13
gennaio e 9 febbraio 1822.
Dispaccio Hill cit., 13
gennaio 1822; cfr. anche l'altra del 24 dello stesso mese: egli si è
adoperato per sollecitare il ritorno di re Vittorio in patria,
ritenendo che «dato il risentimento della regina, e la sua
intesa col principe Carignano, vi fosse piú da temere dalla
sua assenza» che non dal suo ritorno. Si veda anche Rodolico,
pp. 292 sg. Circa lo stato d'animo della regina Maria Teresa di
fronte alle prospettive di riassumere il trono siamo poco informati.
Il Saluzzo (Zucchi, op. cit., p. 521) attesta che essa
insistette col marito perché rifiutasse qualunque offerta in
proposito; il Maisonfort, invece, in un dispaccio del 31 agosto 1821,
riferiva che la conversazione della regina gli aveva dato
l'impressione che essa rimpiangesse di non piú esser sul trono
(Gualterio, op. cit., III, p. 324). Da un dispaccio Daiser
(nuovo ministro d'Austria a Torino) al Metternich, 24 maggio 1822,
sembrerebbe lecito dedurre che egli ritenesse aver Maria Teresa
spinto re Vittorio a sollecitare, malgrado tutto, il ritorno in
Piemonte (Rinieri, op. cit., p. 649).
Lo Hill aveva conosciuto
l'arciduca a Cagliari, negli anni della lotta antinapoleonica. «M'è
rincresciuto di notare – cosí riferiva questo suo
colloquio – che, pur discorrendo egli con la sua solita
abilità, il suo linguaggio è molto mutato relativamente
ai sistemi liberali... S. A. R. era allora un candidato al posto di
capo della Lega italiana, in quel tempo in progetto..., adesso è
uno dei piú abili agenti di suo cugino l'imperatore.
Trattandosi di un sovrano italiano... sono rimasto piuttosto sorpreso
di udire con che tono sarcastico e spregiativo l'arciduca parlava
degli italiani... Facendo un paragone fra il suo real suocero
Vittorio Emanuele e la presente Maestà Sarda, l'arciduca mi ha
detto con palese, viva approvazione, che S. M. Carlo Felice non è
soltanto fermo, ma severo!»
Dispaccio Hill, 18 agosto
1821, in parte pubblicato dal Rodolico, pp. 310-11.
Dispaccio Hill, 3 marzo
1822: «Il re ritiene che, essendo egli e il principe vissuti un
tempo come padre e figlio, riuscirebbe parimenti penoso ad entrambi
risiedere (adesso) uno vicino all'altro; se in questo caso (infatti)
il re non ricevesse mai il principe, il marchio d'infamia (su di lui)
resterebbe forse anche piú indelebile che non nel caso di una
prolungata assenza del principe». Al che, però, lo Hill
obiettava che «se S. M. dovesse vivere molti anni, il principe,
che ha ricevuto la prima educazione in Francia sotto Bonaparte,
finirebbe, con un altro lungo esilio, col cessare quasi di essere un
piemontese».
Alla prudenza lo Hill
venne consigliato dall'infortunio capitatogli a proposito del ritorno
di re Vittorio in Piemonte, pel quale egli si era battuto fino al
punto di incorrere nel risentimento di Carlo Felice, che lo aveva
fatto richiamare all'ordine dal Castlereagh. Si noti come il punto di
vista dello Hill sulla questione Carignano coincidesse con l'opinione
formulata dal Metternich in un dispaccio del 6 dicembre 1821
(Mémoires cit., III, pp. 525-27).
Dispaccio Hill 13
novembre 1821; cfr. anche l'altro del 9 febbraio 1822.
Dispaccio Hill 25
novembre 1821.
Dispaccio Hill 24
ottobre, 6 e 13 novembre 1821.
Cfr. Webster, op.
cit., pp. 367 sg.; Metternich, Mémoires
cit., III, p. 524.
Identiche istruzioni
aveva mandato il Metternich al Daiser; onde questi, 13 dicembre 1821,
assicurava che si sarebbe «imposto il silenzio piú
assoluto su questo affare» (Rinieri, op. cit., p. 638).
Il Truchsess (ministro di Prussia) seguiva invece, si sa, una
politica opposta. Dispaccio Hill 24 ottobre 1821: «Il mio
collega prussiano è sempre assente, a Napoli, donde ho
ricevuto ier sera una (sua) lettera confidenziale nella quale mi
prega di adoperarmi in favore del principe di Carignano; ma io temo
che nulla sarà fatto per S. A. S. fino alla riunione del
Congresso a Firenze, l'anno prossimo, seppure anche allora mi si dice
infatti da parte russa che S. M. Sarda usa verso i sovrani alleati un
tono quasi altrettanto altezzoso che verso i suoi sudditi...»
Il Della Valle insinuava
allo Hill che «se due o tre degli alleati fossero stati
disposti ad ascoltare l'appello del re, il principe avrebbe
abbandonato le sue pretese al trono e la questione di legittimità
e primogenitura sarebbe stata salvata dalla successiva adozione del
suo figliuoletto». Dispaccio Hill 5 aprile 1822.
Dispaccio Hill 9 e 23
febbraio 1822. Successivamente lo Hill si ricredette anche su questo
punto, non senza merito, sembra, dell'infaticabile sostenitore del
principe, Luigi d'Auzers. Dispaccio Hill 3 agosto 1822: dice il
d'Auzers (fine psicologo, invero) che «nonostante la violenza
dei piú contro di lui (Carlo Alberto), egli è sicuro
che se il principe arriverà, non ci saranno cinque famiglie a
Torino che non si mostreranno ansiose di partecipare al primo
ricevimento a palazzo Carignano». Ragguagli sul d'Auzers dava
lo Hill nel dispaccio segretissimo e confidenziale del 3 marzo 1822.
Dispaccio Hill 9 febbraio
1822: il Revel «dice che se il re è incline al perdono,
quanto prima il principe tornerà, in vista di regnare, tanto
meglio; ma a lui consta che il re è del tutto contrario a S.
A. S. Ciò nonostante, aggiunse il governatore, se il re
dovesse morire domani, sarebbe mio dovere proclamare il principe e
naturalmente lo farei. Il conte Revel mi ha informato che, poco dopo
il suo ritorno, il re gli ordinò di raccogliere tutte le prove
che erano emerse a carico del principe nei processi dei ribelli.
Quando esse vennero sottoposte a S. M., il re disse che ve n'erano
troppe, e, insieme, non abbastanza; ciò che il conte Revel
interpretò: troppe per l'onore del principe, ma non abbastanza
per processarlo. Dice tuttavia il conte che, se ancora adesso il re
desse ordini in proposito, si raccoglierebbero prove imponenti, ma
che col passar del tempo riuscirà piú difficile trovar
prove dirette. Sua Eccellenza mi ha anche detto in confidenza avergli
nientemeno che il generale Ecuyer (uno dei favoriti del re) domandato
perché non avesse sottoposto a processo il principe insieme
agli altri ribelli; al che egli aveva immediatamente risposto che in
una questione concernente non soltanto un principe di casa Savoia, ma
l'erede presuntivo della Corona, ciò sarebbe stato impossibile
senza ordini espliciti del re. Il conte, mi è parso, sospetta
fosse desiderio del re che egli avesse preso su di lui questa
responsabilità quando era luogotenente generale o viceré:
egli non l'ha fatto, eppure dice che un esempio di questo genere
riuscirebbe utile di fronte ai tanti principi ereditari che, di
recente, sono stati i primi traditori nei loro rispettivi paesi».
Dispaccio Hill 9 febbraio
1822: «Il Saluzzo mi ha detto confidenzialmente che fin quando
il principe Carignano resterà erede presuntivo, nessun
ufficiale oserà condannarlo, e che il re dovrebbe in prima e
non in seconda istanza consultare in proposito i suoi alleati».
Anche in un'altra
occasione lo Hill si era preoccupato dello stato d'animo della
moltitudine, in contrapposto a quello diffuso nei ceti piú
alti: a proposito del ritorno di re Vittorio in Piemonte, che egli
auspicava ritenendolo ardentemente desiderato dalla massa del popolo,
checché ne pensassero i nobili. Cfr. il suo dispaccio 6
novembre 1821. Alle opinioni delle masse in Piemonte aveva alluso
anche lo Strassoldo in un dispaccio al Metternich del 29 aprile 1821
(Colombo, op. cit., pp. 738-40).
Cosí nel noto
dispaccio circolare diramato alle Missioni all'estero, su cui cfr.
dispaccio Hill 3 marzo 1822.
Dispaccio Hill 23
febbraio 1822.
Cfr. su di esso quel che
ne scrisse il Cipriani, nelle Avventure della mia vita, I, pp.
27 sgg.: Leonetto v'era entrato, di dodici anni, nel '24, e vi
rimase, col fratello Pietro, quattr'anni. Da lui impariamo che il
vicerettore era un buon maestro di latino; che l'italiano v'era
insegnato, male, da un prete Rocchi, e da un tal Cardella; e il
francese da un Giannoni, non meno antipatico e ridicolo del Cardella;
e che due dei prefetti si chiamavano Bachi e Lecori. Vero è
che alla testimonianza del Cipriani, un vero energumeno, da ragazzo,
non è da credersi alla lettera.
David Levi, che lo
conobbe nel '37, attesta che della musica il Montanelli fu «non
solo amante, ma cultore insigne» (Vita di pensiero, p.
118).
Veramente il Giusti, che
all'università di Pisa entrò, come il Montanelli, nel
novembre del 1826, e che perciò sembra difficile non lo
avvicinasse fino d'allora, ebbe a scrivergli piú tardi (nel
'47): «quando ti trovai a Pisa nel 1832»... Errore di
memoria? O volle il Giusti accennare al '32 come all'anno nel quale,
tornato egli all'università dopo una triennale parentesi
oziosa, ebbe inizio l'amicizia fraterna col Montanelli? Cosí
mi sembra probabile.
Si laureò nel '31.
Entrò
all'università nel '29.
Altro compagno di
Montanelli, Giuseppe Bianchi, col quale ebbe poi studio legale.
Per le bravate del
Cipriani a Santa Caterina, culminanti col ferimento del prefetto
Bachi, si vedano le citate sue Avventure: dalle quali risulta
che anche il Montanelli, che un bel giorno, stomacato, ebbe a
chiamarlo «corsaro», s'ebbe da lui una scarica di
violentissimi pugni nel viso. Del rettore don Valerio il Cipriani non
traccia un brutto quadro: il povero sacerdote, colpito a seggiolate e
a calci dal riottoso scolaro perché, dopo quel ferimento, gli
aveva dato, non a torto, invero, della «bestia feroce»,
dell'«assassino», venne soccorso – dice sempre il
Cipriani – da una dozzina di preti; dopodiché, «disteso
sopra una poltrona, alzando le braccia esclamò: "Curavimus
Bahylonem non est sanata, derelinquamus eam". E senza perdere un
momento fu ordinata una carrozza, e Leonetto rimandato dal padre».
Sul Forti
si veda quel che, con intelletto d'amico, scrisse il Montanelli
stesso nelle Memorie, I, p. 23, presagendo l'immortalità
addirittura ai suoi due libri delle istituzioni civili, pubblicati
postumi, essendo morto costui giovanissimo nel 1838- Cfr. anche le
pagine che gli dedicò il Martini nell'Epistole del Giusti,
IV, pp. 136 sg.
Forse fu amico del Montanelli anche
Girolamo Poggi, altro eminente giurista, strappato alla scienza nel
1837, di soli trentaquattro anni, su cui cfr. Memorie, I, p.
23.
Per una sommaria
revisione critica del Centofanti si cfr. Memorie, I, p. 63.
Si veda in proposito la
curiosa lettera del Montanelli al Centofanti, 26 novembre 1830
(inedita) nella quale cercava di ricordare tutto quello che, in
relazione «al sistema ideale e storico» il Centofanti gli
aveva detto «una mattina di domenica mentre passeggiavano per
la via di Santa Croce»; dopo di che aggiungeva: «Se potrò
richiamarmi alla memoria qualche altra cosa gliela scriverò».
Memorie, I, p.
64.
Cfr. un'altra lettera
inedita – forse ancora del '29 – del Montanelli al
Centofanti nella quale, ricorrendo a lui «come suo unico
protettore per domandargli schiarimenti sopra varie difficoltà
che gli correvano nel corso dei suoi studi» gli esponeva dubbi
eruditi sorti in lui dalla lettura di una opera del Boggelli e della
Storia antica e moderna dello Schlegel.
Diritto civile e
canonico.
Altri professori di
discipline giuridiche erano allora il Dal Borgo, di istituzioni
civili, forse piú attivo e piú noto, a torto o a
ragione, come poeta che non come giurista; e il Cantini, di diritto
canonico.
Cfr. Montanelli a
Vieusseux, 3 dicembre 1834.
Cfr. Montanelli a
Vieusseux, 24 marzo 1836.
Cfr. Montanelli a
Vieusseux, 13 febbraio 1831.
Memorie, I, p.
22.
Tutti i biografi
concordano nell'asserirlo laureato nel 1831. Che fosse già
laureato nell'estate di quell'anno dimostra il titolo dottorale
apposto alla stampa dei suoi Due discorsi, piú avanti
citati. A conferma si vede del resto la lettera del Centofanti a lui
(inedita), 4 giugno 1831.
Inedita, 21 maggio 1832.
Lettera 30 maggio 1832
(?).
Lettera 6 gennaio 1833.
Lettera 11 gennaio 1833.
Lettera 15 gennaio 1833.
Notare che al Vico il
Tonti, amico del Montanelli, dedicò nel '36 un saggio,
stampato a Lugano (Carteggio Tommaseo-Capponi, I, p. 357).
Cfr. lettera del
Centofanti 30 maggio 1832; e del Montanelli 2 dicembre 1832.
Cfr. ad esempio le tre
lettere (inedite) del Montanelli, 20, 21, 29 novembre 1832, circa la
stizza del Carmignani per un severo articolo su di lui del
Centofanti.
Molte lettere del 1832 e
'33 vertono appunto su un complicato affare dei due fratelli
Centofanti (la vendita di una proprietà da loro ereditata a
Pisa), nel quale troviamo mescolato il canonico Della Fanteria, piú
tardi diventato la bestia nera dei liberali pisani. Cfr. Montanelli a
Centofanti, 20 novembre, 29 novembre 1832 e altre lettere del 1833.
Cfr. ad esempio la
lettera Centofanti, del 30 maggio 1832: «E se l'Antonietta oggi
non rispondesse, tu vorrai scusarla. Ella t'ha già risposto
con l'anima»...
Su queste passeggiate
lettera Montanelli a Tommaseo, ottobre 1832. Del resto anche il
Centofanti teneva il Montanelli al corrente di certe sue vicende
intime, come si rileva dalla lettera (inedita) dal 16 gennaio 1833.
In una lettera non
datata del Montanelli al Tommaseo si legge: «La tua conoscenza
farà sí che l'anno 1832 segni un'epoca notabilissima
nel corso della mia vita...» Del Tommaseo, comunque, il
Montanelli faceva già elogi sperticati in una lettera del 12
gennaio 1832 al Vieusseux (inedita), relativamente a un suo articolo
sul veltro allegorico pubblicato nell'«Antologia»
articolo che gli era bastato per abbandonare in proposito, diceva,
«la mia opinione conforme a quella del Troia».
Cfr. Lettera di
Montanelli, senza data, ma del 1832.
Lettera 22 ottobre 1832.
Al Vieusseux scrive, il
21 novembre: «Molto piú ancora mi è piaciuto
l'articolo di Tommaseo che ho letto tre volte e sempre con piacere, e
con frutto. Non so come la censura abbia potuto permettere la stampa
di molte cose contenute in quell'articolo! Ma la confutazione di
coloro che vogliono la unità materiale dell'Italia ha servito
di passaporto alle (parole indecifrabili) contro la legittimità,
e alle bellissime idee sull'unione intellettuale, morale e religiosa
degli italiani, senza la quale tutti i nostri sforzi non potranno
giammai riuscire a buon fine...» (Marradi, op. cit., p.
168).
Lettera 21 novembre
1832.
Si noti che il
Montanelli abitava allora – come ebbe a scrivere al Vieusseux,
22 febbraio 1832 – appunto in piazza di Santa Caterina, in casa
della vedova Tami: lo zio rettore, si vede, voleva averlo sott'occhi!
E al Vieusseux, 28
novembre (inedita): «Tommaseo vi parlerà
dell'università. Assistemmo insieme ad una lezione sul Diritto
di natura; e potrete farvi raccontare le cose notabili della
medesima»; e il 12 dicembre (inedita), allo stesso: «Qua
si parla ancora della visita da lui (Tommaseo) fatta alla università
– e molti di questi professori mi hanno fatto domandare qual
giudizio avesse recato delle loro lezioni».
Del dicembre 1832 è
certamente una delle lettere non datate del Montanelli al Tommaseo e
precisamente quella già citata in una nota precedente: «...
stringendo fra noi un dolce vincolo di unione gioveremo alla causa
dell'umanità piú con l'esempio che con le parole. È
tempo di dimostrare agli uomini egoisti che sono ancora dei
cuori nei quali arde la sacra fiamma dell'amore – e che può
esistere una unione vera, sincera, e operosa – nella
dissoluzione universale dei vincoli sociali».
Del Tonti, pistoiese, il
Tommaseo pensava assai bene: «Ha ingegno e animo meno menci di
quel che dia la Toscana, per solito», scrisse nel gennaio '35
al Capponi (Carteggio I, p. 210); nel '36 lodò un suo
saggio sul Vico (p. 357); nel '37 gli dedicò perfino dei versi
(p. 210).
Cirillo: si occupò
di studi storici.
Questa lettera è
certo del gennaio '33, come si rileva dal confronto con altra che
reca impressa quella data. In quest'ultima, infatti, il Montanelli
chiedeva al Tommaseo: «È stato a ritrovarti il giovane
di cui ti parlava nella passata lettera?». E nell'altra: «...
Si presenterà da te a mio nome un mio amico Giovanni Bertolani
che potrai considerare come fratello».
Memorie, I, p.
65.
Cosí si legge in
un rapporto 16 agosto 1847 del soprintendente Boninsegni. Marradi,
Montanelli, ecc., p. 179.
Inedita, datata
sull'autografo 30 maggio 1832, ma indubbiamente di parecchi giorni
innanzi (come dimostra la risposta del Centofanti in data 20 maggio e
la replica del Montanelli stesso, del 21). Il Centofanti non si
scandalizzò per nulla: «Abbraccia affettuosamente per me
tutti i giovani che hanno teco una vicendevole trasmissione di alte e
nobili simpatie – gli scrisse infatti. – Occupiamoci
della grand'opera alla quale dovremo coraggiosamente applicarci!»
Cfr. la breve biografia
che essa scrisse del marito in Marradi, op cit., p. 172. E
anche Pemens, op. cit., p. 359.
Si noti altresí
che allorquando, nel '47, la polizia toscana raccolse sul Montanelli
tutto quanto resultava a suo carico per gli anni precedenti,
dell'episodio sansimonistico si dimostrò del tutto ignara.
Levi, Vita di
pensiero, pp. 117 sgg.
Il Levi, veramente,
scrive che ciò avvenne nel 1840; ma dal carteggio
montanelliano noi sappiamo che già nel '37 si era stretta fra
loro quella fervida amicizia che durò poi cosí a lungo,
ed alla quale il Levi ispirò, moltissimi anni piú
tardi, il commosso, postumo elogio del Montanelli (in Vita di
pensieri, cap. I).
Op. cit.
Che per prudenza
chiamano, anziché giornale, «opera che si dispensa ogni
settimana». Montanelli a Tommaseo, senza data, ma dicembre
1832.
Vi è una
società che paga 5 paoli al mese onde mantenere l'impresa, e
chiunque vuole entrare in questa società avrà 5
dispense – scrive il Montanelli al Tommaseo. – Il prezzo
poi d'associazione per tutti è di lire 4 all'anno», Cfr.
sull'«Educatore», Linaker, Mayer, I, pp. 184 sgg.
In questo progetto di un
giornale letterario, artistico e scientifico che avrebbe dovuto
pubblicarsi a Livorno sotto gli auspici di quel Gabinetto scientifico
e letterario, e per esso dal professor Doveri, ma con la
collaborazione di un gruppo di giovani capitanati dal Montanelli e
sotto la direzione del Centofanti, cfr. due lettere del primo al
secondo (inedite), maggio 1832, e la risposta favorevole del
Centofanti in data 20 maggio. «Il giornale deve esser fatto –
scriveva infatuato il Montanelli... – perché questa
gioventú ha bisogno di impiegarsi utilmente in una grande
intrapresa». Il Centofanti non meno pronto del suo «discepolo»
a scambiare le fantasie con la realtà, dopo qualche giorno
vedeva già tutto fatto; «Parliamo ogni giorno di te –
gli rispondeva da Firenze il 30 maggio, – dei nostri cari ed
ardenti cooperatori, e della futura vita letteraria che condurremo!»
Perché poi il progetto fallisse, non sappiamo; ma forse non
ultimo motivo ne fu la... doccia fredda sul sansimonismo del
gruppetto pisano.
Lettera non datata, ma
certamente degli ultimi di dicembre, giacché trasmette gli
auguri pel capo d'anno.
Cfr. su di esso le
impressioni del Centofanti in lettera Montanelli, 18 gennaio 1833
(inedita).
Veramente nella
Nazionale si trova una lettera del Montanelli al Vieusseux in data 13
febbraio '31 (già pubblicata, mutila dell'ultimo paragrafo,
del Marradi, op. cit., p. 165); ma il suo tono e il contenuto
dimostrano che deve essere del 13 febbraio '32. Del resto è
chiaro che la lettera del 25 novembre '31 (inedita) è la prima
che il Montanelli diresse al Vieusseux («Giacché negli
ultimi giorni del settembre decorso trovandomi in Firenze ebbi il
piacere di fare la sua conoscenza, mi prendo la libertà di
dirigerle questa mia...»)
A firma M. G. Il
fascicolo – si vede che anche allora usava cosí –
non comparve però che a principio di febbraio del '32.
Lettera pubblicata in
Marradi, op. cit., p. 177 F.
Scriveva del resto il
Montanelli in altra lettera del 12 gennaio '32 (inedita): «Si
meraviglierà forse osservando tante correzioni nelle stampe
del mio piccolo articolo... Ma queste correzioni hanno avuto la sua
ragione, Orlandi, giacché ho saputo essere egli un giovane
pieno di buona intenzione, e d'amore per lo studio. Queste sue
disposizioni meritavano un riguardo. Mi è stato detto di piú
che è perseguitato moltissimo dai preti del suo paese,
i quali cercano ogni modo per attaccarlo sia nella sua condotta, sia
nella sua produzione scientifica. Anco questa ragione mi ha fatto
usare verso di lui maggior riguardo, senza defraudare però in
alcuna parte l'amore del vero, e della Scienza». Al che il
Vieusseux, 11 febbraio (inedita): «Ella fece bene di mitigare
alcune espressioni che erano un poco pungenti, ma sarebbe stato
meglio, forse, il non mitigare tanto. Ci combineremo meglio un'altra
volta».
Il Montanelli la spedí
al Vieusseua con lettera (inedita) 3 marzo '32.
Il 13 febbraio 1832,
tornando sull'argomento, scriveva: «... Il principio che Ella
professa di non impegnarsi prima d'aver letto, è troppo giusto
e ragionevole perché ciascuno [non] debba sottomettercisi
senza difficoltà! Senza di esso il giornale mancherebbe
d'unità e di scopo».
Lettera inedita.
Lettera 21 dicembre 1831
pubblicata in Marradi, op. cit., pp. 166-67.
In data 5 gennaio 1832
(in margine alla lettera del Montanelli).
Lettera inedita.
Sull'articolo del
Marzucchi, una volta pubblicato, cfr. le impressioni del Montanelli
nella lettera a Vieusseux 21 novembre 1832 (Marradi, op. cit.,
pp. 167-68).
È questa la
lettera del 13 febbraio 1832 pubblicata dalla Marradi con la data
erronea del 1831. Basta il semplice avvicinamento con quella del 7
febbraio per capire che le due lettere furono scritte una di seguito
all'altra.
Si veda la lettera
(inedita) del Montanelli in data 22 febbraio 1832.
Lettera inedita.
Lettera 21 novembre,
pubblicata in Marradi, pp. 167-68.
Lettera pubblicata in
Marradi, pp. 167-68.
Equivocando il buon
Vieusseux aveva creduto, addirittura, che il Montanelli volesse
scriver lui una guida alla rinnovazione della filosofia: di qui la
rettifica del Montanelli in lettera (inedita) 28 novembre.
Lettera 27 novembre
pubblicata in Marradi, pp. 168-69. Successivamente il Montanelli
avvertí che si sarebbe contemporaneamente occupato anche di un
volume su la Musique mise à la portée de tout
le monde, stampato in Francia nel '30 (lettera inedita dell'11
dicembre 1832).
Cfr. la lettera
(inedita) di Vieusseux a Montanelli, 18 dicembre, contenente oltre
alle sue critiche sull'articolo, una tirata contro il Centofanti,
troppo borioso e imperativo. Montanelli, al solito, si mostrò
remissivo: «Seguirò in tutto e per tutto i vostri
consigli, perché vi stimo molto... Anzi vi sarò
gratissimo degli avvertimenti che mi darete, come sono grato a tutti
quelli che mi correggono, che mi istruiscono, che mi dirigono»
(lettera inedita 22 dicembre). Il 29 dicembre (inedita) gli rimandò
l'articolo accorciato e modificato: «Quanto diritto avete, o
mio caro Vieusseux, alla riconoscenza della nostra patria!»
Lettera inedita.
Lettera inedita.
Lettera inedita.
Lettera inedita 18 marzo
1833.
Lettera inedita.
Memorie, I, p.
25.
Marradi, op. cit.,
p. 172.
Entrambi vennero
pubblicati a Pisa nel 1831: Due discorsi del dottor G. Montanelli,
ecc.
Cfr. Il 29 maggio in
Toscana. Parole di Giuseppe Montanelli, Livorno 1859. Era stato
l'annunzio della partenza pel Piemonte dei volontari toscani
comandati dal Malenchini che lo aveva indotto ad arruolarsi: «Fossi
stato moribondo quest'annunzio mi avrebbe trattenuto sull'orlo del
sepolcro», p. 2.
Abbiamo qui sotto gli
occhi l'autografo di una sua «corrispondenza» relativa
alla situazione toscana, datata «Florence, 18 mars 1859».
Per la cordialità e la continuità dei suoi rapporti con
la redazione del «Siècle» cfr. nella «Nazione»,
Firenze, 1° settembre 1859, la lettera con la quale il Montanelli
aderiva entusiasticamente all'iniziativa bandita da quel giornale per
un dono nazionale al «Siècle».
A Giovanni Dragonetti
scriveva l'8 gennaio: «Mi pare che questa volta qualche cosa
certamente vedremo. L'eccitazione d'Italia è ormai
irresistibile. Il Piemonte dovrà agire e il resto verrà
dietro... Speriamo rivederci presto... sui campi lombardi». G.
Dragonetti, Spigolature nel carteggio letterario e politico di L.
Dragonetti, Firenze 1886, pp. 320-21.
Minuta di lettera che si
conserva fra le carte Montanelli-Parra, nell'Autografoteca
Bastogi della Biblioteca Labronica di Livorno, cass. 40, ins.
2242. D'ora innanzi citeremo questa importantissima raccolta con le
iniziali B. L.
Alla politica del Cavour
il Montanelli aveva cominciato ad accostarsi fino dal 1856: di qui
polemiche vivacissime con taluni dei suoi compagni di emigrazione, e
per esempio con Girolamo Ulloa.
Puccioni, Il
risorgimento italiano nell'opera, negli scritti, nella corrispondenza
di Piero Puccioni, Firenze 1932, pp. 12 sg. Lettera del Parra e
del Visconti Venosta in risposta ad altre del Montanelli in B. L.;
taluna del Parra (che era figliastro del M.) anche in nostro possesso
(Raccolta Rosselli, che indicheremo con le iniziali R. R.).
Lettera dell'Homodei da
Torino, il febbraio 1859 in B. L., cass. 231, ins. 197. Superfluo
rammentare come a Torino si temesse che l'eventuale successo di
un'agitazione per la costituzione, in Toscana, potesse consolidare la
dinastia lorenese.
Verosimilmente fu sua
l'idea, suggerita il 21 aprile dal Tommasi Crudeli al Puccioni, a
Firenze, di promuovere in Toscana il rifiuto delle imposte per
devolvere l'ammontare al Piemonte sotto forma di contributo di
guerra. Puccioni, op. cit., p. 48.
Fino dal gennaio 1859 il
suo corrispondente Homodei gli aveva confidato il piano cavourriano
tendente a provocare la diserzione in massa dei coscritti lombardi,
nella speranza d'indurre l'Austria «a cercar di riprenderli,
dal che una dichiarazione di guerra». B. L., c. 31, i. 197.
Il 20 febbraio una
deputazione di esuli italiani si recava, com'è noto, a rendere
omaggio al principe, reduce, con l'augusta sua sposa, dal Piemonte.
Il Montanelli, quantunque designato a «capitanare» la
deputazione, non vi partecipò, forse perché ammalato:
cfr. in B. L., c. 40, i. 2220, la minuta autografa di una sua
lettera, senza data, al «Monitore Toscano»; lettera che
va probabilmente assegnata al gennaio del 1861 e che non venne
pubblicata (si vedrà piú oltre come altre due lettere
del Montanelli venissero pubblicate da quel giornale in quell'epoca).
È certo comunque che il Montanelli ebbe un abboccamento col
principe prima della sua partenza per l'Italia.
Redi, Ricordi
biografici su Giuseppe Montanelli, Firenze 1883, pp. 53-54.
Cfr. il carteggio col
Visconti-Venosta in B. L., c. 60, i. 781.
Lettera del Montanelli
al Corsi, 30 maggio 1859, in Biblioteca Nazionale di Firenze, Nuovi
Acquisti, 588.
Montanelli, L'Impero,
il Papato e la Democrazia in Italia, Firenze 1859, p. 21. Tra le
carte montanelliane in R. R. troviamo anche l'abbozzo di un'ode
Italia all'Alemagna, scritta evidentemente allo stesso fine e
nello stesso tempo. Comincia cosí: «Lamagna, che temi se
sfolgoro in armi, / se rompo la nube che vieta mostrarmi / con serto
di stelle qual fecemi Iddio / signora del santo terreno natio?»
In B. L., c. 40, i. 2221, è invece l'abbozzo autografo
dell'indirizzo I protestanti italiani ai protestanti inglesi e
tedeschi.
La minuta della lettera,
in data 28 marzo, in B. L., c. 40, i. 2236.
Tra l'altro le prove del
Poliuto, che egli aveva tradotto in versi italiani su preghiera della
Ristori, sua amicissima, e che questa si apprestava a mettere in
scena.
La salute del Montanelli
era sempre stata estremamente cagionevole; fra l'altro egli era
tormentato da una grave malattia oftalmica, peggiorata sui primi del
'59.
Le tappe di questo suo
viaggio resultano dal suo passaporto (B. L., c. 40, i. 2259). Sulla
fermata a Chambéry troviamo ragguagli in un quinternetto
manoscritto di Cenni biografici del Montanelli, scritti dalla
moglie di lui, Laura Cipriani, vedova Di Lupo Parra (R. R.). Da
Chambéry, d'altronde, il Montanelli datò, il 29 aprile,
una patriottica lettera alla «Gazette de Savoie» (B. L.,
c. 40, i. 2242).
Sul
suo arrivo cfr. De La Varenne, Les
chasseurs des Alpes et des Appennins,
Firenze 1860, p. 315.
Cfr. il biglietto del
Cavour al Montanelli, da Parigi, 30 marzo, in D'Ancona, Ricordi
storici del Risorgimento italiano, Firenze 1914, p. 310.
Su questo colloquio cfr.
Redi, op. cit., p. 54; Cenni biografici, ms cit. Molti
particolari anche in certi appunti di mano del Montanelli, ora in R.
R., e negli Schiarimenti elettorali, Firenze 1861, p. 14,
della stesso Montanelli. Fu il Pallavicino che presentò il
Montanelli al Cavour, il 1° maggio: cfr. Pallavicino, Memorie,
III, Torino 1895, p. 516. Cfr. per contro il Diario del
Massari, Beltrani, Bologna 1931, p. 325, sotto la data del 4 maggio:
al Massari stesso e al Farini che gli parlavano del Montanelli, il
Cavour avrebbe detto: «Fa bene ad andare ad Acqui. A me pare
sia matto». Il lettore tenga presente, però, che il
Massari, già amicissimo del Montanelli, si era violentemente
urtato con lui fino dal 1849, tanto che i due, scambiatisi lettere
quasi di sfida, erano stati lí lí per battersi a
duello. Cfr. «Il Nazionale», Firenze, 13 ottobre 1849;
Collezioni di documenti per servire alla storia della Toscana dei
tempi nostri e alla difesa di Guerrazzi, Firenze 1853, p. 62.
Un'altra lettera del Montanelli al Massari, 30 settembre 1849,
trovasi in B. L., c. 40, i. 2264. Vedremo anche piú oltre come
il diario Massari formicoli di maligne e non sempre fondate
insinuazioni a carico del Montanelli.
Cosí il Perrens,
le cui lettere al Montanelli trovansi in B. L., c. 45, i. 898.
Della Toscana gli
riapriva le porte, dopo la condanna riportata nel '53, l'amnistia
decretata il 3 maggio 1859 dal governo provvisorio: quell'amnistia
contro la quale un altro esule illustre, il Guerrazzi, scagliava,
com'è risaputo, i suoi strali, né, a dir vero,
ingiustificatamente.
Sull'Ulloa, che alla
fine d'aprile era stato trasferito in Toscana, cfr. Doria, La vita
e il carteggio di Girolamo Ulloa, Napoli 1930, p. 33; sul Boldoni
e gli altri ufficiali di quel corpo De La Varenne, op. cit.,
passim.
Il brevetto di nomina a
sottotenente nel corpo dei Cacciatori venne notificato al Montanelli,
a Fucecchio, da Edolo, 30 luglio; sulla busta, di mano del Montanelli
stesso, si trova scritto «Rifiuta la carica». B. L., c.
40, i. 2259. L'esempio di modestia e di coraggio dato dal Montanelli
suscitò larga ammirazione. Cfr. ad esempio le attestazioni del
Verdi, che gli era personalmente amico, ne I copialettere di
Giuseppe Verdi, pubblicati da Cesari e Luzio, Milano 1913, pp.
443-44.
Negli appunti autografi,
inediti, già piú sopra cit.
Cfr., ad esempio, Della
Torre, L'evoluzione del sentimento nazionale in Toscana dal 27
aprile 1859 al 15 marzo 1860, Roma 1915, pp. 94-96.
Al Corsi, 30 maggio
(lettera cit.): «Sembra che presto anche noi Cacciatori degli
Appennini entreremo in campagna. Questa gioventú lo desidera
con grande ardore. Non ti sto a dire quanto io goda trovarmi fra
amici cosí potentemente infiammati d'amore di patria». E
al Michelet, 1° giugno: «Per intendere il moto attuale
d'Italia bisogna vivere in mezzo a questa gioventú... L'amore
dell'Italia fa di tutti una sola famiglia, un'anima sola. Io era
lontano a Parigi dall'immaginarmi i progressi che il sentimento
nazionale ha fatto in quest'ultimo decennio» (Tacchini,
Michelet et Montanelli, Carrara 1931, pp. 13-14).
Il memoriale del
Salvagnoli all'imperatore, in Bianchi, Storia della diplomazia
europea in Italia, vol. VIII, Torino 1872, pp. 15-16.
Cfr., ad esempio,
Calamari, L. Galeotti e il moderatismo toscano, Modena 1935,
p. 124.
Trovasi in R. R.
In un altro documento,
anch'esso inedito (B. L., c. 40, i. 2220), il Montanelli scrive:
«Conferii con l'imperatore in Alessandria nel 25 maggio, e
mentre due toscani, i quali poi hanno figurato tra i caporioni
dell'annessione, gli avevano fatto credere che il principio unitario
repugnava al nostro paese, io distinguendo unità da
unità cercai lasciarlo persuaso del contrario».
Cfr. a riprova Salvagnoli a Ricasoli, 17 maggio 1859: l'imperatore
«ha convenuto meco della necessità di conservare
l'autonomia (della Toscana) e della opportunità
d'ingrandirla». Doria, Carteggio inedito
Salvagnoli-Ricasoli, in «Il Risorgimento italiano»,
luglio-dicembre 1925, p. 658. Il 14 maggio il segretario del ministro
Ridolfi aveva scritto al Cambray-Digny, a Torino, che la grande
maggioranza degli uomini politici conosciuti erano per un regno
separato! Carteggio politico Cambray-Digny, Milano 1913, pp.
26-29.
Lettera inedita cit. del
Montanelli al «Monitore Toscano».
Ciò resulta da
piú carte conservate negl'inserti montanelliani in B. L.
Cfr. Montanelli a
Pallavicino, 21 giugno 1859, e Pallavicino a Cavour, 26 giugno, in
Pallavicino, Memorie, Torino 1882 sg., vol. III, pp. 527-29,
532.
Lettera cit. Nella
lettera al Corsi, cit., il Montanelli si mostrava assai lieto
dell'ardore guerresco dimostrato dall'imperatore. Nella lettera 21
giugno al Pallavicino, cit., il Montanelli, precisando, scriveva che
dall'insieme della conferenza aveva recato questa persuasione: «...
Che l'imperatore dei francesi non sarebbe punto contrario alla
unificazione politica d'Italia, quando l'opinione italiana si
dimostrasse decisamente favorevole a quella... Che noi siamo
piú padroni della nostra politica di quello che non avrei
creduto. Questa persuasione mi venne confermata da persone che hanno
il carico di fare a conto dell'imperatore dei rapporti sulle opinioni
italiane». Senonché è evidente che l'ottimismo
qui dimostrato dal Montanelli deriva piuttosto dagli avvenimenti
svoltisi successivamente al colloquio imperiale che non dalle
impressioni che quello gli aveva lasciato.
Redi, op. cit.;
lettera inedita, cit., del Montanelli al «Monitore Toscano».
Si conserva in R. R.
Quanto allo svolgimento della missione Pietri-Rapetti, non è
qui certo il caso di soffermarvisi, tanto essa è nota nei suoi
particolari agli studiosi del periodo. Ma forse non è privo
d'interesse il notare come lo stesso Montanelli provvedesse a munire
di lettere di raccomandazione per suoi amici influenti i due
messaggeri imperiali. Cfr. su ciò la cit. lettera al Corsi (il
Pietri – gli scriveva – «è uomo d'ingegno, e
di cuore, e ama infinitamente l'Italia, e ci potrà essere
molto utile appresso l'imperatore... per le opinioni che dovranno
prelevare nel periodo di riordinamento»). È probabile,
del resto, che anche al Guerrazzi, il quale vide il Pietri a due
riprese (Lettere, Carducci, Livorno 1880, II, pp. 445, 452),
costui fosse stato presentato dal Montanelli.
Lettera cit. del
Montanelli al Corsi.
Candidatura contro la
quale, come è ben noto, il principe stesso si dichiarava
allora in termini inequivocabili, tanto da sospingere il governo
fiorentino a proclamare senz'altro l'annessione al Piemonte.
Carteggio Cavour-Nigra dal 1858 al 1861, Bologna 1926, II,
passim, e specialmente pp. 209-16.
Memorie di Vittoria
Giorgini, in Manzoni intimo, Milano 1923, I, 134;
Giannelli, Cenni autobiografici e ricordi politici, Milano
1926, pp. 217, 363. Del principe Napoleone, in realtà, il
Montanelli non sapeva per allora che poco o nulla, e col suo
entourage, a Livorno o a Firenze, non aveva il benché
minimo contatto. Notizie molto generiche intorno a lui e al contegno
dei toscani a suo riguardo non gli pervenivano che da qualche privato
corrispondente, come il Masi (il noto emigrato romano, suo compagno
d'esilio), che da Firenze invidiava la nobile vita del campo scelta
dal Montanelli. (Cfr. la sua lettera al Montanelli, 7 giugno in B.
L., c. 37, i. 1128; «il 1848 – costui gli scriveva in un
accesso di amarezza – non è titolo a noi, ma peccato
originale!»).
Lettera cit. a
Pallavicino.
L'opuscolo, già
cit., recava la data di Acqui, 22 maggio, e si pubblicava «a
benefizio dei volontari toscani».
Lettera cit. al
Michelet.
Il reggimento operava il
trasferimento in data 2 giugno (De La Varenne, op. cit. p.
680), il Montanelli lo seguiva il giorno appresso, come resulta da un
foglio di via allora rilasciatogli (B. L., c. 40, i. 2259)
Cit., R. R.
Giorgini a Ricasoli, 7
giugno, in Lettere e documenti del barone Ricasoli, a cura di
Tabarrini e Cotti, Firenze 1887 sg., III, p. 90. Cfr. anche, ivi, la
lettera 19 giugno del Lambruschini: «Qualunque cosa si dica e
si faccia, sarà di noi quel che Napoleone III crederà
ben fatto e vorrà».
Sulla cui attività
politica nel '59 troviamo ben pochi ragguagli nel vol. di Puccioni,
Vincenzo Malenchini nel Risorgimento Italiano, Firenze 1930.
Mariscotti, Il prof.
G. Montanelli e gli esclusivi, Firenze 1861, p. 106; Pini,
Lettere di un elettore di S. Miniato ad alcuni suoi amici, San
Miniato 1861; Marradi, G. Montanelli e la Toscana dal 1815 al
1862, Roma 1909, pp. 136-37 (è, quest'ultima, l'unica
biografia che fin qui sia stata scritta del Montanelli; giacché
non si possono onorar di tale titolo precedenti opericciuole
apologetiche. Ma quante lacune anche in questa e come malamente
inquadrata la figura del Montanelli nella storia del suo tempo! Sulla
azione politica da lui svolta nel '59 i dati forniti sono, in
particolare, assolutamente inadeguati).
R. R.
Cfr. queste istruzioni
col programma tracciato dal Montanelli nella cit. sua lettera 21
giugno al Pallavicino: «Il mio programma è: a) Regno
d'Italia. 2) Vittorio Emanuele capo costituzionale del regno (non
toccando questioni di capitale). 3) Codice Napoleone. Quand'anche il
regno d'Italia non dovesse per ora comporsi che dell'alta Italia e
della Toscana sarebbe un fatto immenso». Occorrerà
comunque dare al nuovo Stato «tale una prevalenza unitaria da
ridurre gli altri Stati a un satellizio che li costringa a fondersi o
piú presto o piú tardi nel regno d'Italia».
Dal colloquio imperiale
egli aveva ricavato la netta impressione che, se Napoleone teneva
«molto a lasciare in Italia tracce delle istituzioni
francesi... non aveva tenerezze dinastiche per i suoi».
Lettera cit. al Pallavicino.
Cosí il Pini, op.
cit. Sostenendo su questo come su molti altri punti
l'inverosimile, il Pini (come anche il Mariscotti) finí col
nuocere positivamente al suo eroe, se non altro provocando acide
repliche da parte dei suoi informatissimi detrattori.
Nei suoi appunti inediti
il Montanelli pone in relazione, infatti, la missione Aquarone col
proclama di Milano dell'8 giugno; d'altra parte, l'Aquarone scrive
già una prima relazione al Plezza, da Firenze, l'11 del mese.
Questa lettera (B. L.,
c. 2, i. 721) reca soltanto la data «domenica 12»; ma nel
'59 una domenica 12 non cadde che nel mese di giugno. Un breve
estratto ne fu pubblicato dal Pini, op. cit., ma con la data
evidentemente erronea 12 luglio.
Parecchie lettere del
Montanelli al Morandini, intimissimo suo (nella giornata di
Curtatone, egli si era fatto prendere prigioniero per non
abbandonarlo), si trovano nella Biblioteca del Risorgimento, Firenze.
Il «Monitore
Toscano», organo ufficiale, recava d'altronde nel numero del 9
giugno un editoriale, che venne assai notato, nel quale si accennava
alle legittime speranze della costituzione di una nazione italiana,
deplorando per contro le «chiacchiere» di fusioni e di
autonomie.
Pini, op. cit.,
p. 14.
Quest'altra lettera del
Montanelli al Pallavicino si trova, inedita, nel Museo del
Risorgimento di Torino, 165, n. 188.
Appunti inediti cit.
Figlio di primo letto
della moglie del Montanelli, il Parra, pressoché coetaneo del
Montanelli, gli fu sempre esemplarmente devoto.
Adriano Biscardi,
livornese, fu probabilmente il piú intimo e costante amico del
Montanelli, del quale divise sempre le idealità politiche.
Rubieri, Storia
intima della Toscana, Prato 1861, pp. 389-90. Il «Monitore
Toscano» dell'8 giugno invitava la cittadinanza e
sottoscriverlo.
Della Torre, op.
cit., pp. 137 sg.; Zobi, Cronaca degli avvenimenti d'Italia
nel 1859, Firenze 1859, I, pp. 379-82.
Nessun accenno in essi
al «re d'Italia», ma solo al magnanimo campione
dell'indipendenza, ecc. Cfr. «Monitore Toscano», 11
giugno.
Salvagnoli a
Cambray-Dignv, 25 giugno 1859 in Carteggio politico Cambray-Digny
cit., pp. 120-22.
Baccini, Carteggio
politico del conte e della contessa Cambray-Digny, Firenze 1910,
pp. 58-60.
Non ho bisogno
d'avvertirti che per ora la mia mano nel programma unitario toscano
non si deve conoscere», scriveva il 21 giugno il Montanelli al
Pallavicino (brano omesso nelle Memorie del Pallavicino).
Baccini, op. cit.,
pp. 45-46.
Ibid., pp. 48-50.
Ibid., pp. 50-52.
Al Nocchi, 3 giugno e in
altre lettere, Carteggio politico cit., pp. 90 sg. e Baccini,
op. cit., p. 52.
Il testo, veramente reca
«Mazzini», ma è evidentemente un errore che noi
crediamo di poter correggere con «Malenchini».
Carteggio politico
cit., pp. 108-10. Cfr. anche Cambray-Digny a Corsini, 24 giugno: «Ho
avuto la certezza che i vecchi nomi del '49 incominciano a farsi
vivi», p. 124.
Baccini, op. cit.,
pp. 50-52. Su questo punto, del resto, le citazioni si potrebbero
moltiplicare, ma senza pro. Il 18 giugno il Cambray-Digny scriveva da
Torino: «Se la Toscana deve pronunziarsi per l'unione, qui si
vorrebbe che lo facesse legalmente per mezzo di indirizzi spontanei
dei municipi, piuttosto che tumultuariamente, ma soprattutto non si
vorrebbe che la Toscana venisse a sollevare questioni gravi come
quella del papa e di Napoli», pp. 56-58. Un consiglio, questo,
del quale il Ricasoli, non aveva davvero bisogno.
Non ho veduto
l'indirizzo, so che è stato molto modificato, giacché
il primo progetto era avversissimo al governo attuale»,
scriveva la contessa Cambray-Digny al marito fin dal 16 giugno.
Ibid., pp. 48-50.
L'influenza del
Montanelli si potrebbe forse ravvisare nelle deliberazioni prese dal
municipio di Lucca, ostentatamente improntate a un francofilismo
accentuato. Cfr. il «Monitore Toscano», 29 giugno 1859.
Puccioni, L'Unità
d'Italia cit., pp. 74-75; Valeggia, G. Dolfi, Firenze
1913, p 36; Zobi, op. cit., I, pp. 379-81; Rubieri, op.
cit., pp. 390-91; Doria, Carteggio cit., p. 659.
Cfr. per tutti il
Lambruschini nella lettera 28 giugno al Cambray-Digny. Carteggio
politico cit., p. 137-39.
Puccioni, L'Unità
d'Italia cit., pp. 78-79; Carletti, La Fusione, Firenze
1859, pp. 22-24; Rubieri, op. cit., p. 166.
Ond'è che lo
stesso Montanelli, redigendo, alcuni mesi piú tardi, per
conto, sembra, di quel suo comune, un indirizzo a re Vittorio (B. L.,
c. 40, i. 2222), ne sottolineava con orgoglio il primato patriottico
e unitario.
A Livorno vennero
raccolti oltre 20 000 voti, 6000 a Pisa, ecc. Sulla autenticità
di queste cifre qualcuno sollevò i suoi dubbi; il
Lambruschini, ad esempio, parlò senza ambagi di firme false
(nella cit. lettera al Cambray-Digny).
Ricasoli a Ricci, 22
giugno: «Una sola parola non mi piace (nella formola senese),
ed è annessione; convien preferire l'altra: unione.
Le due parole annessione, fusione, non rappresentano il
concetto d'un'Italia una e forte». Puccioni, L'Unità
cit., p. 81. Sulle preferenze unitarie del Montanelli, cfr. anche
Cambray-Digny a Corsini, 20 giugno, in Carteggio politico
cit., p. 99; ivi anche (pp. 120-22) accenni al Salvagnoli.
Occorrerà far
luce, comunque, sugl'indubitati contatti che l'Aquarone ebbe, a
Firenze, col Salvagnoli: per ora cfr. Diario Massari cit., p.
390.
Fors'anche perché
il Plezza, nel frattempo, era decaduto dal suo ufficio di commissario
regio ad Alessandria.
Diario Massari
cit., p. 409; Carteggio politico Digny cit., pp. 157-58.
Baccini, op. cit.,
pp. 62, 72. Ulteriori accenni all'Aquarone, trasferitosi a Torino,
ibid., pp. 76, 97.
Onestamente il
Cambray-Digny aggiungeva però che della confusione regnante in
Toscana tutti erano un poco responsabili nessuno eccettuato. Da
allora in poi non ci si doveva occupare che della guerra, «e
finché parlano di guerra e vanno alla guerra applaudiamo anche
il Montanelli e compagnia». Baccini, op. cit., pp.
94-95.
Lettere e documenti
cit., III, p. 140. Di questa disapprovazione imperiale si era già
fatto autorevole interprete il Pietri: al quale il Salvagnoli aveva
«detto che il governo non c'entrava» (nell'agitazione
unitaria). «Menzogna», prorompeva il Tabarrini, 21
giugno, nel suo inedito Libro di ricordi: Puccioni, L'Unità
cit., p. 74.
Lettera autografa nella
Biblioteca Nazionale di Firenze, Nuovi Acquisti, 588: senza
data, ma, dal contesto, sicuramente attribuibile a questo periodo.
Le parole fra parentesi
non figurano nel testo, ma è da supporsi che siano state
omesse nella trascrizione.
Marradi, op. cit.,
pp. 242-44.
Chi parla adesso
di fusione e d'unità italiana... è un traditore della
patria», scriveva la contessa Digny il 26 giugno. Baccini, op.
cit., p. 87.
Il 1° e 2°
battaglione dei Cacciatori partirono per Piacenza l'11 giugno; un
secondo scaglione non giunse invece a Piacenza che il 21. Il
Montanelli partí certamente col primo scaglione unitamente al
Malenchini, comandante del 1° battaglione. Il 18, infatti, il
Cambray-Digny, alludendo a lui, lo diceva a Piacenza; e il 19 lo vide
in questa città «un povero prete» che portò
i suoi saluti al Verdi, a Busseto: Cori, Galeotti, Mari e
Montanelli. Commemorazione, Firenze 1913, p. 35.
Dieci anni di esilio
avevano ridotto allo stremo l'esiguo suo patrimonio; le vicende
processuali di una eredità contestata avrebbero reso
indispensabile e urgente il suo ritorno a Fucecchio.
Cfr., ad esempio,
Perrens a Montanelli, 11 agosto 1839, in B. L., c. 45, i. 898.
Lettera cit. nel Museo
del Risorgimento, Torino. Cfr., della stessa data, anche l'altra
lettera, cit., nelle Memorie del Pallavicino.
Il discorso del
Montanelli nella Lente, Firenze, 27 luglio 1859; cfr. anche
(Provenzal), Alla cara memoria di Giuseppe Montanelli, Livorno
1862, p. 34, e le patetiche informazioni del Bourbon del Monte, in De
La Varenne, op. cit., pp. 682-83.
Cosí, il 26 del
mese, s'incontra col Kossuth, di passaggio per Piacenza. Kossuth,
Souvenirs et écrits de mon exil, Paris 1880, p. 285. È
verosimile che il Montanelli s'incontrasse altresí con
l'Ulloa, giunto a Reggio, con i volontari toscani, il 24 e col
Pallieri, commissario regio a Parma.
I Cacciatori degli
Appennini giungevano infatti a Milano il 4 luglio, e a Sondrio l'8.
Troviamo questa minuta
di lettera, non datata, in B. L., c. 40, i. 2239. È
presumibile però che il Montanelli la scrivesse appunto da
Piacenza.
Il quale venne ben
presto chiamato, come si sa, a prendere il comando dei Cacciatori
degli Appennini.
Cfr. le Memorie
di Garibaldi, redazione definitiva, Bologna 1932, p. 387; e De La
Varenne, op. cit., p, 666.
Cenni biografici
cit.
Lettera inedita cit., al
«Monitore Toscano».
Pini, Lettera cit.,
15: si trattava di affari concernenti i Cacciatori.
L'Impero, il Papato
cit., p. 3.
Un brano delle
istruzioni impartitegli dal Garibaldi, in Pini, op. cit., p.
15: «Nelle lamentazioni dirette al governo ed al quartier
generale del re si deve osservare che non vi sia gesuitismo,
tendente a gettare la discordia tra genti che devono rimanere
concordi ad ogni costo... Che vi sia tregua, o che diavolo si voglia,
non tralasciamo di fare l'esercito italico grosso, grossissimo».
Lettera cit., al
«Monitore Toscano».
Pini, Elogio storico
del professor Giuseppe Montanelli, San Miniato 1862 e Lettera
di un elettore cit., passim.
Garibaldi a Mordini, 17
luglio: «Io diedi già la mia adesione al Montanelli
circa le idee vostre, che sono le mie. Aspetto dal suddetto mi dica
qualche cosa». Rosi, Il Risorgimento italiano e l'azione di
un patriota cospiratore e soldato, Roma 1906, p. 176.
Anche il Massari partiva
per Torino col medesimo convoglio. Diario cit., p. 419: «Entro
nel vagone e veggo Montanelli (infausto augurio), che entra in un
altro. Chi sa cosa va a rimestare questo imbroglione!» (sic!)
Lettera cit. al
«Monitore Toscano».
Lettere e documenti
Ricasoli cit., III, p. 156; Bianchi, Storia della diplomazia
cit., VIII, pp. 536-38.
Col Bianchi, direttore
del «Nazionale», il Montanelli si era tenuto in assidui
rapporti nel primo periodo del suo esilio.
Cfr. il telegramma del
Bianchi al Boncompagni, 15 luglio, ore 4 pom., in Lettere e
documenti Ricasoli cit., III, p. 157.
Lettera del Bianchi al
direttore del «Monitore Toscano», 26 gennaio 1861: col
Montanelli «non si parlò se non di armamenti».
Chiala, Lettere di
Cavour, Torino 1884, III, p. CCXXIII.
Kossuth, op. cit.,
pp. 317-18.
Presentatosi al
palazzo reale vestito dell'assisa dei Cacciatori, si accorse (il
Montanelli) esser preso in sospetto, ma dato ad un uffiziale il suo
nome, fu all'Imperatore annunziato. Esso lo fece tosto passare».
Redi, op. cit., p. 62.
Cavour a Lamarmora, 16
luglio, in Chiala, op. cit., III, pp. 110-11; Tivaroni,
L'Italia degli italiani, 1883, II, pp. 114-15.
Lettere e documenti
Ricasoli cit., II, p. 158.
Al Pepoli l'imperatore
aveva detto: «Se l'annessione valicasse gli Appennini l'unità
sarebbe fatta, e io non voglio l'unità, voglio l'indipendenza
soltanto».
Redi, op. cit.,
pp. 62-63.
Pini, Elogio
cit., pp. 21-22; Lettera cit., pp. 10-11 (qui per altro il
Pini avverte che «le parole dell'augusto personaggio non
possono tutte essere riferite»).
Mariscotti, op. cit.,
pp. 117-18. Diario Massari cit., p. 421: «Napoleone III
ha veduto stasera anche Montanelli! Gli ha parlato del voto popolare:
è proprio l'uomo degno di stare a paro con quel figuro (sic!)
del Montanelli».
Tale quella contenuta in
una lettera del La Farina al Franchi, 24 settembre '59 (Epistolario
La Farina, Franchi, Milano 1869, II, pp. 209-10), secondo la
quale subito dopo il colloquio il Montanelli avrebbe dichiarato al La
Farina «che bisognava insistere per l'annessione della Toscana
al Piemonte, che eravamo tutti d'accordo, che bisognava fare in modo
che la deliberazione dell'assemblea toscana riuscisse all'unanimità»
(ma se l'assemblea toscana era ancora in mente Dei!) Dunque
l'imperatore avrebbe spinto il Montanelli sulla via delle
annessioni?! Il lettore tenga presente che nel settembre del '59 il
La Farina era divenuto fierissimo avversario del Montanelli.
Monitore
Toscano», Firenze, 29 gennaio 1861.
Monitore
Toscano», 26 gennaio 1861.
Lettera del Mariscotti
nel «Monitore Toscano», 29 gennaio 1861.
È vero che gli
amici francesi del Montanelli, che erano quasi tutti dei democratici
fieramente antinapoleonici, non avevano mancato di metterlo in
guardia contro il pericolo del riporre eccessiva fiducia
nell'imperatore: cosí, ad esempio, il Perrens; ma non fu se
non molti mesi piú tardi che il Montanelli dovette rimpiangere
di non avere prestato loro piú ascolto!
Sulla soddisfazione
dimostrata dal Bianchi per questa assicurazione del non intervento e
sulla sua costernazione per il veto alle annessioni, cfr. le
contrapposte asserzioni del Bianchi stesso e del Montanelli nelle
citate lettere pubblicate sul «Monitore Toscano», 26 e 29
gennaio 1861.
Cit. lettera del Bianchi
al «Monitore Toscano».
Cfr. il Montanelli nella
cit. sua lettera inedita al «Monitore Toscano»: «al
governo da lui (dal Bianchi) rappresentato io non poteva non
palesarmi amico, e desideroso di cooperazione, quando c'incontravamo
sulla medesima via».
Vedila in Lettere e
documenti Ricasoli cit., III, pp. 167-68.
Lo stesso Massari, tanto
severo col Montanelli, si prese di lí a poco la bella
responsabilità di dichiarare allo Hudson, ministro inglese a
Torino, il quale lo aveva interpellato a nome e per conto del suo
ministro degli esteri, che a suo giudizio i toscani avrebbero
accettato sul trono granducale la dinastia borbonica di Parma!
(Diario cit., p. 458).
Questo brano di lettera
venne dal Montanelli pubblicato – con la data «lunedí
luglio 1859» – nella cit. sua lettera al «Monitore
Toscano», 29 gennaio 1861. Senonché essa non può
essere che di lunedí 18 luglio, giacché il lunedí
precedente la missione da affidarsi al Montanelli era ancora fuor di
questione, mentre il lunedí successivo il Montanelli si
trovava già a Firenze.
Lettera cit. del
Montanelli al Ricasoli, 18 luglio.
Il 17 luglio il
Garibaldi era ancora all'oscuro dei resultati di quelle trattative,
come dimostra la citata sua lettera al Mordini.
Il Montanelli dovette
lasciare Torino il giorno 18 (data della sua lettera al Ricasoli),
giungendo in serata a Bergamo (annotaz. sul suo foglio di via cit.).
Puccioni, Malenchini
cit., p. 85. La lettera del Garibaldi reca invero l'indirizzo del
Montanelli a Torino, ma il Montanelli stesso, nella cit. sua lettera
inedita al «Monitore Toscano», scrive: «Tornato al
q. g. di Garibaldi ebbi da lui una lettera...»
Cfr. le annotazioni
delle varie tappe del viaggio, iniziatosi a Brescia il giorno 20, nel
foglio di via cit.
Lettera inedita cit., al
«Monitore Toscano».
Il Pepoli venne
sostituito il giorno 23 dal Cipriani, nominato commissario
straordinario per la Romagna; ma il Montanelli che col Cipriani era
in grave urto già da piú anni, non ebbe contatti che
col primo.
Lettere e documenti
Ricasoli cit., III, pp. 170-72.
Pini, Lettera
cit., p. 11.
Il 28 luglio Fucecchio
lo accoglieva con commoventi dimostrazioni di affetto. Fra le carte
montanelliane in B. L., c. 40, i. 2262, si conservano, fra l'altro,
due epigrafi stampate in quell'occasione in suo onore. L'annunzio di
queste onoranze che si preparavano al Montanelli aveva dato sui nervi
al Ricasoli: «Vedrai pure come, in mezzo ai nostri pensieri, si
pensi da quegli sciocchi di Fucecchio di fare sciocchezze al ritorno
di Montanelli. La risposta del governo non può essere dubbia,
ma dev'essere dignitosa»: cosí il barone al Salvagnoli,
il 23 di luglio (Doria, Carteggio cit., p. 687). Sembra dunque
che la comunità di Montanelli avesse richiesto l'adesione del
governo alle onoranze al Montanelli: questo, invero, era troppo
pretendere!
Guerrazzi, Proemio
all'appendice degli scritti politici, Milano 1861, p. 24. Onde il
Guerrazzi al Corsi, 30 luglio: «Sento che Montanelli comparso
riconciliavasi con gli emuli: di ciò non lo biasimo, anzi lo
lodo» (Biblioteca Nazionale di Firenze, Nuovi Acquisti,
588).
Carteggio politico
cit., pp. 198-99.
Che un movimento
napoleonista si fosse dichiarato a Firenze assai prima del ritorno
del Montanelli, sarebbe invero superfluo attardarsi a dimostrare.
Basti qui citare, a riprova, l'opuscolo anonimo L. Napoleone dopo
l'11 luglio 1859 uscito per le stampe, a Firenze, pochissimi
giorni dopo l'armistizio.
Lettera inedita cit., al
«Monitore Toscano».
Op. cit., pp.
67-68; cfr. anche Pini, Lettera cit., p. 11.
Lettera cit. al
«Monitore Toscano», 26 gennaio 1861.
Lettera al «Monitore
Toscano» in data 30 gennaio 1861, pubblicata il 2 febbraio
seguente.
Cfr. Bianchi, Matteucci
e l'Italia del suo tempo, Torino 1874, p. 282 e passim;
Diario Massari cit., pp. 445, 451, 466; Della Torre, op
cit., pp. 230-31; Carteggio politico Digny cit., p. 191.
Come ben sapeva e, per
parte sua, deplorava il Malenchini, che lo scongiurava a voler
ulteriormente riflettere su quell'essenziale problema: cfr. la sua
lettera 30 luglio al Montanelli, in Puccioni, Malenchini cit.,
pp. 92-93.
Capponi a Matteucci, 29
luglio, in Lettere di G. Capponi e di altri a lui raccolte e
pubblicate da A. Carraresi, Firenze 1882-90, III, p. 279.
Lettera cit,, 6 agosto,
al Massari; anche in una successiva lettera del 23 agosto al Peruzzi,
il Cambray-Digny accennava alla possibile, ma non provata
attività plonploniana del Montanelli. (Carteggio politico
cit., p. 206).
Secondo il Peruzzi (al
Ridolfi, 2 agosto, in Poggi, op. cit., III, p. 88) il
Walewski, ministro degli esteri francese, gli avrebbe segnalato
l'attività plonploniana svolta dal Montanelli a Firenze e dal
Matteucci a Torino, aggiungendo che il ministro francese a Firenze
non aveva mancato di «richiamare» il Montanelli e che
questi aveva ammesso di «non poter affermare che tale (cioè
favorevole alla nota candidatura) fosse realmente la volontà
imperiale». Ma cosa si può onestamente desumere da
questa apertura del Montanelli, se non che le voci a carico del
Montanelli erano giunte fino all'orecchio del ministro di Francia? In
linea di fatto l'unico dato positivo riguardante il Montanelli è
costituito, ci sembra, dalle sue dichiarazioni a discarico
dell'Imperatore.
Lettera cit, del La
Farina al Franchi, 24 settembre 1859.
Diario cit., pp.
460-61.
Lo schema di discorso in
R. R.
Cfr. del resto anche gli
Schiarimenti elettorali del Montanelli stesso, cit.: dove,
riferendosi appunto al periodo successivo a Villafranca, egli
scriveva che gli era parso meglio, allora, «circoscrivere la
rivoluzione ad acquisto di libertà unificatrice sotto
guarentigia della Francia, che aspirare ad unica monarchia
abbandonata alle sole sue forze. E mi pareva che le autonomie del
centro e del mezzogiorno, governate da uomini di parte nazionale
unite col Piemonte in sodalizio militare, politico, economico,
rappresentate in un Parlamento comune, potessero tanto bene
provvedere alle unificazioni necessarie all'indipendenza, per lo meno
quanto l'unità emanuelliana».
Redi, op. cit.,
pp. 69-71. Lo stesso Redi ci assicura che questo suo progetto venne
dal Montanelli trasmesso all'imperatore a mezzo di uno dei suoi
amici, fatto partire espressamente per Parigi. «Da questa
missione, il 20 ottobre, venne fuori la lettera dell'imperatore al re
Vittorio Emanuele». Degno di fede questo racconto? Chi sa.
Certo che in quella lettera l'imperatore, se affacciava l'idea di una
amministrazione separata per il Veneto, prospettava pur sempre la
restaurazione granducale in Toscana e il riconoscimento di Modena
alla duchessa di Parma!
Pini, Lettere
cit., p. 11.
Malenchini a Montanelli,
10 agosto, in D'Ancona, op. cit., p. 312.
Nelle sue Memorie
il Garibaldi scrive che il Montanelli e il Malenchini, reduci dal
loro giro nell'Italia centrale, sarebbero venuti a sollecitare la sua
accettazione: «Quando io risposi a Montanelli, che marcerei
senza indugio..., egli m'abbracciò commosso». In realtà
il solo Malenchini si recò in quella occasione dal Generale,
il quale, scrivendo, dovette confondere l'incontro col Malenchini in
agosto con quello col Montanelli il 20 luglio. Secondo il Puccioni,
Il Risorgimento cit., p. 95, sarebbero stati, invece, il
Malenchini e il Cempini a suggerire al Ricasoli l'idea della lega
militare e del comando a Garibaldi; ma la testimonianza del generale
rende al Montanelli quel che gli spetta.
Il De Reiset (Souvenir,
Parigi, 1902-903) giungeva a Firenze il 10 agosto; otto giorni piú
tardi il Poniatowski.
Il Planat de la Faye,
che al Montanelli non perdonava d'aver dissentito dal suo Manin, in
una lettera da Parigi, 27 agosto, all'Ulloa (Doria, op. cit.,
p. 61), insinuò che il Montanelli «scontento di non
essere nulla e di vedersi screditato in patria, intrigasse col
Poniatowski in favore del granduca decaduto». Accusa ingiuriosa
e gratuita che neanche i piú fieri nemici del Montanelli
osarono pronunziare! Per quanto avesse avuto, in passato, rapporti
con lui (non lo aveva forse nominato, nel novembre del '48, ministro
toscano a Parigi?) sembra infatti che il Montanelli non vedesse
neanche il Poniatowski durante la sua breve e ingloriosa permanenza a
Firenze.
Perfino il Bianchi
dovette ammettere, sia pure a denti stretti, che al lusinghiero
incarico il Montanelli preferí il posto di deputato
all'assemblea. (Lettera cit. al «Monitore Toscano»); cfr.
anche Mariscotti e Redi, op. cit. Ancora il 29 luglio, del
resto lo stesso Peruzzi segnalando, da Parigi, il contegno ostile al
governo toscano di una parte della stampa francese, scriveva al
Ricasoli: «A me pare che adesso un giornale che propugnasse la
causa dell'Italia centrale sarebbe utilissimo...; consiglierei di
profittare delle disposizioni del Montanelli che dicono desideri di
venire qui a lavorare nella stampa per la causa italiana: e ciò
mi scrive anche il Matteucci. Mi pare che cosí fareste un
viaggio e due servizi». Lettere e documenti Ricasoli
cit., III, p. 186. Cfr. anche Poggi, op. cit., III, p. 98. Ma
il Ricasoli, come si sa, era sfavorevole a questo progetto
giornalistico: Ibid., p. 94.
Cfr. la lettera del
Fabrizi, prefetto di Livorno e un tempo amico e collaboratore del
Montanelli, al Ricasoli, 25 luglio, in Lettere e documenti
Ricasoli cit., III, pp. 182-83. Il Rosso, Lettere inedite di
G. Mazzoni ad A. Vannucci, Torino 1905, p. 27, scrive addirittura
che il Montanelli, nel '59, tentò «di rimettere fuori la
sua proposta di una Costituente», ma non sappiamo dove abbia
pescato questa notizia del tutto infondata.
Della Torre, op.
cit., p. 283; Poggi, op. cit., III, pp. 78 sg. Del
resultato complessivo delle elezioni si rallegrava il Massari: «Sono
tutti liberali; ma mi spiace vederci il Montanelli: lui che è
per Napoleone!». Diario cit., p. 464.
Cfr. Malenchini a
Montanelli, 10 agosto, cit.; e Garibaldi a Montanelli, 15 agosto, in
D'Ancona, op. cit., p. 314.
Pasolini, Memorie,
Torino 1887, I, p. 310.
Poggi, op. cit.,
III, pp. 100, 104; Morpurgo-Zanichelli, Lettere politiche di
Ricasoli, Peruzzi, Corsini e Ridolfi, Bologna 1898, pp. 95-96. Il
Peruzzi, del resto, doveva buscarsi i rimproveri del suo governo per
non essersi mostrato abbastanza risolutamente contrario al disegno,
attribuito appunto al Montanelli, di una reggenza napoleonica
nell'Italia centrale.
Poggi, op. cit.,
III, pp. 123-24; Morpurgo, op. cit., pp. 141-42.
Carteggio inedito
Tommaseo-Capponi, Bologna 1911-32, IV (2), pp. 176-78.
Mazzini, Scritti
editi ed inediti, Edizione nazionale, Imola, LXIII, p. 317.
È noto come il
periodo del massimo favore per quel progetto fosse a Parigi quello
che andò dalla metà di agosto alla fine di settembre
del '59. Verso la metà di ottobre tanto il principe che
l'imperatore mostrarono per chiari segni di aver definitivamente
rinunziato ad ogni speranza in proposito.
Diario Massari
cit., p. 479, Peruzzi a Galeotti, 24 agosto, in Morpurgo, op.
cit., pp. 97-105, Vincenzo a Bettino Ricasoli, 28 e 30 agosto, in
Sapori, Dalla rivoluzione del 27 aprile all'annessione,
Firenze 1926, pp. 39, 42. Che tra il Sarda Garuga e il Montanelli
corressero effettivamente dei rapporti è dimostrato da una
lettera del primo al secondo, in data 10 settembre, inclusa in altra
del Biscardi, che trovasi in B. L., c. 7, i. 1497.
Fra le carte del
Montanelli abbiamo trovato tracce di cordiali ma generici suoi
rapporti epistolari col Farini; di piú intimi e seguitati,
invece, con 1'Albéri: questi ultimi meritano di venire
esaurientemente chiariti.
Un incidente
caratteristico: il 13 agosto un giornale fiorentino,
l'«Indipendenza», stampava, desumendolo da un foglio
piemontese, il seguente trafiletto: «L'imperatore Napoleone
fece un gran bene verso all'Italia centrale con l'ammonizione severa
data al Montanelli di cessare da ogni propaganda in favore del
principe figlio di re Girolamo». Il Montanelli non si lasciò
intimidire: «Ricorro al suo pregiato giornale – scrisse
al direttore della «Nazione» – per dichiarare
pretta menzogna quanto sul conto mio fu riferito dall'«Indipendenza»
(cfr. «Nazione», 17 agosto). Dopo di che,
l'«Indipendenza» si affrettò a lasciar presa,
gettando la responsabilità della informazione sul confratello
piemontese. A che si riferiva la smentita del Montanelli: alla
pretesa ammonizione imperiale, o piuttosto alla pretesa propaganda da
lui svolta? Non si capisce bene. Quel che è evidente si è
che la tattica del Montanelli consisteva allora nell'impedire che
un'eventuale candidatura napoleonica potesse venir definitivamente
pregiudicata: bisognava tenere in piedi anche quella
possibilità, pur senza promuoverla attivamente.
A questo impegno
del Montanelli di fronte all'imperatore fecero allusione i deputati
toscani recatisi in missione a Torino, durante il loro colloquio col
Cavour, 3 settembre '59: poco caritatevolmente aggiungendo che il
Montanelli stesso definiva il Cavour «una donna isterica».
Il Giorgini, anzi, avrebbe specificato (cosí il Massari nel
suo Diario cit., pp. 493-494) avere il Montanelli «a lui
per tre ore spifferato che con Plon-Plon farebbe in Toscana un
esperimento di principato democratico-sociale». All'onesto
Giorgini crederemmo senz'altro: ma ad un Giorgini raccontato dal
Massari siamo proprio tenuti a prestar fede piena?
Per le dichiarazioni da
lui fatte in quella occasione (egli considerava la concorde
designazione del principe di Carignano da parte delle diverse
assemblee dell'Italia centrale un passo decisivo verso la formazione
di quel nuovo Stato che avrebbe facilitato l'ulteriore unificazione
della penisola tutta) cfr. Assemblee del Risorgimento. Toscana,
III, Roma 1911, pp. 727 sg.
D'altronde il Montanelli
era persuaso che Napoleone III sarebbe stato in ogni caso costretto a
rifiutare la corona dell'Italia centrale per il cugino, né piú
né meno come Luigi Filippo aveva dovuto rifiutare quella belga
offerta a suo figlio. Ma gli sembrava che la semplice offerta della
reggenza o del trono sarebbe bastata ad assicurare la neutralità
benevola della Francia agli ulteriori sviluppi della rivoluzione
italiana nel centro e nel mezzogiorno. «Mi si potranno citare
parole animate da cotali intendimenti – scrisse nella cit.
lettera inedita al «Monitore Toscano» – ma sfido a
provare, o che io spendessi in senso favorevole alla candidatura del
principe Napoleone la parola imperiale, o che muovessi la benché
minima pratica per sostenere che quando pure s'avesse a rinunziare
all'unità fosse da preferire nel regno centrale il principe
Napoleone a un principe della casa di Savoia... Prima che la reggenza
del principe di Carignano fosse proposta mi era stata fatta parola di
reggenza che il principe Napoleone avrebbe accettato... d'accordo col
re Vittorio Emanuele. Certo io non avrei combattuto cosiffatto
partito».
Cfr. a questo proposito
i particolari datici dal Brofferio di un colloquio ch'egli ebbe col
Montanelli, a Firenze, sui primi di settembre (Una visita
all'Italia centrale, estratto da I miei tempi, Italia
1860, pp. 75-84). Si tenga presente che il Brofferio, pur amico e in
qualche misura compagno di lotta politica del Montanelli, dissentí
apertamente dal suo atteggiamento nella questione delle annessioni:
ciò che aumenta valore alla sua testimonianza.
Questa proposta venne
approvata per alzata e seduta: due soli deputati, i cui nomi non
figurano nei resoconti ufficiali, non si alzarono: sembra proprio che
uno di essi fosse il Montanelli (cfr. Poggi, op. cit., I, pp.
211-12).
Di queste discussioni
segrete non sappiamo che ben poco (cfr. in particolare Carletti, op.
cit., 140-46). Ma forse fu in questa occasione che il Montanelli
sottopose ai colleghi due sue proposte di voto (per un indirizzo
all'imperatore Napoleone e per una riunione plenaria di tutte le
assemblee dell'Italia centrale), le cui minute si trovano fra le
carte montanelliane in B. L., c. 40, i. 2248.
Cfr. le considerazioni
svolte dal Montanelli in una lettera ad un suo ignoto corrispondente
(forse il Farini?), evidentemente del marzo o aprile 1860, in B. L.,
c. 40, i. 2234.
Sosterranno, sí,
gli apologisti del Montanelli (Mariscotti, op. cit., p. 125;
Pini, Lettera cit., p. 12) che il Ricasoli gli fu
personalmente riconoscente per l'astensione dal voto; tanto che
glielo mandò a dire, a nome del governo, a mezzo del
Menichetti. Ma non si può dire davvero che, nel seguito, il
barone adeguasse a riconoscenza il suo atteggiamento verso il
Montanelli.
Op. cit., p. 314.
Cfr., ad esempio, le
allusioni anche troppo scoperte della «Nazione», 22
agosto.
Verso la fine d'agosto,
ad esempio, l'agenzia Stefani comunicò ai giornali (cfr.
L'«Indipendenza» del 29) che gli elettori di Fucecchio
erano scontentissimi dell'atteggiamento assunto dal loro deputato.
Informazione notoriamente infondata: a Fucecchio la parola del
Montanelli era vangelo addirittura!
Montanelli
ad un giornalista francese, il Morin, novembre 1859 (B. L., c. 40, i.
2234): «Quiconque ne partage pas les illusions des
annexionnistes est calomnié somme réactionnaire... Nous
n'avons pas de liberté. Le parti annexionniste a confisqué
à son profit toutes les armes de la presse... Dans la Toscane
ainsi que dans toute l'Italie centrale nous vivons sous le règne
le plus dictatorial... Dans nos assemblées on a tout organisé
d'une façon à empêcher qu'une parole libre puisse
se faire entendre».
Cosí enorme parve
quella esclusione che non mancarono contro di essa veementi proteste.
Cfr., ad esempio, Vessillo della libertà, Vercelli, 11
ottobre 1860; e Unità Italiana, Firenze, 14 ottobre
1860. Non fu se non nella primavera del '62, caduto il Ricasoli, che
il Montanelli, ormai sull'orlo del sepolcro, poté ottenere dal
Matteucci, ministro dell'Istruzione nel gabinetto Rattazzi, l'estrema
soddisfazione di vedersi reintegrato nell'insegnamento universitario.
A sentire il Menichetti,
che fu eletto in sua vece, nel gennaio del '61, nel suo collegio
natío, dopo una lotta d'indicibile asprezza, lo stesso Cavour,
poche settimane prima di morire, avrebbe testualmente dichiarato:
«Alla Camera, meno Montanelli, ci sono tutti coloro che hanno
contribuito a fare l'Italia. Mi disse anche che ne avrebbe combattuto
a oltranza la candidatura» (Puccioni, Il Risorgimento
cit., p. 249). Senonché converrebbe conoscere a quali
confidenze del Menichetti facesse seguito questo sfogo del gran
conte!
Memorabile fra tutti la
serie di articoli sull'Ordinamento nazionale, pubblicati sulla
«Nuova Europa», Firenze, nel 1861-62: al loro uscire
nessuno li notò o parve notarli; salvo che, morto il
Montanelli, pensarono gli amici a raccoglierli in opuscolo, sotto
quel titolo (Firenze 1862): e allora se ne fece gran caso!
Soprattutto 7 debiti
pubblici! Legge 4 agosto 1861, presentata come progetto dal Bastogi
il 27 giugno. Scriveva il deputato Galeotti: «il regno d'Italia
ereditò dagli antichi e dai nuovi governi un disavanzo
ordinario di 102 milioni; un debito pubblico di 22 481 870 000; una
quantità cospicua di leggi e di decreti organici, che dovevano
essere posti in esecuzione; un personale esuberante nei pubblici
uffici, oltre a quelli che la mitezza di una rivoluzione aveva
collocato fra i pensionati: i pubblici introiti dappertutto
diminuiti» (La prima Legislazione del Regno d'Italia da
Zoli, Saggio, pp. 279-80).
Secondo Petruccelli
della Gattina, 2561: Storia d'Italia, p. 476. Nel 1860, su
quaranta province, solo sei eran provviste di ferrovie. Ibid.
Giustino Fortunato dice
(1928) che si è molto esagerato sul contegno dei Piemontesi
nel mezzogiorno; e anzi vorrebbe scrivere qualcosa per dimostrare che
fecero quanto di meglio era possibile.
Vero prodigio!
quando si pensi che una tanta impresa non veniva coadiuvata da alcuna
riforma amministrativa ispirata al decentramento amministrativo, la
quale sviasse una parte degli interessi locali dal far ressa e dal
far tratta, senza ritegno, sulle risorse del bilancio nazionale»
(Jacini, Pensieri sulla politica italiana, p. 29).
La preoccupazione
finanziaria impedí che si provvedesse alla soluzione di molte
altre questioni. Jacini propugnando la sua riforma
politico-amministrativa sostiene che soltanto con la sua attuazione
si può sperare di risolvere definitivamente la questione
finanziaria.
Considerazione
giustissima sul Congresso di Berlino svolge Jacini, Pensieri sulla
politica italiana, pp. 76 sg., stigmatizzando l'indignazione che
contro di esso si diffuse in Italia perché non ci aveva
portato nessun ingrandimento territoriale (eppure l'Italia non aveva
mica partecipato alla guerra d'Oriente!) «Mentre sopra un tale
risultato si era fatto assegnamento sicuro, non per altro titolo che
perché ciò sarebbe stato cosa desiderabile...»
Eppure attraverso le discussioni in parlamento e al senato risultò
chiara l'impossibilità di tale ingrandimento per noi. La frase
– «lo smacco del trattato di Berlino» –
diventò nondimeno tradizionale (e quanto male ci ha fatto!). E
non si pensò che era «già un motivo di grande
compiacenza per l'Italia l'avere seduto, per la prima volta, a titolo
di grande potenza, in un congresso europeo».
Inghilterra, 30 marzo
1861; Francia, 15 giugno 1861; Russia, 12 luglio 1862.
Uno degli atti piú
scaltri fu forse la Convenzione di settembre, che si riuscí a
render cosí poco chiara da giustificare, per parte italiana,
una interpretazione letterale in aperta contraddizione col suo
spirito (int. La Marmora e Dronin de Lhuis).
Jacini, Pensieri
sulla politica italiana, svolge il concetto della
neutralizzazione internazionale della Santa Sede.
Contro
l'accentramento se la prende Jacini – che lo dichiara
ineluttabile fino al '66; ma dopo perniciosissimo. «L'accentramento
amministrativo trae dunque con sé per necessaria conseguenza
l'accentramento delle discussioni in Parlamento di ogni piú
piccolo incidente» (Jacini, Sulle condizioni della cosa
pubblica, p. 24).
In sostanza Jacini, Sulle
condizioni della cosa pubblica, vorrebbe tornare (1870) al
progetto delle regioni che forse fu bene rigettare nel '61, ma
che ora s'impone. Dieci anni di rigido accentramento eran forse
necessari date le condizioni del paese; e ora gioveranno come
correttivo del regionalismo. Jacini vince l'obiezione che si fa,
della diversa prosperità delle varie regioni, dicendo che
niente impedirebbe da parte dello Stato un equo calcolo di dare e
avere fra l'erario nazionale e le singole regioni.
Curioso che Jacini, il
quale propugna il suffragio universale a doppio grado per le elezioni
politiche, voglia invece il suffragio ristretto per i corpi regionali
«per schivare che il medesimo collegio racchiuda un contrasto
naturale e permanente di interessi locali»?! (p. 98).
Il progetto di riforma di
Jacini è caratterizzato da un governo piú forte,
attraverso il modo di elezione dei deputati e la limitazione delle
loro competenze, e da un grande discentramento amministrativo, reso
possibile appunto dalla esistenza di un governo forte.
Rattazzi, in una lettera
a Vittorio Emanuele, 1860, ricordando le tradizioni del mezzogiorno
raccomanda «pas de hâte enragée de trop
administrer et d'une façon préconçue, pas de
zèle dans l'unification. Voilà
le danger contre lequel nous allons peut-être nous heurter...»
(Rattazzi et son
temps, pp. 537 sg.).
Ricasoli (sul principio del '62) operò
alcune riforme amministrative, nel senso del decentramento.
Jacini, Pensieri
sulla politica italiana, p. 39, lamenta che – dopo il '66 –
non si sia voluto parlare di riforma amministrativa (che tra l'altro
avrebbe sanato il Parlamento) perché incombeva il problema
finanziario. E non si capí che quella avrebbe facilitato la
risoluzione di questo.
Vedi
parafrasata (e smontata) questa accusa in Jacini, Pensieri sulla
politica italiana, p. 70. Molti lamentano che il Piemonte facesse
piú grande politica estera del regno d'Italia e si domandano:
«L'esperienza non ci insegna forse che una politica
intraprendente e inframettente è quella che ci conviene?
Eravamo intraprendenti e inframettenti da piccini, perché ora,
divenuti grandi dovremmo cessare d'esserlo?» La risposta è
contenuta nel capitolo sulla Megalomania politica in Italia
nel citato volume di Jacini (un piccolo Stato può arrischiare
e poi, eventualmente, ritirarsi, cedendo all'intimazione di una o piú
grandi potenze. Una grande potenza non potrebbe senza gravissimo
danno sottoporsi a quest'onta ecc.). Lo stesso, pp. 26 sg., dice che
la posizione internazionale d'Italia dopo il '66 era meravigliosa e
che il principale assunto del suo governo in politica estera avrebbe
dovuto essere il mantenimento dello status quo europeo.
1869, accuse della Sinistra al governo
perché ha pagato (in oro) alla Francia il debito pontificio
per le province occupate, giustificando quel che scrive la stampa
cattolica, ossia con quel pagamento l'Italia riconosce di essersi
appropriata dei beni altrui. Fu debolezza? O necessità?
(Rattazzi et son temps, II, pp. 303 sg.).
La critica che fa
Jacini, Pensieri sulla politica italiana, pp. 28 sg., è
che se fu giusto che dal 1860 al 1866 i problemi di politica interna
restassero subordinati a quelli della estera, male fu che dopo il '66
non si invertissero i rapporti. E che in sostanza, dopo il '66,
auspici la megalomania e lo pseudo parlamentarismo, si sbagliò
l'indirizzo politico.
Ancor piú
significativa tale guerra quando si pensi alle condizioni del paese,
nel dichiararla. Tali condizioni sono riassunte (assai
pessimisticamente invero) da Rattazzi in un colloquio col principe di
Carignano, giugno 1866: 1) cattiva situazione all'estero; 2) popolo
scontento; 3) amministrazione incapace; 4) minacce all'unità;
5) clero antipatriottico; 6) aristocrazia a sé; 7) borghesia
piovra dello Stato; 8) scarse individualità eminenti, anche
nel governo; 9) rivalità del passato risuscitate nel 1864; 10)
parlamento povero di personalità; 11) senato - ricovero di
pensionati; 12) stampa venale e ignorante; 13) regime fiscale
insensato (?); 14) ignoranza diffusa e quel po' di istruzione,
pretesca; 15) giovinezza senza principî e senza fede, un po'
mazziniana e un po' loiolesca; 16) nessuna preparazione alla guerra,
nessuna fede nei capi; 17) marina sconnessa, mai trovatasi assieme
agli ordini d'un ammiraglio; 18) nel mezzogiorno ignoranza totale dei
fini della guerra. Questo quadro fatto da Rattazzi ha molta
importanza (Rattazzi et son temps, II, pp. 52 sg.).
Lo dice benissimo
Jacini, Pensieri sulla politica italiana, p. 71: «Il
regno di Sardegna era una creazione del Congresso del 1815 della
quale l'Europa non avrebbe mai permesso la distruzione. Era un
cuscinetto indispensabile, posto nell'interesse europeo, insieme alla
Svizzera, tra la Francia e l'Austria. Il Piemonte poteva permettersi
una politica audacissima, colla certezza di guadagnare immensamente
in caso di vittoria, e di restare come prima in caso di sconfitta,
salvo a pagare qualche indennizzo di guerra al vincitore...»
Ancora Jacini, ibid.:
«In caso di sconfitta, la certa prospettiva che si
presenterebbe al regno d'Italia sarebbe quella di andare in frantumi.
Parecchi dei grandi stati d'Europa, possono avere interesse a che il
territorio italiano non divenga piú la preda di alcuno dei
popoli vicini; ma è indifferente per loro che rimanga o non
rimanga costituito in un solo Stato». Solo che Jacini addita
questi pericoli all'Italia di dopo il '66, non prima, quasi dando a
credere che l'Europa vedeva volentieri il suo annettersi la Venezia.
Ciò che non mi pare dimostrato.
Jacini, Pensieri
sulla politica italiana, p. 20, dice che noi rifiutammo il 5
maggio.
Lo stesso, loc. cit.,
sottolinea il contegno cavalleresco dell'Austria verso di noi dopo la
guerra e i «modi leali e cordiali del suo riconoscimento».
Rattazzi et son
temps, II, p. 310, accenna, 1867, a 93 milioni che l'Italia
doveva pagare all'Austria per il valore del materiale bellico nelle
fortezze cedute. Ma come? anche quello si pagò? o non soltanto
ci si assunse il debito pubblico di Venezia? Nel primo caso, sarebbe
stata una grande umiliazione.
Jacini, Sulle condizioni della cosa
pubblica, p. 52, riconosce l'accasciamento generale che prese
dopo la guerra del '66. Ma si rifiuta di spiegare con esso quel certo
rallentamento nell'opera del governo, quella diminuita adeguatezza di
quell'opera alle necessità negli anni immediatamente seguenti
al '66. «Che un'intera nazione si abbia a dare per perduta,
perché le mancò il prestigio della gloria militare,
tanto piú dopo aver conseguito i medesimi vantaggi materiali
che la gloria militare avrebbe potuto procacciarle, è la cosa
piú inverosimile che si possa immaginare».
Nel valutare
l'iniziativa per la guerra, tener conto delle trattative segrete fra
Vittorio Emanuele e Mazzini appunto per promuoverla. Mazzini, quando
gli pareva che si rallentasse il fuoco sacro per il Veneto, agitava
la minaccia della repubblica.
Jacini, Sulle
condizioni della cosa pubblica, p. 67, dice in sostanza che
Rattazzi fu rovesciato nel '62 «per aver osato mantener forza
alla legge ad Aspromonte». Mi pare un'interpretazione un po'
futurista.
Sviluppare questo punto.
Jacini, Pensieri sulla politica italiana (1889), sviluppa
benissimo, in contrapposto a certe pretese di megalomania, una linea
di politica estera misurata attiva e proficua. In sostanza noi
dovremmo convertire il valore virtuale che ci viene dal possesso
della piú splendida posizione nel Mediterraneo, in valore
effettivo. «Non corriamo dietro alle fantasticherie. Egli è
restituendo il manto delle foreste alle nostre Alpi ed ai nostri
Appennini denudati, prosciugando le sterminate paludi... sviluppando
le nostre risorse interne, migliorando i nostri porti, la nostra
navigazione, la nostra attività, agraria, industriale e
commerciale...; rinforzandoci e consolidandoci in casa nostra, che
avremo fatta la miglior politica estera del Mediterraneo».
Il discorso
Rattazzi, 18 dicembre 1867, è volto a dimostrare che il
governo fece quanto poté per impedire l'arruolamento dei
volontari, ma che questi andavano spontaneamente, alla spicciolata
alla frontiera, senza armi, ecc. Insomma, il discorso vuol dimostrare
che il governo è incapace di dominare un movimento cosí
vasto e spontaneo e da tutti appoggiato.
Settembre 1867, Rattazzi
fa dire da Nigra a Napoleone che la popolazione di Roma ha una
attività rivoluzionaria e che l'Italia si troverà forse
nella necessità d'intervenire per salvare l'ordine, il
Vaticano, ecc. Risposta di Napoleone 4 ottobre (attraverso Nigra):
non crede allo spirito rivoluzionario in Roma e si riserva ogni
decisione.
Rattazzi è stato mal servito
anche dai suoi apologisti. Rattazzi et son
temps, II, p. 184, dice che a un certo
punto Rattazzi lasciò fare Garibaldi nel '67, forse perché
aspettava «de la leçon que Garibaldi allait recevoir de
la main des Français la vengeance de tous les maux que
l'héroïque aventurier lui avait causés».
Rattazzi, 18 dicembre
1867, parla dei volontari che alla frontiera pontificia riescivano a
sottrarsi alla vigilanza delle truppe italiane anche perché
favoriti dalle popolazioni. (?!...)
Vedi Rattazzi et son
temps, II, p. 172. Ma i romani in fondo si contentavano del
governo bonaccione dei preti e non si muovevano, col pretesto di non
creare imbarazzi al governo italiano. Avevano una matta paura dei
garibaldini!
Che fosse terribilmente
complicato risulta dalle stesse imbarazzate dichiarazioni di Rattazzi
alla Camera, il 18 dicembre 1867, là dove dice che siccome in
Italia non ci sono leggi di repressione preventiva, cosí
nessuno poteva, innanzi Mentana, impedire ai garibaldini di
propagandare l'imminenza della convenzione di settembre.
Contraddizioni del
discorso Rattazzi, 18 dicembre 1867. L'arresto di Garibaldi a
Sinalunga fu forse anticostituzionale, ma una necessità
politica. Poco oltre: lo stesso arresto prova che il governo è
uguale di fronte a tutti e non rincula mai dinanzi alla legge.
Fu il deputato Sirtori.
Ma in Rattazzi et son temps, pp. 630-31, si dice che dopo
qualche mese si constatò che era pazzo.
Su Rattazzi però
bisogna andare a fondo: lettera sua a Vittorio Emanuele, 1861: «Ce
n'est pas non plus le moment, il me semble, de songer à Venise
ni à Rome, même par allusion, comme le but final de la
révolution que nous venons d'accomplir. A chaque jour sa
tâche. Le tour de Venise et de Rome viendra dans un quart de
siècle peut-être» (Rattazzi et son temps,
pp. 187 sg.).
Scrive il marchese di
Villamarina (ex ambasciatore sardo a Parigi) al Morelli, autore di
uno Studio politico su Rattazzi: «Nel 1867 Napoleone III
aspettava con una certa impazienza l'annunzio del fatto compiuto
rispetto a Roma... fu un momento solo, ma quel momento non ci è
mancato, se avessimo voluto e saputo approfittarne. Ignoro se
Rattazzi fosse consapevole di ciò quando voleva passare il
confine, e trovò opposizione fra gli stessi suoi colleghi del
ministero; ma ripeto, che se egli fosse stato meno compiacente
nell'accettare nel suo gabinetto uomini le cui idee e le cui
aspirazioni non erano in perfetta armonia con le sue sarebbe riuscito
con sua lode e con plauso utile della patria» (Petruccelli
della Gattina, Storia d'Italia, P. 183).
La stessa commedia, in
certa misura, si giuocò ancora nel '70, quando – dopo
Sédan – il governo italiano non si decide ad andare a
Roma se non in seguito alle petizioni di varie città papali,
che chiedono l'occupazione italiana per troncare l'anarchia che già
infierisce. Il gabinetto voleva aver l'aria di farsi forzar la mano!
Il vero insuccesso di
Mentana fu per Napoleone. Al quale Pepoli scriveva (credo sul
principio del '67) incitandolo a facilitare l'andata dell'Italia a
Roma: «L'alleanza italiana poi è pure di qualche peso.
Fra non guari, la spada del nostro esercito peserà anch'essa
sulla bilancia dei destini di Europa. Io non so immaginare che V. M.
respinga il concorso dei suoi piú fidi amici per appoggiarsi
su Roma...»
Il principe Napoleone a Sainte-Beuve,
15 dicembre 1867, deplorando la politica di Napoleone III: «...
restando a Roma noi perdiamo un alleato devoto ed utile, il frutto
della guerra 1859 – e tutto ciò pel potere temporale del
papa!» (ibid., p. 32).
Dietro sollecitazioni e
assicurazioni di Napoleone – dice Rattazzi alla Camera. La
Russia soprattutto in grazia delle misure rigorose prese da Rattazzi
contro i Polacchi della scuola militare di Cuneo, che abusavano
dell'ospitalità italiana; la Prussia per mostrar la sua
indipendenza dall'Austria e in seguito a una nota insolente di
Rechberg.
Circolare
cit. alle legazioni. Questa circolare di Durando urtò
Napoleone, che fece scrivere L'Europe et la Papauté,
ripresentando la vecchia sua idea della federazione in Italia.
Pepoli, ministro, dopo
Aspromonte andò a Parigi e vide Napoleone: «... non gli
dissimulai la verità: disapprovai le parole e gli atti di
Garibaldi, formulai la speranza che avremmo dominato la situazione,
ma non dissimulai che ciò avremmo fatto con grande scapito
delle nostre proprie forze... che vinto Garibaldi, ci saremmo trovati
a fronte delle idee di Garibaldi piú gagliarde di prima e che
il governo per tal vittoria ottenuta avrebbe assunto l'obbligo di
sciogliere la questione romana in breve spazio di tempo; anzi, se
avesse mancato a quest'obbligo egli sarebbe miseramente perito...»
(Petruccelli della Gattina, Storia d'Italia, pp. 8 sg.).
Ibid.
(Pepoli all'imperatore). «Ma che debbo dire al re?»
Imperatore: «Che sia forte; che tenga salda in sua mano
l'autorità». Io: «Sí! Ma Egli mi dirà:
che V. M. fece il 2 dicembre per salvare la Francia dal socialismo,
ma che dopo, per consolidarsi, fece del buon socialismo».
Imperatore: «È vero». Io: «Ebbene, il re,
dopo aver domato Garibaldi, è forza faccia del buon
garibaldismo... che vada a Roma contro chiunque...»
Benedetti, Ma mission en Prusse,
pp. 245 sg., suppone che Bismarck incoraggiasse il partito d'azione
italiano nella marcia su Roma per metter male tra Francia e Italia.
Sono i «megalomani»
contro i quali strepita Jacini, Pensieri sulla politica italiana.
Lo stesso dice che una
frazione della classe dirigente italiana raggiunta col '66 l'unità
disertò la politica, perché non si era interessata di
politica che fin quando essa coincideva col fine dell'unità!
Un'altra frazione conseguí tanti vantaggi che le mancò
ogni stimolo a occuparsi ulteriormente di cose politiche.
Vedi discussione
esauriente alla Camera in precedenza della nuova legge, nel 1872. Un
dato: dal 1861 al 1870 non si poterono eseguite 75 000 mandati di
arresto! La Camera discusse
lungamente in comitato segreto. Il deputato Carrara (giurista): «Il
n'y a pas en Europe un peuple civilisé où la sûreté
publique soit dans un état aussi misérable et aussi
grave qu'en Italie!» (Rattazzi et
son temps, II, pp. 508 sg.).
Diceva
Lanza a Rattazzi, dicembre 1871, dipingendogli le difficoltà
della situazione: «... nous sommes à Rome, avec le pape
qui nous bombarde de front, Naples qui nous mine par derrière,
les Romagnes mazziniennes qui nous mordent aux flancs...»
(Rattazzi et son temps, II, p. 484).
Sulla larghezza d'idee
della Destra, Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p.
67: «Uno dei capi del partito avanzato di una repubblica
democratica, mi diceva un giorno, 1863: "Diamine! sono costretto
a dichiararmi un codino, in confronto di qualcuno dei vostri burgravi
di estrema Destra della Camera di Torino!"».
Ricasoli,
durante il suo ministero, permise perfino la raccolta in tutta Italia
dell'obolo di San Pietro! E si sapeva dove andavano a finire quei
denari...
Tipico ultimo rappresentante della
mentalità clericale di fronte all'Italia in cammino, il
diplomatico francese d'Ideville (v. il suo libro Piémontais
à Rome).
Lanza a Rattazzi
(colloquio), dicembre 1871: «... On nous
crie: réforme, réforme! Libertés, économies,
ordre, justice, égalité... et que sais-je encore? Tout
cela est-il possible dans la situation présente? Franchement,
je vous défie de mener à bien une réforme
quelconque avec un parlement tracassier comme le nôtre, sans
discipline, sans principes, sans programme. Donnez donc de la liberté
à une nation que ne vous en demande point... ce qu'elle veut,
c'est du pain à bon marché, c'est la suppression de
l'impôt sur le sel, du papier-monnaie et des douanes. Faites
donc des économies, quand vous avez un budget qui se salde
avec 200 mill. de déficit... Donnez donc l'égalité
et la justice à une nation qui verrait dans cette concession
un aveu de faiblesse de la part du gouvernement... et essayerait des
échauffourées, comme celles de Palerme... Je suis las;
je deviens tous les jours plus sceptique» (Rattazzi
et son temps, II, p. 487).
Jacini lamenta (Sulle
condizioni della cosa pubblica) l'estrema instabilità dei
ministeri; tanto che si sente da tutti ripetere «che, messi
insieme nove uomini, scelti per ciascun ramo della pubblica
amministrazione, fra coloro che al governo già fecero men
buona prova e lasciati tre o quattro anni alla direzione dello Stato,
se ne avrebbero risultati assai migliori che non da un ministero
composto da nove geni, ma colla spada di Damocle sospesa ogni giorno
sul capo ed esposti ad ogni pié sospinto... alle insidie delle
chiesuole parlamentari». – Tant'è vero che fra i
deputati si contano ormai una sessantina di ex ministri. I continui
cambiamenti «hanno per effetto di indebolire vieppiú il
potere esecutivo, di ridurlo incapace a fissare un determinato
progresso (che in quanto al metterne poi in atto uno qualsiasi è
inutile parlarne) mentre hanno alimentato nel pubblico la credenza
che la sala dei 500 non sia altro fuorché una giostra di
passioni personali...»
p. 31: «Non essendovi stabilità
di governo, avviene che diventino sempre peggiori la pubblica
amministrazione e lo stato delle finanze. La cattiva amministrazione
e il dissesto delle finanze, rimaste in permanenza e perciò in
continuo aumento, ingenerano il disagio. Il disagio produce il
malcontento. Il malcontento promuove la nomina dei deputati piú
idonei a rendere sempre piú instabile il governo. Quindi, da
capo».
p. 80: «Il problema da risolvere
in Italia consiste dunque nell'assicurarle un governo forte, senza il
quale essa precipiterebbe nell'anarchia: ma conservandole nello
stesso tempo la libertà, senza la quale la nostra nazione suol
sempre degenerare».
Per sanare la piaga dei governi deboli
e effimeri, in Italia, molti sognano la repubblica. Illusione! Altri,
un colpo di Stato che abolisca lo Statuto e instauri la dittatura
regia.
Jacini (pp. 79 sg.), trova che ciò
tradirebbe gli scopi assegnati al Risorgimento e darebbe perciò
ragione ai sostenitori dei passati regimi, che sostenevano esser
gl'italiani immaturi a un regime libero.
«Il rimedio del ritorno al
dispotismo non è un rimedio da medico, bensí da
maniscalco di campagna, il quale non sa far altro che recidere il
membro ammalato, perché ignora l'arte di guarirlo,
conservandolo intatto. Gli Italiani amano un governo forte, egli è
vero, ma sono abbruttiti (?) dal dispotismo. E infatti tutte le cose
grandi nella storia del nostro paese furono create dalla libertà;
e il dispotismo invece o spense od avvilí le migliori doti
naturali della nazione...»
Jacini (ibid., p.
35), deplora nella sua critica del sistema di governo, non lo Statuto
e le sue conseguenze, fortunatamente assicurate all'Italia, ma «il
modo affatto esotico per l'Italia» con cui si sono applicati.
Jacini (Pensieri
sulla politica italiana) critica il sistema parlamentare italiano
(che è poi quello piemontese il quale a sua volta è
quello copiato in furia nel '48 dal francese di Luigi Filippo) che
chiama pseudo-parlamentare.
Ma le sedute delle
«Società emancipate» posavano addirittura a
controparlamento, o meglio a parlamento di un partito (Rattazzi et
son temps, p. 617).
Un re come
Vittorio Emanuele II, che troppo spesso faceva il suo comodo e
seguiva una sua politica, attraverso suoi privati emissari (Rattazzi
et son temps, II, pp. 325 sg.). Bismack piú d'una volta si
rifiutò di parlate con questi inviati del re, negando che un
re costituzionale potesse valersi della loro opera.
1871, febbraio, Lanza
vorrebbe Rattazzi nel suo ministero; questi però vorrebbe tre
o quattro portafogli per i suoi amici, tra cui gli esteri. Lanza:
«Cela est impossible, aux affaires étrangères
surtout. Le roi est son propre ministre dans ce département-là,
et il s'inspire... des correspondances directes et secrètes
qu'il entretient avec les ambassadeurs, avec Napoléon (?) et
avec dix autres. Cela n'est pas constitutionnel, certes, mais cela
n'en existe pas moins. – Oui, malheureusement...»
(Rattazzi et son
temps, II, P. 407).
Ibid., p. 408, si legge che
anche il ministro della guerra in quel tempo era completamente
asservito al re, che seguiva i consigli di La Marmora.
Notare, fra il '61 e il
'66, l'opposizione netta tra i piemontesi, e, specialmente, i
tosco-emiliani: caso tipico, gli avvenimenti seguiti alla convenzione
di settembre.
Jacini
(Pensieri sulla politica italiana p. 43) dice che questo fu lo
sfogo del regionalismo compresso e non sfogato nel necessario
decentramento amministrativo.
Il primo esempio di un
ministero equilibrato regionalmente lo dette Cavour, marzo 1861,
ricorrendo a ministri d'ogni regione d'Italia.
Per avere un'idea della diffidenza che
ancora nel '70 divideva i nordisti e i sudisti, si veda il colloquio
tra Vittorio Emanuele e Rattazzi, autunno 1870, in cui Rattazzi fa le
piú fosche previsioni basate sulla sua sfiducia per
gl'italiani del mezzogiorno (Rattazzi et son temps, II, pp.
424 sg.).
Non mi pare esatto
quanto scrive Jacini (Pensieri sulla politica italiana, p. 15)
che «l'indirizzo del governo italiano, fra la metà del
'59 e la fine del 1866, era prestabilito nelle sue linee principali.
L'indole di quel governo doveva consistere in una specie di
dittatura, assunta, con assenso istintivo della moltitudine, dagli
uomini che, nelle diverse classi colte, erano in grado di formarsi
un'idea piú netta della situazione eccezionale del paese».
Non vedo né la dittatura né l'assenso istintivo. Idee
simili nelle sue Condizioni della cosa pubblica, 1870.
Studiare le elezioni del
febbraio-marzo 1867, imperniate sul diritto di riunione, violato da
Ricasoli.
Rattazzi
et son temps, II, pp. 24 sg., si dice
veramente che il ministro dell'interno, Natoli, «se mêla
des élections... en faisant sentir son influence aux préfets,
aux syndics et aux magistrats... La majorité antipiémontaise
de Turin fut battue... En somme, un tiers de l'ancienne majorité
ministérielle resta sur le carreau...» E ancora (p. 34),
a proposito delle dimissioni di Natoli il quale «avait perdu la
partie aux élections par l'excès de zèle qu'il y
avait apporté».
A questa evoluzione
costituzionale della Sinistra molto giovò Rattazzi; glielo
riconobbe, dopo morto, lo stesso suo nemico Bonghi (Nuova
Antologia), Riflessioni in Rattazzi et son temps, II, p.
579: «On lui doit de voir le parti radical le plus forcené
ramené à l'obéissance des lois et au respect du
droit. Lorsqu'il fut au pouvoir, ce parti lui
rendit toujours difficile l'exercice de ce pouvoir; et il ne lui
arriva jamais d'être ministre sans que quelque grave désordre
ne survint...»
Lasciamo andare, per
carità di patria, quel che diceva suo padre!
2 gennaio 1866, a
Firenze, attentato contro Sella.
Lo stesso
Rattazzi, nel 1871, diceva «disastrosa» la politica
finanziaria di Sella (Rattazzi et son temps, II, p. 408).
A che non arrivò la propaganda
di stampa repubblicana sotto il ministero di quel «reazionario
clericale» di Menabrea (1868). Incitamento all'insurrezione,
necessaria per fondar subito la repubblica in Campidoglio; impulso
alle sommosse di Milano, Palermo, Roma (Petruccelli della Gattina,
Storia d'Italia, p. 43).
Critiche di Jacini,
Pensieri sulla politica italiana, pp. 44 sg., sulla stampa –
che, assodata l'unità, tese a sviare la pubblica opinione
dalle questioni serie e abituò il pubblico a considerar la
politica un teatro di virtuosismi.
Fa eccezione il
provvedimento di sospensione dello Statuto che si votò al
principio del 1866, al principio della guerra. La Camera però
respinse una legge sui sospetti che si propose nella stessa occasione
e che, mirando ai fautori dei Borboni, era cosí vaga che
poteva colpire chiunque.
Contro al progetto
Ferrara (1867) sul prestito anticipante il gettito di vendita dei
beni ecclesiastici, si schierano moltissimi alla Camera: ottanta
oratori s'iscrivono a parlare, quasi tutti contrari. Ferrara
dimissiona (Rattazzi et son temps, II, p. 168).
Sui deputati che
diventano galoppini degli elettori, Jacini, Sulle condizioni della
cosa pubblica. E ancora: «la capitale accentra nel
Parlamento tutte le competenze del paese – e il paese ne resta
cosí privo; tutte le incombenze pubbliche si appioppano al
deputato che si ritiene idoneo a tutto. Gli uomini d'ingegno anziché
darsi seriamente agli studi li disertano per aspirare alle facili
popolarità del Parlamento. Troppa intelligenza e troppa
cultura nel Parlamento, che vengono completamente sciupate e
dovrebbero tesaurizzarsi nella libera attività».
p. 98: «L'esercizio della
deputazione qual è attualmente è cosí gravoso
che molti competenti non possono occuparsene e preferiscono
lasciarlo ai dilettanti. Diversamente accadrebbe con le regioni
e il parlamento centrale ridotto alle sole grandi attribuzioni».
Petruccelli della
Gattina, Memorie di un ex deputato, racconta briosamente di un
tale che si guadagna un collegio (1866) con una bella lotteria a sue
spese. Ma il Petruccelli era un famoso scanzonato e il suo libercolo
è uno spiritoso paradosso. A pp. 58-59: «Bisogna esser
resistenti per non diventare idioti da quel mestiere di deputato!
Dalle dieci del mattino alle sette circa del pomeriggio, vedere le
stesse facce, udire le stesse voci; parlare degli stessi subbietti
ogni dí; respirare la stessa aria mefitica materiale e morale;
sorbire le stesse osservazioni sui ministri, sui partiti, sulle
persone, sulle intenzioni; discutere sempre le stesse questioni;
leggere gli stessi giornali, le stesse relazioni, subire le stesse
vanagl. interess...; scorgere sotto la pelle patriottica di quasi
tutti, gli stessi interessi privati, sorridere ad uomini di cui non
si stimano... essere vittima delle stesse esorbitanze di elettori e
di governo...» In complesso, il libretto tende a mostrare che
il deputato è il galoppino degli elettori.
La vita politica,
non pertanto, si concentrava tutta intera nel Parlamento, il quale, a
volta sua, ne aveva poca, o nessuna coscienza...» (Petruccelli
della Gattina, Storia d'Italia, p. 211).
Al punto, dice Jacini, Sulle
condizioni della cosa pubblica, che si era creato un distacco
netto tra Italia «legale» e Italia «reale».
Critiche di Jacini,
Pensieri sulla politica italiana, al sistema parlamentare
italiano (latino in genere) che chiama pseudo-parlamentare perché
copiato da quello inglese, ma senza il largo decentramento inglese.
Il regime parlamentare per lui non è concepibile disgiunto dal
decentramento perché falsa la vita pubblica, determina
instabilità di governo e corruzione (tutti gli interessi anche
i piú minuti facendo capo al centro, i deputati diventano
agenti d'interessi) e prepotere del Parlamento. Insomma, o si vuole
un regime accentrato, e allora bisogna svincolare almeno in parte il
potere esecutivo dal controllo minuto del Parlamento; o si vuole il
vero regime parlamentare, e allora bisogna decentrare. Lo
pseudo-parlamentarismo stanca e delude le moltitudini e le porta a
desiderare le dittature parlamentari (p. 50).
Critica del
funzionamento della Camera: «"Un'interpellanza, una crisi
ministeriale e un esercizio provvisorio; poi da capo, una crisi
ministeriale, un esercizio provvisorio ed un'interpellanza!"
Ecco come il "Times", alcuni mesi fa, definiva argutamente
la situazione parlamentare d'Italia» (Jacini, Sulle
condizioni della cosa pubblica, p. 21).
Sulla crisi del Parlamento dopo il '66
(e in generale crisi politica), alcuni pensano che col tempo tutto
s'accomoda, basta non aver fretta, ché tutti i paesi liberi
hanno traversato crisi analoghe. Altri pensano che basterebbero
alcune modificazioni nel regolamento della Camera per accomodare
tutto; altri vorrebbero la costituzione di solidi partiti politici,
perno della vita politica parlamentare. Ma la prima soluzione è
evidentemente smentita dai fatti (quanta furia, Jacini!); la seconda
evidentemente insufficiente; la terza esigerebbe come prima base la
formazione di un partito conservatore, ma questo non può
nascere se prima non si sistemano un po' le faccende della cosa
pubblica. Se no, cosa conservare? Lo Statuto? Ma nella sua orbita si
muovono tutti i partiti (ibid.).
Jacini, ibid.,
propugna il suffragio universale a due gradi e l'attribuzione al
Parlamento delle sole grandi questioni d'interesse nazionale.
Studiare
l'interesse degli elettori per le elezioni (frequenza degli
elettori). Nel 1871 ci fu ballottaggio, a Siena, fra due candidati:
uno ebbe 50, l'altro 60 voti. A Firenze il candidato del governo ebbe
153 voti ed entrò in ballottaggio con uno che non ne ebbe che
6. A Roma, su 7800 elettori, solo 198 si presentarono (Rattazzi et
son temps, II, p. 455, che però attribuí questi
risultati alla propaganda astensionista contro Lanza dei partiti di
sinistra e clericale).
«Giammai meno della metà,
ma spesso i due terzi, e piú ancora, degli elettori inscritti
(come è avvenuto nelle elezioni parziali le piú
recenti) suol astenersi dalle urne elettorali, cosicché vi è
un gran numero di deputati al Parlamento i quali sebbene
rappresentanti di collegi popolati da 500 000 anime, pure non furono
eletti che da 80 o da 100 voti...» (Jacini, Sulle condizioni
della cosa pubblica, p. 16).
Jacini, Sulle
condizioni della cosa pubblica in Italia, spiega che non ha
accettato l'elezione a deputato di Terni perché ha voluto
studiare un po' dalla platea l'effetto di quel che si è fatto
e si fa sul palcoscenico, insomma «mescolarsi a lungo,
spogliandosi d'ogni idea preconcetta, colla folla»; «verificare
quali siano, riguardo alle cose del governo, i giudizi di essa»,
conoscere «i gusti della massa». Se un uomo di governo
non si prende ogni tanto questa briga «anche il suo giudizio
sulla cosa pubblica deve riuscire necessariamente unilaterale e
fallace...» (pp. 12-13). E ancora: «Eccellenti le masse,
come fu solennemente dimostrato dalla facilità con cui si poté
introdurre la coscrizione militare in molte province dove prima era
sconosciuta e dalla pochissima resistenza, relativamente parlando,
alla tassa impopolare del macinato...» (p. 15).
Jacini, Pensieri
sulla politica italiana, pp. 23 sg., un po' sviato dall'intento
di dimostrare certe magagne del sistema politico italiano dopo il
'66, dipinge a colori troppo rosei i dati realistici con i quali esso
dové fare i conti. E per esempio, allude a «un paese
docilissimo e che non chiedeva altro se non di essere assecondato nel
suo desiderio di un migliore avvenire da conseguirsi senza troppo
violentarlo...» (1867). «Partout des
émeutes; là, à cause du choléra, ici pour
des motifs religieux, ailleurs pour protester contre la conscription,
contre la cherté du blé» (Rattazzi
et son temps, II, p. 169).
Jacini, Sulle
condizioni della cosa pubblica. Partiti non ce ne sono. Le
frazioni in cui si divide la Camera non esprimono che il regionalismo
che informa di sé i sedicenti partiti oppure si fondano su
distinzioni che non hanno radice nel paese, ma nella ristrettissima
classe politica. La Destra si formò, com'è noto, e
raccolse, fino al 1866, anche parecchi rivoluzionari (d'altronde
l'opera governativa della Destra fino al '66 fu squisitamente
rivoluzionaria); ora è rimasta cosí, un amalgama di
gente diversa, che si fraziona dietro a nomi o a indirizzi
contingenti. La Sinistra è la minoranza del primo Parlamento
italiano e il risultato del malcontento espresso dalle elezioni del
'65 e del '67, finora senza progresso positivo. Ora si va un po'
costituendo, ma manca di una Destra oppositrice chiara. Per cui non
riesce a distinguer chiaramente il suo progresso dai molti espressi
da Destra e si perde finora in agguati e scaramucce. Niente di
impossibile che, se la Sinistra riuscisse a esprimere un progresso
accettabile, divenisse un giorno il partito conservatore. I centri
sono formazione esclusivamente parlamentare e contingente. V'è
poi l'estrema Sinistra, composta dagli irreconciliabili di Sinistra e
dai prodotti del malcontento.
Fra essi Garibaldi.
Bisognerà
studiare a fondo la genesi dei partiti politici in Italia. Jacini
(Pensieri sulla politica italiana), distingue due periodi; uno
dal 1860 al 1866 (partiti concordi nel volere il completamento
dell'unità e in esso assorbiti; differenze fra di loro solo di
metodo); l'altro dopo il '66 in cui ogni politica è possibile
e sbocciano i programmi. (Io credo che questo secondo periodo debba
spostarsi a dopo il 1870).
Sulla necessità
dei partiti, che sian vivi e robusti, per la prosperità delle
istituzioni, vedi le parole di Crispi, in morte di Rattazzi, alla
Camera, 5 giugno 1873.
Anzi, eran
convinti d'esser nel fango fino agli occhi! Scriveva bene Jacini,
Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 58, che se gli
italiani viaggiassero di piú, sarebbero stati meno numerosi,
certo, i seguaci del primato giobertiano, «ma è anche
certo che oggi sarebbero assai meno frequenti coloro che si
abbandonano all'avvilimento, supponendo altrove cammini ottimamente
tutto ciò che appare loro inappuntabile, soltanto perché
veduto da lontano...»
A leggere le discussioni alla Camera e
le confessioni degli stessi uomini di governo, pare sempre che le
cose vadano male! Rattazzi, 1871 (o 1872?) dice
alla Camera che in dieci anni si sono spesi tredici miliardi «et
nous n'avons encore une armée solide, ni marine, ni sécurité
publique, ni frontières en état de défense, ni
surtout d'écoles... Personne en Europe ne nous considère
comme une grande puissance. Nous n'avons presque pas de chemins de
fer. Nous ne sommes pas au niveau des autres nations européennes,
pas plus qu'au niveau des besoins économiques de la vie
nationale. Notre magistrature est d'une infériorité
intellectuelle et morale déplorable. L'Autriche nous a battus
sur mer et sur terre. Nous n'aurions pas été en état
d'aller au secours de la France...» (Rattazzi et son
temps, II, pp. 506-7).
Agli operai italiani,
in «Roma del popolo», 13 luglio 1871.
Lettera
del 9 novembre: Briefe an Sorge,
Dietz, Stuttgart 1909, p. 34.
Marx, L'Alleanza
della democrazia sociale e l'Associazione Internazionale dei
Lavoratori; sta in Opere di Marx, «Avanti!»,
Milano 1901, vol. II, pp. 117-19.
Da «L'Alleanza»
(Bologna), 6 aprile 1872.
G. C. Abba, Cose
garibaldine, Società Editrice Nazionale, Torino 1905.
Guillaume,
L'Internationale. Documents et
souvenirs, 4 voll., Paris 1905-907,
vol. III, pp. 21-22.
Rivendicazione»,
Forlí, 4 maggio 1889.
Ivi, 25 maggio
1889.
Ivi, 28 febbraio
1891.
Vita di Mussolini
cit., pp. 319-20.
Ibid.,
p. 164.
Ibid.,
p. 102.
Noi non siamo
della scuola marxista perché anarchici sin dal 1871»,
scrive «La Rivendicazione» il 12 novembre 1887; per gli
articoli del Malatesta, cfr. ad esempio, i nn. del 21 febbraio, 18
marzo, 11 aprile, 23 maggio 1891.
Cfr. «La Plebe»,
Lodi, 24 dicembre 1882: «Ammiratori dei forti e generosi
caratteri, dinanzi al cadavere di G. Oberdan ci scopriamo reverenti
il capo e pensiamo con dolore e nausea a quell'Italia redenta...»
«La Rivendicazione», 23 dicembre 1886: «Noi
socialisti, noi gli abolitori della Patria, sapemmo combattere,
ancora sedicenni, per l'intangibilità di essa; noi traditori
saremmo al nostro posto domani, se qualche tiranno volesse
conquistare la terra ove viviamo». Cfr. anche ivi 5 e 19
febbraio 1887, 25 giugno 1887.
Il II volume (che
conduce la biografia fino a tutto il 1909) mi giunge mentre correggo
le bozze, ma non vi sono che frettolosi cenni sulle ultime vicende di
Alessandro Mussolini.
|